RASSEGNA STAMPA |
ADOLFO ROSSI
L'AGITAZIONE IN SICILIA.
Inchiesta sui Fasci dei lavoratori
Presentazione di Marcello Cimino
Fra il 1893 e il 1894 la Sicilia, fino allora presente sulle pagine dei giornali italiani prevalentemente per le sue storie di banditi e di mafiosi, fece molto parlare di sé per il dilagare nelle sue città e campagne di una agitazione sociale senza precedenti e il contemporaneo rapido diffondersi dei Fasci siciliani dei lavoratori, una organizzazione quale mai si era vista prima, capillarmente strutturata ma dotata di un efficiente coordinamento regionale, ispirata da una ideologia vagamente socialista, guidata da dirigenti per lo più giovani, intelligenti, colti e determinati.
Proprio all’inizio del 1893, come tuono improvviso e fragoroso che precede un temporale destinato a lunga durata, giunse ai giornali la notizia di un eccidio compiuto il 20 gennaio a Caltavuturo, in provincia dì Palermo, dove una truppa di soldati e carabinieri disperse a fucilate un corteo di contadini reclamanti l’assegnazione delle terre comunali usurpate con la complicità degli amministratori comunali. Rimasero a terra undici morti e quaranta feriti, alcuni dei quali morirono nei giorni seguenti all’ospedale di Palermo.
L’attenzione sulla Sicilia richiamata da quel fatto, che ebbe ampia risonanza anche in sede parlamentare, fu poi tenuta desta dalle notizie che continuavano ad arrivare di scioperi e manifestazioni popolari, di interventi repressivi e arresti, ma anche di risultati positivi: aumenti salariali e miglioramenti dei patti agrari.
Si andò così avanti per tutto l’anno con un crescendo del movimento e insieme delle pressioni esercitate dai grandi proprietari terrieri siciliani e dai loro rappresentanti politici sul governo Giolitti affinché intensificasse la repressione, fino allo scioglimento dei Fasci.
E a tanto si giunse davvero nel giro di poche settimane dopo le dimissioni di Giolitti e l’insediamento (10 dicembre) del nuovo governo presieduto da Francesco Crispi.
Proprio a partire da quel 10 dicembre e fino ai primi giorni del 1894 fu un impressionante susseguirsi di tumulti popolari affrontati da carabinieri e soldati le cui sparatorie uccisero novantadue cittadini. Dall’altra parte un soldato, ucciso da un colpo di pietra.
Con decreto reale del 3 gennaio 1894 venne proclamato lo stato d’assedio in Sicilia e il generale Morra di Lavriano nominato commissario straordinario con pieni poteri. Seguì lo scioglimento dei Fasci, l’arresto di migliaia di cittadini, l’istituzione di tribunali militari, la soppressione delle libertà di associazione, stampa e parola.
Sul movimento dei Fasci siciliani, così brutalmente stroncato, sono stati scritti moltissimi libri di testimonianza, memoria e ricostruzione storica, e particolarmente in quest’ultimo trentennio che ha prodotto un’esaustiva messe dì ricerche storiografiche su quegli avvenimenti e il loro contesto socio-politico.
Primo in ordine cronologico nella densa e ricca bibliografia sui Fasci siciliani, figura un libretto di appena 120 pagine intitolato «L’agitazione in Sicilia» dato alle stampe nel giugno del 1894 per l’editore Max Kantorowicz di Milano. Ne è autore un giornalista, Adolfo Rossi, il quale, inviato nel mese di ottobre del 1893 in Sicilia dal giornale «La Tribuna» di Roma, aveva pubblicato a caldo
una serie di eccellenti servizi sulla situazione siciliana da lui indagata con scrupolo, onestà e intelligenza, i quali destarono un estremo interesse non soltanto negli ambienti politici ma anche nell’opinione pubblica.
«La Tribuna» era a quel tempo uno dei maggiori giornali italiani di informazione, sia per influenza che per tiratura. La sua linea politica era filocrispina e conseguentemente di opposizione al governo Giolitti, il che spiega la libertà concessa al giornalista di denunciare i comportamenti repressivi delle autorità prefettizie e di polizia che in Sicilia eseguivano le direttive del governo, formalmente rispettose dei principi liberali ma già sostanzialmente orientate verso la maniera forte, tanto che già in quel mese di ottobre del 1893 ben otto battaglioni di fanteria erano stati inviati nell’isola di rinforzo al normale presidio militare.
Subito dopo il suo viaggio in Sicilia, Adolfo Rossi fu inviato dal suo giornale in Eritrea dove si era riaccesa la guerra coloniale e vi rimase fino al marzo dell’anno successivo. Rientrato a Roma e avendo appreso come la situazione fosse drammaticamente precipitata in Sicilia, egli rielaborò i servizi pubblicati su «La Tribuna», vi aggiunse una premessa e una conclusione e ne fece un libro che da allora e fino ai nostri giorni è stato largamente citato e utilizzato quale preziosa fonte di dati e notizie da tutti coloro che dopo di lui hanno scritto sui Fasci siciliani.
Primo fra tutti a citano e a lodarlo fu Napoleone Colajanni il quale - in quanto deputato siciliano - aveva già utilizzato le corrispondenze del Rossi sia nella battaglia parlamentare contro lo stato d’assedio che in quella giudiziaria contro i tribunali militari.
Subito dopo quello sulla Sicilia uscì del Rossi un libro sull’Eritrea, cui seguirono quasi anno dopo anno libri sui più disparati argomenti di attualità, dalla guerra grecoturca a quella anglo-boera, dal banditismo calabrese all’emigrazione negli Stati Uniti, all’epidemia di colera scoppiata ad Amburgo.
Nato nel 1857 a Fratta Polesine, costretto ad interrompere gli studi benché ad essi ben predisposto e appassionato per la letteratura, entrò giovanissimo nell’amministrazione postale Stancatosi però ben presto di vivere da travet, decise di piantare tutto e di andarsene in America. Aveva 22 anni. La sua vita di emigrante, i viaggi, i molti mestieri, gli incontri li descrisse poi in due gustosissimi libri intitolati Un italiano in America e Il paese dei dollari. Dopo un anno di vagabondaggio si stabilì a New York dove intraprese la carriera di giornalista quale redattore prima e direttore dopo de «Il Progresso italo- americano».
Rientrato in Italia nel 1884 fu redattore de «Il Messaggero», del «Don Chisciotte» e de «La Tribuna», per conto dei quali giornali continuò a girare il mondo. Fu infine direttore de «La Sera», un giornale che usciva a Milano alle diciannove con i resoconti delle sedute del Parlamento e le notizie telegrafiche di tutti gli avvenimenti della giornata.
Ma insofferente come egli era della vita sedentaria che la carica di direttore comporta necessariamente, ben presto ritroviamo Adolfo Rossi di nuovo in giro per il mondo in veste di inviato speciale. Nel 1895-96 è in Eritrea quale corrispondente di guerra per il «Corriere della Sera». Nel 1897 in Grecia per la guerra contro la Turchia. Nel 1898 in Spagna per la guerra contro gli Stati Uniti.
In questo stesso anno fu nominato redattore capo del «Corriere della Sera» e in tale veste si trovò a dover affrontare le difficilissime giornate della rivolta popolare milanese del 1898 repressa a cannonate dal generale Bava Beccaris.
Non ostante i successi conseguiti nella carriera giornalistica, Adolfo Rossi nel 1901 si dimise dal «Corriere della Sera» per entrare al servizio del Ministero degli Esteri. Nel 1902 lo troviamo console generale a Buenos Ayres dove morì nel 1921, all’età di 64 anni.
Essendo il libro «L’agitazione in Sicilia» diventato difficilmente reperibile, opportunamente ora le Edizioni La Zisa ne ripropongono la lettura. Di esso non sono state mai fatte riedizioni. Una traduzione in tedesco intitolata «Die Bewegung in Sizilien» è stata pubblicata a Stoccarda nello stesso anno 1894.
ADOLFO ROSSI
L'AGITAZIONE IN SICILIA.
Inchiesta sui Fasci dei lavoratori
Premessa
Come tutti ricordano, fu alla fine dello scorso mese di ottobre che i giornali del continente cominciarono ad occuparsi con una certa attenzione del movimento siciliano* « Si tratta — dicevano le prime notizie — di una vasta organizzazione che ha un Comitato centrale a Palermo, con piena giurisdizione per tutti i Fasci dei lavoratori sparsi nell'isola. I Fasci sono più di cento, senza contare le sezioni di molte borgate e quelli in via di costituzione. Trenta in provincia di Palermo), trentacinque in provincia di Catania, quattordici in provincia di Messina, otto in quella di Siracusa, nove in quella di Trapani, dodici in quella di Caltanissetta e ventidue in quella di Gir- genti.
« Nell'isola, si aggiungeva, gli ascritti ai Fasci sarebbero da due a trecentomila, di cui undicimila nel solo Fascio di Palermo, cinquemila in quello di Piana dei Greci, seimila in quello di Corleone ecc., poiché è nei paesi della provincia di Palermo che il movimento ha preso maggiore estensione. « Le donne, sintomo molto serio, sono le più ardenti E i Fasci di contadine non si mostrano meno agguerriti di quelli degli uomini. In certi paesi l'entusiasmo per la sperata redenzione economica è giunto al punto da sostituire ogni altra fede; donne, che erano religiosissime, non credono più che ai Fasci.
« L’organizzazione in tutta l'isola è principalmente composta di contadini, alcuni dei quali parlano nelle loro riunioni con forma disadorna, ma con immagini pittoresche e tali da colpire profondamente. Sulla massa degli uditori fanno più effetto dei forbiti oratori che parlano in italiano.» Appena giunte queste prime informazioni, io cre- detti opportuno di andare subito per conto della Tribuna a fare un giro nell'isola, e durante il mese di ottobre percorsi quasi tutta la Sicilia in ferrovia, in diligenza e a cavallo, recandomi sui più remoti. paeselli di montagna e scendendo coi carusi in fondo alle miniere, non preoccupandomi d'altro che di studiare i Fasci e la gente che li componeva. E trovai che nelle Provincie di Palermo, Girgenti e Caltanissetta il movimento era realmente serio, specialmente, anzi quasi esclusivamente fra i contadini.
