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Una speranza cammina (camminava) insieme alla Fiom - Loris Campetti ROMA 17.10.10

La piazza ha il suo leader e grida «sciopero generale» - Rocco Di Michele ROMA 17 ott 2010

CREMASCHI: LANDINI E AIRAUDO SCELTE SBAGLIATE  29/05/2012

Il saluto di Giorgio Cremaschi alla FIOM Cremaschi silurato? Così sembrerebbe a dedurre da quello che dice ad apertura di discorso 10 maggio 2012

Taranto: operai e cittadini uniti nella lotta! di Fabio Marcelli | 5 agosto 2012 ***

 Landini : da mister Jekyll a mister Hide!!   di Pietro Ancona  3.8.2012

       "        Un altro razzista di Pietro Ancona

Ilva: le contestazioni, un segnale per il sindacato Sergio Bellavita (sbaglia Landini) 3 agosto 2012
 
Pietro da del razzista a Landini e a Marino "piace"
http://www.facebook.com/giuseppecarlo.marino/posts/488003027893853
http://www.facebook.com/lo.l.salvatore/posts/3513947883271  (commento di S.Lo leggio)

 

 

 

  http://www.controlacrisi.org/notizia/Politica/2012/5/29/23006-cremaschi-landini-e-airaudo-scelte-sbagliate/

29/05/2012 17:46 |  GIORGIO CREMASCHI
CREMASCHI: LANDINI E AIRAUDO SCELTE SBAGLIATE

  Se le intenzioni di Maurizio Landini e Giorgio Airaudo sono quelle
annunciate dai giornali, in particolare da Il Fatto, bisogna dire che il
gruppo dirigente della Fiom ha preso una via completamente sbagliata, che va
combattuta con forza e rigore.
Il 9 giugno dovrebbe esserci un incontro promosso dalla Fiom con i partiti
del centrosinistra. A quell’incontro avrebbero dato la conferma della
partecipazione sia Bersani, sia Vendola, sia Di Pietro. Domandiamo subito:
qual è lo scopo reale di quell’incontro? Se la Fiom vuole proporre le sue
opinioni sulle elezioni e sui programmi di governo credo che la strada debba
essere un’altra. Quando si interviene nella politica lo si fa con
piattaforme, e i contenuti di queste piattaforme devono essere discusse,
verificate e decise con ampia democrazia. Questa è l’indipendenza sindacale
scritta nello Statuto della Fiom. Tutto questo manca. Finora in Fiom si è
parlato genericamente delle proposte della Fiom ma, almeno fino a quando
sono rimasto presidente del Comitato centrale, non ho vissuto una riunione
nella quale si definissero i punti precisi da presentare ad un incontro con
le forze politiche. D’altra parte è abbastanza singolare la coincidenza tra
l’avvio di un’offensiva di Vendola e Di Pietro verso Bersani per stringere
un patto elettorale e di governo, e l’incontro promosso dalla Fiom. Può
darsi che tutto sia casuale, (...) ma si fa fatica a crederlo, anche perché
i giornali parlano di incontri preparatori di cui nessuno sa nulla. Infine c’è
la sostanza. Cosa vuole la Fiom dalle forze politiche? Leggendo i giornali,
risulta un insieme di richieste confuse e generiche, fatte apposta - direbbe
un malizioso - per far andare tutti d’accordo. Domanda secca: se la Fiom
incontra Bersani gli chiede di non votare la controriforma sull’articolo 18?
E se la Fiom parla di prossime elezioni, chiede che uno dei primi punti del
programma da sostenere sia la cancellazione, non la attenuazione, della
controriforma Fornero sulle pensioni assieme a quella del lavoro? Il fiscal
compact si accetta o si respinge? Il pareggio di bilancio in Costituzione
resta così o viene rimesso in discussione?
Finora dovrebbe essere scontato che la Fiom chiede queste cose. E dovrebbe
quindi essere scontato che le posizioni attuali di Bersani sono radicalmente
diverse da quelle del sindacato dei metalmeccanici. E, tuttavia, quest’incontro
viene presentato come quello che darebbe un contributo alla piattaforma
unitaria del nuovo centrosinistra. Si vuole forse inserire qualche faccia
della Fiom nella foto di Vasto? Non so se sarebbe una bella cosa sul piano
elettorale, ma per i lavoratori sarebbe un disastro.
E’ bene allora che nella Fiom si apra una discussione a fondo, su dove si
vuole andare. Da troppo tempo in quell’organizzazione l’immagine e lo
spettacolo televisivo prendono il posto di una reale discussione politica.
Questo mentre la situazione sociale del paese degrada e i metalmeccanici ne
subiscono, come tutti, le drammatiche conseguenze. Pensare di affrontare
questo con una mossa del cavallo, cioè con uno sparigliamento di carte per
cui la Fiom si butta in politica, può certo piacere a chi sente in Italia il
vuoto di una sinistra politica, ma non è una soluzione né per il sindacato
né per la sinistra. Il gruppo dirigente della Fiom ha rinunciato in questi
ultimi mesi a una battaglia contro la deriva moderata del gruppo dirigente
della Cgil. Adesso si mette a fare politica in proprio, mentre la Cgil
lascia passare l’attacco all’articolo 18. No, non ci siamo proprio.
Così la Fiom, anziché essere quel modello sindacale positivo, che ha
suscitato tante speranze nel mondo del lavoro, rischia di essere parte della
crisi della Cgil e persino di aggravarla. Le lotte eroiche dei
metalmeccanici di questi ultimi anni non meritano di finire nel teatrino
della politica italiana.

