Rodotà
Dibattito
sul laicismo
Religione e
natura come rifugio da un mondo senza cuore, come unica via per fondare
certezze e recuperare identità perdute. Questo orientamento si diffonde,
definisce posizioni politiche e vuole ispirare la legislazione. Sta nascendo
uno scontro di civiltà all’interno dello stesso Occidente? Se si apre un
grande libro, quello dedicato nel 1935 da Paul Hazard alla “crisi della
coscienza europea” tra Seicento e Settecento, si coglierà senza fatica (se
non quella della lettura) il modo ricco e multiforme con il quale l’Europa
tutta riprese la sua “recherche éternelle”, senza lasciarsi impaurire dal
mondo, senza richiudersi in antiche certezze, cosciente che il solo appello
alla Cristianità non poteva offrirle, come altre volte, la via d’uscita
dalla crisi. “Che cos’è l’Europa?” si domanda alla fine Hazard. E dà una
risposta che, oggi più che ieri, merita considerazione: “Un pensiero che mai
si accontenta”. Non a caso aveva ricordato le istruzioni che uno scrittore
secentesco, Trotti de
la Chétardie,
dava al “giovin signore”:
“Se siete
curioso, viaggiate”. Conoscenza degli altri, apertura continua degli
orizzonti, come condizione della stessa sopravvivenza politica, culturale,
morale. Su questa radice storica si fonda la sua ineliminabile laicità, alla
quale ci richiamava Eugenio Scalfari nel suo intervento su “Repubblica” del
7 novembre 2004. L’Europa sta cli nuovo cercando se stessa, e manifesta
l’intenzione di misurarsi con un “nuovo ordine delle cose” che gli schemi
del passato non riescono più a contenere. Non può giovarle la pigrizia
intellettuale, se vuole uscire dalla nuova crisi che la sua coscienza sta
attraversando. Sì che, piaccia o no, l’ambizione di scrivere una
Costituzione in tempi così incerti è un atto di coraggio, o almeno il segno
di una consapevolezza. Più che un punto di partenza, il Trattato
costituzionale è una sfida a se stessa di una Europa che non può pensarsi
fuori del suo futuro. Ma può un’Europa senz’anima e senza identità, senza
valori forti, cimentarsi con questa sfida? Questa critica, tutta ideologica,
non regge ad una prova dei fatti che proprio la lettura del Trattato
costituzionale irrobustisce. Era molto più povera di valori l’Europa di
ieri, quella dei trattati di Maastricht, Amsterdam, Nizza, che non
riconosceva tra i propri principi l’eguaglianza e la solidarietà, oggi
affermati già nel Preambolo della Costituzione e nella Carta dei diritti
fondamentali. Qui viene recuperato un aspetto essenziale dell’i1 dentità
europea, nel quale si congiungono diritti individuali e legami sociali, qui
si coglie il passaggio dall’Europa dei mercati a quella dei diritti, così
smentendo anche il pregiudizio di chi si ostina a dire che la nuova Europa
sarebbe segnata da una definitiva caduta nel liberismo. L’idea europea dei
diritti, per la convivenza tra individualismo e solidarietà che esprime,
costituisce ancor oggi il vaccino più forte contro ogni specie di
fondamentalismo. Ancor meno sostenibile è la tesi che descrive una
costituzione insensibile ai valori della persona.
È
vero l’esatto contrario. Non v’è testo costituzionale che
affermi con tanta nettezza “il molo centrale della persona”, posta
dall’unione “al centro della sua azione”, riconosciuta nella sua inviolabile
dignità. Giunge così a compimento una vera “costituzionalizzazione della
persona”, tutelata anche contro i nuovi rischi dell’innovazione scientifica
e tecnologica dai primi articoli della Carta. Tutto questo vale poco o nulla
solo perché non si è voluto dare rilievo esplicito alle “radici cristiane”
dell’Europa? Ma questo sarebbe un peccato che accomuna gli autori della
Costituzione e della Carta dei diritti ai grandi padri dell’Europa, i
cattolici De Gasperi e Adenauer tra gli altri, che, quando nel 1950 si
scrisse il Preambolo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, fecero
con sobrietà riferimento solo al “patrimonio comune di ideali e tradizioni
politiche”. La stessa consapevolezza che aveva indotto il cattolico Giorgio
La Pira,
nell’Assemblea costituente, a non insistere su un suo emendamento, che
avrebbe voluto premettere al testo costituzionale del 1948 la formula “In
nome di Dio il popolo italiano si dà la presente Costituzione”. Proviamo a
considerare due delle conseguenze che avrebbe prodotto un esplicito
riferimento alle radici cristiane. Poiché in molti paesi il Trattato sarà
sottoposto a referendum popolare, non v’è dubbio che anche questo aspetto
sarebbe divenuto argomento di polemica. Qualche anno fa, Oscar Luigi
Scalfaro giudicò un atto di “enorme saggezza” l’aver evitato che su questo
tema vi fossero divisioni quando si scrisse la nostra Costituzione. Non si
può “far votare su Dio”, aggiunse. La costituzione europea non è
indifferente alle “eredità religiose”, ricordate fin dal Preambolo.
Stabilisce, anzi, la necessità di “un dialogo aperto, trasparente e
regolare” con le chiese. Ha voluto saggiamente evitare che il fattore
religioso tornasse ad essere elemento di un conflitto: in questo è, in modo
lungimirante, laica. Se, poi, le radici cristiane fossero state elevate a
principio costitutivo dell’identità europea, questo avrebbe imposto una
ricostruzione dell’intero sistema costituzionale europeo anche in questa
chiave. Avrebbe così ricevuto legittimazione l’atteggiamento della Chiesa
che sottolinea con forza crescente il dovere dei parlamentari cattolici di
subordinare i loro comportamenti alle direttive della dottrina. Da obbligo
di fede per alcuni questo sarebbe divenuto, per tutti, obbligo
istituzionale. Ogni decisione ritenuta in contrasto con la radice cristiana
dell’Unione sarebbe stata sospetta di ifiegittimità. Oggi si enfatizzano i
timori del relativismo, di un’Europa non ancorata a valori forti e perciò
indebolita nella competizione tra culture e disarmata davanti alla potenza
della tecnica, per
invocare la religione come elemento costitutivo
dell’identità e vedere nella natura l’unico baluardo
• contro la “manipolazione” dell’umano. Ma l’im posizion autoritaria di
valori non condivisi diviene sempre un pericoloso moltiplicatore di
conflitti. La verità è che si stanno confrontando due idee di Europa e della
sua costruzione. In una si esprime
insicurezza, fragilità e, spaventati, non ci si rifà alla storia, ma ci si
aggrappa al passato, ritrovando nella tradizione religiosa l’unico
fondamento.
Nell’altra, storia e futuro si congiungono e si apprestano strumenti
“prospettici”. Una costituzione è lo strumento laico di produzione di valori
forti e condivisi, adeguati ai tempi che vivremo. Più che pensare in termini
di “identità”, dobbiamo pensare alla “sfera pubblica europea”, la cui
nascita era stata annunciata daJuergen Habermas nei giorni in cui l’Europa
era attraversata dalle manifestazioni contro la guerra all’Iraq, e che oggi
si materializza nelle stesse accese polemiche sul Trattato costituzionale e
sulle scelte del Parlamento europeo. Sfera pubblica europea vuol dire
creazione di un comune spazio pubblico di confronto, dove le diversità che
ancora segnano profondamente l’Europa possano riconoscersi reciprocamente,
rendendo possibile il rafforzarsi dei valori già individuati dal Trattato
costituzionale, tutt’altro che deboli, e la progressiva adozione di
politiche comuni. Ma sembra che la discussione, la regola laica del libero
confronto, spaventino. Così, prigionieri dei timori, anche giustificati,
destati dall’innovazione scientifica e tecnologica, si propone una sorta di
alleanza tra natura e religione, identificata quest’ultima come presidio
dileggi naturali che la volontà di potenza dell’uomo mai dovrebbe violare.
È
una posizione debole sotto il profilo culturale,
destinata ad accrescere il rischio di “scontri tra assoluti”, e quindi
socialmente dirompente e politicamente perdente. La vicenda della legge
italiana sulla procreazione medicalmente assistita è istruttiva.
È
il caso di una legislazione ideologica, che pretendeva anche
di imporre un modello imitativo della natura, e che non ha retto alla prova
della realtà. Non è stata solo contestata politicamente. Si è rivelata per
molti versi inapplicabile e, attraverso il “turismo procreativo”, è stata
subito delegittimata. La propensione a ricorrere alle tecniche
proibizioniste si rafforza quando l’innovazione scientifica fa nascere il
timore di una “manipolazione” della natura umana. Si propone così di imporre
in ogni caso il rispetto della “lotteria genetica”, di garantire che sia•
soltanto il caso a governare l’intero processo procreativo, di riconoscere
come diritto fondamentale quello ad “ereditare un patrimonio genetico non
manipolato”. Ma, invocando questo diritto, e in nome della lotteria
genetica, si dovrebbe vietare una terapia genica che elimini il rischio di
trasmissione da madre a figlia della propensione a sviluppare il cancro al
seno? La più severa legge in materia, quella tedesca sulla tutela degli
embrioni, anupette la scelta del sesso per evitare la nascita di bambini con
determinate malattie genetiche, con un effetto di rassicurazione che riduce
il ricorso all’aborto.
Le forzature
ideologiche e le impostazioni astratte non facilitano l’analisi della realtà
e la stessa previsione di limiti, dove si rivelano necessari, perché siamo
di fronte ad innovazioni che incidono sull’antropologia profonda del genere
umano. Anche qui, però, non teniamo gli occhi rivolti al passato. Rendiamoci
conto, ad esempio, che imporre il rispetto del “caso”, là dove è stato
cancellato dalla scienza, non significa ricostituire “lo stato di natura”,
bensì disciplinare in modo socialmente nuovo la libertà e le relazioni tra
le persone. Vi è una curiosa versione della fine della storia in questo
disperato bisogno di approdo definitivo sui lidi della religione e della
natura. Ma non si può cancellare la relazione tra natura e storia, tra
natura e cultura. Nè l’Europa nuova, nè un mondo più umano, possono nascere
da una regressione culturale.