In certe regioni si era diffuso come una specie di contagio; le turbe erano invasate dalla credenza che fosse imminente un nuovo regno della giustizia; si riunivano nelle rustiche sedi dei Fasci col fervore con cui si dovevano raccogliere una volta i seguaci di Spartaco nei grandi boschi e i primi cristiani nelle catacombe: quando si inaugurava in un paesello un nuovo Fascio, lo si faceva con lunghe processioni in cui invece delle croci si portavano in giro le bandiere rosse e certe tabelle infisse sulla punta di pali, con iscrizioni socialiste. Non dappertutto, però, Fasci avevano un vero carattere socialista moderno. In taluni, anzi, non erano altroché un'accozzaglia di poveri ignoranti, organizzata da qualche ambizioso contro il partito municipale regnante nel luogo. In altri paesi i Fasci si erano formati per spirito di imitazione; in altri ancora, invece dell'idea socialista si trovava una specie di mania religiosa, alla Lazzaretti, tant’è vero che nelle sedi di alcuni Fasci vidi il crocifisso col lumino acceso davanti; in altri finalmente il fascio non era che la riunione dei birbaccioni,i quali col nuovo nomee di Fascio battezzavano le stesse associazioni di delinquenti che una volta si chiamavano della mafia o della camorra.
Le mie lettere alla Tribuna, le quali non avevano Forse altro pregio che quello della sincerità, ebbero L’onore di essere tradotte all'estero e ricordate in Parlamento e al processo testé svoltosi a Palermo. Ora che le condanne inflitte a De Felice e compagni hanno reso più ardente che mai la discussione sulla questione siciliana, ho creduto opportuno riassumerle aggiungendovi qualche considerazione sulla situazione in Sicilia. Sono le impressioni di un giro fatto serenamente, senza preconcetti, e le convinzioni che dopo quel giro si andarono radicando nella mia mente. L'agitazione in Sicilia ha origini politiche o economiche ? Per troncarla pacificamente quali sarebbero i mezzi più adatti ? Le risposte a questi due quesiti le troveranno in una quantità di fatti, di informazioni, di cifre, coloro che avranno la pazienza di leggere il presente volumetto.
Milano, giugno 1894.
Adolfo Rossi
L’Agitazione in Sicilia
I A Palermo. Garibaldi Bosco. L’organizzazione dei Fasci.
Appena arrivato a Palermo ai primi dello scorso ottobre, prima di vedere il presidente del Fascio di quella città e gli altri capi dell'organizzazione, credetti opportuno di andar a trovare il redattore capo del Giornale di Sicilia — il più diffuso dell’isola — e qualche altro di quei colleghi che con maggior diligenza s'occupavano del movimento. Tutti mi dissero, in complesso, che il fermento era innegabilmente molto serio, che i capi non erano per l'azione immediata, ma che la tendenza all'azione esisteva però nelle masse. Mi ricordarono che i primi Fasci furono fondati qualche anno fa a Catania da De Felice Giuffrida, più che altro per le lotte amministrative comunali. crescendo e diffondendosi, cambiarono carattere. Oramai i loro capi erano quasi tutti marxisti; i Soci meno colti ignoravano le teorie di Marx, ma erano convinti che solo coll'unione potevano sperare un miglioramento del loro stato.
E’ sorprendente - mi diceva il redattore capo del Giornale di Sicilia — la rapidità con cui, grazie ad un'abile organizzazione, si è formato questo grande esercito di lavoratori, che rappresenta una forza incosciente a! servizio di chi ha oramai preso su dì essa il potere di condurla dove vuole e come vuole. Vedrà, girando per le provincie, gli entusiasmi di quei contadini affamati, la fede cieca di quelle donne cui è stato detto che unendosi e orga- nizzandosi farebbero un giorno venire a patti i padroni e finirebbero di soffrire. L' improvvisa trasformazione ha colpito di meraviglia gli stessi capi. <Noi non andiamo più in chiesa, ma al Fa- scio» mi raccontava una contadina di Piana dei Greci.
« Là dobbiamo istruirci, là organizzarci per la conquista dei nostri diritti.» E quando vi sono le elezioni, le donne sollecitano i mariti a votare; quando i capi vanno a visitare le organizzazioni locali, migliaia di donne accorrono ad accoglierli con pioggie di fiori e si gettano a terra per salutarli, come una volta facevano al passaggio dei vescovi. In alcuni luoghi gli uomini fanno lo stesso in altri si mostrano più calmi, ma forse più riso- luti. Sono popolazioni ancora primitive, diventato fanatiche per una nuova fede. — È proprio vera, dunque, questa partecipazione delle donne al movimento? — Altro che! Bisogna sentirle parlare, queste contadine! Sono oratori nati. Quando si tenne re- centemente qui a Palermo il Congresso, nel quale si costituì l'unione di tutti i Fasci, ho sentito par- lare due contadine, una di Corleone e una di Piana dei Greci. Non crederò a me stesso. Parlavano a voce alta e chiara, con disinvoltura e coraggio sorprendenti.
_I Fasci — mi confermava da parte sua un altro pubblicista, il signor A. Salemi — bisogna rinoscerlo, sono potenti; obbediscono ad una parola, si reggono con uno statuto comune e se domani, all’improvviso e trascinati, dovessero scendere nel campo dell'aziono, ne avrebbero la direzione. Insomma la situazione à questa: si hanno dei Fasci ai quali il popolo è oramai assai attaccato. Scioglierli e avere una sommossa è proprio tutt'uno. Non si sciolgono e si lascia che il popolo irritato e immiserito serbi la speranza di poter conseguire qualche cosa con l'agitazione legale? Ebbene, in questo caso la rivoluzione è egualmente sicura, a meno che il Governo non conti sul serio e presto di provvedere alla sorte del popolo in una maniera efficace. Senza di ciò i Fasci si perfezioneranno sempre più acquistando nuove forze, maggiore chiarezza d'intendimenti; e, perdurando l'attuale stato di cose, verrà giorno in cui le impazienze si accumuleranno e in cui i capi non potranno più frenare il popolo senza immolar sé stessi.
E si può essere sicuri che, mossi i Fasci, non saranno i soli nell’azione, chè molti e ben forti sono gli argomenti di scontento di tutte le classi sociali nell'isola. — E che cosa si dice e si pensa a Palermo - domandai — del giro che sta facendo in Sicilia il nuovo direttore generale della pubblica sicurezza? - Sensales — mi rispose il collega del Giornale di Sicilia — dopo essersi fermato qualche giorno a Palermo, è partito per l'interno dell'isola. Alle persone che lo avvicinavano egli avrebbe detto di convenire che vi sarebbero da temere dei disordini procedendo allo scioglimento dei Fasci, ma che d'altra parte, continuando a questo modo, la propaganda prenderà un carattere sempre più pericoloso e i disordini scoppieranno egualmente, con la differenza che fra qualche tempo, quando l'organizzazione sarà più temibile d'oggi, i disordini assumeranno una forma assai più minacciosa di quanto non assumerebbero ora.
I Fasci, dei quali nelle ultime settimane s'erano arrestati i presidenti o i soci più ferventi, erano quelli di San Giuseppe Jato, Piana dei Greci, Santa Croce Camerina, Frizzi, Campofranco, Roccalmonte, Palazzo Adriano, Corleone e Grotte. Alcuni degli arrestati erano stati denunziati come istigatori, altri come membri d'associazioni di delinquenti; ma poi, quando si fecero i procesdi,o furono condannati a pene lievissime o assolti come Bernardino Verro, presidente del Fascio di Corleone, noto come uno dei capi più ardenti. Con le leggi ordinarie era impossibile colpire i Fasci finché ai mantenevano nella legalità e colpendoli arbitrariamente, come si fece nei paesi nominati, non si otteneva altro scopo che quello di renderli più forti. A Piana dei Greci i socialisti avevano vinto alcuni posti nelle elezioni comunali in causa della prigionia del dott. Barbato; in altri paesi dove il Fascio non era ancora bene sviluppato, dopo gli arresti aumentavano i soci. I compagni liberi mantenevano Gli amici in carcere e le loro famiglie; curavano la difesa degli accusati col mezzo di un collegio d’avvocati; pagavano le multe e via dicendo.
-Qui — dichiarava il presidente del Fascio di Palermo — si ripeterà quello che è avvenuto in Germania: le leggi eccezionali consolideranno il partito. E infatti i socialisti non avevano ottenuto delle vittorie solamente a Piana dei Greci. A Catania una parte del Consiglio comunale era socialista. A Messina, nelle elezioni di luglio, erano riusciti Petrina e Noè. A Caltanissetta vari altri noti socialisti avevano trionfato nelle medesime elezioni, come pure a Partinico, Alcamo, ecc. Tutta la lista socialista era riuscita a San Giuseppe Jato, San Cipirello,Prizzi, Aragona e altri luoghi. A Prizzi i socialisti si apparecchiavano a presentare nelle future elezioni politiche un operaio contro l’onorevole Finocchiaro Aprile. E dappertutto andavano dicendo che non erano astensionisti; che stavano per la conquista dei poteri pubblici; che per essi la lotta elettorale era un grande mezzo di propaganda: il candidato che svolge il programma socialista non fa che convertire altre persone alla causa; Le sconfitte non iscoraggiano i socialisti, perchè Li inducono a migliorare l'organizzazione; le vittorie poi entusiasmano le masse e persuadono i timidi, gli indecisi, ad abbracciare il partito. Ma torniamo a Palermo. Il Comitato centrale che dirigeva i Fasci dei lavoratoci siciliani si componeva di nove membri, tre dei quali nominati dai Fasci della provincia di Palermo: ognuno degli altri rappresentava una delle provincie rimanenti.