 

 

  Sergio Bellavita  Segretario nazionale Fiom dice: "Lottare per il diritto alla salute contro il padron Riva e' un dovere e non può essere scambiato per assistenzialismo."
 
venerdì 3 agosto 2012
Ilva: le contestazioni, un segnale per il sindacato

http://manifestino.blogspot.it/2012/08/ilva-le-contestazioni-un-segnale-per-il.html


Le contestazioni di ieri al comizio di Cgil Cisl e Uil sono un segnale del profondo malessere dei lavoratori e delle lavoratrici. Un segnale che il sindacato non può banalizzare o ridurre a improbabili complotti o peggio confinare alla cosiddetta area antagonista, di cui in realtà il sindacalismo non complice dovrebbe essere parte. Sono davvero dispiaciuto che anche la Fiom, Landini sia stato oggetto di contestazioni. Tuttavia non sono d'accordo con quanto Maurizio Landini afferma oggi in una sua intervista su Repubblica. Da lavoratore del sud emigrato posso raccontare la rabbia di chi i diritti non li hai mai conosciuti. I lavoratori chiedono un lavoro che non faccia morire ne' loro ne' i loro figli. Lottare per il diritto alla salute contro il padron Riva e' un dovere e non può essere scambiato per assistenzialismo. C'e' un ulteriore aspetto delle contestazioni su cui riflettere. La sfiducia. Quando un sindacato non riesce a intervenire sulla condizione concreta degli uomini e delle donne che rappresenta la sfiducia, la rassegnazione rischia di prevalere. I lavoratori sono stanchi dei riti sindacali, delle liturgie consuete e desuete. Dobbiamo indagare, approfondire questa rabbia e questa sfiducia. E dobbiamo dargli voce e forza. Taranto rischia di essere uno dei primi potenti segnali al sindacato.


Sergio Bellavita
Segretario nazionale Fiom

 

 

