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Primo capitolo di Terroni di Pino Aprile "Diventare meridionali"    

Diventare meridionali Io non sapevo che i piemontesi fecero al Sud quello che i nazisti fecero a Marzabotto. Ma tante volte, per anni. E cancellarono per sempre molti paesi, in operazioni “anti-terrorismo”, come i marines in Iraq. Non sapevo che, nelle rappresaglie, si concessero libertà di stupro sulle donne meridionali, come nei Balcani, durante il conflitto etnico; o come i marocchini delle truppe francesi, in Cionell’invasione, da Sud, per redimere l’Italia dal fascismo (ogni volta che viene liberato, il Mezzogiorno ci rimette qualcosa). Ignoravo che, in nome dell’Unità nazionale, i fratelli d’Italia ebbero pure diritto di saccheggio delle città meridionali, come i Lanzichenecchi a Roma. E che praticarono la tortura, come i marines ad Abu Ghraib, i francesi in Algeria, Pinochet in Cile. Non sapevo che in Parlamento, a Torino, un deputato ex garibaldino paragonò la ferocia e le stragi piemontesi al Sud a quelle di «Tamerlano, Gengis Khan e Attila». Un altro preferì tacere «rivelazioni di cui l’Europa potrebbe inorridire». E Garibaldi parlò di «cose da cloaca». Né che si incarcerarono i meridionali senza accusa, senza processo e senza condanna, come è accaduto con gl’islamici a Guantànamo. Lì qualche centinaio, terroristi per definizione, perché musulmani; da noi centinaia di migliaia, briganti per definizione, perché meridionali. E, se bambini, briganti precoci; se donne, brigantesse o mogli, figlie, di briganti; o consanguinei di briganti (sino al terzo grado di parentela); o persino solo paesani o sospetti tali. Tutto a norma di legge, si capisce, come in Sudafrica, con l’apartheid. Io credevo che i briganti fossero proprio briganti, non anche ex soldati borbonici e patrioti alla guerriglia per difendere il proprio paese invaso. Non sapevo che il paesaggio del Sud divenne come quello del Kosovo, con fucilazioni in massa, fosse comuni, paesi che bruciavano sulle colline e colonne di decine di migliaia di profughi in marcia. Non volevo credere che i primi campi di concentramento e sterminio in Europa li istituirono gli italiani del Nord, per tormentare e farvi morire gli italiani del Sud, a migliaia, forse decine di migliaia (non si sa, perché li squagliavano nella calce), come nell’Unione Sovietica di Stalin. Ignoravo che il ministero degli Esteri dell’Italia unita cercò per anni «una landa desolata», fra Patagonia, Borneo e altri sperduti lidi, per deportarvi i meridionali e annientarli lontano da occhi indiscreti. Né sapevo che i Fratelli d’Italia arrivati dal Nord svuotarono le ricche banche meridionali, regge, musei, case private (rubando persino le posate), per pagare i debiti del Piemonte e costituire immensi patrimoni privati. E mai avrei immaginato che i Mille fossero quasi tutti avanzi di galera. Non sapevo che, a Italia così unificata, imposero una tassa aggiuntiva ai meridionali, per pagare le spese della guerra di conquista del Sud, fatta senza nemmeno dichiararla. Ignoravo che l’occupazione del Regno delle Due Sicilie fosse stata decisa, progettata, protetta da Inghilterra e Francia, e parzialmente finanziata dalla massoneria (detto da Garibaldi. sino al gran maestro Armando Corona, nel 1988). Né sapevo che il Regno delle Due Sicilie fosse, fino al momento dell’aggressione, uno dei paesi più industrializzati del mondo (terzo, dopo Inghilterra e Francia, prima di essere invaso). E non c’era la “burocrazia borbonica”, intesa quale caotica e inefficiente: lo specialista inviato da Cavour nelle Due Sicilie, per rimettervi ordine, riferì di un «mirabile organismo finanziario» e propose di copiarla, in una relazione che è «una lode sincera e continua». Mentre «il modello che presiede alla nostra amministrazione», dal 1861, «è quello franco-napoleonico, la cui versione sabauda è stata modulata dall’unità in avanti in adesione a una miriade di pressioni localistiche e corporative» (Marco Meriggi, Breve storia dell’Italia settentrionale). Ignoravo che lo stato unitario tassò ferocemente i milioni di disperati meridionali che emigravano in America, per assistere economicamente gli armatori delle navi che li trasportavano e i settentrionali che andavano a “far la stagione”, per qualche mese in Svizzera. Non potevo immaginare che l’Italia unita facesse pagare più tasse a chi stentava e moriva di malaria nelle caverne dei Sassi di Matera, rispetto ai proprietari delle ville sul lago di Como. Avevo già esperienza delle ferrovie peggiori al Sud che al Nord, ma non che, alle soglie del 2000, col resto d’Italia percorso da treni ad alta velocità, il Mezzogiorno avesse quasi mille chilometri di ferrovia in meno che prima della Seconda guerra mondiale (7.958 contro 8871). quasi sempre ancora a binario unico e con gran parte della rete non elettrificata. Come potevo immaginare