Cosa notevole, tutti questi capi erano giovanotti in sulla trentina; quelli della provincia di Palermo erano: Garibaldi Bosco, palermitano, di 27 anni; il dottor Barbato di Piana dei Greci, di 33 anni; Bernardino Verro di Corleone, di 27 anni. Appena arrivato a Palermo trovai e conobbi Garibaldi Bosco nell'ufficio della Giustizia Sociale, organo ufficiale del Partito socialista dei lavoratori di Sicilia, giornale settimanale, che per le spese di carta e di stamperia era notoriamente sovvenzionato da un giovane principe fllo-socialista.(N.d.R Era il Principe Ballerini nonno di Andrea che fu per tanti anni redattore di Cronache Parlamentari) Bosco è un giovinotto grosso e tarchiato, dalla larga faccia rotonda, dal colorito olivastro, capelli neri tagliati corti e baffetti da adolescenti. Vestiva pulitamente e quasi con eleganza. Era lui l'anima dell’organizzazione dei Fasci e il SUO valore era cosi noto fra i socialisti che all’ultimo Congresso di Reggio Emilia l'avevano nominato presidente in più d'una seduta. Aveva una straordinaria facilità di parola e con la sua eloquenza, con la franchezza e con la bella presenza esercitava sullo masse popolari un vero fascino. Fuori di Palermo credo che gli giovasse anche il nome e che i contadini lo reputassero un figlio o un nipote di Giuseppe Garibaldi.
Di professione era ragioniere in una casa di commercio. Viveva modestamente con la sua famiglia composta dei vecchi genitori, della moglie e d'un bambino. Nella vita privata — a differenza di qualche altro capo molto donnaiuolo — era un vero modello di padre di famiglia e ciò contribuiva a farlo stimare anche dai partiti avversari, i quali lo calcolavano un ragazzo cbe s'era riscaldata la testa colle idee socialiste, ma ne riconoscevano la buona fede. A quindici anni Bosco era già segretario di tutte le associazioni popolari di Palermo, leggeva i giornali socialisti agli operai, spiegava gli opuscoli e impiegava le domeniche a inoculare ne’ suoi compaesani i germi delle nuove idee. — Due anni or sono — egli mi diceva — vedendo che le associazioni continuavano a essere in Sicilia sempre divise, andai a studiare la Federazione di quelle di Milano, ma mi persuasi che il sistema adottato in Lombardia non si poteva applicare in Sicilia, dove tante Società non erano che strumenti elettorali. Andai allora a Parigi e studiata che ebbi l'organizzazione della Bourse du travail, trovai quello che cercavo.
E sul modello della Camera del lavoro di Parigi che a Palermo procurai di foggiare il Fascio, diviso per sezioni d'arti e di mestieri. Per le convocazioni, per le rapide riunioni, per passare ai compagni una parola d'ordine, cerco di adottare il sistema della Ligue des patriotes di Paul Dérolouède: ogni capo d'un Fascio passa la parola ai singoli capi di Sezione e ognuno di questi ultimi la passa alla sua volta ai capi dei rioni e delle strade. In un batter d'occhio, sia di giorno come di notte, tutti i soci dei Fasci possono ricevere un avviso. Ogni Fascio poi ha già la sua polizia che lo tiene al corrente di tutto ciò che si prepara o si dice dalla polizia del governo. Prima ancora che il comm. Sensales sbarcasse a Palermo, io sapevo ciò che egli aveva detto a bordo. Quasi tutto il personale dei piroscafi fa parte dei nostri Fasci. E oramai la nostra organizzazione è cosi forte che non temiamo nulla dal Governo.
Tutto abbiamo preveduto: i scioglimenti graduali o contemporanei e gli arresti in massa. Più forti saranno le persecuzioni e più grande sarà la nostra vittoria. Perché? Semplicemente perché non potranno arrestare più di trecentomila persone, che tanti sono oramai i nostri soci. Arrestano tutti i capi? Ebbene, noi teniamo pronti dei nuovi capi segreti, non conosciuti dalla polizia, cha abbiamo già nominati, che appena noi saremo carcerati continueranno una propaganda più efficace che mai.
— E se il Governo vi lasciasse in pace finché non commettete atti contrari alle leggi?
— Allora succederà questo, che fra un paio d'anni i nostri compagni trionferanno in tutte le elezioni comunali, e in quelle politiche presenteremo dei candidati socialisti in tutti indistintamente i collegi dell'isola. Sarà quella la prima grande prova a cui sottoporremo le nostre forze. Vedrà, girando nell'interno, quali rapidi progressi abbiamo fatto in meno di due anni. Ogni socio del Fascio di Palermo non paga per le spese di mutuo soccorso e di propaganda che una lira e cinquanta all'anno, mediante francobolli nostri da un soldo che compera quando può e che incolla sul suo libretto. Il sentimento di fratellanza si è talmente diffuso nei Fasci, che quando, per esempio, a un socio muore una mula, tutti i compagni sborsano due soldi a testa perché esso ne possa acquistare un'altra. Lo stesso si fa in caso di una malattia, di un incendio e via dicendo. Ogni Fascio ha la sua fanfara e uno stendardo rosso. Il nostro canto è l'inno dei lavoratori, che è stato già imparato a memoria da tutti i ragazzi.
— E dopo che è partito da Palermo, che cosa avete saputo del comm. Sensales?
— Che invece di sentire tutte le campane, come sarebbe suo dovere se vuol fare una inchiesta seria, egli si limita a interrogare i sottoprefetti, i comandanti dei carabinieri e qualche grosso proprietario. A Corleone questa cosa colpi di tanta meraviglia il nostro compagno Bernardino Verro, che si presentò spontaneamente al Sensales e gli disse: «Come, voi state per partire da Corleone senza aver chiamato nessuno degli sfruttati, nessuno dei capi e dei gregari del Fascio? Ma sapete quali sono le con- dizioni di questi contadini?» E gliene fece un quadro.
Gli disse come il ricco signore, al quale piace vi- vere in città e divertirsi, affitta le terre al gabellotto, che non volendo badare alla coltura, suddivide il terreno fra i subgabellotti, che alla loro volta suddividono la propria quota fra i contadini con un sistema di contratti con cui sono riusciti a sopprimere il lavoratore campagnuolo indipendente. Gli raccontò come, per esempio, nella coltura del frumento il contadino faccia la semina, l'aratura, la sarchia- tura, la raccolta, il trasporto sull'aia, la trebbiatura, e poi egli ricava una sola quarta parte del raccolto: tre parti vanno al padrone. Sulla sua quarta parte il contadino paga poi: la semenza, il terrizzuolo, il diritto di sfrido, il diritto di cuccia o del maccherone, il diritto del galletto ed altri minuti diritti ed angherie. Il prof. Gorleo, gli autori dell'inchiesta Jacini, il deputalo Sonnino, il Villari nella sue Lettere meridionali, Napoleone Golajanni, per quanto quasi tutti scrittori borghesi, occupandosi delle condizioni dei nostri contadini, hanno levato un grido di protesta; ma da quell'epoca ad oggi e sono trascorsi molti anni, il Governo non ha saputo proporre nemmeno una legge per limitare questo infame furto legale esercitato dai padroni. E questi non sono i soli dolori del nostro contadino!
Durante l'inverno, non bastandogli la sua piccola parte di frumento, dedotti i tanti diritti, per mantenere la famiglia, non avendo denari, egli è costretto a fornirsene a credito presso le arpie del paesello, e quando viene il raccolto deve pagare in frumento, computandolo, si noti bene, ad un prezzo prestabilito che è sempre inferiore al corrente. Che cosa credete che possa rimanere al contadino pei bisogni del futuro inverno? Meno che nulla: egli resta eternamente in debito. E i giornalieri o braccianti? Privi di lavoro quando piove e costretti a lavorare mezza giornata in estate, essi guadagnano da venti a trenta soldi per un lavoro medio di dodici ore. Quasi sempre vengono pagati, in buona parte, con cattivissimo pane e pessimo vino, e nei giorni in cui il lavoro manca, chiedono ai padroni un orestito in frumento, computandolo ad un prezzo strabiliante ed aumentandolo dell'interesse del 25, dico venticinque, ogni sei mesi.
— Che cosa ha risposto il comm. Sensales a Bernardino Verro che gli faceva questo quadro?
— “Io dirò al Ministero”, ha risposto « che la condizione di questi contadini è semplicemente infamei”
E incaricò il Verro stesso di presentargli un rapporto sulle cause dello sciopero dei contadini che non è ancora completamente finito.
— E voi siete stato interrogato dal Sensalea ?
- No, e per questa sua trascuratezza sto scrivendo appunto un opuscolo, che gli dedicherò, intitolato: Fasci dei lavoratori — il loro programma r i loro fini. Nella prima parte, intitolata: Come tono sorti i Fasci, comincio col rispondere a coloro i quali ci accusano di promettere all'ingenua, ignorante e affamata classe dei contadini, vicina l’età dell'oro, tanto per guadagnare popolarità. E dico che l’rtà dell'oro la promisero i patriotti, quando indussero il popolo a fare la rivoluzione del 1860, ma non la promettono i socialisti. I socialisti dimostrano agli operai e contadini che solo coll'organizzazione possono migliorare le loro condizioni e che tale miglioramento potrà avvenire per virtù della loro forza e non per concessione dei borghesi, i quali hanno tanto promesso e nulla mantenuto.
La nostra propaganda non è fatta a base di miraggi, ma è forte di dimostrazioni. Noi, convinti che l'umanità cammina sempre e non si arresta per rachitici sforzi di classi interessate; convinti che l’attuale ordinamento economico è iniquo, essendovi uomini che vivono col lavoro degli altri e uomini che pur lavorando non vivono ; convinti che un rimedio a tanti mali è la socializzazione dei mezzi di produzione, abbiamo chiamato il proletariato, tenuto apposta nell'abbrutimento, e gli abbiamo detto: tu sei tutto, tu tutto puoi, risveglia la tua coscienza e batti la stessa via che il proletariato di altri paesi batte da più anni, questa è la via che ti condurrà alla liberazione! E gli abbiamo esposto e analizzato il programma, sicché, quasi risvegliato da lungo letargo, ha teso le braccia verso di noi e ci ha gridato: — Voi siete i veri amici! - e ci ha seguito con la gioia nel cuore e con la coscienza di ciò che si disponeva a fare.
