Il giornale Il Riformista ha premiato Fausto Bertinotti assieme ad Ariel Sharon.
Fausto Bertinotti come migliore politico italiano dell'anno, Ariel Sharon come migliore politico internazionale dell'anno.
Mentre il buon politico israeliano
si è fatto rappresentare dall'ambasciatore del suo paese in Italia,
il buon politico italiano - come sempre, bello, svelto ed
elegante come una faina - è corso a farsi fotografare con in
mano il premio: un cannocchiale, segno di lungimirante astuzia e
abilità navigatoria.
Gli Oscar del Riformista vengono concessi ogni anno a chi dimostra con i fatti di aderire fino in fondo a quello che Costanzo Preve chiama il "Partito trasversale del politicamente corretto". L'anno scorso l'Oscar della politica è stato vinto da Gianfranco Fini, assieme a Tony Blair e al pentitissimo brasiliano Lula. Più banali gli Oscar per la politica locale e per la comunicazione andati, rispettivamente, a Walter Veltroni e a Bruno Vespa (che in questo sito ricorderemo sempre come il creatore del "musulmano cattivo", Adel Smith).Fausto Bertinotti: "Per la revisione delle radici comuniste, per il ripudio della violenza come strumento di lotta politica, per la condanna senza se e senza ma del terrorismo anche se islamico, e per la rifondazione del suo partito come forza di governo"(Il terrorismo non era la guerra degli sconfitti, che non vogliono continuare ad essere sconfitti???????????)Ariel Sharon: "Sharon ha riavviato Israele su un percorso di pace, decidendo unilateralmente il ritiro da Gaza e raggiungendo l'accordo con i laburisti per il nuovo governo"
Questa storia ci spiega molte cose sulla politica italiana dei nostri tempi, e in particolare su quello che chiamano sinistra; ma anche sui legami tra la politica italiana e quella mondiale, cioè agli effetti pratici, statunitense, inglese e israeliana.
Il premier britannico: «Le ragioni degli attentati non sono in Iraq» Il premier inglese,Tony Blair, intervenendo al National Policy Forum a Londra, vuole cancellare ogni ipotesi di collegamento tra l'impegno di Londra accanto gli Usa e la strage avvenuta nella capitale britannica
http://www.corriere.it/Primo_Piano/Esteri/2005/07_Luglio/16/balir.shtml
Fausto Bertinotti, intervistato da REPUBBLICA: "Guai a dire che Blair se l'é cercata". E' il terrorismo che alimenta la guerra o viceversa? chiede il quotidiano diretto da Ezio Mauro. "Io non vedo questo collegamento" - risponde Bertinotti
http://www.excite.it/news/politica/112679
Altre notizie
http://www.arcipelago.org/
Dibattito in Rifondazione comunista
Marxismo, violenza e non violenza
Tanto più una società è in crisi, tanto più la classe dominante deve servirsi di mezzi repressivi per mantenersi alla testa della società. Ad una situazione di crisi economica, non può che corrispondere l’aumento della violenza organizzata della classe dominante.
La guerra in Iraq è solo la punta del processo. I militari americani impegnati all’estero sono oltre 220.000. Gli Usa guidano le danze, con un aumento senza precedenti del proprio bilancio militare. Ma a questo ballo prendono parte tutte le potenze imperialiste, ognuna con il proprio peso specifico e i propri specifici interessi.
di Dario Salvetti
Elencare i conflitti in corso o i focolai di tensione sarebbe più lungo che nominare i paesi dove regna una pace formale (fatta di fame, disoccupazione e povertà, naturalmente).
La violenza poliziesca si è abbattuta puntuale su ognuno dei movimenti rivoluzionari sviluppatisi in Sud America.