che stessimo così male, nell’inferno dei Borbone, che per obbligarci a entrare nel paradiso portatoci dai piemontesi ci vollero orribili rappresaglie, stragi, una dozzina di anni di combattimenti, leggi speciali, stati d’assedio, lager? E che, quando riuscirono a farci smettere di preferire la morte al loro paradiso, scegliemmo piuttosto di emigrare a milioni (e non era mai successo)? Ignoravo che avrei dovuto studiare il francese, per apprendere di essere italiano: «Le Rovaume d’Italie est aujound’hui unfait» annunciò Cavour al Senato. «Le Roi no- tre anguste Souverain prendpour lul-méme et pour ses successeurs le titre de Roi d’Italie.» Credevo al Giosue Carducci delle Letture del Riiorgimento italiano: «Né mai unità di nazione fu fatta per aspirazione di più grandi e pure intelligenze, né con sacrifici di più nobili e sante anime, né con maggior libero consentimento di tutte le parti sane del popolo». Affermazione riportata in apertura del libro (Il Risorgimento italiano) distribuito gratuitamente dai Centri di Lettura e Informazione a cura del ministero della Pubblica Istruzione Direzione Generale per l’Educazione Popolare, dal 1964. Il curatore, Alberto M. Ghisalberti, avverte che, «a un secolo di distanza (..), la revisione critica operata dagli storici possa suggerire interpretazioni diversamente meditate (...) della più complessa realtà del “libero consentimento” al quale si riferisce il poeta». Chi sa, capisce; chi non sa, continua a non capire. Scoprirò poi che Carducci, privatamente, scriveva: «A Lei pare una bella cosa questa Italia?»; tanto che, per lui, evitare di parlarne «può anche essere opera di carità». (Storia dUtalia, Einaudi). Io avevo sempre creduto ai libri di storia, alla leggenda di Garibaldi. Non sapevo nemmeno di essere meridionale, nel senso che non avevo mai attribuito alcun valore, positivo o negativo, al fatto di essere nato più a Sud o più a Nord di un altro. Mi ritenevo solo fortunato a essere nato italiano. E fra gl’italiani più fortunati, perché vivevo sul mare. A mano a mano che scoprivo queste cose, ne parlavo. Io stupito; gli ascoltatori increduli. Poi, io furioso; gli ascoltatori seccati: esagerazioni, invenzioni e, se vere, cose vecchie. E mi accorsi che diventavo meridionale, perché, stupidamente, maturavo orgoglio per la geografia di cui, altrettanto stupidamente, Bossi e complici volevano che mi vergognassi. Loro che usano “italiano” come un insulto e abitano la parte della penisola che fu denominata “Italia”, quando Roma riorganizzò l’impero (quella meridionale venne chiamata “Apulia”, dal nome della mia regione. Ma la prima “Italia” della storia fu un pezzo di Calabria sui Tirreno). Si è scritto tanto sul Sud, ma non sembra sia servito a molto, perché «ogni battaglia contro pregiudizi universalmente condivisi è una battaglia persa» dice Nicholas Humphrey (Una storia della mente). «Perché non riprendi una delle tante pubblicazioni meridionaliste di venti, trent’anni fa, e la ristampi tale e quale? Chi si accorgerebbe che del tempo è passato, inutilmente?» suggeriva ot i tant’anni fa a Piero Gobetti, Tommaso Fiore che poi, per fortuna, scrisse Un popolo di formiche. E oggi, un economista sta indomito, Gianfranco Viesti (Abolire il Mezzogiorno), allarga le braccia: «Parlare di Mezzogiorno significa parlare del già detto, e del già fallito». Perché tale stato di cose è utile alla parte più forte del paese, anche se si presenta con due nomi diversi: “Questione meridionale”, ovvero dell’aspirazione del Sud a uscire dalla subalternità impostagli; e “Questione settentrionale”, di recente conio, ovvero della volontà del Nord di mantenere la subalternità del Sud e il redditizio vantaggio di potere conquistato con le armi e una legislazione squilibrata. Dopo centocinquant’anni, questo sistema rischia di spezzare il paese. Si sa; e si finge di non saperlo, perché troppi sono gl’interessi che se ne nutrono. Così, accade che la verità venga scritta, ma non sia letta; e se letta, non creduta; e se creduta, non presa in considerazione; e se presa in considerazione, non tanto da cambiare i comportamenti, da indurre ad agire “di conseguenza”. I meridionali si lamentano sempre e i carcerati si dicono tutti innocenti. Il paragone non è casuale; nel bel libro Sull’identità meridionale, Mario Alcaro scrive: «Si può dire che è la difesa di un imputato, di un cittadino del Sud che cerca una risposta alle tante critiche e accuse che gli son piovute addosso». Il pregiudizio (pre, “prima”) è una condanna senza processo. Sospetto che la sua persistenza eviti, a chi lo nutre, un’ammissione di colpa. «L’uomo è un animale mosso in modo determinante dalla colpa» rammenta Luigi Zoja in Storia dell’arroganza. «Un sentimento di colpa può essere spostato, non cancellato.» E il Nord aggressore incolpa l’aggredito delle conseguenze dell’aggressione: rimosso il rimorso, se mai c’è