— Io dirò poi al comm. Sensales, direttore generale della pubblica sicurezza, che questo risveglio degli operai e dei contadini in Sicilia non è dovuto solamente alla propaganda continua, persistente, vigorosamente fatta da noi giovani che del socialismo ci siamo fatti un culto. La rapidissima formazione dei Fasci è dovuta principalmente alle peggiorate condizioni economiche ed alle migliorate condizioni intellettuali, morali e politiche del nostro proletariato. Il progresso si è ottenuto per virtù stessa della evoluzione dell'ambiente, per forza dello
svolgimento naturale delle cose. L'aumento,per quanto lento, delle scuole popolari, la diffusione dei libri e dei giornali, la rapidità dei mezzi di comicazione, la necessità per la borghesia di appoggiarsi agli operai e contadini per vincere le battaglie elettorali, la conseguente necessità di adescarli, richiamandoli ai loro reali interessi, tutto ciò, per quanto adagio, non poteva che generare un miglioramento collettivo.
— E il programma dei Fasci?
— Il nostro programma è quello de! partito socialista dei lavoratori italiani, è il programma della scuola marxista. Noi vogliamo e combattiamo per l'abolizione del salario e come mezzo adottiamo la lotta di classe, cioè sfruttati contro sfruttatori, della lotta di classe ci serviamo per fare in modo che possano sparire tutte le ineguaglianze artificiali, artificialmente create. Noi diciamo alla borghesia: al vostro interessato patriottismo noi contrapponiamo l'internazionalismo, e mentre voi aizzate i popoli perché si scaglino l'uno contro l'altro,noi cantiamo inni di pace, sorpassiamo le frontiere e diciamo: ove vi ha uno sfruttato, ivi è un nostro fratello. Voi, borghesi, non accordate che una sola libertà, quella di sfruttare come meglio vi talenta il proletariato; noi invece agogniamo ad una libertà che ci conceda realmente completo il diritto di soddisfare ai nostri bisogni.
— E quale è il vostro programma d'immediata Attuazione? — É quello dell'impianto di cooperative di consumo nei comuni aperti e delle cooperative di lavoro nei centri popolosi. Noi annettiamo alle prime una grande importanza, non perché le crediamo capaci di risolvere la questione sociale, ma perché in Sicilia togliendo a tutti quei comuni che vivono col solo ricavo del dazio consumo l'unico mezzo di sussistenza, apporteremo una rivoluzione nel sistema delle imposte. Le cooperative di lavoro, poi, nei grandi centri varranno a rompere le camorre cosi bene organizzate nelle pubbliche aste da parte degli imprenditori alleati nello sfruttare l'operaio.
Di queste cooperative ne abbiamo parecchie in corso di formazione. A Palermo la cooperativa muratori- falegnami-fabbri ha già ottenuto il primo appalto. I soci di ogni Fascio, poi, hanno il servizio sanitario gratuito anche per le loro famiglie; il servizio farmaceutico pel quale comprano i medicinali col cinquanta per cento di ribasso; la mutua assicurazione sulla vita, mercè la quale, alla morte di un socio la di lui famiglia riceve una discreta somma [la mutua assicurazione non sì trova però ancora In tutti i Fasci); la scuola per gli adulti, divisa in due classi, una por gli analfabeti e l'altra di perfezuinamento; la difesa gratuita pei reati politici; la scuola di socialismo, che comincerà a funzionare presto a Palermo.
I locali dei nostri Fasci sono inoltre il luogo di convegno degli operai e dei contadini ed è là che si studia, si legge e ci si diverte. Gli alberi di Natale, le feste da ballo, le commedie socialiste che scriviamo e rappresentiamo da noi, oltre che divertire ed educare l'operaio, ci permettono di aumentare i nostri fondi dì propaganda e di aiutare spesso i nostri compagni bisognosi.
— E con quali criteri prendete parte alle lotte elettorali?
— Prima di tutto perchè crediamo nostro dovere di dar battaglia ai borghesi in tutte le occasioni e di contendere loro il terreno palmo a palmo. Poi perchè le elezioni sono un mezzo comodo ed efficacissimo di propaganda. Finalmente perchè il nostro rappresentante al comune, alla provincia, al Parlamento, è un controllo e si fa banditore dei nostri più urgenti bisogni. Vincitori di parecchie elezioni, noi, mercè la propaganda e l’organizzazione, speriamo di vincerne ben altre, e allora ci sì vedrà all'opera, malgrado tatti gli scioglimenti arbitrari e malgrado tutti i regi commissari.
Bosco mi accompagnò quindi a vedere la sede del Fascio dei lavoratori della città di Palermo e delle campagne circostanti, di cui egli era presidente e che contava più di diecimila soci.
La sede era situata in via Alloro n. 97, primo piano, e si componeva di due vaste sale e di altre camere, per le quali il Fascio pagava mille lire all'anno di pigione.
La prima sala, la più grande, era destinata alle conferenze e alle recite di drammi socialisti.Alle pareti stàvano appese alcune tabelle che si portavano anche alle dimostrazioni e sulle quali si leggevano in grandi caratteri neri le seguenti iscrizioni:
“Se non si risolve la questione sociale, la libertà civile è un inganno.” (Bovio) “Dove non è uguaglianza, la libertà è menzogna.” (L.Blanc)
“Lavoratori, facciamoci animo: l'avvenire è per noi” (V.Hugo). “Il prodotto à e deve essere del produttore”. (Bovio). “Proletari di tutto il mondo, unitevi”. (C. Marx)
Altre scritte minori dicevano: “Viva il socialismo” “Compagni, uniamoci” — “Organizziamoci e conquistiamo i poteri” — “La solidarietà è la difesa dei deboli” — “Lavorare per vivere e non vivere per lavorare”.
In un corridoio erano appesi i campioni delle stoffe con cui i soci sarti offrivano ai compagni di vestirli a prezzi minimi; le tabelle dei prezzi ridotti dei pastai, dei barbieri, dei pizzicagnoli, dei calzolai e di altri operai e piccoli negozianti facenti parte del Fascio. La seconda sala grande sì chiamava la sala rossa, perché le pareti erano tutte ricoperte dai gonfaloni rossi delle sessantatrè Sezioni di arti e mestieri in cui il Fascio si suddivideva. In fondo spiccava un busto in gesso del maestro Carlo Marx, fiancheggiato dai ritratti di Mazzini e di Garibaldi- Accanto al busto si vedeva il gonfalone rosso che gli operai di Milano avevano regalato l'anno precedente a quelli di Palermo.
In un angolo spiccavano cinque vecchie bandiere, alcune delle quali tutte lacere e scolorite. Queste — mi disse Bosco — sono bandiere di Vecchie associazioni operaie di cui si serviva la borghesia per le sue elezioni o per le sue commemorazioni. Noi abbiamo indotto coloro che ne facevano parte a scioglierle per inscriversi invece nel Fascio. Le anticbe bandiere sono diventate cosi nostri trofei..! Quando saranno molte ne faremo un museo! Mi presentò poi un vecchio socio del Fascio, un certo Nicolò Sanfralello, che gratuitamente faceva da custode della sede.
Mentre mi conduceva da ultimo a vedere le sale minori, che servivano da scuole e per le riunioni delle sezioni del Fascio, entrò tutto trafelato un operaio che veniva a piedi nientemeno che da Casteltermini, provincia di Girgenti, e che aveva camminato sedici o diciotto ore per portare a Bosco la notizia degli arresti operati in quella città del presidente del Fascio, prof. Giuseppe Bivona, e di parecchi consiglieri.
— Gli arresti — disse il latore della notizia - sono stati operati senza mandato dell'autorità giudiziaria, di notte, all'insaputa. Qualche giorno fa è venuto nel paese un battaglione di truppa. Se sospettavamo una cosa simile, noi potevamo all'improvviso disarmare tutti i soldati, senza bisogno di sparger sangue, perché a Gasteltermini i soci del Fascio sono quattromila, sopra una popolazione di quattordici o quindicimila abitanti.
Aggiunse che voleva telegrafare la notizia degli arresti, ma che gli diedero ad intendere che il filo del telegrafo era rotto ; che gli arrestati erano stati nella notte stessa portati a Santo Vito e che molti soci del Fascio s'erano dati alla campagna per non essere carcerati anch'essi.
- E la causa di codesti arresti – domandai? — La sappiamo forse? — mi rispose quello di Clasteltermi - Ciò che posso dirvi è che in causa delle mercedi derisorie abbiamo avuto uno sciopero di contadini e che tulle le zolfare sono chiuse. La miseria e la fame sono grandi e tuttavia dacché Si è costituito il Fascio la delinquenza è diminuita nel paese. Alla domenica una Commissione di fratelli....
— Chi sono questi fratelli? — Noi chiamiamo fratelli i soci del Fascio. Ogni
domenica, dunque, una Commissione va in giro per le osterie a raccomandare ai fratelli di non ubriacarsi, perchè da noi la massima parte delle risse e dei ferimenti succedono quando c'è di mezzo il vino. E ogni decurione (capo di dieci soci del Fascio, ha l'obbligo di sorvegliare i suoi uomini e di essere per essi come un padre. — Senta, senta — saltò su a dire Bosco — che razza di arruffapopoli noi siamo! Vede come neinostri Fasci si va diffondendo il sentimento della fratellanza?
II. Da Palermo a Canicattì, Sommatino e Campobello di Licata. — Le entusiastiche accoglienze ai capi. — Una imponente processione.
Dopo aver così interrogato il giovane presidente del Fascio di Palermo, era interessante sentire che cosa dicevano i rappresentanti delle autorità. Cominciai coll'andar a trovare il comm. G. Sighele, che da un anno era procuratore generale del re a Palermo, e che avevo avuto occasione di conoscere e stimare a Roma. Discorrendo della situazione dell'isola, delle cui bellezze naturali egli è innamorato, il comm. Sighele mi disse sinceramente che le cose erano giunte a un punto tale da dover impensierire.