Solo durante l’insurrezione del dicembre del 2001 in Argentina 21 manifestanti sono stati uccisi dalla polizia. Durante il processo rivoluzionario in Bolivia nel corso del 2003 150 manifestanti hanno perso la vita. Mentre scriviamo, la rivoluzione venezuelana è minacciata dalla crescita della violenza squadrista, sapientemente alimentata dalla borghesia. Citiamo solo i casi eccezionali, per brevità, tralasciando i paesi dove l’assassinio degli attivisti sindacali è la norma. In Colombia, ad esempio, dalla fondazione della Cut (il principale sindacato colombiano) ne sono stati uccisi 28mila.
In questo contesto il segretario del Prc Bertinotti decide di lanciare un dibattito per estirpare la violenza… dalle pratiche, dalla storia e dalle teorie del movimento operaio.
I termini del dibattito
“Questa coppia guerra-terrorismo che sequestra monopolisticamente la violenza, questa realtà ci mette di fronte ad un problema assolutamente inedito. Noi non possiamo pensare di battere questa violenza monopolizzata con la guerra. La violenza, in ogni sua variante, quale che sia il giudizio morale, risulta inefficace perché viene riassorbita dal terrorismo mettendo fuori gioco la politica”.
Fausto Bertinotti
Secondo Bertinotti guerra e terrorismo hanno un’origine indefinita e non corrispondono più ad interessi politici ed economici di classe. Qualsiasi risposta violenta a questi due soggetti diventerebbe a sua volta o guerra o terrorismo. Di conseguenza dobbiamo essere non violenti. Per completare il discorso, Bertinotti cita l’orrore del terrorismo individuale degli attentati kamikaze palestinesi in risposta alla barbarie dell’esercito israeliano. Dimostra così con un colpo di scena come chiunque si ponga il problema della resistenza armata ad un invasore finisca nelle braccia del terrorismo.
Se qualcuno osa chiamare in causa alcuni esempi storici come le guerre di liberazione nazionale, o la resistenza contro il nazifascismo, Bertinotti si appresta a dire che il suo ragionamento non vale per il passato ma è valido solo “qui ed ora”. Subito dopo però lo estende retrospettivamente a tutta la storia del movimento operaio nel corso del ‘900.
I campi di concentramento staliniani, i gulag, sarebbero così “la manifestazione estrema di una contraddizione che il comunismo si è portata nella pancia e che è determinata da un’ idea del potere e da una idea della violenza”. Bertinotti si chiede: “O non dobbiamo pensare invece che c’è un rapporto tra Kronstadt, il gulag e qualche cosa che ha a che fare con le nostre storie e magari con le Foibe?”.
Il minestrone così è pronto e può essere servito sulle pagine del Corriere della Sera o della Repubblica: Kronstadt, gulag, foibe, Bin Laden, Bush, bolscevichi, presa del potere, tutti insieme mischiati sapientemente sotto il termine “violenza”. Ma non si tratta di una ricetta così originale: l’idea di fondo è che la stessa presa del potere porti alla degenerazione militare della rivolzione, allo stalinismo e quindi alla sconfitta.
Ma ha mai letto gli scritti dell’opposizione di sinistra e di quei rivoluzionari e comunisti che sono stati eliminati nei campi di concentramento staliniani? Invece di affrettarsi a liquidare Trotskij (dicendo che ha perso anche lui) sarebbe forse il caso di attingere dalla Rivoluzione Tradita e da altri scritti nei quali il rivoluzionario russo analizza la controrivoluzione staliniana che ha cancellato le conquiste politiche dell’Ottobre. C’è un fiume di sangue che divide lo stalinismo dal bolscevismo e se si mette tutto nello stesso sacco si finisce inevitabilmente per abbandonare ogni idea di rivoluzione sociale.