stato. Noi meridionali conosciamo bene tutto questo: non ci indigna nemmeno più; ci stanca: «Senti che la gente ti capisce male, che devi parlare più forte, gridare» spiegava Cechov. «E le grida sono ripugnanti. Parli a voce sempre più bassa, forse tra poco tacerai del tutto.» Fra le urla dell’altro, ormai privo del freno della vergogna che lo rendeva civile. Oggi, nuovi fermenti animano una ricerca di verità storica, non solo meridionale, che viene dal basso, più che dalle aule universitarie o dalla politica, dalle istituzioni. Non é facile capire dove questo possa portare; se a un revanscismo uguale e opposto al razzismo nordista di Lega e collaterali, o a una comune crescita di consapevolezza e conoscenza: un nuovo meridionalismo non solo meridionale (e sarebbe un ritorno alle origini, perché nacque nordico, specie lombardo), per ridare un’anima decente a un’Italia che l’ha smarrita, nel fallimento della politica e la sua riduzione a furia predatoria di egoismi personali e territoriali. Temo, per il pessimismo della ragione e perché i segni vanno in quella direzione, che il peggio prevalga, proprio “per” e non “nonostante” i suoi difetti (è la legge di Greg e Galton, che ricordo in Elogio dell’imbecille). Ma, per l’ottimismo della volontà, spero nel contrario (nemmeno il peggio dura per sempre; e anche i peggiori muoiono). Il Nord, visto da Sud, è Caino: da lì vennero quelli che, dicendosi fratelli, compirono al Sud, a scopo di rapina, il massacro più imponente mai subito da queste regioni (e sì che di barbari ne sono passati). I musei del Risorgimento, nota Mario Isnenghi, nella sua Breve storia dell’Italia unita a uso de, perplessi, sono quasi tutti al Centro o al Nord. Il Nord è dove ho lavorato anni e ho amici, ed è casa mia; come il Sud, dove sono nato; o il Centro, dove abito. Gl’italiani vanno al Nord in cerca di soldi; al Sud in cerca dell’anima. All’estero smettono di essere meridionali o settentrionali e diventano solo italiani (indistintamente, nel pregiudizio altrui, geni e farabutti). Il Sud, visto da Nord, è L’inferno, titolo del libro di Giorgio Bocca che nel 2008 ha scritto sul «Venerdì» di «Repubblica», non so quanto provocatoriamente: «Sì, è vero, sono un antimeridionale... Passo per razzista, e forse lo sono». Nessuno vi trovò da ridire: è o no il Sud, nella geografia, anche morale, il luogo del male Del male senza possibilità di redenzione: ché questo è l’inferno, congrua immagine del «paradiso abitato da diavoli», secondo l’Aiexandre Dumas che accompagnò Garibaldi (e a che prezzo!) alla conquista e al saccheggio. Caino, al contrario, è un’espressione più saggia e attenta alla verità, perché Caino non è perso per sempre, a differenza di chi precipita all’inferno: gli viene offerta una possibilità di riscatto, in un’altra terra. Anche se non la coglie. Né pare vogliano farlo, oggi, tanti che ancora godono del vantaggio ereditato da chi venne a sterminarci. Quando scrivo “i settentrionali”, “i piemontesi”, non intendo generalizzare (come avviene quando si parla di “meridionali”). Alcuni dei più grandi meridionalisti erano del Nord; e gli ascari che in Parlamento votano (dal 1861) contro l’equità per le regioni che li hanno eletti, sono meridionali, Il Sud è stato privato delle sue istituzioni; fu privato delle sue industrie, della sua ricchezza, della capacità di reagire; della sua gente (con una emigrazione indotta o forzata senza pari in Europa); infine, con un’operazione di lobotomia culturale, fu privato della consapevolezza di sé, della memoria. Noi non sappiamo più chi fummo. Ed è accaduto come agli ebrei travolti dall’Olocausto (il paragone non è esagerato: centinaia di migliaia, forse un milione di meridionali furono sterminati dalle truppe sabaude; da tredici a oltre venti milioni, secondo i conteggi, dovettero abbandonare la loro terra, in un secolo): molti scampati ai lager cominciarono a domandarsi se il male che li aveva investiti non fosse in qualche modo meritato. Quando il danno è intollerabile, cercare una colpa, pur assurda, inesistente, che lo renda comprensibile (non giustificabile), diventa una via per non perdere la ragione. Lo storico Ettore Ciccotti parlò di «una specie di antisemitismo italiano» nei confronti degl’italiani del Sud. La Lega, espressione di un nazionalismo locale comico, se non fosse tragico, ne è la manifestazione più sincera. Ed è accaduto che i meridionali abbiano fatto propri i pregiudizi di cui erano oggetto. E che, per un processo d’inversione della colpa, la vittima si sia addossata quella del carnefice. Succede quando il dolore della colpa che ci si attribuisce è più tollerabile del male subìto. Così, la resistenza all’invasore, agli stupri, alla perdita dei beni, della vita, dell’identità, del proprio paese, è divenuta “vergogna”. Solo ora, dopo un secolo e mezzo, le famiglie meridionali che ebbero guerriglieri e patrioti