— Che i contadini stiano qui — egli mi diceva | peggio forse che in qualunque altra regione d'Italia è innegabile. É pure innegabile che dopo il 1860 ben poco s'è fatto per la Sicilia. D'altra parte abbiamo qui le vaste estensioni di terre disabitate che favoriscono il malandrinaggio; l'indole degli abitanti, nature vulcaniche, facili all'amore esagerato come all'odio eccessivo: buoni, eccellenti in fondo per chi li sa prendere dal loro verso; cattivi, selvaggi quando sono presi dall'ira o acciecati da una passione qualsiasi.
In quanto ai Fasci, riconoscendo che alcuni dei capi erano giovani intelligentissimi, mi diceva semplicemente: — Da principio non si credeva che i Fasci potessero svilupparsi così rapidamente e acquistare tanta forza. Dalla Procura generale passai alla Prefettura.
— I Fasci — mi disse il comm. Colmayer, prefetto di Palermo — si sono moltiplicati negli ultimi tre o quattro mesi. I capi, alcuni sono forse in buona fede; ma altri non sono spinti che dall’ambizione personale e non aspirano che a diventare consiglieri comunali o provinciali, o deputati. Tutti poi hanno il torto di far intravvedere alle masse ignoranti il miraggio di un miglioramento troppo rapido, quale non si potè ottenere ancora neppure pei paesi che si vantano di essere più civili del del nostro.
Aggiunse che certamente le condizioni del contadino siciliano non potrebbero essere peggiori, e che se le autorità superiori credevano che fosse troppo tardi oramai per reprimere, non restava altro rimedio che quello di cercare che i proprietari di terre trattassero più umanamente i lavoratori. — Solo — dichiarava — quando i contadini si vedessero trattati meglio dai padroni per intercessione del Governo, lasceranno i Fasci, se no c'è da prevedere un brutto avvenire.
Il prefetto cambiò quindi argomento e mi disse che in quanto al malandrinaggio la provincia di Palermo si trovava in migliori condizioni di ciò che si credeva.
In città le condizioni della pubblica sicurezza sono migliorate tanto che ieri, per esempio, il libro nero della questura non registrava il più piccolo reato. In quanto alle campagne, sempre della provincia di Palermo, le condizioni stesse sono migliorate che in qualunque altra provincia dell'isola. La cosiddetta banda Maurina, ridotta oramai a sole cinque persone, non s'è fatta viva nel Palermitano. Io sono di parere che, scegliendo meglio il personale per la sicurezza delle campagne, si debbano ristabilire le guardie a cavallo. Come si vede, poco di positivo e di concludente c’era da sapere dai funzionari intorno ai Fasci. E sì capiva: pareva imminente un cambiamento di Ministero. Chi poteva sapere che cosa si preparava? Meno ancora potei sapere dal comm. Sensales, direttore generale della Pubblica Sicurezza. Andai a trovarlo all’albergo Trinacria. Egli era tornato la sera innanzi da un primo giro nell'interno e si accingeva a partire alla volta di Trapani.
Il conam. Sensaìes è un bel tipo di diplomatico, dalle lunghe basette grigie, cortese, sorridente, che parla lentamente, con la disinvoltura e l'apparente indifferenza di uno che chiacchieri per passatempo delle cose del giorno al club. — É curioso! — cominciò col dirmi. — Tutti credono che io sia venuto io Sicilia per occuparmi esclusivamente dei Fasci dei lavoratori, mentre io studio invece la questione del brigantaggio.
E coll'aria di un letterato che stia preparando una monografia per la Nuova Antologia, ricordò le misure adottate in Sicilia dai vari Governi negli ultimi secoli contro il malandrinaggio, notando l’avvicendarsi continuo dei servizi di P.S. a cavallo e a piedi.
Quando io lo richiamai alle tristissime condizioni attuali dei contadini:
— In certi luoghi — mi disse — davanti all'organizzazione dei Fasci, certi proprietari ragionevoli hanno spontaneamente ceduto diminuendo il prezzo dei fitti o aumentando l'importo della mano d'opera. Ma in altri luoghi temo che queste concessioni non le vogliano fare, unicamente per non aver l'aria di cedere alle intimazioni dei capi dei Fasci.
Mi hanno assicurato — osservai — che dal 1860 in qua è aumentato del 40 per cento il prezzo dei fitti delle terre, mentre è diminuito quello del frumento e degli altri prodotti. I proprietari poi si lagnano dell'aumento delle imposte, e ricchi e poveri dicono che dal 1860 in poi sotto i vari ministeri nulla si è fatto a vantaggio dell'isola.
— Io ricordo — rispose il comm. Sensales con la sua flemma abituale — che nel 1860 noi non avevamo in Sicilia neppure un chilometro di ferro- via, né un becco di luce a gas.
E a proposito di chi rimpiange il passato, mi raccontò come egli abbia raccolto una curiosissima
collezione di documenti sulle regole di polizia a cui era sottoposto il porto della barba sotto i Borboni. Farà in proposito una interessante pubblicazione. Sotto il cessato Governo i cittadini non potevano in Sicilia portare la barba come piaceva loro. Tenere la barba intera era allora una manifestazione sovversiva, che la polizia non tollerava. — Un vecchio siciliano — mi narrò — ricevette un giorno dai gendarmi l'intimazione di tagliarsi la lunga barba bianca che portava, « Ma voi mi rovinate! » esclamò il povero vecchio. « Questa barba bianca è l'unico mio mezzo di sussistenza: essa mi serve per posare da San Giuseppe nello studio dei pittori! »
Ridendo di cuore al racconto di questo aneddoto, io domandavo a me stesso se parlavo con un direttore generale di pubblica sicurezza che volesse burlarsi di un giornalista curioso. E, nel dubbio, provai a richiamare il commendator Sensales sulle cose attuali della Sicilia. Ma egli girò di nuovo abilmente intorno all'esca. — Eh! — esclamò — la direzione di un servizio come quello a cui ebbi l'onore di essere chiamato è impresa più ardua e difficile di quanto si crede! E cambiò ancora discorso per parlare delle lettere che io mandai alla Tribuna dal Viterbese intorno alla lunga latitanza di Domenico Tiburzi!
Dall’albergo Trinacria mi sono recato in via Celso presso l'avv. Masi, consigliere provinciale di Piana dei Greci, dove esisteva uno dei Fasci più fortemente organizzati della provincia di Palermo. Piana dei Greci è, come si sa, un paese di circa di circa dieci mila abitanti, situato a ventiquattro chilometri da Palermo, in luogo montuoso, fondato da una colonia di albanesi; vi si va in carrozza, non essendovi ferrovia, in quattro ore di viaggio.Quel Fascio era uno di quelli che contavano nel suo seno anche molte donne; meno i benestanti, tutti vi erano inscritti, maschi e femmine. L'indole degli abitanti è cosi facile alla ribellione, che ogni volta che si verificarono tumulti o rivoluzioni a Palermo o nel continente, a Piana trascesero subito a gravi eccessi, commettendo uccisioni e feri- menti.
In tali circostanze gli uomini armati mandano sempre avanti i ragazzi e le donne, — Il Fascio di Piana — mi disse l'avv. Masi - è stato costituito nello scorso aprile dal dottor Barbato, un giovane socialista molto ardente e studioso che in quindici giorni diventò il vero padrone del paese Il Governo lasciò fare: era allora troppo occupato dalla questione bancaria. - E come fu possibile una cosi rapida e potente organizzazione? - Per le condizioni veramente miserrime in cui versano qui i contadini. Tutte le terre di Piana dei Greci appartengono a signori di Palermo, i quali affittandole al miglior prezzo possibile, non si sono mai curati delle condizioni dei lavoratori. Io non dico che tutti i soci del Fascio siano in buona fede, ma à un fatto che la maggioranza si compone di veri sfruttati. Il Governo non seppe far altro che sciogliere quel Consiglio comunale. Richiesto del mio parere sulla situazione, io risposi: «Fate sindaco il dottor Barbato».
Ma non mi vollero dar retta per non aver l'aria di cedere al Fascio. Si commisero poi altri errori. Nel vicino comune di Giuseppe Jato, dove esiste pure un Fascio molto forte, nelle ultime elezioni erano stati eletti consiglieri comunali quattro del Fascio suddetto. Non si volle riconoscerli e così si sono inaspriti gli animi e non so davvero come andrà a finire. A Piana dei Greci abbiamo la vera lotta di classe: quelli del Fascio non se la prendono solo coi signori veri, ma anche con coloro che dei signori hanno le sole apparenze.
Avute queste informazioni, per un primo giro nell’interno sono partito da Palermo la mattina del nove ottobre alle sei, insieme con Garibaldi Bosco che provincie di Caltanissetta e di Girgenti. Prendemmo la ferrovia che costeggia il Tirreno fino a Termini Imerese e che da da un lato offre la veduta del mare e dall'altro quella di una regione montuosa e pittoresca, ricca di ulivi, aranci, limoni e fichi d'India che le danno una fisionomia orientale.
Da Termini la linea che conduce a Girgenti e a Caltanissetta s'interna nell'isola e attraversa spesso regioni di montagne brulle, bruciate dal sole, nelle quali la fillossera ha distrutto le viti e dove regna una grande solitudine: non si vede che qualche branco di pecore o qualche gruppo di tre o quattro contadini che passano su cavalli e muli che procedono coll’andatura lenta dei cammelli nel deserto. Alcuni dei viaggiatori che salivano nel treno erano armati di fucili.
Alla piccola stazione di Santa Caterina Xirbi (provincia di Caltanissetta) trovammo il deputato Giuseppe De Felice Giuffrida e tre o quattro capi di Fasci provenienti dalla vicina città di Castrogiovanni, dove il giorno prima era stato inaugura il Fascio con discorsi dell'on. Colajanni, dell'on. Felice e della figlia di quest'ultimo, Maria, una gentile giovanetta quattordicenne straordinariamente animata dalla fede nel socialismo, che parla al popolo col fervore di una missionaria e che per sesso e per l'età esercita sulle masse un vero fascino.