Guerra e pacifismo
Per i marxisti la guerra imperialista non è il frutto della brutalità insita nella natura umana né tanto meno della follia di questo o di quel governo. La guerra imperialista sorge direttamente dalle contraddizioni generate dal capitalismo. Nel proprio sviluppo, il capitalismo ha creato un’economia su scala internazionale. Ma ha sviluppato il mercato internazionale mantenendo la proprietà privata dei mezzi di produzione e i confini nazionali. L’internazionalizzazione dei mercati è avvenuta così non nel segno di una generale armonia, ma di una sfida continua tra i diversi gruppi imprenditoriali e blocchi imperialisti per la difesa e l’allargamento delle proprie quote di mercato. Invece della pace su scala internazionale, il mondo ha vissuto due conflitti mondiali.
Dopo il 1945 il capitalismo ha potuto dare l’illusione a grosse masse di lavoratori di aver trovato una via pacifica al proprio sviluppo. Una crescita economica senza precedenti, permetteva alle diverse tensioni imperialiste di essere regolate in termini “pacifici”. La cruda legge dei rapporti di forza veniva nascosta sotto la cortina di fumo del diritto internazionale. Le potenze capitaliste potevano perseguire una linea internazionale comune, coperta magari dal velo blu delle Nazioni Unite. Sia detto di sfuggita che questo non cambiava di un grammo la sostanza imperialista delle loro scelte: la guerra all’Iraq del 1991 fatta sotto la bandiera dell’Onu e di comune accordo tra le varie potenze imperialiste non si distingue per il proprio contenuto di classe dalla guerra del 2003. Semplicemente l’attuale crisi economica non fornisce i margini per un accordo tra i diversi paesi imperialisti, come successe nel 1991.
Chiunque oggi si oppone alla guerra imperialista viene definito comunemente pacifista. Da questo punto di vista non ci scandalizziamo se migliaia di lavoratori e studenti si autoproclamano pacifisti. Tuttavia il pacifismo è un’ideologia ben definita con le proprie premesse e le proprie conseguenze. Nonostante si proponga di difendere la pace sempre e comunque, mostra tutti i propri limiti proprio di fronte ai conflitti reali.
Si limita a predicare in modo quasi religioso la pace e la fratellanza tra gli uomini. Proiettata a livello internazionale una simile ideologia si augura l’esistenza di un mondo pacifico e giusto, ma proiettata a livello interno predica la pace sociale e la collaborazione tra le classi. Con il rifiuto di qualsiasi forma di violenza, si rifiuta tanto la guerra causata dalla borghesia quanto la lotta di classe contro la borghesia stessa.
Alcune parole sul gandhismo
“Userò tutta la mia influenza e autorità contro la lotta di classe. Se qualcuno vuole deprivarvi della vostra proprietà mi troverete a lottare al vostro fianco”.
Gandhi
Nelle sue teorizzazioni Bertinotti ha tirato più volte in ballo Gandhi come esempio di pacifismo radicale. Così facendo dimostra proprio il contrario di ciò che vorrebbe. Pochi personaggi sono circondati da un’aura di santità tanto ingiustificata come Gandhi. L’ideologia di Gandhi non era il frutto della testa di un uomo particolarmente illuminato e tollerante, ma era il riflesso di interessi di classe ben precisi. Rifletteva contemporaneamente i sogni e la debolezza della borghesia indiana (di cui Gandhi era un esponente di spicco). Sorta sotto l’ala protettiva dell’imperialismo inglese, la borghesia indiana desiderava la propria indipendenza ma temeva ancora di più la possibilità di una rivoluzione proletaria. Questa contraddizione si rifletteva nell’ascetismo, nella passività gandhiana, nell’auspicio che si ottenesse l’indipendenza attraverso le riforme, senza dover passare per una sollevazione popolare.