   Una speranza cammina (camminava) insieme alla Fiom - Loris Campetti ROMA

Manifesto – 17.10.10
 «Noi non diamo numeri, contateci voi». Bella trovata questa della Fiom, in polemica con i ministri che prevedevano tra le 20 e le 40 mila persone. Noi del manifesto ci siamo consultati e abbiamo concluso di non essere capaci di contare così tante persone, operai e studenti «uniti nella lotta», colf e migranti, anziani che hanno conquistato quei diritti che oggi si vorrebbero togliere ai figli e ai nipoti. C'è chi parla di un milione, ma vai a sapere. E, soprattutto, chissenefrega. Ieri nelle strade e nelle piazze di Roma ha camminato una speranza: cambiare si può. Speranza che non trova albergo nella «Politica» ma oggi ha un orgoglioso compagno di marcia: la Fiom. «Meglio lottare danzando che vivere in ginocchio». Saranno quei burloni degli operai di Pomigliano che improvvisano una tammuriata in piazza della Repubblica? Invece no, sono le Chejan celen, «Zingare spericolate», ragazze e bambine inserite in un progetto di alfabetizzazione dei rom. Sono italiane da tre generazioni ma non hanno diritto a esserlo per la nostra legge. Ecco perché sfilano con i metalmeccanici e addirittura si esibiscono in bellissime danze al ritmo di musiche zigane, perché la Fiom ha messo al centro di una delle più straordinarie manifestazioni della storia d'Italia proprio i diritti. Quelli degli operai a lavorare con dignità, dei sindacati degni di questo nome a contrattare, degli studenti a studiare e degli insegnanti a insegnare, dei precari a riacciuffare per la coda un futuro oggi negato, dei migranti a essere considerati persone uguali alle altre persone. Tutti portatori di diritti sociali, civili, di cittadinanza. Diritti indivisibili, da difendere e spesso da riconquistare in un'Italia classista e ingiusta rifondata sui privilegi. Trascina l'emozione della piazza Maurizio Landini, il nuovo segretario generale della Fiom, quando dice che di quel che sta succedendo a Roma e in Italia, di questa domanda collettiva di dignità, partecipazione, democrazia, bisogna ringraziare, prima e più che la Fiom, gli operai di Pomigliano e di Melfi che non hanno chinato la testa di fronte all'arrogante pretesa del padrone di scambiare lavoro ipotetico con diritti certi. I diritti, semmai, vanno estesi a tutti sennò si riducono a privilegi. Chi è in piazza, come questi operai della Fiat, non vuole o non vuole più chinare la testa. Due cortei sterminati hanno raccontato tante cose a una Roma finalmente attenta e qua e là anche partecipe. La fatica di lavorare e vivere in una crisi spietata, gestita per di più da un governo spietato perché «servo», come sta scritto su tanti cartelli. Alcuni un po' scorretti. Servo «dei padroni», naturalmente, di «Marchionne cetnico, Bonanni maggiordomo» per dire che al servizio del modello sociale preteso dall'uomo miracoloso della Fiat di «servi» ce ne sono molti. Più che contro Berlusconi, la piazza rossa della Fiom è contro un modello sociale e politico in cui l'operaio è pura variabile dipendente, appendice della macchina a cui lavora e al tempo stesso combattente arruolato con la forza del ricatto in una guerra globale che non è di classe ma tra navi nemiche in cui stanno tutti insieme, padrone, manager e tute blu per combattere contro un'altra nave modellata allo stesso modo alla conquista, come l'altra, del dio mercato. Mors tua vita mea, siamo in guerra. Ne parliamo con gli operai dei «cantieri navali in lotta» che ci spiegano come la stratificazione della nave sia classista perché c'è chi rema e chi spartisce i dividendi, ma lo è già «al momento della sua costruzione»: alla stiva lavoratori immigrati senza diritti, ai primi piani dipendenti delle ditte appaltatrici e subappaltatrici e solo ai piani alti i «nostri» operai. Che però stanno massicciamente con la Fiom e non si fanno fottere perché sanno che il nemico è l'armatore e i suoi caporali. Questa piazza ragiona e grida contro un modello sociale che punta sulla guerra tra poveri, disoccupati e cassintegrati contro i migranti. Un modello sociale in cui la democrazia dev'essere «governante» ed è insieme un optional rinsecchito, fruibile solo per i ceti abbienti. Tutto il potere in mano a pochi, in politica come all'università, in fabbrica come nei quartieri. Non sopportano Berlusconi le centinaia di migliaia di