Alla stazione dì Caltanissetta alcuni capi di Fasci dicevano a Bosco e a De Felice che la provincia era una delle più difficili in causa della grande miseria e dell'ignoranza dei contadini, ma che sebbene meno notevole che nelle altre provincie, il risveglio c'era; a Santa Caterina Xirbi, piccolo paese di analfabeti, esisteva già un Fascio di 400 contadini; Villarosa ne contava uno di duemila minanatori, presieduto da Agesilao Porrello, uomo pieno di energia. Intorno al nuovo Fascio di Castrogiovanni, il giovinotto che lo presiedeva, Ernesto Fontanazza, bell’uomo dalla barba castana e dal viso d'una dolcezza d'apostolo, mi diceva che contava già duemila soci e che vi si iscrivevano anche uomini devoti, perché nei Fasci non si parlava mai contro la religione, ma si trattava solo la questione del miglioramento economico. Nelle sedi di molti Fasci, anzi, spiccava al posto d’onore un gran crocifisso.
Dopo Caltanissetta la ferrovia attraversa una regione ricca di mandorli e di ulivi: in tutte le piccole stazioni si vedono grandi cataste di pani di zolfo.
Un quarto d'ora dopo mezzogiorno si giungeva a Canicatti, città di ventiduemila abitanti, le cui case, addossate ad una eminenza a ovest della stazione hanno l' aspetto di una enorme fungaia bianca. Presidente del Fascio di Canicattì era Gaetano Rao, un possidente che poteva vivere tranquillamente di rendita, ma che, dotato di un gran cuore, si era dato tutto al socialismo.
Bosco gli aveva telegrafato per vederlo un momento solo senza scendere dal treno, ma Rao si trovava alla stazione con più di mille soci del Fascio e con la bandiera rossa del Fascio stesso. Quei contadini dal lungo berretto nero, con la estremità ripiegata sulla fronte come una carmagnola, formavano, sotto il sole cocente e sulla strada coperta di polvere bianca, un gruppo curiosissimo. I capisezione portavano una fascia rossa a tracolla.
Appena si fermò il treno, mandarono molti evviva in onore del giovane Bosco, che essi vedevano per la prima volta, e appena seppero che in compagnia di lui si trovava l'on. De Felice, mostrarono una gioia veramente straordinaria.
Invano Bosco disse che coi suoi compagni aveva preso i biglietti per Campobello e che non potevano fermarsi; tanto egli come De Felice furono tirati giù dal treno e condotti a Canicatti, da una gran folla che sollevava un nembo soffcante di polvere bianca e che gridava: « Viva il socialismo! Viva il deputato del popolo! Viva Gribaldi! Viva il padre nostro Do Felice!»
Era una scena identica a quella che si verificava una volta nei paesi per la processione del santo: si vedeva proprio che quei contadini avevano abbracciato il socialismo come una nuova religione, la cui fede era condivisa dalle donne.
Dalle finestre della sedo del Fascio, nelle cui rozze sale non vidi altro ornamento che un Cristo col lumino, Bosco e De Felice dovettero parlare. A un certo punto, avendo De Felice chiesto:
— Che cosa domandate, voi che bagnate la terra del vostro sudore? — cento voci risposero: — Pane e lavoro! Alla dimostrazione prese parte anche il sindaco del paese, l'avv. V. Falcone, un possidente socialista amateur. Canicattì è la città dove nelle ultime elezioni generali politiche Napoleone Colajanni riusciva contro Francesco Crispi. Recententemente il Consiglio comunale approvava un voto di plauso all'on. Colajanni stesso per il suo contegno alla Camera nella questione delle Banche.
Tra la folla mi fu indicato un bel tipo di contadino in sulla sessantina, vestito di velluto, dal viso abbronzato, completamente sbarbato, come usano in Sicilia quasi tutti i contadini, di nome Salvatore Giordano; detto il “filosofo”. Lo feci chiamare e gli domandai:
— Perché vi unite con tanta fede nei Fasci? — Perché — mi rispose — il Fascio vuol dire pane e lavoro. I borghesi proprietari sono d'accordo tutti per pelarci: bisognava che ci mettessimo finalmente d'accordo anche noi per essere trattati meglio. Noi abbiamo subito finora i loro patti: oggi dobbiamo cambiare. I padroni fanno i conti sui loro tavoli e oggi anche noi cominciamo a farli nei nostri Fasci.
E qui mi espose con molta chiarezza come sono i contratti agricoli a Canicattì: il contadino non può sempre sfamarsi e resta eternamente indebitato. — E se il Governo — gli chiesi poi — volesse sciogliere lutti i Fasci?
-Scioglierci? La nostra è la causa della civiltà Quella della lotta alla borghesia è la vera causa rivoluzionaria. Io resterò sempre così come sono!
— E se vi sciogliessero con la forza, con la truppa? Sentite, piuttosto di morire uno alla volta, meglio morire tutti insieme.
— Alla festa continuate ad andare in chiesa? — Sissignore, e vado anche, a confessarmi: nel Fascio c'è la verità di Cristo. Un giorno il curato mi disse male del Fascio, ma io gli risposi: « Come, voi predicate dal pulpito che il ricco non poteva salvarsi, che il povero era preferito da Dio, e ora che ci uniamo vorreste biasimarci, mentre non facciamo che mettere in opera le massime del vangelo?». I preti non possono dir male dei Fasci, perché noi non domandiamo che giustizia. Il passato è passato, ma per l'avvenire ci deve essere un rimedio.
— Che cosa pensate di De Felice, di Bosco e di quei giovani studenti o avvocati, che pur essendo borghesi lavorano per i Fasci? Non temete che alcuni di essi non abbiano altro scopo che quello di essere eletti consiglieri o deputati?
— De Felice e Bosco sono angeli calati dal paradiso. In quanto a quelli che lavorassero per le proprie elezioni, io dico che intanto ci spiegano delle verità: eravamo al buio e ci hanno rischiarati.
Dopo il contadino “filosofo” ho voluto interrogare un giovane e ricco proprietario, il barone Gaetano Bartoccelli.
— Le dico francamente — egli mi rispose — che i proprietari potrebbero fare patii più giusti coi contadini, ma non c'è l'accordo e nessuno vuol essere il primo a fare grandi concessioni.
— Il Fascio di Canicattì è un'accozzaglia di disperati e di malcontenti o si tratta di una vera e fraterna unione dei contadini?
— Devo riconoscere che sono poveri e onesti contadini, i quali non possono più tirare innanzi.
— Che cosa penserebbe di una repressione di questa agitazione? — Con le repressioni violente non si farebbe che inasprire maggiormente gli animi.
— E se il Governo lasciasse correre? — Sarebbe forse il miglior consiglio, quando umanitario. Per conto mio ritengo che questa dei Fasci sia una febbre passeggera. Il sindaco di Canicattì mi disse poi che il miglior provvedimento da parte del Governo sarebbe quello proteggere e aiutare l'agricoltura e le industrie. Um altro proprietario saltò fuori a dire: — Se il Governo vuole più umanità da parte i proprietari verso i contadini, deve cominciare a essere lui più umano verso di noi, scorticati oggi dalle tasse.
Verso le 4 pom. De Felice e Bosco partivano in carozza alla volta di Sommatino, freneticamente acclamati dalla folla.
Poco dopo le 5 arrivavano a Delia, paese di 4600 abitanti in provincia di Caltanissetta, dalle strade piuttosto sudicie e dalle case che mostrano l'estrema miseria degli abitanti.
Avendo saputo del loro passaggio, gran parte della popolazione usci a incontrarli con una fanfara. L’avvocato Antonino Scutieri, giovane e ardente socialista, presidente del Fascio di Campobello, spiegò ai contadini di Delia che i loro padroni li avevano mistificati iscrivendoli in una semplice Società di mutuo soccorso e che dovevano riunirsi anch'essi in un Fascio. Parlarono poi De Felice e Bosco.
Nei dintorni vi sono molte zolfare. Tutti i zolfatari che interrogai non facevano che lagnarsi: i ragazzi (carusi) sono tenuti proprio come gli schiavi. Uno di essi fu tempo fa cambiato con un cavallo.
Alle 6 e mezzo, i giovani agitatori venivano salutati lungo la strada dal Fascio di Sommatino, che contava più di 1800 soci, con una sezione di 200 donne. Ne era presidente Luigi Calogero Grasso, già segretario comunale.
Per festeggiare l’arrivo di Bosco e di De Felice si erano accesi dei grandi fuochi di paglia e l’ingresso nel paese, fra due o tremila persone avvolte dalla solita polvere, fu uno spettacolo chiassosamente fantastico. La facciata della sede del Fascio era tutta adorna di festoni di mortella e illuminata a lampioncini.
Da un tavolo De Felice e Bosco dovettero naturalmente parlare. Poi a cavallo di muli si partì alle 9 pom. alla volta di Campobello, dove Bosco e De Felice erano aspettati fino dal pomeriggio dove si sarebbero recati direttamente con la ferrovia, senza la involontaria fermata a Canicattì per inaugurare una Cooperativa di consumo.
Campobello di Licata, in provincia di Girgenti è un paese di 7000 abitanti, sopra una colina situato in una fertile regione. Il Fascio, uno dei meglio organizzati, era presieduto dal giovane avvocato Antonino Scutieri. Tutti i soci portavano una coccarda rossa; i capisezione avevano una fascia pure rossa al braccio, col numero progressivo della sezione stessa.
Si credeva che, per il lungo ritardo, i soci si fossero stancati di aspettare. Invece essi, con la bandiera rossa e la fanfara, aspettavano De Felice e Bosco a qualche chilometro dal paese. Dieci ore di attesa non avevano fatto perder loro la pazienza! Appena l'approssimarsi dei muli che portavano De Felice, Bosco e lo scrivente, coperti di polvere, fu avvertito nell'oscurità della notte, prese a suonare la fanfara, e uomini, donne e ragazzi, da due a tremila persone, recando torcie a vento e accendo fuochi di paglia, corsero verso i sopravvenienti. All'incontro fu uno scoppio d'entusiasmo indescrivibile.