8 novembre
2004 http://download.repubblica.it/pdf/diario/26042005.pdf
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La
libertà della menzogna
STEFANO
RODOTA
Lo
sappiamo. "Ne uccide più la lingua che la spada", "le parole sono pietre",
"i cattivi maestri"... Ma il passaggio dalla saggezza popolare,
dall´indignazione civile, dal rifiuto culturale alla norma penale è
complicato, e può risultare distorcente.
Si può
mentire sulla storia?
democrazia e negazionismo
Perché è
difficile decretare per legge la condanna di opinioni aberranti.
In che
modo una società matura deve esercitare il controllo sulle verità storiche?
Hanno
ragione gli storici con il loro Manifesto di critica alla proposta del
ministro della Giustizia di far diventare reato la negazione della Shoah: un
problema sociale e culturale così grave non si affronta con la minaccia
della galera. Servono una battaglia culturale, una pratica educativa, una
tensione morale.
Che cosa è in gioco? La libertà di manifestazione del pensiero certamente,
dunque uno dei valori fondativi della democrazia, affidato a mille testi e
mille norme, dal Primo emendamento alla Costituzione americana all´articolo
21 della nostra Costituzione, all´articolo 11 della Carta dei diritti
fondamentali dell´Unione europea. Ma siamo di fronte anche a interrogativi
che riguardano il ruolo della politica, la distribuzione di poteri e
responsabilità tra le istituzioni, la libertà di ricerca, le dinamiche
sociali, l´uso corretto dello strumento giuridico. E tutto questo deve
essere anche valutato tenendo conto che nel mondo tira una brutta aria di
censura, che si coglie subito considerando le molte manifestazioni di
fastidio verso Internet, che si ritiene veicolo di contenuti inaccettabili.
Se Popper aveva chiamato la televisione "cattiva maestra", molti sono
inclini a ritenere che la Rete come maestra sia pessima. Sottolineo questo
punto perché l´introduzione di un reato (o di una aggravante) di
negazionismo può innescare derive proibizioniste e censorie verso altre
opinioni ritenute socialmente non accettabili.
Le critiche degli storici non sono soltanto sacrosante nel segnalare i
rischi per tutti di una "verità di Stato", che può tirarsi dietro un´etica
di Stato e altro ancora. Sono rafforzate da molti altri elementi, a
cominciare da quelli tratti dall´esperienza dei paesi che già hanno
introdotto il reato di negazionismo e che, malgrado ciò, continuano a
conoscere manifestazioni gravi di antisemitismo e presenze politiche di
gruppi variamente espressivi di spiriti nazisti. L´Austria ha condannato
David Irving, ma non era riuscita a evitare Haider.
Siamo di fronte a una di quelle misure che si rivelano al tempo inefficaci e
pericolose, perché poco o nulla valgono contro il fenomeno che vorrebbero
debellare, e tuttavia producono effetti collaterali pesantemente negativi.
Le sole strategie giuridiche valgono poco di fronte a fenomeni che hanno
radici culturali e sociali profonde, che non possono essere recise con un
gesto formale. L´approvazione di una norma, anzi, può trasformarsi in un
alibi o in un diversivo.
Vi è un problema grave, gravissimo come il negazionismo? Ma io ho le carte
in regola e la coscienza pulita: ho usato lo strumento giuridico più
potente, la definizione di quel comportamento come reato. E quindi avverto
meno, faccio diventare secondaria quella che, invece, è la vera strategia di
contrasto: l´informazione corretta e incessante nella scuola e fuori, la
discussione aperta, i comportamenti politici conseguenti, isolando sempre e
comunque quelli che, individui o gruppi, affidano direttamente o
indirettamente al negazionismo la loro identità pubblica. Voto in Parlamento
una legge e mi salvo l´anima. E poi, se qualche gruppetto intriso proprio di
quelle convinzioni mi serve per vincere le elezioni, non esito a farlo
entrare nella mia coalizione. La vera lotta al negazionismo passa attraverso
la rinuncia al realismo politico, alle sue convenienze e alla tentazione di
non condannare alcune manifestazioni perché "minori", attraverso
l´intransigenza morale e la responsabile e continua confutazione d´ogni suo
argomento. Non servono rimozioni, ma un impegno quotidiano.
Guardiamo alla storia italiana. Non sono stati il divieto costituzionale di
ricostituzione del partito fascista, la legge Scelba e il reato di apologia
del fascismo a impedire che il fascismo trovasse condizioni propizie per
prolungare la propria sopravvivenza. Questo è avvenuto grazie a una azione
politica e culturale che ha avuto nell´antifascismo un riferimento forte,
che ne ha fatto un valore simbolico e un criterio di valutazione dei
comportamenti, isolando soggetti politici ed impedendo anche che i contatti,
più o meno velati o sotterranei con alcuni di essi, ottenessero
legittimazione pubblica. So bene di dire cose che non sono in sintonia con
lo spirito dei tempi. Ma le cose sono andate proprio così. E forse anche gli
eredi del Movimento Sociale Italiano dovrebbero essere grati a chi
tenacemente li volle fuori dall´arco costituzionale e, così facendo, impedì
loro di sentirsi a pieno titolo parte del sistema politico, obbligandoli ad
approdare in qualche modo ai lidi della democrazia.
La politica non può allontanare da sé la questione, per di più usando mezzi
che rischiano di far apparire come perseguitate persone culturalmente e
moralmente condannabili. L´alt agli estremismi non passa attraverso leggi
speciali. Lo ha visto bene il rabbino Elio Toaff, con la memoria di chi ha
conosciuto i guasti prodotti da questo uso delle norme.
Il Governo e il Parlamento non possono ritenere che il problema si risolva
dislocandolo in un´altra area istituzionale, facendolo divenire un affare
dei giudici. Vi è una sapiente, e non nuova, schizofrenia istituzionale in
tutto questo. Si scaricano sui giudici conflitti sociali e culturali, e poi
ci si lamenta che i giudici hanno troppo potere, che "fanno politica". E che
altro dovrebbero fare, quando la politica non fa la sua parte?
Né dimissioni della politica, dunque, né sottovalutazione del negazionismo,
né paura della libertà. L´impegno nella ricerca, l´interminata fatica della
critica, il libero manifestarsi delle opinioni non possono mai essere
considerati come un intralcio da rimuovere. Fanno parte della fatica della
democrazia. Ricordiamo quello che T. B. Smith non si stancava di ripetere ai
suoi concittadini americani: «I mali della democrazia si curano con più
democrazia».
Stefano Rodotà: Occorre ridisegnare la
Carta dei diritti della persona
Verso
la fine del 1847, quattro mesi prima della pubblicazione del Manifesto del
Partito comunista, Alexis de Tocqueville annotava nei suoi Souvenirs:
“presto la lotta politica si svolgerà tra chi possiede e chi non possiede:
il grande campo di battaglia sarà la proprietà”. Quel conflitto è
continuato, ininterrotto, e continua ancora, anche se al centro
dell’attenzione non è più la terra, ma piuttosto il vivente e l’immateriale.
Il campo di battaglia si è allargato. È diventato il mondo intero, e
abbraccia molti altri diritti. Viviamo in un mondo che si proietta “oltre lo
Stato”, dove ritroviamo un “diritto sconfinato”. Sopravviveranno i diritti
fondamentali della persona in questo nuovo contesto? Proprio la dimensione
mondiale, non accompagnata da istituzioni adeguate, li minaccia.
L’irresistibile marcia della tecnica sembra svuotarli della loro funzione di
garanzia della libertà e dell’autonomia individuale. La transizione verso il
post-umano rischia d’indebolirli nella loro stessa natura, nel loro essere
diritti dell’uomo, “human rights”.
Movimenti contraddittori. La globalizzazione allarga anche la scena sulla
quale condurre “la lotta per il diritto”. L’innovazione scientifica e
tecnologica ha portato ad un allungamento del catalogo dei diritti.
L’evoluzione, che si coglie in documenti internazionali e leggi nazionali,
induce giustamente a parlare di una “costituzionalizzazione della persona”.
E l’attenzione sempre più intensa per i diritti fondamentali modifica i
termini della discussione, fa affiorare nuove questioni e nuovi soggetti.
Di questo tema non ci si può liberare con una mossa ideologica o guardando
ad una realtà in continuo mutamento con schemi giuridici invecchiati. Non si
può ridurre la prei fondamentali sulla scena del mondo ad un tentativo di
colonizzazione culturale e politica di chi vive fuori del cerchio stretto
dell’Occidente. Non si può ritenere irrilevante la previsione di vecchi e
nuovi diritti in documenti come la Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea solo perché non hanno ancora un formale valore giuridico
formalmente vincolante.
Lo stesso modo di affrontare criticamente i problemi della globalizzazione
si è, almeno in parte, modificato. Al rifiuto radicale (“no global”) si va
sostituendo una strategia più articolata: non una globalizzazione attraverso
i mercati, ma appunto attraverso i diritti. Un segnale chiaro in questa
direzione era venuto dalle parole con le quali l’Unione europea aveva
motivato la necessità di una carta dei diritti, sottolineando che questi
rappresentano una “condizione indispensabile per la sua legittimazione”.
Conosciamo le difficoltà che la costruzione europea continua ad incontrare.
Ma quelle parole vogliono dire proprio che essa non può proseguire se
continua a legarsi soltanto alla logica di mercato. Senza una vera
fondazione nei diritti, l’Europa non continuerà soltanto a soffrire d’un
deficit di democrazia, ma addirittura di legittimità. Un problema, questo,
che si avverte ormai nel vero spazio planetario unificato dalla tecnologia,
Internet, per il quale si è appena chiesta proprio una carta dei diritti.
La tutela globale della persona, dunque, non può fermarsi agli spazi
nazionali, ai soli spazi materiali, e neppure al modo abituale di segnare i
confini del suo corpo. Anche questo appare sconfinato, con le informazioni
che ci riguardano disperse in mille banche dati nei luoghi più diversi del
mondo. Di nuovo la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea può
servirci da guida, riformulando le regole sull’integrità fisica e mentale in
forme adeguate alle innovazioni scientifiche e tecnologiche e affiancando ad
esse un diritto autonomo, quello alla protezione dei dati personali, che dà
evidenza e tutela al “corpo elettronico”. Siamo di fronte ad una nuova idea
integrale della persona, che ne comprende le tre dimensioni - fisica,
psichica, virtuale. Nel mondo mutato, il “doppio corpo” non è più quello
rivelato per il re medievale da Ernst Kantorowicz, ma diviene attributo e
problema d’ogni persona.