combattenti cominciano a recuperare l’orgoglio dei propri avi, tutti etichettati come “briganti” dall’aggressore (naturalmente, il fenomeno porta all’immeritato riscatto morale pure di chi era brigante e basta. Di malfattori ce ne furono altri: mafiosi arruolati da Garibaldi e piemontesi: ma vennero detti “buoni italiani”. Criminale non è quel che fai, ma per chi lo fai). Un giorno calcolai quanti miei familiari, da parte di padre e di madre, sono emigrati (i pugliesi furono gli ultimi a partire): uno ogni due. Una mia cugina, dopo sei mesi al Nord, tornò per le ferie estive (come alcuni volatili, il periodico riapparire degli emigrati annuncia le stagioni: li chiamavano birds of passage, “uccelli di passaggio”, nell’America dei Nord; e golondrinas, “rondini”, in quella del Sud). Era cambiata: vestiva in modo più appariscente, esibiva un accento non suo, ro re teava stizzosamente le spalle, il mento puntuto e alto. Par la lava malissimo dei meridionali, con astio rovente e ridicolo. «Ma cosa fanno di così terribile?» le chiese mia madre, incuriosita. Lei tacque per lo stupore, si guardò intorno, come a cercare una risposta. Era sorpresa, o ci parve, dalla stupidità della domanda: c’era bisogno di una ragione per parlar male dei meridionali? Così, poverina, se ne uscì con una frase, lei settentrionale da sei mesi, che la bollò per sempre, in famiglia: «Sporcano i monumenti». Come i piccioni; ma, per fortuna, non dall’alto. Cosa le fosse accaduto, lo capii molto più tardi. Uno dei miei migliori amici fu tra i primi arrivati della Lega Nord: abbiamo scoperto di avere la stessa passione per la vela, di aver acquistato (prima che ci conoscessimo) le stesse bar che, di avere una moglie con lo stesso, non comunissimo nome, e di averla sposata lo stesso giorno. Il mio amico si chiama (nooo!) Remo, i suoi nonni sono di Benevento e di Matera •, lui è vissuto a lungo in Argenti na, poi è rientrato in Italia. Sua moglie è veneta, emigrata dal Polesine in Francia (l’isola di famiglia, alla foce del Po, finì sommersa, con fattorie e frutteti: da possidenti a naufraghi); poi è tornata in patria, fra Piemonte e Lombardia. Leghisti accesi entrambi, fino a quando il movimento non assunse connotazioni separatiste. «La Lega è piena di meridionali e di figli di meridionali» mi spiegava Remo. «Sono i più convinti.» Anche quella mia cugina è leghista. Perché? Chi emigra, abbandona una comunità e una terra che figurano deboli e perdenti e mira a radicarsi in un altrove che appare forte e vincente: l’emigrato non appartiene più alla sua gente, e non ancora all’altra (così crede). In cerca di identità, non può che scegliere, lui sradicato e sospeso, la più forte. E questa sua nuova appartenenza è tanto più certa, quanto maggiore è la distanza che frappone fra ciò che era e ciò che vuole essere (in La lingua degli emigrati, si legge che essi «rivivono nel paese di arrivo la loro situazione di “dominati” in termini ancor più drammatici»; e vogliono uscirne. Si educano ad altro da quel che sono. Quando il carnefice ti toglie tutto, l’unico punto di riferimento che ti rimane è il carnefice. Lo imiti). Il settentrionale non ha bisogno di essere leghista; il meridionale al Nord non può farne a meno, se di scarsa radice. Ed è il più attivo nel sostenere un’esclusione che non escluda più lui, ma chi è come lui era. I prossimi leghisti saranno i nipoti degli extracomunitari. «Ma dubito» avverte Piero Bocchiaro, studioso di comportamenti psico-sociali alla Vrije Universiteit di Amsterdam, «che quel che viene mostrato corrisponda a quel che si è.» Come dire: quello dell’emigrato che sposa nuovi costumi è un fare che non corrisponde all’essere; un vivere doppio; non sempre consapevole. Serve rivangare vecchie storie? Non sono così vecchie da aver smesso di far male e produrre conseguenze: la storia di oggi è ancora quella di ieri. La nostra fu interrotta e si può riannodarla solo nel punto in cui venne spezzata. Non si può scegliere la ripartenza che più conviene. Quel che gli italiani venuti dal Nord ci fecero fu così spaventoso, che ancora oggi lo si tace nei libri di storia e nelle verità ufficiali; si tengono al buio molti documenti che lo raccontano. Una parte dell’Italia, in pieno sviluppo, fu condannata a regredire e depredata dall’altra, che con il bottino finanziò la propria crescita e prese un vantaggio, poi difeso con ogni mezzo, incluse le leggi. La questione meridionale, il ritardo del Sud rispetto al Nord, non resiste “malgrado” la nascita dell’Italia unita, ma sorse da quella e dura tuttora, perché è il motore dell’economia del Nord. Né una sostanziale e improbabile restituzione del maltolto riporterebbe le cose com’erano: la perdita di fiducia e civiltà provocata nel Sud dalla potatura dei migliori, con le stragi e l’emigrazione, non è recuperabile in tempi brevi. Certi processi storici e sociali non possono