L'ingresso nel paese ebbe luogo dopo le 11 e malgrado l’ora tarda, De Felice e Bosco dovettero parlare ancora! La mattina seguente il Fascio attraversava in processione il paese con le sue bandiere rosse e portando delle tabelle con motti socialisti. Uno diceva: Divisi siamo chiamati canaglie ; uniti saremo rispettati e faremo riconoscere i nostri diritti. Il Fascio di Ravanusa, un’altra grossa processione di contadini, era accorso a salutare i compagni di Campobello e a prender parte alla inaugurazione della Cooperativa di consumo.
Lo spettacolo di quella processione di duemila e cinquecento o tremila contadini dalle carmagnole nere e dalle bandiere e dai distintivi rossi, era imponente. Pareva la dimostrazione di una Salvation Army, ma più seria.
III Una discesa nella zolfara di Virdilio. — I carusi
Mentre mi trovavo a Campobello di Licata, avendo saputo che a sette chilometri dal paese esistono alcune importanti zolfare nelle quali lavoravano parecchi soci dei Fasci di Ravanusa, Campobello e altri comuni vicini, decisi di andare a visitarle
De Felice, che sebbene siciliano non era mai sceso in una zolfara, volle accompagnarmi e ciò fece si che, appena ne furono informati, tre o quattrocento soci del Fascio con una dozzina di bandiere rosse deliberarono subito di seguirci.
Mentre aspettavamo i muli all'uscita del paese, davanti ad alcune misere casupole, un centinaio i donne, dopo averci portate due sedie, circondarono De Felice e gli dissero che a Campobello si soffre molta fame. Siccome non ha territorio proprio, il Comune ha imposto le tasse del fuocatico e del bestiame. I disgraziati i quali con possiedono che un somarello o un mulo coperto di guidaleschi devono pagare l’imposta. Ogni diroccata casupola poi, superfluo dirlo, è soggetta alla tassa sui fabbricati; e chi non paga se la vede messa all’asta.
Tre giovani spose, magre, patite, dissero poi piangendo che da nove mesi avevano i mariti in prigione senza sapere perché.
— E noi moriamo di fame! — urlavano agitando davanti a noi sulle braccia i loro bambini macilenti. — E non sappiamo come fare con queste creature che domandano sempre del pane. I nostri mariti sono colpevoli di qualche cosa? Ebbene, li con- dannino, ma non ci tengano cosi tanti mesi in questa pena. Assassini! Assassini!
Quelle disgraziate facevano tanta compassione, che tutti i presenti avevano le lacrime agli occhi. Alle 3 finalmente partimmo colla numerosa scorta dei soci capitanati da alcuni capisezione con le fascie scarlatte a tracolla. Nelle ondulazioni del terreno sassoso, quella processione di contadini dalle carmagnole nere, con le bandiere rosse, era uno spettacolo nuovo: faceva venire alla mente le bande rivoluzionarie che un secolo fa andavano da un paese all’altro a piantare l’albero della libertà. Alcuni dei capisezione col viso completamente sbarbato avevano delle fisionomie serie di asceti; altri con le lunghe barbe sembravano dei David Lazzaretti.
Ci accompagnavano senza grida incomposte, ragionando seriamente della loro posizione. Al mio fianco camminava un intelligente ragazzo che portava una tabella infissa sopra un’asta, con la scritta: “L'avvenire è per noi”. Un'altra tabella recava i versi del canto dei lavoratori:
Se divisi siam canaglia, Stretti in Fascio siam potenti.
A un certo punto, mentre attraversavamo la montuosa regione che separa Campobello dalle zolfare, vedemmo in lontananza un ragazzo di nove o dieci anni, basso e rachitico, che fuggiva per la campagna brulla, inseguito a duecento metri circa di distanza da un uomo senza berretto e dalle vestì boancbe di zolfo, che per correre meglio s’era levate
le scarpe e con esse minacciava il fuggitivo con atti di ira feroce.
— È un picconiere — ci disaero i contadini — che cerea di ripigliarsi un caruso scappato. Se lo prende, lo concia per la feste! Sono cose che succedono qui tutti i giorni.
Succedono tutti i giorni, ma sono cose barbare, che non dovrebbero essere tollerate in paesi civili. Davanti a quella fuga e a quell'inseguimento, a me pareva di assistere ad una scena della Capanna dello zio Tom della Beecher-Stowe.
I carusi, com’è noto, sono generalmente ragazzi sagli gli otto ai quindici o diciott’anni, che trasportano a spalla il minerale dello zolfo dalle profonde gallerie alla superficie, arrampicandosi su per gli strettissimi pozzi. I picconieri, cioè gli uomini che coi picconi staccano il minerale nelle gallerie, si procurano uno più carusi mediante un’anticipazione ai genitori dei ragazzi di una somma che varia dalle 100 alle 150 lire in farina o frumento. Preso così come una bestia da soma, il caruso appartiene al picconiere come un vero schiavo: non può essere libero finché non ha restituito la somma predetta e siccome non guadagna che pochi centesimi al giorno, la sua schiavitù dura per molti anni. Egli è maltrattato dal padre che non può liberarlo e dal picconiere che ha interesse di sfruttarlo il più lungamente possibile. E quando tenta di fuggire sono persecuzioni feroci.
— Ma fermate quel picconiere! — gridammo a quelli del Fascio.
Alcuni soci lo raggiunsero infatti e lo fermarono.
Ma dopo una breve discussione vedemmo che lo lasciavano andare.
— È nel suo diritto — ci dissero quando tornarono a noi. — Il caruso gli appartiene.
- Quando si tratta di qualche scapaccione — ci disse un caruso che faceva parte della nostra comitiva — sono cose da nulla. Il male è quando il picconiere adopera il bastone. La settimana scorsa il caruso Angeleddu, d’anni tredici, fu ucciso dal suo picconiere con otto bastonate.
— E il picconiere non fu arrestato?
— Non li arrestano mai. Chi s'incarica dei carusi? I carusi, quando muoiono ammazzati, per le autorità sono morti sempre di morte naturale. Poco
tempo fa nella miniera Ficuzza un altro caruso morì in seguito ad un calcio nello stomaco.
- Come ti chiami tu? — chiesi al caruso che ci narrava questi orrori.
— Filippo Taglialana da Campobello. Ho tredici anni. Lavoro come caruso da cinque anni e sono
in debito verso il picconiere di venticinque lire che non potrò mai pagare.
Tirammo innanzi molto tristi. Alle tre e mezzo giungevamo alla miniera detta la Mintina, dove il 10 giugno 1886 un improvviso franamento del terreno uccise nelle gallerie 142 {dico centoquarantadue) fra picconieri e carusi. Le gallerie sfruttate non erano mai state riempite e il loro numero eccessivo formando un gran vuoto sotterraneo aveva prodotto l'avvallamento.
In una depressione del terreno trovammo da un lato alcuni forni dove si purifica il minerale, circondati da cataste del minerale stesso. Qua e là si vedevano delle specie di nicchie in muratura: le aperture dei pozzi. Davanti ad esse stavano dei ragazzi dai nove ai quattordici anni completamente nudi e dei picconieri egualmente in costume adamitico, con una sola pezzuola sostenuta da uno spago, sulle parti genitali. Quei gruppi di ragazzi e di adulti dalla pelle bruna, che spiccavano sul terreno riarso e brullo — solo su qualche pendice si vedevano dei cactus e dei fichi d’India — non parevano di italiani, ma di africani o di indù.
Ma se lo spettacolo impressiona da lontano per la sua novità, da vicino stringe il cuore. I carusi portano impresse in tutta la persona le stigmate delle sofferenze a cui vengono sottoposti. Presi a lavorare a otto o nove anni, essi hanno generalmente lo spalle curve per l’eccessiva fatica, le gambe storte, le occhiaie incavate per l’insufficiente nutrimento, la fronte solcata da rughe precoci.
La legge che dovrebbe proteggere il lavoro dei fanciulli e secondo la quale nessun ragazzo potrebbe fare il caruso se non ha compiuto i dodici anni, non viene fatta osservare. Tutti i carusi che ho interrogato hanno cominciato a lavorare a otto o nove anni. La maggior parte mi dissero che non guadagnavano cinquanta centesimi al giorno e che questa mercede non veniva loro pagata io denaro ma in pessima farina a un prezzo superiore a quello che corre nei vicini paesi.
— E quando facciamo gli storti — aggiunse uno — (cioè quando non camminiamo svelti col nostro peso su per le scale) sono bastonate.
— E quante ore lavorate? — domandai.
— Generalmente dodici ore di seguito, dalle quattro alle quattro, per sei giorni consecutivi durante i quali dormiamo qui; al settimo giorno andiamo a riposarci in paese.
— E qui dove dormite? — Per terra, in quelle grotte. E mi mostrarono alcune caverne, vere abitazioni da trogloditi.
— I più fortunati — aggiunsero — dormono là. E mi condussero sotto una tettoia, annessa a un forno, tutto il mobilio della quale consisteva in un tavolato senza pagliericci. Appiedi di quel tavolato alcuni carusi stavano desinando col picconiere. Mangiavano pane e cipolla. — Bevete qualche dito di vino? — chiesi. — Vino? — fecero guardandomi sorpresi. — E chi ce lo dà? Avessimo almeno dell'acqua! Non c'è neppur quella. Nelle ore in cui dovremmo dormire, ci tocca far molta strada per andare a prenderne fon po’.
- Quanti viaggi al giorno fai in media col tuo carico di minerale? — chiesi ad uno dei carusi. — Venticinque viaggi per ventisette soldi, su e giù per un pozzo lungo cinquanta canne (centotre metri). Altri carusi ci vennero intorno, tutti dagli organismi rovinati per l’eccessiva fatica, dallo sviluppo impedito: vere immagini di schiavi affamati. Appena sentirono che ci informavamo della loro sorte, cercarono qualche straccio da mettersi ai fianchi per avvicinarsi e dirci come sono trattati. Era uno spettacolo straziante. Qualcheduno di quegli infelicissimi aveva l'occhio intelligente e rispondeva con prontezza alle nostre domande; ma la maggior parte apparivano istupiditi dai patimenti e avevano lo sguardo come velato e spento, con le occhiaie livide.