Nuovi spazi, diritti, oggetti. Ma pure soggetti nuovi. Negli spazi giuridici
compaiono le generazioni future, portatrici di diritti legati alla biosfera,
alle risorse materiali, all’ambiente. E accanto a loro, sulla scena del
mondo si materializza l’umanità. Questa è indicata come titolare di nuovi
patrimoni comuni, la spazio extra-atmosferico e il fondo degli oceani,
l’Antartide e il genoma umano, i siti indicati dall’Unesco; dà il nome al
diritto d’”ingerenza umanitaria” e ai “crimini contro l’umanità”. Ma
immediatamente pone un problema: chi può parlare e agire in nome
dell’umanità o delle generazioni future?
Il rischio di derive autoritarie è evidente, testimoniato dall’uso del
diritto di ingerenza umanitaria come nuovo fondamento delle guerre
d’aggressione. Un’ombra difficile da dissipare, ma che non può cancellare il
fatto che il riferimento all’umanità significa anche limite alla sovranità
degli Stati, che non possono impadronirsi di una porzione della luna o
dell’Antartide, e ostacolo alla rapacità degli interessi economici che
vogliono distruggere un ambiente o brevettare il vivente in qualsiasi sua
forma. Si trasforma in impegno di solidarietà dei paesi più ricchi. Si
affida a corti internazionali competenti per crimini contro l’umanità.
Significa allargamento del principio di precauzione, e creazione di nuovi
beni comuni e di nuove possibilità di accedervi. Dietro l’astrattezza della
nozione di umanità scopriamo così diritti, obblighi e responsabilità di
soggetti concreti.
La questione dei beni comuni è essenziale. Il senso della battaglia, di cui
parlava Tocqueville, è profondamente cambiato. Non riguarda soltanto un
conflitto intorno a risorse scarse, oggi l’acqua più ancora che la terra.
Nella dimensione mondiale assistiamo ad una creazione incessante di nuovi
beni, la conoscenza prima di tutto, rispetto ai quali la scarsità non è
l’effetto di dati naturali, ma di politiche deliberate, di usi impropri del
brevetto e del copyright, che stanno determinando un movimento di “chiusura”
simile a quello che, in Inghilterra, portò alla recinzione delle terre
comuni, prima liberamente accessibili.
Dobbiamo ripetere che la tecnologia apre le porte e il capitale le chiude?
Certo è che intorno al destino di nuovi e vecchi beni comuni si gioca una
partita decisiva per l’eguaglianza. Protagonisti di questa vicenda non sono
singoli o gruppi. E’ un’entità anch’essa nuova che, mimando la formula
“economia mondo” di Immanuel Wallerstein, è stata definita “popolo mondo”.
Un popolo mobile, che si aggira nel mondo globale sempre più alla ricerca
dei luoghi che più offrono opportunità, in un incessante “turismo dei
diritti”, che dalle sue forme più antiche, l’emigrazione e la ricerca
d’asilo politico, si trasforma in turismo procreativo o in richieste d’asilo
da parte di donne che, se rimandate nel paese d’origine, rischierebbero
mutilazioni sessuali.
Sono dunque persone in carne ed ossa che, anche a prezzo di discriminazioni
e persecuzioni, si fanno banditori nel mondo di diritti percepiti come parte
dell’umanità di ciascuno. Nasce così una carta dei diritti spontanea e
diffusa, specchio di esigenze reali, frutto di un ininterrotto dialogo tra
culture, e non imposizione dall’alto. Anche con qualche paradosso. Il
turismo dei diritti è reso possibile dal fatto che diversi Stati regolano in
maniera diversa le stesse situazioni, rendendo possibile l’accesso alle
tecnologie della riproduzione o la ricerca sulle cellule staminali che altri
proibiscono. La sovranità nazionale come strumento della globalizzazione dei
diritti?
Ma vi è chi percorre il mondo per trovare le maglie deboli della rete di
protezione dei diritti. Gli antichi “paradisi” fiscali sono accompagnati da
quelli che vanificano la protezione di dati personali. Imprese vanno alla
ricerca dei luoghi dov’è facile lo sfruttamento dei lavoratori, nulla la
tutela dei minori, agevole la sperimentazione dei farmaci sull’uomo. Astuti
agenti di viaggio organizzano l’orribile “turismo sessuale”. La prospettiva
è completamente rovesciata. La pura logica di mercato aggredisce la persona
nei luoghi dove maggiore è la sua debolezza. Si parla di paradisi, si trova
l’inferno.
Torna il bisogno di punti fermi di riferimento solidi, di una rinnovata
attenzione per dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà, nel tempo della
tecnica e del mondo globale. Tutto questo evoca un altro soggetto, i giudici
e le corti che, in assenza di un governo mondiale, si presentano come quelli
che già possono offrire tutele anche in situazioni difficili, ricercando
ogni strumento disponibile. Lo stanno facendo quei magistrati che danno più
forte tutela ai diritti sociali ricorrendo alla Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea. Di fronte alle debolezze della politica,
saranno i
saranno i giudici a promuovere l’Europa dei diritti?
“la Repubblica”, 29
novembre 2006
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Se
lo scontro
di civiltà
è dentro
i nostri confini
STEFANO R000TÀ
Lo SCONTRO di civiltà è tra noi,e in esso si riflette la regressione
culturale e politica che affligge le cose italiane, Lo dice
l’'incidente”,mille volte annunciato da altri atteggiamenti leghisti,
che ha avuto come protagonista l’ex ministro Calderoli. Lo dice il modo
in cui è arrivata in Italia la discussione, anch’essa annunciata da
tempo, sui diritti in un mondo invaso dalle innovazioni
scientifiche,e,tecnologiche, subito,divenuta prigioniera di
sempliflcazioni inacceffabili e di violenze ideologiche. Lo dice la
lunga aggressione al sistema dei valoti costituzionali, dei quali
l’attuale maggioranza ha sempre mostrato di volersi liberare, ben al di
là della stessa riforma della seconda parte della Costituzione. E
altro,e altro...
Ci aggiriamo tra macerie. E la ricostruzione non sarà facile, a
giudicare anche dalla decisione di entrambi gli schieramenti di
ricorrere a candidature (ma chiamiamo le cose con il loro nome: elezioni
annunciatissime) di persone che trasferiranno in Parlamento
intransigenze e chiusure. E' possibile individuare qualche modesta
contromossa, che possa riportare nella discussione civiltà e dialogo,
rispetto delle persone e della loro libertà?
1) Rinunciare alla nefasta invocazione della reciprocità. Quella che,
tanto per fare un esempio, spinge a dire che il musulmano vedrà
pienamente rispettate le proprie credenze e pratiche religiose solo
quando nel suo paese d’origine vi sarà pari rispetto per i cattolici.
Poiche si ama tanto riandare allo Stato liberale, bisogna allora
ricordare quel che avvenne negli anni successivi all’Unità,quando si
scriveva il nuovo codice civile e Pasquale Stanislao Mancini fece
prevalere proprio il principio per cui allo straniero veniva
riconosciuta una serie di diritti senza alcuna condizione di
reciprocità. Un segno, all’epoca, di straordinaria civiltà, che venne
cancellato dal fascismo con il codice deI 1942. Oggi i richiami
espliciti o impliciti alla reciprocità sono molto più di un ostacolo
posto ai diritti degli altri.(.........)
SONO la negazione di un'idea di cittadinanza come patrimonio della
persona, che ciascuno porta con se indipendentemente dal luogo in cui è
nato o dove vive. Sono il segno di una cieca chiusura identitaria, di
una contemplazione delle proprie radici che induce a vedere l'altro come
estraneo, come entità da tenere lontana, e che perciò favoriscono nuovi
conflitti. No alla reciprocità, dunque.
2) Rinunciare all´uso violento della
legge e del diritto. È la linea che ha prevalso in questi anni, e che
rischia di proseguire nel futuro. Si chiudono porte e si rifiuta di
aprirne nuove. Questa è la storia del colpo di mano sulle norme in
materia di uso di stupefacenti, della legge sulla procreazione
assistita, dell´ostilità ai Pacs e al testamento biologico. La
previsione di regole e limiti non trascina necessariamente con sé la
trasformazione della legge in strumento per imporre un particolare punto
di vista, un´ideologia, per far assumere allo Stato una marcata
connotazione etica. Così le leggi diventano strumenti oppressivi o vani
programmi, ai quali si cerca di sfuggire, come già fanno le donne che
vanno all´estero per ricorrere a forme di procreazione assistita vietate
in Italia o coloro che espatriano verso luoghi dove morire con dignità.
Una legge che ignora umanità e pietà delegittima sé e il Parlamento che
l´ha votata, allontana i cittadini dalle istituzioni. Invece di
blindarsi dietro certezze ideologiche, bisognerebbe leggere parole come
quelle adoperate, pochi giorni fa, da un giudice francese che ha
stabilito che non si dovesse procedere contro la madre che aveva
esaudito la volontà del figlio d´essere liberato da terribili sofferenze
e di morire con dignità, compiendo così quello che proprio per il figlio
rappresentava "l´ultimo atto d´amore". No all´uso violento del diritto,
dunque. Ma pure sì ad un ricorso ad esso che riconosca le ragioni della
persona, e la renda a un tempo più libera e più responsabile. 3) Basta
con la guerra sull´embrione. Legittime le posizioni della Chiesa, ma
legittimo pure l´atteggiamento di chi non le condivide, con argomenti
che non possono essere scartati con una mossa puramente ideologica. Il
dovere del credente non può essere convertito in un obbligo per il
cittadino. Di questo elementare principio dovrebbe farsi custode il
Parlamento, che dovrebbe ben sapere come la rinuncia ad imporre una
particolare visione dell´embrione non significhi degradarlo ad ammasso
di cellule, privo d´ogni protezione giuridica. E le future Camere non
possono rimanere prigioniere della forzatura istituzionale di quanti si
rifanno ai risultati del referendum per affermare l´intoccabilità della
legge sulla procreazione assistita. Questo vincolo esiste quando il
referendum ha espresso una maggioranza favorevole o contraria alla legge
considerata, non nei casi di semplice mancanza del quorum, come dicono
chiaramente esempi del passato. Da molti punti di vista la legge sulla
procreazione assistita è una pessima legge, e nessun legislatore
responsabile può ignorare questo dato di realtà. O chiudere gli occhi di
fronte al fatto che la proclamata difesa dell´embrione nulla ha a che
fare con le norme discriminatorie che vietano il ricorso ai gameti di un
donatore o l´accesso alle tecniche di procreazione per le donne sole.