essere invertiti a comando; quello economico forse, sì. Volendo. Ma non si vuole. E i difetti dei meridionali, ne vogliamo parlare? No. Almeno qui, no, visto che del Sud si elencano sempre e solo quelli. Il collega Lino Patruno (Alla riscossa terroni) ne enumera trentadue; ha ragione e credo si possa arrivare a sessantaquattro. Lo scopo di Patruno è onesto: indurre i meridionali alla responsabilità. Ma comincio a temere che su questo si sia tutti d’accordo; mentre i settentrionali si ritengano esentati dal fare altrettanto. Così ho stabilito una personale moratoria: centocinquant’anni bastano; per i prossimi diciannove mesi, anzi ventuno, voglio sentire parlare solo dei difetti dei settentrionali. Perché ogni pecca del Mezzogiorno deve giustificarne la discriminazione, la minorità, e ogni pretesa del Nord, persino sfacciatamente razzista, è intesa come diritto? Perché ogni volta che si parla dell’Italia duale si ignora il meglio del Sud e il peggio del Nord? E dire il meglio del Sud risulta non credibile, dire il peggio del Nord è un affronto? «La memoria è di parte, come parziale è lo sguardo su cui si fonda» rammenta Walter Barberis (Il bisogno di patria). «Ma la truffa Parmalat vale, da sola, più che tutte quelle di Napoli, di tutti i tempi, messe insieme» dice il sindaco che rinnovò Bari, Michele Emiliano. E passano come incidenti di percorso le truffe-latte difese dalla Lega, quelle colossali della sanità lombarda, dai Poggi Longostrevi alle cliniche della morte, gli sfrenati intrecci affaristici di Comunione e Liberazione... «La corruttela politica nostra non è male meridionale più che non sia settentrionale, e non è in essa che si deve cercare il vero carattere distintivo delle opposte parti d’Italia> (Ettore Ciccotti, Mezzogiorno e Settentrione d’Italia, 1898). La Germania Ovest, già nei primi anni di riunificazione con la più povera Germania Est, spese, nei territori orientali, «una cifra cinque volte superiore a quella che è costata in questi cinquant’anni la vituperata Cassa per il Mezzogiorno» (Se il Nord, Agazio Loiero); e ogni anno vi investe quanto gli Stati Uniti, con il Piano Marshall, inviarono dopo la guerra, per la ricostruzione dell’intera Europa. Era l’unico modo per far confluire la ricchezza dell’Ovest dall’altra parte, sino a pareggiare il livello, in vent’anni. Lì si volle; e il di più dell’Ovest non era stato rubato all’Est. Quando una differenza dura così a lungo, si rischia di non attribuirne più le ragioni alle cause che l’hanno generata e la mantengono, ma all’insufficienza di chi la patisce. Così, l’ignorante per ignoranza, il colto per cattiva coscienza, il razzista per ignoranza e cattiva coscienza, trovano più comodo spiegare il sottosviluppo economico dei neri con l’inferiorità della “razza”. Lo si diceva dei lombardi, quando la loro regione era tenuta dagli austroungarici soio come area di consumo di beni prodotti altrove. Il Nord era nella condizione di colonia cui fu condannato il Sud dopo l’annessione e il saccheggio: è quel «che l’economia capitalistica fa a’ vinti nella lotta della concorrenza» (ancora Ciccotti). Anche allora si indagò sugli effetti, per non riconosceme le cause. E si cercò di capire perché il lombardo fosse così incapace, inefficiente, «in una parola, nullo», secondo la sociologa Cristina Belgioioso, autrice dell’indagine sulla pochezza dei «padani» (fra i quali, Cesare Lombroso condusse la ricerca sul «cretinismo perfetto»): i Bossi, i Calderoli e i Gentilini non nascono dal niente. I “Lombardi”, come venivano chiamati tutti gli italiani del Nord, erano giudicati dai francesi “vigliacchi e incapaci”. La Lombardia «era troppo piccola per alimentare un sufficiente mercato interno di scambio, e troppo debole per praticare una politica di espansione industriale fuori dei suoi confini, qualunque fosse l’aiuto dello stato» scrive Luigi De Rosa, in La rivoluzione industriale in Italia. «Non molto migliori risultavano le condizioni industriali del Veneto, e così quelle della Liguria.» Il Sud fu unito a forza, svuotato dei suoi beni e soggiogato, per consentire lo sviluppo del Nord. Cominciarono allora a sorgere fermenti federalisti lombardi: «Quelli che parlano di uno “stato di Milano”, per contrapporlo al resto d’Italia» avvertiva Ciccotti, fanno l’errore di credere «che Milano sarebbe divenuta qual è senza l’unità d’Italia»; e «hanno bisogno di dissimularsi le vere cagioni del male, per vivere de’ frutti del mal di tutti, facendo della diversa lingua o del diverso dialetto e delle diverse latitudini tante ragioni di dissidi». Vivere de’ frutti del mai di tutti: fare stare tutti peggio, per star meglio soltanto loro, con la scusa del federalismo. Si chiama rubare. Ed era un secolo fa. Rammento la conversazione con un collega che stimo, milanese pratico e di successo. Il tema, visto da Nord (lui), si riduceva a: «Invece di lamentarsi sempre, i