Quando nel 1920 scoppia uno sciopero nel settore tessile, il Congresso Indiano approva immediatamente una risoluzione di fedeltà alla corona inglese e Gandhi si scaglia contro lo sciopero come episodio di “anarchia e distruzione rossa”. Nel 1928 un giovane radicale, Bagat Singh, viene arrestato e processato dagli inglesi con l’accusa di sovversione. Attorno al processo di Bagat Singh si solleva un’ondata di proteste e mobilitazioni. È in questo momento che Gandhi decide di far partire la propria marcia della disobbedienza civile, sapientemente tollerata dagli inglesi, per sviare il movimento da una possibile insurrezione. La marcia gandhiana si conclude con la firma il 19 marzo 1931 di un patto tra Gandhi ed il vicerè inglese Irwin, senza alcun accenno alla possibilità della concessione della grazia a Bagat Singh. Quattro giorni dopo Bagat Singh viene impiccato. Tra il 1942 ed il 1946 l’India viene scossa da un’ondata rivoluzionaria che costringe gli inglesi a concedere l’indipendenza formale. Tuttavia, per sviare la rabbia popolare su linee religiose, gli inglesi, di comune accordo con la casta dominante indiana, decisero di dividere il subcontinente in due paesi: l’India a maggioranza indù ed il Pakistan a maggioranza mussulmana. Il pacifico Gandhi alla fine accettò di sollevare un simile barbarico confine in un subcontinente che aveva sempre visto mussulmani ed indù convivere pacificamente. Da allora la “partizione” tra India e Pakistan ha causato un milione di morti e circa 10 milioni di profughi. L’India e Pakistan sono oggi due nazioni dotate di bombe nucleari con una continua tensione alle proprie frontiere. Quanta pace e serenità può sbocciare dai profeti della non violenza.
Democrazia borghese e violenza
“In che cosa consiste in realtà la funzione della legalità borghese? Se un cittadino libero è detenuto coattivamente da un altro in un’abitazione stretta e inabitabile (…) chiunque è capace di vedere che questo è un atto di violenza. Ma se questa operazione è scritta su un libro chiamato codice penale e la abitazione è una cella delle reali prigioni prussiane, si converte immediatamente in un atto di pacifica legalità. (…) In poche parole ciò che ci si presenta come legalità cittadina non è altro che la violenza della classe dominante elevata previamente a rango di legge. (…) In realtà la legalità borghese (e il parlamentarismo è legalità in potenza) è al contrario una determinata manifestazione sociale della violenza politica della borghesia sorta da una base economica”.
Rosa Luxemburg
Ciò che viene considerata “pace” sotto il capitalismo non è nient’altro che un “pacifico” sistema di sfruttamento, povertà e disoccupazione coatta mantenuto con la violenza organizzata dello Stato e della guerra imperialista. La violenza quotidiana di cui è intriso questo sistema viene coperta dalla legalità o dalla morale comunemente accettata. Ma anche la legalità e la morale non sono costruzioni eterne, ma costruzioni storiche. Tanto quanto nell’antichità la schiavitù era considerata morale, nel sistema capitalista viene considerato morale che una cricca di capitalisti possa asservire migliaia di uomini e dirigere l’economia in base alla propria sete di profitto. Se un gruppo di lavoratori occupa un’azienda per amministrarla democraticamente in base ai propri bisogni, compie un atto illegale ed immorale. Se un reparto di uomini, vestiti in blu e chiamati poliziotti, viene mandato a sgombrare la fabbrica per ristabilire la proprietà sull’azienda, compie un atto morale, legale ed una violenza giustificata. E questa violenza appare tanto più giustificata se i poliziotti agiscono secondo il mandato e le leggi di un parlamento democraticamente eletto, depositario naturalmente della sovranità nazionale. Nel mondo celeste della democrazia borghese, infatti, tutti gli uomini sono uguali: Umberto Agnelli ha a disposizione solo un voto così come il cassa integrato della Fiat.
Ma quando si torna sul mondo terreno, nei rapporti sociali ed economici reali, il cassa integrato deve pensare come arrivare alla fine del mese, mentre Agnelli controlla le leve economiche fondamentali del paese. Mentre il parlamento dà l’impressione che esista una dialettica democratica tra le classi, un luogo dove i rappresentanti democraticamente eletti discutano e controllino le sorti del paese, nella realtà la borghesia controlla l’economia (e con essa tutte le scelte fondamentali), i giornali, le televisioni, la produzione editoriale.