Sì, quindi, alla ripresa di un dialogo senza pregiudiziali ideologiche o
formalistiche, e soprattutto senza anatemi e accuse d´omicidio a chi
segue l´opinione dei moltissimi scienziati che ritengono che non sia
corretta l´identificazione dell´embrione con la persona. 4) No
all´inquinamento dell´ambiente delle libertà civili. L´argomento della
sicurezza si è trasformato in pretesto per stringere le maglie dei
controlli pubblici e privati sui cittadini, per inoculare nella società
i veleni della lotta di tutti contro tutti, com´è avvenuto con
l´allargamento dei casi di legittimo uso delle armi. È in agguato una
pericolosa "democrazia delle emozioni", che si traduce in una vera e
propria abdicazione della politica, che rinuncia alla sua indispensabile
funzione di filtro delle domande sociali e della loro ammissibilità
misurata con i valori costituzionali, vero fondamento della democrazia.
Si abusa della parola "libertà" sui cartelloni pubblicitari, e si
coltiva nelle azioni concrete il disprezzo per i diritti. Ci si
abbandona alle derive tecnologiche, senza tener conto dei rischi per le
libertà dei cittadini e della riduzione d´ogni problema a questione
d´ordine pubblico. In una zona considerata pericolosa si preferisce
ricorrere sempre più spesso alla videosorveglianza piuttosto che cercar
di capire le radici sociali del disagio e della violenza. Sì, allora, ad
una rinnovata lotta per il diritto, nel senso che spingeva Benedetto
Croce a far pubblicare negli anni del fascismo un piccolo classico del
liberalismo giuridico che portava appunto quel titolo, scritto da Rudolf
von Jhering. 5) No ad un uso della storia che prima la falsifica e poi
l´impugna come un´arma. Un solo esempio. Per criticare i giudici di
oggi, si descrive una magistratura dell´età liberale pura e
indipendente, mentre una serie di ricerche ha da tempo messo in evidenza
la sua subordinazione formale al potere esecutivo. E l´esercito dei
revisionisti farebbe bene a leggere un saggio del 1958 di Achille
Battaglia, che mostra come una serie di norme siano state adoperate, nel
dopoguerra, per colpire i partigiani e favorire i fascisti. Sì, allora,
ad un ritorno alla lettura dei libri ed all´onestà intellettuale. 6)
Liberarsi del linguaggio degradato. Non è facile, perché ha avuto
origini e legittimazione anche in alti luoghi istituzionali, e trova
incentivo continuo in un sistema della comunicazione dove l´insulto fa
più notizia d´una iniziativa seria. Ma si cominci, almeno a non essere
più indulgenti con queste manifestazioni, a non derubricarle a folklore
politico, a non chiudere gli occhi di fronte all´aggressività sociale
favorita dall´aggressività delle parole. 7) Uscire dalla schizofrenia
politica e istituzionale. Un bilancio di questa legislatura mostra con
grande chiarezza che si sono allentati i vincoli all´agire economico e
si è invasa la sfera privata delle persone. Si è stati proibizionisti in
bioetica e distratti di fronte alle tecnologie elettroniche, che pure
incidono in profondo sulla vita di ognuno. Ed è troppo chiedere un
minimo di riflessione, non dirò autocritica, sul modo in cui ha
funzionato un sistema che ha sì prodotto bipolarismo, ma pure uno
scontro distruttivo davvero senza precedenti?
***
Su Welby l'occasione mancata dai
giudici
Stefano Rodotà
È
sconcertante, ai limiti quasi della denegata giustizia, la
decisione con la quale il Tribunale di Roma ha respinto la
richiesta di Piergiorgio Welby di poter morire con dignità. La
palla è stata rilanciata nel campo della politica.
Ma i tempi
della politica non sono quelli della vita. Dichiarando
inammissibile quella richiesta, il giudice non ha voluto seguire
la via pianamente indicata dal parere della Procura romana ed ha
usato un argomento, appunto quello della inammissibilità, che
comincia a ricorrere in maniera preoccupante nelle decisioni che
riguardano i diritti delle persone nelle materie in cui il loro
modo di vivere si intreccia con le tecnologie. Lo aveva già
fatto recentemente la Corte costituzionale, chiamata a
pronunciarsi sulla legge in materia di procreazione medicalmente
assistita. E questo modo di argomentare segna un abbandono da
parte della magistratura non di un ruolo di supplenza quando la
politica è silenziosa o distratta, ma del suo proprio compito di
essere il luogo istituzionale dove le nuove domande di diritti
trovano immediate risposte sulla base dei principi già esistenti
nel sistema giuridico.
Molte
ricerche hanno mostrato come, nel tempo presente, siano appunto
i giudici ad intervenire la dove l'innovazione scientifica e
tecnologica offre nuove possibilità e fa nascere nuovi problemi.
Si è così sostenuto che il diritto giurisprudenziale sia
preferibile alla minuta regolamentazione legislativa.
Quest’ultima è rigida, destinata quindi ad essere superata e ad
entrare in conflitto con i nuovi dati di realtà, mentre
l'intervento del giudice segue la vita in tutte le sue pieghe, è
capace di adattare alle situazioni concrete i principi di base
rinvenibili nelle costituzioni e nelle grandi leggi di
principio. Nella materia della bioetica questa impostazione si
rivela particolarmente importante e grazie ad essa, nei più
diversi paesi, sono state affrontate e risolte questioni
difficili. Il caso di Piergiorgio Welby, quale che sia il punto
di vista dal quale lo si consideri, doveva essere risolto
accogliendo la sua richiesta, perchè così vogliono principi e
regole ormai solidamente fondati nel nostro sistema giuridico.
Al centro
del nostro sistema giuridico è la persona con la sua volontà,
non più paziente sottoposto al volere del medico, ma soggetto
morale nel senso più alto, al quale competono soprattutto le
decisioni che riguardano i drammi dell'esistere. Lo riconosce
anche l'ordinanza romana, quando ripercorre la storia non breve
che ha portato a fondare esclusivamente sul consenso della
persona interessata qualsiasi trattamento riguardante la salute,
legittimando in primo luogo il rifiuto di cure. "Un diritto
soggettivo perfetto", come si legge nella stessa ordinanza. Che,
però, subito dopo ritiene che quel diritto davvero perfetto non
è, mancando le condizioni per la sua concreta tutela. Lasciamo
da parte le molte considerazioni che potrebbero esser fatte su
questo modo di argomentare, e vediamo quali sarebbero queste
condizioni. Sostanzialmente due: la mancata specificazione di
che cosa debba intendersi per accanimento terapeutico e la
“indisponibilità del bene vita”. Ma questa conclusione è il
risultato di un fraintendimento grave dei dati normativi e
dell'effettivo significato del rifiuto di cure.
Nell'ordinanza, infatti, si stabilisce una relazione tra il
"diritto del paziente ad 'esigere' e 'pretendere' che sia
cessata l'attività medica di mantenimento in vita" ed una
situazione di "mero accanimento terapeutico". E qui la
confusione concettuale è massima, poiché rifiuto di cure e
accanimento terapeutico sono cose diverse, descrivono situazioni
indipendenti l'una dall'altra. Non è vero che il rifiuto di cure
sia ammissibile solo in presenza di un accanimento terapeutico.
Tra i moltissimi casi, mi limito a ricordarne uno solo, di
particolare evidenza: quello di una donna che, non ritenendo
accettabile il vivere con una menomazione, ha rifiutato
l'amputazione di una gamba in cancrena, ed è morta. Siamo di
fronte all'opposto dell'accanimento terapeutico, poiché la cura
le avrebbe salvato la vita. Questo dimostra che il rifiuto di
cure deve essere rispettato in ogni caso, quando vi sia una
esplicita manifestazione di volontà dell'interessato,
esattamente quel che ha fatto Welby.
Si risolve
così anche un altro problema, impropriamente sollevato
dall'ordinanza, relativo al fatto che la vita di una persona
dipenderebbe dalla valutazione soggettiva del medico, chiamato a
decidere se vi sia o no accanimento terapeutico, mentre il
medico non deve compiere alcuna valutazione discrezionale, ma
limitarsi ad accertare quale sia la volontà della persona.
Comunque sia, è infondata anche la tesi, sostenuta
nell'ordinanza, secondo la quale non sarebbe possibile fondare
una decisione giudiziaria sull'accanimento terapeutico, poiché
questa nozione, come altri principi, sarebbe "incerta ed
evanescente". Ma il diritto è sempre più ricco di queste
clausole generali, di questi concetti non specificatamente
determinati, che sono finestre aperte su un mondo sempre più
mutevole e che hanno la funzione di consentire l'adattamento
della norma alla realtà senza bisogno di continui aggiustamenti
legislativi. È storia lunga, che i tecnici del diritto
dovrebbero ben conoscere, che riguarda ad esempio nozioni come
"comune senso del pudore" o "buona fede", non specificate nel
dettaglio dal legislatore e che vivono proprio grazie al lavoro
dei giudici, che ne precisano un contenuto che varia nel tempo e
nei contesti.
E
l'approssimazione culturale finisce con il travolgere persino il
principio della dignità della persona di cui, secondo
l'ordinanza, il giudice non potrebbe servirsi proprio per la sua
indeterminatezza, mentre a questo principio fanno costante
riferimento sentenze della Corte costituzionale e delle altre
magistrature, coerentemente con il fatto che esso è ormai uno
dei fondamenti delle nostre organizzazioni sociali, tanto da
aprire la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.