lavoratori, studenti, pensionati che occupano la Capitale, e non glie lo mandano a dire. Ma temono, forse ancora più di Berlusconi, il partito del potere vero: quello di Marchionne, Marcegaglia e Montezemolo che «potranno anche essere alleati di qualcuno, ma non di questa piazza», dice un giovane di un centro sociale torinese. È ovvio vedere sfilare Emergency che chiede il ritiro delle nostre truppe dall'Afghanistan, dato che la Fiom è per il ritiro. È ovvio che sfili Libera per chiede legalità perché la Fiom chiede legalità, anzi spiega che la frantumazione del ciclo produttivo con la moltiplicazione di appalti e subappalti è l'ascensore che favorisce l'appropriazione dell'economia da parte della criminalità. I migranti cercano casa, diritti e lavoro e sono ora sparsi ora concentrati negli spezzoni dei cortei. Nella Fiom vedono una casa. All'Ostiense lo spezzone Fiom di Reggio Emilia è tricolore non per bandiere rigidamente rosse ma grazie alla presenza di operai indigeni, africani e asiatici. Dal Veneto sono calati in massa sia gli operai di Landini che i giovani dei centri sociali, così come dalle Marche. L'orgoglio di essere Fiom, innanzitutto. Gridato da Melfi, da Pomigliano, da Mirafiori, dallo spezzone più incazzato che apre il corteo di piazza della Repubblica, quello Termini Imerese che in coro canta «sciuri, sciuri, sciuriti tutto l'anno, e Marchionne va a jettari u sangu». Precisa la segretaria della Fiom siciliana che «da noi gettare il sangue vuol dire faticare». E noi ci crediamo. La pensionata di Macerata e la zingara spericolata, il pacifista trentino e il cassintegrato autorecluso all'Asinara, il No Tav della Valle di Susa e persino i venditori di fischietti chiedono una cosa: la riunificazione delle lotte che si incrocia con la riunificazione del lavoro chiesto dagli operai arrivati, ancora una volta e più numerosi e decisi di sempre, a Roma. «Basta con le escort e le case a Montecarlo», chiede un cartello. Inutile dire di cosa si debba occupare la politica, di lavoro, democrazia, diritti, legalità. «Di contratti, per dio», grida il pensionato abruzzese. Ma c'è anche chi chiede «10-100-1000 Same» portando in corteo uova finte. Di miracoli ieri se ne sono visti molti, a Roma: i soggetti organizzati, chi si batte per l'acqua pubblica e i beni comuni, chi guida le battaglie contro il precariato, chi chiede un reddito di cittadinanza, chi vuole una scuola libera e pubblica chi chiede lavoro per sé e galera per i suoi padroni (le maschere dell'Eutelia), tutti questi pezzi di mondo hanno iniziato a camminare insieme. C'è addirittura chi parla dello «spirito di Genova». Inutile ricordare che anche la Fiom, nel G8 del 2001, c'era, insieme a chi gridava «un altro mondo è possibile». Il secondo miracolo romano è che dal palco tutte queste domande e sensibilità sono state raccolte nell'intervento di Maurizio Landini, un operaio speciale che sa parlare alla sua gente e al popolo multicolore di piazza San Giovanni. «C'è una domanda di cambiamento a cui bisogna dare una risposta». Piace ai comunisti, i tantissimi di Rifondazione ma anche del Pdci, del Pcl, di Sinistra critica. Piace a Vendola e alla Sel, forse piace anche ai tre eroi che trascinano in corteo altrettante bandiere del Partito democratico. E il «nuovo modello di sviluppo» di Landini piace agli ambientalisti, con o senza bandiera verde. Tutti chiedono la stessa cosa: le lotte devono andare avanti, fino allo sciopero generale. Meglio prima che dopo. Lo ricordano senza tregua al segretario generale Guglielmo Epifani al suo ultimo comizio da capo della Cgil. Non sono eroi, sono però degli esempi. Coccolati da tutti, orgogliosi, rumorosi, determinati, allegri persino. Sono gli operai di Pomigliano, quelli dei No a Marchionne da cui è partito tutto questo casino che ha ridato una speranza al paese. Meglio, alle persone per bene. Coccolati sono anche i tre licenziati di Melfi che hanno vinto la causa ma che il padrone tiene fuori dalla fabbrica. C'è anche il manifesto in piazza, con i suoi circoli e i suoi giornalisti, i suoi stand e il suo grido di dolore. Siamo accolti molto bene in piazza, e persino dal palco c'è chi ricorda la resistenza di un giornale amico degli operai, un giornale senza padroni, senza partiti e senza soldi. Un giornale schierato, come e con questi chissà quanti italiani e migranti di buone speranze.