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Ho sempre avuto dei dubbi sull’ambiguità dell’espressione "rifondazione comunista". Da quando, fondato il Partito, si è sempre rifiutato di chiamarlo Partito Comunista, (salvo un accenno nominalistico nel simbolo), prendendo a pretesto una necessaria "rifondazione", esigenza che scaturiva, a sentire i nostri dirigenti, dal fallimento dell’esperienza del novecento tanto dei partiti comunisti quanto del primo tentativo di costruzione della società socialista (l’URSS). E’ stato così che abbiamo atteso messianicamente che fosse avviato tale processo di rifondazione. Ora, tale attesa, che dura ormai da oltre dieci anni, pare che finalmente si avvii a conclusione, anche se quel processo avviene molto lentamente e in maniera discontinua. Un processo che io pensavo dovesse coinvolgere la base del Partito, oltre che i suoi dirigenti, tramite incontri, seminari, dibattiti, convegni ecc., attraversandolo in maniera profonda a tutti i livelli e coinvolgendo anche altri al di fuori delle nostre file. Povero ingenuo. Nulla di tutto questo. Ancora una volta il tutto si esaurisce nell’apprendere dai mezzi di informazione alcuni "strappi" che il compagno Bertinotti fa con la nostra identità e le nostre radici, con la tradizione e la storia dei Comunisti, che poi è la Storia dell’Italia democratica. Dopo l’abbandono di Gramsci, l’abiura di Lenin, la condanna di Stalin, dopo aver rinnegato la grande Rivoluzione d’Ottobre, ora tocca a Marx e a tutto il nostro patrimonio teorico e politico e alla Resistenza antifascista.
Con un duplice intervento, il primo sul Corriere della Sera sul problema della violenza e del terrorismo, il secondo concludendo un convegno sulle Foibe, organizzato dopo "l’abiura"(?!) da parte di Fini del fascismo, (evidentemente sentitosi "punto" dal conseguente attacco su tali questioni, le foibe appunto), il Rifondatore del Comunismo compie un ulteriore passo avanti, anzi indietro, affermando che "all’origine della crisi di civiltà c’è la modernizzazione capitalistica… che attraverso la guerra cerca di imporre le sue regole, le regole del mercato e dell’impresa… che compromettono il progresso e il benessere sociale e civile, le condizioni di vita degli uomini e della natura. Da qui nasce l’esigenza del Comunismo che per affermarsi deve rompere con tre idee forza del 900: 1) il soggetto rivoluzionario, che non è più il proletariato, o classe operaia, o lavoratori che dir si voglia, bensì il movimento no global; 2) nell’idea di comunismo non c’è alcuna attesa deterministica come quella su cui si è fondata parte importante della strategia dei partiti e degli stati post - rivoluzionari, ma al contrario si pensa al comunismo come processo aperto, non ineluttabile, che punti sulla lotta di classe piuttosto che sulla definizione di ciò che dovrebbe essere una società comunista. Infine, 3) la non violenza è la condizione essenziale per far vivere tutta la radicalità di quel processo che chiamiamo comunismo." In pratica egli afferma che il vero comunismo è la non violenza. Solo con la non violenza si potrà cambiare la società e affermando ciò ne consegue una condanna senza mezzi termini di tutti gli episodi e i fatti storici passati, compresi quelli della Resistenza, che siano stati caratterizzati dalla violenza. Questa viene accomunata al terrorismo e perciò chi si definisce comunista deve condannare sia il terrorismo che la violenza. Per quanto riguarda poi le Foibe, "il nostro", al convegno tenutosi a Venezia, condanna quegli episodi e accusa tutti quei falsi comunisti che in tutti questi anni hanno taciuto, sono stati reticenti, non hanno avuto il coraggio di ammettere quegli errori ed orrori.