L'approssimazione continua quando si afferma apoditticamente che
il bene della vita è indisponibile, mentre proprio il diritto al
rifiuto di cure, ormai largamente e ripetutamente esercitato,
dimostra che così non è. Se l'ordinanza avesse ripercorso
correttamente l’itinerario costituzionale, sarebbero stati
evitati errori e sgrammaticature. L'articolo 32 fornisce una
linea nitida: la salute è diritto fondamentale dell'individuo,
non possono essere imposti trattamenti sanitari se non per
legge, e mai la legge può violare "i limiti imposti dal rispetto
della persona umana".
Poiché per
salute deve intendersi "il benessere fisico, psichico e sociale"
della persona (questa è la definizione dell'organizzazione
mondiale della sanità, accolta nel nostro sistema),questo vuoi
dire che il governo dell'intera vita è fondato sulle libere
decisioni degli interessati. Poiché nessuno può essere obbligato
ad un trattamento sanitario, l'argomentazione dell'ordinanza
deve essere rovesciata: la mancanza di una legge rende
illegittimo il trattamento, non la richiesta di interromperlo.
Poiché nulla può esser fatto che violi la dignità, "il rispetto
della persona umana, questo vuol dire, soprattutto in situazioni
estreme e drammatiche, che nessuno può imporre la prigionia
della sofferenza. L'ordinanza è una occasione mancata, e mi
auguro che le sue molte storture possano essere corrette se i
legali di Welby decideranno di impugnarla, anche per mettere un
freno ad una regressione culturale. Ma fraintendimenti e rischi
non si fermano qui.
Che cosa
avverrà quando verrà reso noto il parere del Consiglio superiore
di sanità, chiesto con una certa approssimazione, visto che a
questo organismo non spetta la decisione su casi singoli? Se
dirà che Welby non è oggetto di un accanimento terapeutico, e mi
sembra difficile, non per questo escluderà la legittimità della
richiesta di rifiuto di cure, dato che le questioni stanno su
piani diversi, come ho già ricordato. Ma se riconoscerà
l'accanimento terapeutico, scatterà l'articolo 14 del codice di
deontologia e il medico sarà obbligato ad interrompere il
trattamento, con tutte le ovvie cautele necessarie per evitare
ulteriori e inutili sofferenze. Guardando ai compiti del
legislatore, si insiste nel dire che problemi come questi
saranno risolti dalla legge sul testamento biologico. Continuo
ad essere sbalordito da questa ulteriore confusione, poiché quel
tipo di documento riguarda la situazione del morente incapace di
manifestare la propria volontà, mentre Piergiorgio Welby è
lucidissimo e determinato nella scelta intorno al modo di porre
fine alla sua vita.
Anche
questa operazione di pulizia concettuale è indispensabile, per
impedire che la già difficile discussione sul testamento
biologico venga complicata dal caricare su di essa altre e
improprie finalità. Mi è tornato alla memoria, in questi giorni,
quel che nel 1970 Paolo VI scriveva al cardinale Villot,
responsabile dei medici cattolici: «Pur escludendosi
l'eutanasia, ciò non significa obbligare il medico ad utilizzare
tutte le tecniche della sopravvivenza che gli offre una scienza
infaticabilmente creatrice (…).Il dovere del medico consiste
piuttosto nell'adoperarsi a calmare le sofferenze, invece di
prolungare il più a lungo possibile, con qualunque mezzo e a
qualunque condizione, una vita che non è più pienamente umana».
L'ordinanza romana avrebbe potuto mettere il buon diritto in
sintonia con la vita, restituendole l'umanità. Non lo ha fatto.
Ma non può interrompere un difficile cammino di incivilimento
che porterà, anche in Italia, a poter pubblicare un sereno
annuncio della morte di una persona come quello apparso il 6
dicembre sui giornali del Canton Ticino, dove il fratello dello
scomparso ringraziava i medici che l'avevano “portato a una
morte dolce e indolore come lui desiderava, senza nessun
accanimento terapeutico”.
18 Dicembre,
2006 - 11:00
***
Se il Parlamento concede
un ruolo civile alla Chiesa
di STEFANO RODOTÀ
PROTETTI dal velo d'ignoranza sul voto
referendario, proviamo ad immaginare quale potrebbe o dovrebbe essere la
situazione a partire da
questa sera, quale che sia l'esito di quel voto.
O forse da domani mattina, essendo difficile che
nei commenti a caldo, appena conosciuto il risultato, si riesca a mutare di
colpo un clima fin troppo avvelenato.
In che modo dovrebbe riprendere la discussione? Dico
riprendere, e non continuare. Guai, infatti, se
toni e argomenti continuassero ad essere quelli delle ultime settimane,
sull'onda del modo aggressivo in cui i difensori della legge hanno impostato
le diverse questioni. È vero che il referendum ha
confermato d'essere un importante, per certi versi insostituibile, strumento
di promozione di
consapevolezza pubblica su questioni d'interesse generale.
Ma è vero pure che molte rozzezze della discussione sono
pure figlie del modo in cui il Parlamento è arrivato ad approvare la legge
sulla procreazione medicalmente assistita, senza approfondimenti adeguati,
senza un dialogo con l'opinione pubblica, con una
attenzione rivolta più agli argomenti della Chiesa
cattolica che agli interessi delle persone, delle donne in primo luogo. Lo
testimoniano i molti ripensamenti di parlamentari che pure
avevano votato la legge. E'
possibile affrontare la fase prossima evitando di rimanere
di nuovo prigionieri di
approssimazioni e ideologizzazioni?
Se consideriamo il cammino percorso in paesi come
la Gran Bretagna,
la Spagna,
la Francia
quando si è deciso di affrontare anche con strumenti legislativi le
questioni della procreazione assistita, ci accorgiamo subito che all'inizio
di quel cammino vi sono rapporti affidati a personalità autorevoli che
avevano non solo o non tanto la funzione di offrire un contributo ai
parlamentari, quanto piuttosto quella di aprire, come in effetti avvenne,
una discussione pubblica di cui tener conto nel momento in cui si decideva
di passare all'approvazione una legge.
Il rapporto
inglese, affidato ad
una studiosa di filosofia morale, Mary Warnock,
viene ancor oggi letto e utilizzato in tutto il mondo; il Rapporto
Palacio è all'origine della
legislazione spagnola; e in Francia, dopo un importante contributo del
Consiglio di Stato, il Rapporto Braibant,
le leggi di bioetica del 1994 si giovarono assai del ricco materiale, anche
comparativo, messo a disposizione dal Rapporto
Lenoir.
Diversi nelle impostazioni e in molte conclusioni, tutti
questi rapporti avevano però un elemento in comune: la
consapevolezza di quanto fosse complesso,
difficile, contorto persino, il percorso "dall'etica al diritto" (era questo
il titolo del rapporto del Consiglio di Stato francese).
Ci si liberava così dall'illusione e dalla pretesa
pericolosa di un'etica, qualsiasi etica, che agisse in presa diretta sulla
società, usando il diritto come braccio secolare, come inammissibile
scorciatoia autoritaria. È vero che il ritmo incalzante delle innovazioni
scientifiche e tecnologiche produce sconcerto, difficoltà sociale nel
metabolizzarle.
Ma la risposta, quando si decide di ricorrere al diritto,
dovrebbe forse essere cercata ricordando una vecchia definizione del diritto
come "minimo etico" all'interno di una società. Che non voleva dire
indifferenza per principi o valori forti, ma additava il diritto come
strumento che non può
limitarsi a chiudere autoritativamente
un conflitto: deve cercare punti di unione, e su questi costruire la regola,
permettendo così la prosecuzione della discussione e la produzione di più
forti e condivisi valori comuni.
Questa sobrietà non serve soltanto per salvaguardare la
laicità dello Stato, per evitare la nascita di
Stati confessionali, di teocrazie, di dittature
portatrici di un'indiscutibile ideologia. È la regola della democrazia, che
si ritrova nell'elogio del compromesso fatto da
Hans Kelsen:
"Compromesso significa
risoluzione di un conflitto mediante una norma che non è totalmente conforme
agli interessi di una parte, né totalmente contraria agli interessi
dell'altra. Ed è proprio in virtù di questa tendenza al compromesso che la
democrazia è una
approssimazione all'ideale dell'autodeterminazione completa".
Per l'Italia del dopo referendum non si può auspicare che
il cammino riprenda da qualche rapporto, perché
comunque è urgente riparare i guasti maggiori già
prodotti dalla legge n. 40 (e neppure voglio pensare a quali bagarre,
lottizzazioni, cencellate
e simili si andrebbe incontro nella scelta delle persone alle quali affidare
un rapporto del genere). Ma si dovrebbe pretendere il recupero di
questo aspetto della
democrazia, che significa insieme civiltà del confronto, riscoperta della
dimensione propria dell'etica, rinuncia all'uso puramente autoritario del
diritto, anzi individuazione dei limiti dello stesso diritto, dunque delle
situazioni nelle quali è bene che non entri.
Non è cosa facile. Ma bisogna almeno prendere in parola
quanti hanno sostenuto che l'astensione serviva proprio a far sì che la
legge, improvvidamente
sottoposta a cittadini sprovveduti, potesse tornare nelle mani
di illuminati legislatori. Se
ciò dovesse avvenire, si potrebbe per un momento
(ma solo per un momento) dimenticare il disprezzo
che così si esprime, al tempo stesso, nei confronti del cittadino e di un
istituto, il referendum, attraverso il quale
la Costituzione
ha voluto il popolo come "legislatore negativo" (a proposito: dove sono
finiti in queste settimane quelli che in ogni momento invocano il popolo
come fonte d'ogni potere?).
Si torni in Parlamento, allora.
Consapevoli, però del fatto che senza l'iniziativa
referendaria gli spiriti critici ed autocritici nei confronti della legge n.
40 sarebbero rimasti silenziosi. Questo risveglio
è già un'indicazione politica, che obbliga a guardare,
al di là degli stessi quesiti
referendari, all'intera legge, perché non si tratta tanto di rimediare a
questa o a quella sua imperfezione, ma di cercare almeno di renderla non del
tutto incompatibile con l'essenzialità del ruolo femminile in tutto il
processo procreativo, con principi come quello d'eguaglianza, con diritti
come quello alla salute. Questo vuol dire far cadere i divieti
riguardanti la fecondazione
eterologa, l'obbligo
d'impianto degli embrioni, la diagnosi
preimpianto.