 
 

 La piazza ha il suo leader e grida «sciopero generale» - Rocco Di Michele ROMA

La piazza ha il suo leader e grida «sciopero generale» - Rocco Di Michele ROMA –
Una giornata liberatoria. Ha distrutto pacificamente seminatori di paura, ministri con la poltrona in liquidazione e media senza dignità che han fatto loro il coro. La prima megamanifestazione di Maurizio Landini è coincisa con l'ultima di Guglielmo Epifani. Ma non è stato un passaggio di consegne. Nella Cgil attuale si usano magari le stesse parole, ma i significati sembrano molto differenti. E i metalmeccanici sono per storia, numero, ruolo e modo di ragionare «costretti alla concretezza». Si è visto subito che questa era la piazza di chi si è già accorto che non si può più arretrare, e Andrea Rivera, con il suo monologo in musica, ha saputo cogliere molte sfumature di questo sentimento. Non si può più fare un passo indietro perché non c'è più terreno alle spalle; margini salariali e diritti esigibili sono ormai ridotti ai minimi termini (neanche le sentenze dei giudici, come a Melfi, riescono a ottenere immediata esecuzione). La cassa integrazione, in tutte le sue varianti, ha toccato cifre record; ma soprattutto comincia a scadere per fette molto consistenti di lavoratori. Non c'è più molto tempo, insomma, per «attendere» che accada qualche miracolo (la caduta di Berlusconi, la ripresa, ecc). A questa doppia esigenza - decisione e tempestività - Maurizio Landini ha dato risposte chiare e nette, sottolineate più volte da applausi o autentiche ovazioni. La crisi è il discrimine su cui decide tutto. «Per 20 anni ci hanno detto che bastava lasciar fare al mercato, ora abbiamo una finanza senza regole, il record di evasione fiscale, una precarietà senza precedenti e una ridistribuzione della ricchezza a danno di chi lavora». Una «società così è inaccettabile, bisogna ribellarsi per cambiarla». Davanti a un governo e un'imprenditoria che vorrebbero «uscire dalla crisi» cancellando un secolo di conquiste e diritti, cambiando solo gli assetti di potere, c'è invece una proposta che suggerisce di uscirne con un cambiamento radicale: «un altro modello di sviluppo, dove si decide cosa e come produrre, i beni comuni da difendere, cancellare la precarietà, aumentare i salari». Una visione generale, non limitata ai metalmeccanici. Ma qui è stata giocata la partita per ridurre le relazioni industriali tra impresa e lavoro a una mera formalità. Qui il conflitto vede «mettere in gioco la stessa democrazia», che «non si può fermare davanti ai cancelli della fabbrica». Qui è scattata - con l'imprevisto 36% di «no» contro il «modello Pomigliano» e l'orgoglio dei «tre di Melfi» - la reazione della dignità contro chi voleva costringere a scegliere tra lavoro o diritti. Qui il voto dei lavoratori su ogni piattaforma o accordo è diventata una rivendicazione da affrontare con una legge. Dai metalmeccanici è partita l'unica risposta di massa che ha assunto un peso anche politico. È forte l'attacco alla Fiom e alla Cgil, basta leggere gli allarmi di Maroni o i desideri di morte di Sacconi. «Ma non vogliono soltanto far fuori noi; vogliono cancellare il diritto delle persone a contrattare, a esser liberi». Di fronte a chi ti dice, come Marchionne, «se vuoi sapere qual è il piano industriale, devi prima firmare un accordo che generalizza il modello Pomigliano e magari lo peggiora anche», non basta più una vertenza di categoria, per quanto seria e dura. «Bisogna riunificare i diritti, fare contratti nazionali che mettono insieme più categorie». C'è insomma da vincere una battaglia generale, sindacale e politica, e quindi la Cgil dovrebbe proclamare un «sciopero generale». Non è semplice per Epifani iniziare a parlare. La piazza invoca «sciopero, sciopero». La segreteria della Fiom al completo gli si mette al fianco, intorno al microfono. È regola antica, in Cgil: il segretario generale si rispetta. La folla che è rimasta capisce e fa silenzio, tranne una cinquantina di persone che sventolano un paio di bandiere di un ignoto «Red bloc» e fischiano per un po'. Epifani attacca il governo, la sua «politica industriale» inesistente, ma non affonda più di tanto su Confindustria; difende il ruolo del contratto nazionale, ma come se - proprio su questo - non si fosse consumata una rottura da cui le imprese non sembrano intenzionate a tornare indietro. Delinea un iter di mobilitazioni che vede al centro la manifestazione confederale del 27 novembre e solo dopo - come se questa giornata non avesse già un significato e una portata generali, e «se non avremo risposte» - si andrà avanti «anche con lo sciopero generale». Tempi lunghi, mosse caute, rinvii a quando avrà lasciato il timone della Cgil nelle mani di Susanna Camusso. E magari lo scenario politico sarà più dialogante dell'attuale. Due visioni diverse, con molte parole in comune. Ma la giornata di ieri, questo è chiaro, segna un giro di boa nella consapevolezza di sé di un'opposizione sociale che sembra ora aver ritrovato un baricentro solido. «Andiamo avanti, rispettiamo le vostre posizioni, manifestate», dice la leader di Confindustria Emma Marcegaglia alla Fiom. Ma avverte: bisogna «guardare avanti». Perché se si guarda a «un modello di relazioni sindacali che non ci sono più si ha un solo risultato, uccidere i lavoratori. Se si inneggia a qualcosa che non esiste più questo condanna il Paese». Secondo il segretario dei meccanici Uil, la manifestazione della Fiom «parte da motivazioni che non riguardano il merito, ma sono politiche e si alimentano del contrasto con le altre sigle metalmeccaniche».