meridionali potrebbero darsi una mossa»; e visto da Sud (me): «Invece di continuare a spiegarsi il ritardo del Sud con l’insufficienza dei meridionali, il Nord potrebbe interrogarsi un po’ di più sulle cause e non crearne di nuove». Mark Twain diceva che «siamo tutti esseri umani. Non è possibile essere qualcosa di peggio». Da noi, qualche tentativo di dargli torto c’è stato. Salimbene da Parma, ricorda Barberis (Il bisogno di patria), stimava la viltà dei meridionali congenita, perché «homines caccarell/i et merdacoli». E per uno dei fondatori del Partito socialista, il bolognese Camillo Prampolini, gli italiani si dividono in «nordici e sudici». Uno “scienziato”, poi, confermerà la correttezza della definizione, per «questi degenerati che abborrono l’acqua in terra e in mare, che non possono giustificare la loro immensa sporcizia colla immensa miseria in cui il destino li ha fatti nascere». E si capisce che, fosse stato lui il destino, non li avrebbe fatti nascere. Ma il destino non si cambia e persino lo si merita (o no?). Sorge il sospetto che, dopo aver fatto l’Italia con il furto e il sangue, bisognava giustificare il modo. «In quegli anni» leggi in La razza maledetta. Alle origini del pregiudizio antimeridionale, di Vito Teti «il dibattito sulla razza e sull’inferiorità del Mezzogiorno venne condotto in una infinità di saggi, libri, articoli, interventi, a riprova di come esso non rispondesse a una moda, ma a esigenze conoscitive, cariche di un’urgenza politica, sociale, culturale.» La “scienza” lombrosiana (nata da un soggiorno del suo fondatore di soli tre mesi in Calabria: un genio da far impallidire Darwin) avrebbe portato alle attese conclusioni. Così (in ritardo, ché mio padre non mi aveva detto niente: o non se n’era accorto o volle risparmiarmi una vergogna di famiglia), appresi di appartenere a una “razza maledetta”; e seppi che era dimostrata, con «i fatti», l’inferiorità «razziale, fisica e psicologica, sociale e morale degl’italiani del Mezzogiorno, rispetto agli italiani del Settentrione». Facevo veramente schifo e mi era toccato scoprirlo da solo: era meglio quando, con i soldi di tutti, aprivano scuole solo al Nord (l’ha fatto qualcun altro, prima dell’apparente ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini), perché, se i terroni imparano a leggere, possono farsi del male. Che ne sapevo io, di essere, in quanto meridionale, parte di una sottospecie di «degenerati, barbari, degradati, ritardati»? E, in trasferta all’estero, per emigrazione (e che altro, se del Sud?), solo «delinquenti»? Persino in presenza di genio, trattasi di «genialità malata o infeconda» (Pasquale Rossi). E un’intera regione, la Calabria, riassunto di tutto il Sud, poteva essere indicata come «luogo di epilettici-degenerati, di popolazioni superstiziose, tendenzialmente, per caratteri razziali e temperamento etnico, criminali». Come vi sentireste, voi, voi euganei, valdostani o brianzoli, o anche solo marchigiani, persino soltanto molisani, se scopriste una cosa del genere non prima, ma dopo aver sposato una calabrese (ignari di indizi rivelatori, quali «la fronte declive e il diametro bimandibolare accentuato»)? Mettermi in casa una della regione «più odiata d’Italia»! E la poveretta di mia moglie mi avrebbe evitato, se avesse conosciuto lo “studio” che “certificava” (“scientificamente”, e si capisce) l’ozio, l’indolenza, l’apatia, l’accidia dei pugliesi? Per una parte non breve della mia vita, mi sono aggirato per questo paese, inconsapevole della classificazione craniologica, secondo la quale le teste dolicocefale del Sud erano chiaro indice di inferiorità, rispetto alle capocce brachicefale che testimoniavano la superiorità dei settentrionali. Di Borghezio, avete presente? O Renzo Bossi (tutto papà suo), l’intellettuale che riesce a diplomarsi in appena quattro tentativi; dopo di che, per frenare la fuga dei cervelli dall’Italia il Nord l’ha incaricato di “vigilare” sul sistema fieristico lombardo. I meridionali, per Massimo D’Azeglio, erano «carne che puzzava» (la storia tace sul suo alito). Ma si è sempre i meridionali di qualcuno. Ed è un guaio, perché vuol dire che chi stila graduatorie finisce in quelle di altri. E perché si fanno le classifiche, a cosa servono? A degli studenti-cavia, volontari, si chiese di sopprimere, pigiando un bottone, esseri viventi, secondo una scala di prossimità biologica alla specie homo sapiens sapiens. Era tutto finto: non moriva nessuno; ma loro non lo sapevano ed erano convinti di uccidere, in un crescendo omicida, microbi, insetti, invertebrati, pesci, uccelli, serpenti, topi, gatti, cani, scimmie... Alcuni si fermarono agli uccelli; altri trovarono intollerabile accoppare gatti o cani, solo per un esperimento; ci fu chi rifiutò di proseguire solo quando gli fu chiesto di eliminare le scimmie; e chi eseguì anche quel comando. Un esperimento analogo