La discussione resa possibile dai referendum, infatti, ha
mostrato che sono superabili le obiezioni alla fecondazione
eterologa riconoscendo
eventualmente il diritto alla conoscenza dell'identità del donatore e
sicuramente la conservazione delle sue informazioni genetiche; che le linee
guida ministeriali
hanno solo in parte superato l'assurdo obbligo di farsi impiantare gli
embrioni prodotti; che proprio la caduta di
quest'obbligo ripropone il tema della diagnosi
preimpianto, che
potrebbe ad esempio essere introdotta con le cautele previste dalla
recentissima legge francese.
Ma le discussioni hanno pure mostrato l'insostenibilità
di un divieto di ricerca sulle cellule staminali
esteso anche agli embrioni congelati. E hanno fatto nitidamente emergere
come siano possibili
forme differenziate ed adeguate di tutela delle forme di vita a partire dal
concepimento, ponendo così le premesse per abbandonare la secca
equiparazione tra concepito e persona: si riaprirebbe così la feconda
discussione già avviata sullo statuto dell'embrione e si eviterebbe il
rischio di giocare la legge sulla procreazione assistita contro quella
sull'aborto.
Ma né il voto referendario, quale che sia, né una
possibile ripulitura parlamentare
possono far venire meno il controllo di costituzionalità sulla legge. Basta
ricordare soltanto che i divieti riguardanti l'accesso
alle tecnologie della riproduzione da parte di donne sole o di coppie non
sterili con rischio di trasmissione di malattie genetiche appaiono
sicuramente in contrasto con il principio di eguaglianza e con il diritto
fondamentale alla salute. E
già si annunciano ricorsi alla Corte costituzionale, che sarà dunque la sede
dove la legge nel suo insieme troverà ulteriori e molteplici occasioni per
verificarne proprio la compatibilità con principi di base del nostro
sistema.
La vicenda referendaria lascia
comunque una più lunga e
profonda eredità. Prima in Parlamento, e poi più
intensamente nella campagna elettorale, si è manifestato un programma
politico di riscrittura
dei valori fondativi della convivenza civile che travolge valori
costituzionali; li subordina non all'etica, ma alla religione; postula un
ruolo civile della Chiesa.
Sarebbe dunque profondamente sbagliato considerare la
vicenda referendaria come una parentesi, Nella storia politica italiana si è
aperta una nuova fase, che può essere fronteggiata solo se si ha
consapevolezza della sua portata. Guai a darne letture riduttive,
rinunciando a provvedersi di
adeguati strumenti culturali e politici.
L'intrusione di Ratzinger alla
Sapienza
Come ha brillantemente illustrato Stefano
Rodotà l'altra sera, martedì 15 a Ballarò, la vicenda è nata male e
proseguita peggio.
Anzitutto al papa era stato proposto addirittura di presiedere
l'inaugurazione della cerimonia. Cosa che è parsa a tutti eccessiva,
essendo l'università un luogo laico. Poi si è cercato di architettare un
dietrofront, con un percorso condotto in modo piuttosto maldestro da
entrambe le parti. Infine è stato proposto a Benedetto XVI di venire a
fare un saluto, a conclusione di una cerimonia contro la pena di morte.
Due, sottolinea Rodotà, i motivi di contrarietà a tutta l'iniziativa: il
primo è legato al fatto di voler creare un evento, su un appuntamento
che è invece di routine, e non ha alcun bisogno di particolari enfasi
spettacolari e mediatiche; il secondo è la violazione della natura laica
di un'istituzione pubblica di grande importanza.
Al di là del metodo della protesta, che si è fondata su slogan più e
meno ragionevoli (dalla difesa di Galileo alla "via Frocis"), il punto
cruciale è proprio l'ultimo menzionato da Rodotà: questo Paese non ha
ancora chiaro cosa significhi la laicità dello Stato.
Non è necessaria la presenza del capo della Chiesa cattolica ad una
manifestazione accademica. Non si capisce a che titolo dovrebbe
presenziare, quale ne sia l'esigenza. Un'intromissione del tutto
gratuita e inopportuna, dunque, tesa a soddisfare le coscienze di parte,
offendendo però il principio di neutralità dell'istituto accademico.
Questo Paese è ancora lontano dal comprendere che lo Stato e tutte le
sue emanazioni, sono tenuti a difendere in ogni modo l'imparzialità e
l'uguaglianza di trattamento nei confronti della sfera spirituale. E
l'unica strada, è quella di tenersi fuori da qualunque intromissione di
qualunque parrocchia. Paolo Arsena 17-01-2008
**************
La Repubblica 22.1.08
La laicità dopo il caso Sapienza
di Stefano Rodotà
L´analisi delle vicende complesse, dunque l´esercizio della
virtù della riflessione e della distinzione, diviene sempre
più difficile. Questa difficoltà è cresciuta nel caso della
visita del Papa all´università "La Sapienza". Senza
ricorrere alla parola "laicità", e ricordando anche
argomentazioni già proposte, vorrei sottolineare quali
dovrebbero essere i principi di un discorso pubblico in una
società che vuol essere democratica.
Per cominciare. Il furore polemico ha abusato di due
argomenti, che chiamerò volterriano e iran-americano.
Ridotta a slogan o a giaculatoria, è stata ripetuta la nota
massima di Voltaire – «non condivido le tue idee, ma mi
batterò perché tu possa manifestarle» (su questo ha scritto
bene Giovanni Valentini). Ma, se durante una delle
settimanali udienze del Papa uno dei partecipanti alza la
mano, pretende di tenere un discorso e viene giustamente
invitato a tacere, il canone volterriano è violato? Se,
all´apertura di un congresso di partito, subito dopo la
relazione del segretario, il leader di un altro partito
pretende di parlare e giustamente gli viene negata la
parola, siamo di fronte alla censura, all´imposizione di un
bavaglio? Faccio queste domande, retoriche, non per
ridimensionare la portata del principio indicato da
Voltaire, ma per ricordare che si deve sempre tenere conto
del contesto e, soprattutto, che quel principio non può
essere applicato selettivamente. Non ci si può battere per
il diritto di parola di Benedetto XVI e negarlo a Marcello
Cini e Carlo Bernardini. La correttezza del discorso
pubblico esige il rispetto del principio di parità.
Veniamo all´altro argomento. Più d´uno, per mostrare
l´inaccettabilità delle pretese dei critici dell´invito al
Papa, ha voluto ricordare che la Columbia University ha
addirittura invitato il Presidente iraniano Ahmadinejad. Si
può invitare un dittatore, un negatore dell´Olocausto, e non
il Pontefice? Vediamo come sono andati i fatti. All´annuncio
della visita sono partite molte critiche accademiche e una
forte protesta degli studenti. Prima di dar la parola ad
Ahmadinejad il presidente dell´università, Lee Bollinger, ha
criticato con estrema durezza, al limite della
maleducazione, le sue idee e posizioni. Dopo il discorso del
Presidente iraniano, i presenti gli hanno rivolto molte
domande ed hanno commentato anche pesantemente le sue
risposte. Quel che è accaduto a New York, dunque, prova
esattamente il contrario di quel che sostenevano quanti
hanno richiamato quel fatto. L´università si fonda, in ogni
momento, sul confronto e sul dialogo. La correttezza del
discorso pubblico esige il rispetto del principio della
veritiera descrizione dei fatti.
Proprio in omaggio a questo principio, bisogna ricordare
che, pur essendo vero che alcune decisioni universitarie
sono di competenza del Rettore e del Senato accademico,
questo non vuol dire affatto che queste decisioni non
possano essere oggetto di pubblica critica da parte di ogni
professore o studente, né che la loro libertà di critica sia
limitata alla scelta di non partecipare all´evento sgradito.
L´università non è una organizzazione rigidamente
gerarchica, né il Rettore è assistito dal privilegio
dell´infallibilità. Peraltro, proprio la storia recente
delle inaugurazioni dell´anno accademico alla Sapienza
conosce critiche e contestazioni, in qualche caso accolte,
agli inviti che si aveva in mente di fare. Non è esclusa la
possibilità di invitare qualcuno a parlare senza
contraddittorio, ma è indispensabile valutare attentamente
le conseguenze di questa scelta. La correttezza del discorso
pubblico esige che ogni vicenda venga valutata nel preciso
contesto in cui si è svolta.
È rivelatore, peraltro, il modo in cui sono stati giudicati
i 67 professori firmatari della lettera al Rettore, con la
quale veniva chiesta le revoca dell´invito a Benedetto XVI.
Sono stati definiti "professorucoli", si è detto che «i
ragli degli asini non arrivano in cielo». La libertà
accademica e la libertà di manifestazione del pensiero,
dunque, dovrebbero arrestarsi di fronte al principio di
autorità? Quale "licenza de li superiori" sarebbe necessaria
per ottenere il permesso di parlare di chi sta in alto? La
correttezza del discorso pubblico esige il rispetto del
principio che tutti possano parteciparvi.
La critica ai professori firmatari della lettera e alle
posizioni estreme di alcuni gruppi di studenti ha poi
assunto toni dichiaratamente politici ed ha determinato
anche ulteriori travisamenti della realtà. Si è descritto
quel che è accaduto con parole come "veto", "censura",
"cacciata", "bavaglio". Non insisto sul dato formale, ma
tutt´altro che irrilevante, di una decisione presa in
assoluta autonomia dal Papa, di cui non discuto motivazioni
e finalità. Ma non si può chiedere ai firmatari di
uniformarsi ad un principio di "opportunità" che, come ben
vediamo in molti settori a cominciare da quello dei mezzi
d´informazione, può facilmente diventare autocensura. La
democrazia si nutre di opinioni non solo diverse, ma anche
sgradevoli, delle quali si può ben discutere il merito, ma
di cui non si può negare la legittimità. E le posizioni
degli studenti devono essere giudicate con lo stesso metro,
eccezion fatta per gli aspetti di ordine pubblico, peraltro
ritenuti tali da non provocare preoccupazioni, secondo le
dichiarazioni del ministro dell´Interno. Comunque, gli
aspetti politici della vicenda devono essere analizzati con
criteri anch´essi politici. La correttezza del discorso
pubblico esige che non si mescolino i piani delle
valutazioni.