Sottolineo subito che più che di una revisione storica e di una riformulazione del giudizio in senso neofascista dei fatti e delle circostanze che tra la primavera del 1943 e il maggio del 1945 caratterizzarono la guerra di liberazione in Venezia-Giulia, Istria e Slovenia, quella di Bertinotti è in realtà una sporca operazione politica e strategica tesa a rinnegare l’essenza stessa della Resistenza, del comunismo, del socialismo e dell’esperienza storica dal proletariato internazionale. Proprio come Occhetto che nel 1989 avviò la liquidazione del PCI attaccando la Resistenza e si servì di Otello Montanari per denunciare i cosiddetti "crimini commessi dai partigiani nel triangolo rosso’’, così oggi Bertinotti attacca le foibe per rompere definitavamente ogni legame con la storia del movimento operaio, sostituire alla lotta di classe e alla pratica rivoluzionaria l’imbelle ideologia pacifista, non violenta e interclassista con l’obiettivo di collocare il PRC apertamente e stabilmente nel campo della borghesia e del capitalismo e al fianco dei riformisti e dei revisionisti politici e storici in attesa di entrare a far parte di un futuro governo dell’Ulivo. Quale credito si può dare a uno che, come Bertinotti, dice di difendere la Resistenza, ma subito dopo si smentisce affermando che tuttavia non condivide i metodi di violenza rivoluzionaria usati dai partigiani? Eppure egli ben sa che la Resistenza è stata una guerra di popolo caratterizzata in ogni sua fase dalla violenza di massa rivoluzionaria contro gli oppressori nazi-fascisti. E che le cose stiano effettivamente così lo dimostrano le conclusioni del dibattito in cui, nel criminalizzare la gloriosa guerra di liberazione e i partigiani, si rendeva responsabile dell’ennesimo e gravissimo inganno ai danni della propria base affermando fra l’altro che il fascismo sarebbe definitivamente morto e che pertanto il nemico principale della classe operaia, degli sfruttati e degli oppressi non sono più l’imperialismo e il capitalismo, ma più in generale la guerra e il terrorismo, che si devono combattere "solo col pacifismo e la non violenza’’. "Il momento storico che abbiamo scelto per discutere della questione delle foibe - ha detto Bertinotti - vede da un lato l’accettazione che il fascismo è definitivamente morto, lo stesso Fini prende atto che quella storia è finita, e dall’altra l’antifascismo che si trova davanti due nuovi nemici: la guerra e il terrorismo’’. Come se la guerra e il terrorismo non fossero le due facce della stessa medaglia capitalista e imperialista. Mentre la violenza rivoluzionaria di massa e le lotte di liberazione dei popoli vengono assimilate e confuse ad arte col terrorismo.
Perciò a suo dire, occorre "ripensare la nostra grande, ma anche terribile storia’’ e quindi nell’ottica pacifista dobbiamo riconoscere che: "è vero che la tragedia delle foibe è stata marginalizzata dalla cultura di sinistra, ma è altrettanto vero che la nostra direzione di oggi punta a una riflessione che trae forza dalla nostra propensione per il pacifismo e dal desiderio di verità’’. "Le foibe sono una tragedia terribile che non ha giustificazioni’’. E quindi "deve essere studiata criticamente come una violenza in cui si sono combinati fattori terzi e certamente è stata determinata da una volontà organizzata’’. Pertanto, ha proseguito, "di fronte a questi fatti, come di fronte ad altri, non possiamo reagire in modo giustificazionista, dicendo cioè che l’avversario ha fatto comunque di peggio’’. Infine, la stoccata finale: "è la prima volta che affrontiamo questa questione a livello nazionale. Abbiamo vissuto per tanti anni pensando che la nostra parte fosse quella giusta. L’abbiamo angelicata pensandola come la guerra dei giusti. Invece ci sono delle zone d’ombra che oggi è necessario rimeditare in maniera critica’’.