fu compiuto con esseri umani nel ruolo di “vittime”. A studenti-cavie fu chiesto di infliggere scariche elettriche sempre più pericolose. Erano fasulle, ma non lo sapeva chi azionò la manopola sino all’ultimo giro. La scienza, il progresso, la civiltà richiedono qualche sacrificio, e si trova sempre qualcuno disposto a farlo fare ad altri. Anche fra gli esseri umani sono state fatte graduatorie: schiavi, servitori e padroni; poveri e ricchi; negri, sangue-misti e bianchi; meridionali, terroni nordicizzati e settentrionali... Di nuovo: a cosa servono le classificazioni? Gli studenticavia ci hanno dato la risposta: a stabilire chi deve soffrire o morire prima, “per il bene di tutti” (cioè di quelli che hanno deciso a chi tocca prima). Le classifiche sono la giustificazione necessaria, perché questo avvenga senza rimorso, “per una buona ragione”. Napoleone Colajanni ricordava quegli «antroposociologici che, per vedere progredire e migliorare l’umanità, vorrebbero distruggerne almeno una buona metà». Hitler ci provò. Ma quando avviò lo sterminio dei minorati mentali, la Germania insorse e persino la ferocia nazista dovette desistere per le proteste popolari, Le vittime designate erano minorati, ma ariani. Quando si fece la stessa cosa con gli ebrei e gli zingari. la Germania tacque. Nella civile Treviso, un sindaco può proporre vagoni blindati per espellere gli extracomunitari, il loro uso come prede per i cacciatori locali, la rimozione delle panchine dal centro, per impedire che siano contaminate da terga extracomunitarie. E viene rieletto. Ma quando chiude lo stesso salotto cittadino ai cani domestici (e alle loro deiezioni), la popolazione scende in piazza e protesta. Nella scala delle dignità difendibili (o almeno delle sensibilità civili), Treviso pone i cani (e persino le loro feci, a doverla dire tutta) più in alto degli extracomunitari. Non è un’opinione; è un fatto: per Fido si sentirono offesi; per Abdul, non abbastanza. Le classificazioni sono gradini, indicano la direzione della violenza che le genera: dall’alto in basso. La quantità di violenza è proporzionale alla tenuta delle norme del vivere civile. Se queste si indeboliscono, abbiamo visto con quanta facilità si passi dalle sparate comico-razziste dell’intellighenzia balcanica (poco o per niente dissimili da quelle dei Bossi, dei Salvini, dei Calderoli, dei Gentilini) alla pulizia etnica. Il mio saggio amico Fulvio Molinari, giornalista e scrittore, ne ha paura: «Noi triestini l’abbiamo visto succedere alle porte di casa: chi abusa delle parole viene travolto dai fatti. Non si rendono conto». E pensate se, invece, se ne rendono pure conto... Trieste queste cose le percepisce prima e meglio degli altri, per la sensibilità della frontiera. Paolo Rumiz si è mosso da lì per il suo viaggio fra le inquietudini del Nord: e, in La secessione leggera, riporta le parole di un suo amico di Sarajevo: «Non è stato il fracasso dei cannoni a uccidere la Iugoslavia. E stato il silenzio. Il silenzio sul linguaggio della violenza, prima che sulla violenza». Le scritte «Forza Etna», «Forza terremoto» comparse nel Nord (e il cui ricordo commuove e inorgoglisce i leghisti della prima ora, con la memoria degli eroici inizi) celano, sotto un’apparente esagerazione dialettica, un desiderio vero, profondo. Un desiderio criminale: a gente a cui il vulcano distruggeva case, aziende o a cui il terremoto uccideva i familiari, qualcuno augurava di peggio: e per questo otteneva voti, consenso sociale. Vergogna per loro; e per chi consentiva e consente. Quella violenza è solo verbale, ma va nel senso della classificazione, perché quando il Po uscì dagli argini, distrusse case, fece vittime o quando l’ictus paralizzò Bossi, nessuno al Sud scrisse sui viadotti dell’autostrada: «Forza Po» e «Forza ictus». La differenza fra le scritte leghiste e l’assenza di risposta può essere in qualche millennio di storia in più (magari!), o nell’accettazione del ruolo dei vinti (più probabile). L’aggressione leghista ha indotto molti a sentirsi meridionali, a riscoprire la propria storia: che i settentrionali preferiscono ignorare, un p0’ perché credono di aver già capito quel che c’è da capire: un po’ perché non gl’interessa sapere del Sud, che associano a un’idea di cultura inutilmente contorta, elaborata, improduttiva, perdente e pretenziosa (insomma, un misto di invidiuzza e disprezzo per quegl’<intellettuali della Magna Grecia» che sanno un sacco di cose che non servono a niente): un po’ perché, nella ricerca di radici diverse e distanti, piuttosto che coltivare la ricchezza delle proprie, si trastullano con la patacca della “cultura celtica”. Comprensibile la “voglia di passato”, ma perché forzarne un aspetto per adattano a un desiderio del presente? Si rischia la caricatura, come il kilt, il gonnellino degli scozzesi, che è un’invenzione folcloristica recente; o il «sole delle Alpi», quel fiore a sei petali, scelto dai leghisti quale loro simbolo, ma diffuso da sempre un po’ ovunque, e abbondantemente nel Mediterraneo: era già sugli scudi dei guerrieri di Puglia (però zona-Nord, eh?), più di tremila anni fa. Sciur Asterix de la Briansa, quello è il sole del Tavoliere! Ch’el vaga schisc anca (Ci vada piano pure) con l’avo barbarico: al Nord lasciò il nome a una regione, mentre al Sud i suoi stati e le sue leggi nei tribunali sopravvissero ancora per quasi tre secoli, e con tale forza ed estensione (parte della Campania, della Basilicata, della Puglia e della Calabria) che, nelle mappe dell’epoca, la “capitale di Longobardja” era Bari. Terun! Ma questo libro parla della costruzione della minorità del Mezzogiorno, così, tanto vale dirlo subito: il pur più duraturo stato meridionale di quei barbari che vennero a civilizzarsi in casa nostra passò alla storia con il nome di “Langobardia Minor” (e te pareva!). «Quando non si vuoi fare qualcosa per capinla,» ha scritto Marco Paolini «si trasforma la storia in geografia.» E accettiamo che, contro il valore dei fatti, la geografia divenga comunque vincente, se segna Nord e comunque perdente, se segna Sud? E che la latitudine misuri il valore degli uomini, delle loro azioni, dei loro diritti? Ma non è esattamente questa l’essenza unica, piena, del razzismo? Non è nella facilità ditale promessa il suo successo con gli stupidi e gli egoisti? «Le identità plurali sono percepite dai nazionalismi come altrettante minacce» scrive Predrag Matvejevic in Mondo ex e tempo del dopo. E spiega che è proprio nelle «nazioni venute tardi», come l’Italia, che «queste malattie di identità» colpiscono più facilmente. Il Settentrione ne patisce, perché scellerate scelte politiche ed economiche hanno (de)portato al Nord alcuni milioni di meridionali, con i loro dialetti, le loro diete, le loro abitudini. Per quanto essi abbiano cercato di assimilare nuovi accenti e costumi, i propri hanno influito su quelli altrui; sapori e amori si sono fusi, generando un meticciato avvertito come minaccia per l’identità del Nord. La Lega, l’invenzione di riti celtico-padano-veneti sono furbate politiche per trasformare in voti il bisogno di riscoprire radici e armarle di razzismo («Decidemmo di sfruttare l’antimeridionalismo diffuso in Lombardia, come in altre regioni del Nord» ammette lo spudorato Umberto Bossi nel Mein Kampf della Lega, il suo Vento dal Nord). E ne patisce il Sud, che ha meglio conservato il colore delle radici (indebolite dall’esodo, ma non stemperate da tradizioni diverse), pur se nei comportamenti è stato indotto a rinnegarle, a ritenerle superate, scadenti, sconfitte. Come per gli ebrei convertiti a forza, gli è toccato sentire in un modo e agire in un altro. Finché, col tempo e le generazioni, quel sentire si è fatto flebile; salvo riaccendersi, per l’offesa, e proporsi “contro”. La tardiva scoperta di essere meridionale mi ha rivelato un assurdo: i meridionali traggono il nome da quel che gli manca: il Sud. E pure quando la geografia gliene offriva uno (le infelici avventure contadine dei siciliani in Libia, in Tunisia), la storia glielo ha negato. Il mondo dei meridionali ha una direzione in meno: più giù di dove sono non si può andare, restando “a casa”. Il Sud porta con sé un’idea di gioia e di nostalgia; se la prima è data dal clima, dalla natura, l’altra (come accade, a volte, dopo un’amputazione) viene dal dolore dell’arto fantasma: fa male quello che non c’è. Il Sud. Ed è una negazione pesante. L’estremo lembo di alcune regioni, che il sentimento proprio e altrui percepisce “al confine del mondo”, è chiamato, in Galizia come in Cornovaglia o in Bretagna: Finisterrae. In Italia un posto così è in Puglia, a Santa Maria di Leuca: lì il mare si alza come un muro, a chiudere il discorso. La Puglia è un dito di terra lungo quasi quattrocento chilometri, ma largo poco più di trenta, verso Leuca. Significa che non solo ci manca il Sud (Finisterrae), ma altre due direzioni, l’Est e l’Ovest, sono appena abbozzate. Si intuisce altro, da qui, a cui non pensi se hai intorno un orizzonte completo e percorribile. Può trattarsi della direzione negata della vita. Un settentrionale può volgere gli occhi e cercarsi il futuro in ogni parte. Un meridionale, no: è costretto a guardare solo verso Nord: dalla storia, dall’economia figlia di quella storia, e persino dalla geografia. In realtà, nemmeno il settentrionale ha davvero scelta; se rinuncia al Sud, come quattro scriteriati vorrebbero, cade nella nostra condizione (ma in modo artificioso, falso, quindi sterile): quella de- gli amputati. Mentre a noi tocca un arto fantasma che ti rende fertile (perché non è la tua volontà a privartene), a prezzo di un dolore necessario: chi non raggiunge e comprende Finisterrae (la parte che manca) non sa il suo limite, non sa quel che vale. E si vede.