La politica, allora. È indubitabile, ormai, che non tanto la
linea scelta dal Pontefice, quanto i concreti modi di
attuarla, vadano ben al di là della dimensione pastorale e
teologica. Il Pontefice si comporta ed è percepito come un
leader politico. Questa non è una conclusione malevola.
Basta ricordare una sola vicenda, quella legata al duro
intervento del Papa sulle condizioni di Roma in occasione
dell´udienza concessa ai rappresentanti degli enti locali
del Lazio. Quelle dichiarazioni hanno determinato una
trattativa "diplomatica" che, in linea con le peggiori
abitudini della politica italiana, ha poi portato a
denunciare le "strumentalizzazioni" e le "deformazioni"
delle parole del Papa, entrate con prepotenza nel dibattito
politico.
Questo porta ad una considerazione più generale. Si insiste
nel dire che la religione deve essere riconosciuta anche
nella sfera pubblica. Ma che cosa significa questa
affermazione? Che nello spazio pubblico la religione ha uno
statuto privilegiato o che, entrando in quello spazio, ogni
religione partecipa al discorso pubblico con le proprie
importanti caratteristiche, ma in condizioni di parità? Nel
1989 la Corte costituzionale ha scritto che «il principio
supremo della laicità dello Stato è uno dei principi della
forma di Stato delineata nella Carta costituzionale della
Repubblica», sancendo così l´eguaglianza che accomuna tutte
le religioni e, insieme, la loro sottoposizione a quel
principio fondativo della convivenza democratica. Nella
sfera pubblica tutti i soggetti devono accettare la logica
del dialogo, della critica ed anche della contestazione.
Altrimenti l´insidia del temporalismo si fa concreta. Non a
caso da studiosi autorevoli e da politici cattolici
consapevoli dei rischi di questa deriva sono venute analisi
rigorose del rischio di un ritorno del "Papa re" e di un
vero uso strumentale della religione, simboleggiato da
quella sorta di "chiamata alle armi" dei cattolici a
manifestare in piazza San Pietro in una occasione
squisitamente liturgica. La correttezza del discorso
pubblico esige una presenza costante del canone della
democrazia.
Ha fatto bene Alberto Asor Rosa a ricordare la feconda
stagione di dialogo tra credenti e non credenti nella
Cappella universitaria della Sapienza, dove ebbi la fortuna
di discutere con un grande biblista, Luis Alonso Schoekel.
Aggiungo il mio personale ricordo dell´invito che rivolsi a
monsignor Clemente Riva perché venisse a parlare nel mio
corso, e del suo emozionante dialogo con gli studenti. Altri
tempi, altre persone, altra politica? Una stagione
irripetibile? Spero e voglio credere di no, perché continuo
ad avere molte occasioni di dialogo con un mondo cattolico
che tuttavia fatica ad essere presente nella sfera pubblica.
Altrimenti dovremmo tornare alle amare parole di Arturo
Carlo Jemolo, che nel 1963 così scriveva: «Questa Italia non
è quella che avevo sperato; questa società non è quella che
vaticinavo... l´affermarsi e il dissolversi delle tavole del
liberalismo; l´inattesa realizzazione di uno Stato guelfo a
cento anni dal crollo delle speranze neoguelfe».
La
Repubblica 13.6.05
Se il Parlamento concede
un ruolo civile alla Chiesa
di STEFANO RODOTÀ
PROTETTI dal velo d'ignoranza sul voto
referendario, proviamo ad immaginare quale potrebbe o dovrebbe
essere la situazione a partire da
questa sera, quale che sia l'esito di quel voto.
O forse da domani
mattina, essendo difficile che nei commenti a caldo, appena
conosciuto il risultato, si riesca a mutare di colpo un clima
fin troppo avvelenato.
In che modo dovrebbe riprendere la
discussione? Dico riprendere, e non continuare.
Guai, infatti, se toni e argomenti
continuassero ad essere quelli delle ultime settimane, sull'onda
del modo aggressivo in cui i difensori della legge hanno
impostato le diverse questioni. È vero
che il referendum ha confermato d'essere un importante, per
certi versi insostituibile, strumento di
promozione di
consapevolezza pubblica su questioni d'interesse generale.
Ma è vero pure che molte rozzezze della
discussione sono pure figlie del modo in cui il Parlamento è
arrivato ad approvare la legge sulla procreazione medicalmente
assistita, senza approfondimenti adeguati, senza un dialogo con
l'opinione pubblica, con una
attenzione rivolta più agli argomenti della
Chiesa cattolica che agli interessi delle persone, delle donne
in primo luogo. Lo testimoniano i molti ripensamenti di
parlamentari che pure avevano votato
la legge. E' possibile affrontare la fase prossima evitando di
rimanere di nuovo prigionieri
di approssimazioni e
ideologizzazioni?
Se consideriamo il cammino percorso in paesi
come
la Gran
Bretagna,
la Spagna,
la Francia
quando si è deciso di affrontare anche con strumenti legislativi
le questioni della procreazione assistita, ci accorgiamo subito
che all'inizio di quel cammino vi sono rapporti affidati a
personalità autorevoli che avevano non solo o non tanto la
funzione di offrire un contributo ai parlamentari, quanto
piuttosto quella di aprire, come in effetti avvenne, una
discussione pubblica di cui tener conto nel momento in cui si
decideva di passare all'approvazione una legge.
Il rapporto
inglese, affidato
ad una studiosa di filosofia morale, Mary
Warnock, viene
ancor oggi letto e utilizzato in tutto il mondo; il Rapporto
Palacio è
all'origine della legislazione spagnola; e in Francia, dopo un
importante contributo del Consiglio di Stato, il Rapporto
Braibant, le
leggi di bioetica del 1994 si giovarono assai del ricco
materiale, anche comparativo, messo a disposizione dal Rapporto
Lenoir.
Diversi nelle impostazioni e in molte
conclusioni, tutti questi rapporti avevano però un elemento in
comune: la consapevolezza di quanto
fosse complesso, difficile, contorto
persino, il percorso "dall'etica al diritto" (era questo il
titolo del rapporto del Consiglio di Stato francese).
Ci si liberava così dall'illusione e dalla
pretesa pericolosa di un'etica, qualsiasi etica, che agisse in
presa diretta sulla società, usando il diritto come braccio
secolare, come inammissibile scorciatoia autoritaria. È vero che
il ritmo incalzante delle innovazioni scientifiche e
tecnologiche produce sconcerto, difficoltà sociale nel
metabolizzarle.
Ma la risposta, quando si decide di ricorrere
al diritto, dovrebbe forse essere cercata ricordando una vecchia
definizione del diritto come "minimo etico" all'interno di una
società. Che non voleva dire indifferenza per principi o valori
forti, ma additava il diritto come
strumento che non può limitarsi a
chiudere autoritativamente
un conflitto: deve cercare punti di unione, e su questi
costruire la regola, permettendo così la prosecuzione della
discussione e la produzione di più forti e condivisi valori
comuni.
Questa sobrietà non serve soltanto per
salvaguardare la laicità dello Stato, per evitare la nascita di
Stati
confessionali, di teocrazie, di dittature portatrici di
un'indiscutibile ideologia. È la regola della democrazia, che si
ritrova nell'elogio del compromesso fatto da
Hans
Kelsen: "Compromesso
significa risoluzione di un conflitto mediante una norma che non
è totalmente conforme agli interessi di una parte, né totalmente
contraria agli interessi dell'altra. Ed è proprio in virtù di
questa tendenza al compromesso che la democrazia è
una
approssimazione all'ideale dell'autodeterminazione completa".
Per l'Italia del dopo referendum non si può
auspicare che il cammino riprenda da qualche rapporto, perché
comunque è
urgente riparare i guasti maggiori già prodotti dalla legge n.
40 (e neppure voglio pensare a quali bagarre, lottizzazioni,
cencellate
e simili si andrebbe incontro nella scelta delle persone alle
quali affidare un rapporto del genere). Ma si dovrebbe
pretendere il recupero di questo
aspetto della democrazia, che
significa insieme civiltà del confronto, riscoperta della
dimensione propria dell'etica, rinuncia all'uso puramente
autoritario del diritto, anzi individuazione dei limiti dello
stesso diritto, dunque delle situazioni nelle quali è bene che
non entri.
Non è cosa facile. Ma bisogna almeno prendere
in parola quanti hanno sostenuto che l'astensione serviva
proprio a far sì che la legge,
improvvidamente sottoposta a cittadini
sprovveduti, potesse tornare nelle mani
di illuminati
legislatori. Se ciò dovesse avvenire, si potrebbe per un
momento (ma solo
per un momento) dimenticare il disprezzo che così si esprime, al
tempo stesso, nei confronti del cittadino e di un istituto, il
referendum, attraverso il quale
la
Costituzione ha voluto il
popolo come "legislatore negativo" (a proposito: dove sono
finiti in queste settimane quelli che in ogni momento invocano
il popolo come fonte d'ogni potere?).
Si torni in Parlamento, allora.
Consapevoli, però del fatto che senza
l'iniziativa referendaria gli spiriti critici ed autocritici nei
confronti della legge n. 40 sarebbero rimasti silenziosi.
Questo risveglio è già un'indicazione politica, che obbliga a
guardare, al di là degli
stessi quesiti referendari, all'intera legge, perché non si
tratta tanto di rimediare a questa o a quella sua imperfezione,
ma di cercare almeno di renderla non del tutto incompatibile con
l'essenzialità del ruolo femminile in tutto il processo
procreativo, con principi come quello d'eguaglianza, con diritti
come quello alla salute. Questo vuol dire far cadere i divieti
riguardanti la
fecondazione eterologa,
l'obbligo d'impianto degli embrioni, la diagnosi
preimpianto.
La discussione resa possibile dai referendum,
infatti, ha mostrato che sono superabili le obiezioni alla
fecondazione eterologa
riconoscendo eventualmente il diritto alla conoscenza
dell'identità del donatore e sicuramente la conservazione delle
sue informazioni genetiche; che le linee
guida ministeriali
hanno solo in parte superato l'assurdo obbligo di farsi
impiantare gli embrioni prodotti; che proprio la caduta di
quest'obbligo
ripropone il tema della diagnosi
preimpianto, che potrebbe ad esempio
essere introdotta con le cautele previste dalla recentissima
legge francese.