In realtà non c’è da "rimeditare’’ un bel niente perché sulle foibe e su tutti gli altri episodi che hanno caratterizzato la gloriosa Resistenza dei partigiani contro il mostro nazi-fascista la storia ha già da tempo emesso il suo inappellabile verdetto.
Le foibe sono delle voragini situate sull’altopiano del Carso e profonde anche centinaia di metri in cui tra la primavera del 1943 e il maggio del 1945 furono gettati i cadaveri di circa 4 mila e 500 soldati nazi-fascisti, spie e collaborazionisti uccisi in combattimento o giustiziati dai partigiani italiani e jugoslavi durante la Resistenza. Le foibe non furono un "massacro indiscriminato’’’ una "pulizia etnica’’ e né tantomeno un "olocausto’’ come sostiene la peggiore feccia fascista a cui Bertinotti si presta a fare da spalla, ma fu la risposta della gloriosa lotta partigiana dei popoli italiano e jugoslavo che insieme lottarono strenuamente e pagarono un prezzo altissimo per porre fine a 20 lunghi anni di dittatura fascista, caratterizzati da atrocità e nefandezze di ogni genere e culminati con l’aggressione fascista del 1941 e la successiva occupazione nazi-fascista iniziata all’indomani dell’8 settembre 1943.
Per quanto concerne il problema della violenza poi, il compagno Bertinotti quanto meno confonde i suoi pii desideri con la realtà e dimostra tutto il suo idealismo opportunista. Veramente crede che la classe dominante, qualora la sinistra andasse al governo e si apprestasse ad intaccare i privilegi e le posizioni di potere, anche solo per creare le condizioni di una trasformazione della società in direzione del socialismo, si limiterebbe a criticare verbalmente tale politica? Nulla ha imparato dalla storia? Crede forse che i capitalisti spodestati gli stendano un tappeto rosso e lo invitino in allegria a costruire la nuova società in cui anche loro possano vivere con il frutto del loro sudore e non con lo sfruttamento degli altri?
Certamente il movimento operaio e dei lavoratori, in condizioni di democrazia formale borghese, opera con mezzi pacifici per raggiungere i suoi obiettivi. Ma ritengo totalmente errato e disarmante teorizzare la non violenza come principio di una forza politica che si pone l’obiettivo di abbattere, o anche superare, il Capitalismo. Certamente, senza fuor di dubbio, è necessario combattere il terrorismo come metodo di lotta controproducente di gruppi estremisti distaccati dalle masse. Lo stesso Lenin condannò suo fratello perché faceva parte di un gruppo terrorista russo; consideriamo che vivevano nella Russia Zarista.
I comunisti sono per la lotta di classe e questa la si fa con le masse; ma ciò non vuol dire che azioni violente in determinate circostanze non ci possano essere, come fu all’epoca della Resistenza o come tuttora avviene in Paesi dove si lotta contro un regime dittatoriale o contro l’imperialismo o per cacciare l’invasore come attualmente fanno gli Iracheni. E’ evidente che tali azioni vanno inquadrate in un contesto di lotta di massa particolare. Nulla a che fare con i gruppi terroristi di casa nostra che, ormai lo sanno anche i polli, sono oggettivamente al servizio delle forze reazionarie e borghesi anche se si ammantano di sigle rosse.
E’ sbagliato quindi accostare e identificare violenza e terrorismo in linea di principio.
