Non si finisce più di contare i morti, i clandestini annegati che giorno
dopo giorno emergono dai fondali renosi del mare che bagna le coste
meridionali di Sicilia, i cadaveri che le onde ributtano sulle spiagge dai
nomi di una classicità scaduta da tempo immemorabile – Porto Empedocle, Baia
Dorica, Costa Ellenica – cadaveri sulla sabbia come detriti di un’immane
risacca. Sono vittime, questi poveri cristi fuggiti da Liberie, Tunisie,
Algerie, Marocchi, Iraq o Palestine, prima che dei mercanti di vite umane,
della nostra opulenza, della nostra arroganza, della nostra empietà e
ferocia, della nostra ottusa indifferenza. Eppure, da quelle plaghe
siciliane in cui oggi si raccattano cadaveri, e così dalla Calabria, dalla
Sardegna, sono partite in passato masse di diseredati per raggiungere il
Maghreb. Anche loro clandestini, anche loro sfruttati dai boss mafiosi,
anche loro che s’avventurano su carrette di mare, loro che in quel
periglioso Canale perivano nei naufragi. Ma in Tunisia questi nostri
clandestini, questi nostri emigranti trovarono accoglienza, lavoro,
speranza; si stabilirono nei porti della Goletta, di Biserta, di Sousse, di
Monastir, di Mahdia, nelle campagne di Kelibia e di capo Bon, nelle regioni
minerarie di Sfax e di Gafsa. Nel 1911, le statistiche davano una presenza
italiana ufficiale di 90mila unità. Nel 1914, Andrea Costa, vicepresidente
della Camera, visita le regioni dove vivevano le comunità italiane. Dice, in
un discorso ai lavoratori : «Ho visitato la Tunisia da un capo all’altro;
sono stato tra i minatori del sud e fra gli sterratori della strade
nascenti, e ne ho ricavato il convincimento che i nostri governanti si
disonorano nella loro viltà, abbandonandovi pecorinamente alla vostra
sorte». E’ a partire dal 1968 che avviene l’inversione di rotta: tunisini,
algerini,marocchini cominciano ad approdare sulle nostre coste. Approdano
soprattutto i tunisini a Trapani e si sparpagliano per le campagne, si
stanziano nell’antico quartiere arabo di Mazara del Vallo la città dove
nell’827 erano approdati i loro antenati per la conquista della Sicilia. Il
sociologo di Mazara, Antonino Cusumano, ha scritto il libro “ Il ritorno
infelice “ su questa emigrazione di tunisini in Sicilia. Emigrati da una
Tunisia lontana da quella striscia costiera delle vacanze «esotiche» di noi
europei, da quell’anello di lussuosi alberghi, di Abu Nuwas, di proprietà
degli Emirati Arabi. Emigrati contadini che il fallimento della riforma
agraria promossa da Bourghiba, che portava il bel nome di Rigenerazione del
suolo, ha buttato nella miseria, emigrati braccianti, pescatori, minatori
che l’odierna politica di Ben Alì relega al di sotto di un livello di
sopravvivenza. Mi trovavo, nel giorno del naufragio di Porto Empedocle, dei
27 morti liberiani, a pochi chilometri da quel mare, a Palma di Montechiaro,
il paese fondato nel ‘600 dai principi di Lampedusa, i «gattopardi» di
GiuseppeTomasi. Ma il paese anche, quello, che Danilo Dolci scelse nel 1960
come paese simbolo di depressione, miseria, per un convegno sulle condizioni
di vita e di salute in zone arretrate della Sicilia occidentale. Fra
studiosi, politici,parteciparono a quel convegno Carlo Levi, Paolo Sylos
Labini, Tommaso Fiore, Girolamo Li Causi, Leonardo Sciascia, Ignazio
Buttitta. Mi trovavo dunque a Palma di Montechiaro per un convegno su madre
Francesca Saverio Cabrini, la santa degli emigrati, colei che operò negli
Stati Uniti e in Sudamerica fra i nostri poveri emigrati laggiù. Nel 1879,
Giustino Fortunato così scriveva: « Con lo sviluppo dell’emigrazione
meridionale negli Stati Uniti, il sistema di mediazione esercitato dalle
agenzie per mezzo dei “notabili” diventa un efficace strumento per esportare
nelle Little Italy d’oltre oceano le forme di sfruttamento camorristico o
mafioso (…) Spesso infatti i boss italo-americani sono in contatto diretto
con gli agenti italiani, i quali procurano contemporaneamente passeggeri
alle compagnie di navigazione e manovali alle imprese americane». I
naufraghi di Scoglitti speravano, con la falsa notizia, con l’inganno della
«sanatoria» della nuova legge italiana sull’immigrazione, di poter andare a
lavorare, come molti loro connazionali, nelle imprese ragusane delle serre,
in quegli immensi labirinti di calore e di veleni che sono i campi coperti
di plastica. Non ce l’hanno fatta, sono rimasti al di qua delle serre,
riversi in quelle dune di sabbia, dette « macconi», di spiagge chiamate
abulicamente Baia Dorica e Costa Ellenica. Là, coperti da teli, in attesa
dei pietosi raccattacadaveri. A questi naufraghi, ultime, ennesime vittime
dell’attuale nostro mondo crudele, vogliamo dedicare come fosse un
«requiem», i versi di Morte per Acqua di T.S.Eliot:
Fleba il Fenicio,
morto
da quindici giorni,
Dimenticò il grido dei gabbiani
e il flutto profondo del mare,
E il guadagno e la perdita.
Una corrente sottomarina
Gli spolpò le ossa in sussurri,
Mentre affiorava e affondava
Traversò gli stadi
della maturità e della gioventù
Entrando nei gorghi.
Gentile o Giudeo,
o tu che volgi la ruota e guardi
nella direzione del vento,
Pensa a Fleba, che un tempo è
Stato bello e ben fatto al pari di te.
Ripubblicato per gentile concessione degli eredi. Prima pubblicazione
col titolo Dedicato ai morti per Acqua Vincenzo Consolo ( articolo su
“L’unità“ – 27 Settembre 2002). Un ringraziamento a Claudio Masetta Milone
che ci ha segnalato l’articolo.
Per saperne di più su Vincenzo Consolo http://www.letteratura.rai.it/categorie/vincenzo-consolo-a-un-anno-dalla-morte/71/1/default.aspx