Ma le discussioni hanno pure mostrato
l'insostenibilità di un divieto di ricerca sulle cellule
staminali esteso
anche agli embrioni congelati. E hanno fatto nitidamente
emergere come siano
possibili forme differenziate ed adeguate di tutela delle forme
di vita a partire dal concepimento, ponendo così le premesse per
abbandonare la secca equiparazione tra concepito e persona: si
riaprirebbe così la feconda discussione già avviata sullo
statuto dell'embrione e si eviterebbe il rischio di giocare la
legge sulla procreazione assistita contro quella sull'aborto.
Ma né il voto referendario, quale che sia, né
una possibile ripulitura parlamentare
possono far venire meno il controllo di costituzionalità sulla
legge. Basta ricordare soltanto che i divieti
riguardanti l'accesso
alle tecnologie della riproduzione da parte di donne sole o di
coppie non sterili con rischio di trasmissione di malattie
genetiche appaiono sicuramente in contrasto con il principio di
eguaglianza e con il diritto fondamentale alla salute.
E già si
annunciano ricorsi alla Corte costituzionale, che sarà dunque la
sede dove la legge nel suo insieme troverà ulteriori e
molteplici occasioni per verificarne proprio la compatibilità
con principi di base del nostro sistema.
La vicenda referendaria lascia
comunque una più
lunga e profonda eredità. Prima in
Parlamento, e poi più intensamente nella campagna elettorale, si
è manifestato un programma politico di
riscrittura dei
valori fondativi della convivenza civile che travolge valori
costituzionali; li subordina non all'etica, ma alla religione;
postula un ruolo civile della Chiesa.
Sarebbe dunque profondamente sbagliato
considerare la vicenda referendaria come una parentesi, Nella
storia politica italiana si è aperta una nuova fase, che può
essere fronteggiata solo se si ha consapevolezza della sua
portata. Guai a darne letture riduttive, rinunciando a
provvedersi di
adeguati strumenti culturali e politici.
http://www.repubblica.it/2005/f/sezioni/politica/dossifeconda6/rodorefe/rodorefe.html
STEFANO
RODOTA'
La
politica debole e l´offensiva della Chiesa
Brutte
giornate nel Parlamento, e dintorni. E allora
bisogna guardare più a fondo, e più lontano, nel
considerare il modo in cui oggi si discute e si
decide su questioni essenziali e drammatiche
dell´esistenza di ciascuno di noi – come morire e
come organizzare le relazioni affettive, come
procreare e come dare il cognome ai figli e come
riconoscere pienezza di diritti a quelli nati fuori
dal matrimonio. Sono in campo in prima persona, ed è
un fatto inedito nella storia repubblicana, tutte le
grandi istituzioni: Presidente della Repubblica,
Governo, Parlamento, Corte costituzionale,
magistratura. E la Chiesa cattolica, sempre più
presente. E una opinione pubblica sempre più sondata
e sempre meno informata. Vale la pena di seguire le
mosse di alcuni di questi protagonisti.
Dice il Cardinal Ruini: è «norma di saggezza non
pretendere che tutto possa essere previsto e
regolato per legge». Dice il Presidente della Corte
di Cassazione: «Appare urgente e indispensabile un
intervento del legislatore che affronti e chiarisca
i gravi problemi che sempre più frequentemente si
presentano al giurista e al medico». Chi ha ragione?
Nessuno dei due. Intendiamoci: nelle materie che
interessano la vita è sempre necessario un uso
sobrio e prudente della legge e i giudici devono
avere forti principi di riferimento per le loro
decisioni. Ma la sobrietà, o addirittura l´assenza,
dell´intervento legislativo significa cose
radicalmente diverse a seconda che manifesti
rispetto della libertà individuale o, al contrario,
intenzione di mantenere vincoli costrittivi, volontà
di girare la testa dall´altra parte di fronte alle
dinamiche sociali ed alle difficoltà dell´esistenza.
Il legislatore auspicato da Ruini non avrebbe dovuto
votare la legge sul divorzio, quella
sull´interruzione di gravidanza e neppure quella
pericolosa riforma del diritto di famiglia del 1975,
a lungo avversata da ambienti cattolici perché
abbandonava il modello gerarchico e riconosceva i
diritti dei figli nati fuori dal matrimonio (e anche
allora si impugnava una interpretazione gretta della
nozione di famiglia). Oggi siamo di fronte ad una
situazione analoga. Affrontando con poche norme le
questioni delle unioni di fatto e del diritto di
morire con dignità, il legislatore non invade
indebitamente la sfera delle decisioni private.
Rimuove ostacoli ormai irragionevoli, sviluppa
logiche già ben visibili nel nostro sistema
costituzionale, non impone nulla a nessuno e mette
ciascuno nella condizione di esercitare
responsabilmente la propria libertà.
Perché, a questo punto, non si può dar ragione
neppure al Presidente della Cassazione? Perché nelle
sue parole si scorge anche un ritrarsi da
responsabilità che sono proprie della magistratura,
un riflesso dell´atteggiamento gravemente
rinunciatario che si è manifestato nelle decisioni
riguardanti Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro. Due
casi che i giudici avrebbero potuto risolvere
seguendo in particolare la linea tracciata dagli
articoli della Costituzione sulla libertà personale
e sul diritto alla salute (e che era stata indicata
con precisione da un parere della Procura di Roma).
Sembra quasi che i giudici, messi di fronte a temi
assai impegnativi e che dividono la società, abbiano
scelto di chiamarsi fuori, di lasciare che sia solo
la politica ad affrontare e risolvere questioni che
pure li investono direttamente. Questo accade
perché, provati da un lungo braccio di ferro con una
politica che voleva mortificarne indipendenza ed
autonomia, hanno deciso di prendersi una rivincita e
di lasciarla sola e nuda, indicandola come unica
responsabile delle difficoltà presenti? Ma questa
sarebbe davvero una ingiustificata reazione
corporativa e il segno di una regressione culturale
che impedisce loro di cogliere quale sia oggi il
compito istituzionale della magistratura, senza che
possa essere accusata di indebite invasioni di
campo, di esercitare una illegittima supplenza.
Commentando la giurisprudenza della Corte europea
dei diritti dell´uomo, si è proprio messo in
evidenza che ormai spetta sempre a questi giudici
"risolvere le più gravi e difficili questioni di
diritto civile poste dal cambiamento dei costumi,
dalla scienza e dalla tecnica". Questo non è
l´effetto di distrazioni o ritardi del legislatore,
ma del fatto che la vita propone ormai una
molteplicità di situazioni sempre nuove e sempre
variabili, che nessuna legge può cogliere e
disciplinare nella loro singolarità, in un
inseguimento continuo e impossibile. Ad essa,
invece, spetta il compito di fissare i principi di
base, che l´intervento del giudice adatterà poi ai
casi concreti.
Questo quadro di principi è, e non può che essere,
quello della Costituzione italiana, integrato da
indicazioni che vengono da documenti internazionali,
in primo luogo dalla Carta dei diritti fondamentali
dell´Unione europea. Ed è proprio su questo punto
che si sta svolgendo il conflitto. Si leggono
interpretazioni di norme costituzionali contrastanti
con la loro stessa lettera o comunque incompatibili
con il sistema complessivo di cui fanno parte. Ma
sempre più spesso si va oltre, e si parla e si
scrive come se la Costituzione non esistesse. Si fa
riferimento a valori, rispettabilissimi, ma che non
trovano alcun riscontro nel testo costituzionale, o
addirittura contrastano con esso. Da tempo
sottolineo che è in atto un tentativo, strisciante
ma visibilissimo, di sostituire al quadro dei valori
costituzionali un quadro del tutto diverso, portando
così a compimento una impropria e inammissibile
revisione costituzionale.
Qui è il limite dei dialoghi possibili intorno ai
temi in discussione. I principi costituzionali non
possono essere revocati in dubbio contrapponendo ad
essi altri valori "non negoziabili", che nella
religione cattolica troverebbero un fondamento così
forte da imporli ad ogni altro. Gustavo Zagrebelsky
ha più volte messo in evidenza come ciò apra un
conflitto insanabile con la stessa democrazia. E,
nella concretezza della vicenda italiana, ciò pone
il problema della linea che stanno seguendo le
gerarchie ecclesiastiche. Un problema che non si
affronta e non si risolve ripetendo, come peraltro è
ovvio, che la Chiesa deve poter esercitare
pienamente il suo magistero spirituale.
Da anni sappiamo che la Chiesa, venuta meno la
mediazione svolta dalla Dc, agisce ormai in presa
diretta sulla politica italiana. Lo si ripete in
questi giorni. Ma questo vuol dire che essa si
comporta come un soggetto politico tra gli altri,
sia pure con il peso grandissimo della sua storia, e
che come tale deve essere considerata. Entrando
direttamente nella politica, la Chiesa "relativizza"
sé e i suoi valori, non può pretendere trattamenti
privilegiati, che è pretesa autoritaria,
incompatibile appunto con la democrazia.
Nella debolezza della situazione politica italiana,
nelle sue fragilità e convenienze, la pressione
della Chiesa si sta manifestando con una intensità
sconosciuta quando, in Francia o in Belgio o in
Germania o in Spagna o in Olanda, sono state
affrontate, e in modo assai più radicale, analoghe
questioni intorno alla vita. La debole Italia più
agevole terreno di conquista? Una politica che porta
a ritenere inammissibile nel "cortile di casa" quel
che è tollerato quando Roma è più lontana?
Inquieta, a questo punto, la quasi totale assenza di
un mondo cattolico che conosciamo portatore di
un´altra cultura che, ad esempio, si fa sentire con
chiarezza nelle questioni riguardanti la pace. Una
dura ortodossia avvolge i temi "eticamente
sensibili". Nessuno è autorizzato ad avviare una
discussione aperta, dunque l´unica via per un vero
dialogo, fosse anche il cardinal Martini. La dura
reprimenda che gli è stata rivolta, con un´accusa
neppure velata di "deviazionismo", aveva
evidentemente anche l´obiettivo di impedire che si
aprisse una falla, di intimidire chi avesse voluto
seguirne l´esempio. Anche nel silenzio di quei
cattolici, come nelle aggressività di altri e nel
disorientamento di troppa sinistra, scorgiamo la
conferma di una debolezza politica e culturale che
non autorizza troppe speranze.
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