Il compagno Bertinotti, folgorato sulla via di Damasco, all’indomani della sconfitta referendaria, si sta facendo bello agli occhi delle classi dominanti per poter accedere anche lui al governo del Paese. Li vuole rassicurare che il processo di Rifondazione del Comunismo in realtà è un processo di rifondazione del riformismo e del revisionismo. Il PRC, da quando i trotskisti hanno preso saldamente nelle loro mani il partito a tutti i livelli, si appresta a ridiventare un partito che richiama alla memoria i gruppi della ex nuova sinistra: verbalmente estremista in realtà opportunista. E’ una fine ingloriosa per chi aspirava, all’indomani della fondazione di tale partito, di risollevare la bandiera rossa del Comunismo ammainata definitivamente con lo scioglimento del PCI. Toccherà ai comunisti autentici, oggi dispersi in mille rivoli ma che non rinnegano le proprie radici, riprendere quel lavoro di ricostruzione del Partito che condurrà i lavoratori e le masse popolari alla trasformazione della società.
Martina Franca, 25/12/2003
Mauro Cipriano
Liberazione, 2 gennaio 2005
leggiamo:
Etichettare la lotta degli iracheni come una “resistenza con la erre minuscola” è un fatto grave. Decine di migliaia di iracheni stanno combattendo per cacciare gli eserciti occupanti: può un partito comunista fare finta di niente e girare le spalle ad una lotta di liberazione? Una posizione “pacifista” in Irak significa, anche se in maniera indiretta, favorire il mantenimento dell’occupazione americana, dire ai ribelli iracheni che la loro lotta è inutile, manifestare la propria sfiducia nell’autogoverno dei popoli arabi.
2008
Un grande rientro per Bertinotti dentro una grande provocazione contro i palestinesi
Comunicato Stampa
A volte la realtà supera ogni peggiore immaginazione. Sulle pagine de Il Riformista di oggi 24 aprile, in una intervista al guru Massimo Fagioli, quest'ultimo rivela che starebbe preparando un grande rientro pubblico per Fausto Bertinotti dopo la catastrofe politica ed elettorale della sinistra di cui è stato il principale responsabile. Fin qui poco o nulla da eccepire. Lo psicanalista Fagioli è riuscito a realizzare con Bertinotti e il PRC le stesse devastazioni che fede negli anni '80 sul gruppo dirigente di Lotta Continua, ma ognuno è libero di sedersi sul lettino che vuole e farsi rincoglionire a dovere dai tanti guru che prosperano nell'epoca del pensiero debole.
La questione diventa grave ed inaccettabile quando lo scenario in cui Fagioli prepara il grande rientro pubblico di Bertinotti è sabato 10 maggio alla Fiera del Libro di Torino dedicata a Israele e per questo al centro di polemiche ferocissime e di una campagna di boicottaggio degli scrittori palestinesi, arabi ed anche israeliani critici con la decisione di dedicare la Fiera del Libro di quest�anno ad uno Stato che celebra il suo atto di nascita specularmene ai sessanta anni di un�altra catastrofe (Nakba): quella dei palestinesi che furono espulsi con la violenza dalle loro terre a centinaia di migliaia.
Sabato 10 maggio infatti proprio a Torino ci sarà una manifestazione nazionale convocata dalle reti e dai comitati di solidarietà con il popolo palestinese impegnati da molte settimane in una campagna di informazione e denuncia sulla insostenibile situazione della popolazione palestinese a sessanta anni dalla nascita di Israele (e della negazione della nascita di uno stato per i palestinesi) e contro l�inopportunità di dedicare proprio in questa occasione la Fiera del Libro di Torino a Israele.
Fausto Bertinotti potrebbe e dovrebbe scegliere un luogo diverso per il suo grande rientro in pubblico. Partecipare alla Fiera del Libro dedicata ad uno stato che si regge sull�occupazione militare e coloniale e sull�apartheid proprio mentre nelle strade di Torino sfileranno i palestinesi e il popolo della sinistra che ne sostiene i legittimi diritti e la resistenza, non può che apparire come una inaccettabile provocazione.
24 aprile 2008
Il Forum Palestina http://hajesteresistenza.iobloggo.com/archive.php?eid=784