Provammo a scendere in un pozzo della miniera la Mintina, ma era talmente stretto, ripido e malagevole, che fatti pochi metri dovemmo rinunziare a continuare. Ci pareva impossibile che dalle profondità di quel buco i poveri carusi potessero portar fuori sulle spalle i loro carichi di minerale.
Cercammo un ingresso un po' più largo e fummo condotti all’entrata numero tre della miniera Virdilio, nella quale lavoravano milletrecento fra picconieri e carusi. Due di questi ultimi, che avevano finito il loro turno di lavoro, si proffersero di accompagnare De Felice e me, mentre tre capisquadra si mettevano davanti all'apertura del pozzo per impedire che altri entrasse.
Alla luce tremolante delle due lucernine a olio che portavano i carusi, cominciammo a discendere in quel pozzo, curvandoci, sostenendoci con le mani alla volta. I gradini scavati nel masso sono irregolarissimi, ora alti e ora bassi, ora cogli angoli smussati, ora asciutti e ricoperti di polvere e ora bagnati e scivolosi.
Eravamo calati di pochi metri, quando vedemmo alcune deboli luci in fondo. Erano le lucernine di alcuni carusi che salivano curvi sotto il loro carico di minerale. Poi udimmo dei lamenti angosciosi Erano i gemiti dì quegli infelicissimi che si Sentivano più distintamente man mano che si avvicinavano a noi: gemiti e lamenti cadenzati di tènere creature ansanti e oppresse, che non potrebbero più salire e tirare innanzi ma che devono procedere a ogni costo per paura che capiti il picconiere ad incitarli col bastone o scottando loro i garretti con una lucerna.
Tanto io che De Felice al sentire i lamenti di quella processione di piccoli paria, ci sentivamo spezzare il cuore. E quando dovemmo scostarci per lasciar passare i carusi piegati sotto il carico, tremanti sulle gambe malferme, ne avemmo una così profonda impressione di pietà, che ci mettemmo a piangere come due bambini. — Possibile! — esclamavamo. — Possibile che da tanto tempo duri e si tolleri una tale infamia! Sapevamo ambedue per aver letto la relazione Jacini e altre inchieste rimaste infruttuose, che cosa sono i carusi, ma nessuno scrittore potrà darne mai un’idea sufficiente a chi non li ha veduti in quelle vere bolgie infernali.
Ne fermammo alcuni e alleggerendoli per un momento del loro carico composto di un sacco di piccoli pezzi di minerale e di un grosso pezzo di minerale fuori del sacco — complessivamente un prso di quaranta o cinquanta chilogrammi — constatammo che avevano la pelle delle spalle e di tutta la schiena escoriata, rossa o coperta di calli, di cicatrici e di lividure.
Procedemmo oltre e svoltando a sinistra in una seconda parte del pozzo dai gradini più alti e malagevoli della prima, incontrammo ben presto altre
processioni di carusi curvi sotto la terribile soma e che mandavano continuamente quel lamento che spezza i! cuore.
Notisi che quei poveretti non sapevano nulla che qualcheduno stesse per visitare la miniera: noi scendevamo nelle profondità della Virdilio all’insaputa dei picconieri e dei carusi. Piegati sotto i loro sacchi, i carusi non ci guardavano neppure.
Ne sentii uno che diceva piangendo a un compagno.
— Sugnu tantu stancu cca nun cci la fazzu cchiù a purtari lu saccu e stai pi jttarlu ‘nterra. (Sono tanto stanco che non posso più portare il sacco e sto per gettarlo a terra).
Ad una terza svoltata trovai un caruso biondio disfatto dalla fatica, che non riuscendo più a salire aveva deposto il fardello e accoccolato sullo scalino piangeva silenziosamente. Aveva gli occhi azzurri colle palpebre tutte rosse e grosse lacrime gli rigavano le guancie incavate e illividite.
Nella mia vita giornalistica io ho assistito in Italia, in Francia, in Germania, in Inghilterra, in Africa, in America a scene orribili d’ogni manieria: fucilazioni, impiccagioni, linciaggi, massacri, morti d’ogni specie e nei lazzaretti e altrove. Nessuno spettacolo però mi aveva così profondamente colpito come quello della zolfara Virdilio: questo barbaro lavoro imposto a ragazzi cosi teneri (che nello stato in cui vivono sono poi anche vittime e della pederastia e d’altri orrori) è una cosa che grida vendetta, è la negazione di ogni più elementare principio di umanità. C'è da vergognarsi di essere nati in un paese dove una tale barbarie esiste ancora.
A che serve descrivere il resto della nostra discesa? Abbiamo trovato in fondo, a settantacinque metri di profondità, un paio di chilometri di gallerie, in alcune delle quali il caldo è soffocante. Alcuni picconieri, che lavoravano nudi essi pure, ci dissero che con tutto lo sfruttamento dei carusi non riescono a guadagnare più di lire due e mezza al giorno. Abbiamo veduto delle gallerie invase dal gas, nelle quali i lumini non ardono che tenuti a un metro e mezzo di altezza. Abbiamo saputo che quando il minerale non è di buona qualità, picconieri e carusi ci rimettono la loro fatica. Ma tutto sparisce, tutto è secondario di fronte alle atroci sofferenze dei carusi. Quando uscimmo con le vesti inzuppate di sudore come se fossimo stati immersi in una vasca d'acqua calda, eravamo incapaci di parlare e di riferire l’impressione provata.
IV Gli evangelici e i zolfatari di Grotte
Quando uscimmo con le vesti inzuppate di sudore come se fossimo stati immersi in una vasca d'acqua calda, eravamo incapaci di parlare e di riferire l’impressione provata.
IV Gli evangelici e i zolfatari di Grotte
Alcuni degli operai addetti alla zolfara Virdilio facevano parte dei Fasci, ma segretamente, perché se i direttori delle miniere lo avessero saputo li avrebbero cacciati. Cosi i zolfatari dei Fasci ricordavano i primi cristiani e dovevano riunirsi di nascosto nelle loro catacombe. Intendiamoci bene, alludo agli onesti che in buona fede si associavano credendo all’utilità dell’unione per i futuri miglioramenti delta loro condizione: fra i zolfatari anche molta canaglia della specie peggiore.
Parecchi neofiti dei Fasci avevano abbracciato con tanto entusiasmo la nuova fede socialista, che, quando nasceva un bambino, qualche padre invece di mandarlo in chiesa per il battesimo lo portava al Fascio. Durante quel giro De Felice e Garibaldi Bosco sono stati pregati più volte di essere i padrini socialisti di alcuni neonati.
Dopo la visita alla solfara, tornati a Campobello di Licata, dove tutta la popolazione aspettava De Felice per salutarlo con grandi fuochi di paglia e assordanti acclamazioni, partimmo subito in vettura alla volta di Sommatino, dove ci aveva preceduti Bosco. Lungo la strada, alle 9 pom., De Felice dovette fare un piccolo alt a Ravanusa per contentare i soci del Fascio che lo attendevano con musica e bandiere.
Quando giungemmo a Sommatino era mezzanotte. Si sperava che stante l'ora tarda tutti fossero andati a dormire. Invece una gran folla aspettava pazientemente, e, appena l'arrivo di De Felice venne segnalato, fu un nuovo scoppio di applausi.
Insomma, dovunque andavano, i capi dell’organizzazione dei Fasci mettevano sottosopra i paesi: un'onda immensa di popolo li andava a ricevere con le bandiere rosse, con fanfare e concerti, e quando parlavano esercitavano un prestigio indicibile. Essi potevano tenere i discorsi più incendiari senza pericolo di interruzioni, perché delegati e carabinieri sparivano in mezzo alla moltitudine. E’ giusto notare però che tanto Bosco come De Felice, predicavano invece che i Fasci dovevano mantenersi perfettamente tranquilli e guardarsi me dagli agenti provocatori, per non dare pretesto alle repressioni. Aggiungevano che se anche il Governo avesse decretato lo scioglimento dei Fasci e avesse inondato l'isola di truppe, i lavo ratori dovevano rimanere impassibili: essi avrebbero fatto più tardi i conti.
Una cosa curiosissima erano le fanfare dei Fasci, composte di ex soldati trombettieri : nelle processioni dei lavoratori essi davano i segnali di avanti, alt, riposò, come si fa nell'esercito; per salutare arrivo dei capi suonavano la fanfara reale!
Dopo aver veduto le accoglienze di Sommatino e Campobello io mi accingevo a lasciare Bosco e De Felice, volendo continuare le mie escursioni senza musiche e senza dimostrazioni. Ma credetti necessario riferire al giornale per il quale facevo
il giro le accoglienze di cui i capi erano fatti segno, per dare un'idea del fermento che regnava in quelle provincie e della importanza del sentimento di solidarietà che si andava estendendo ogni giorno più e dal quale non erano ispirati solamente i soci dei Fasci, ma anche molti impiegati, piccoli proprietari, studenti e perfino pubblici funzionari. Seppi, per esempio, di un pretore che consigliava segretamente gli operai a iscriversi nei Fasci. Un altro magistrato, che aveva da vivere del proprio, lasciaava il posto per darsi alla propaganda. Nelle Università siciliane più di un professore predicava oramai il socialismo dalla cattedra. A Palermo, il coreo di medicina era tutto socialista. Che più? Perfino dei giovani aristocratici e ricchi si professavano socialisti, e non solo a chiacchiere.
Quasi tutti i soldati, appena licenziati, si mettevano nei Fasci; a Campohello di Licata se n'erano andati a iscrivere mettendo il piede nel paese prima ancora di levarsi l'uniforme. Ogni volta che un socio veniva condannato a qualche a ammenda per cose che si riferivano al Fascio (portar fuori le bandiere rosse senza averne chiesto il permesso et similia) i compagni si quotavano immediatamente per pagare l’ammenda.
Se il socio veniva carcerato, i < fratelli > mantenevano la famiglia, come ho già racconto e gli procuravano il difensore che quasi sempre si prestava gratuitamente, come l'avvocato Gaetano Rao, presidente del Fascio di Canicattì, un proprietario che sacrificava i propri beni per la causa socialista.
E di questi tipi di apostoli, non ispirati, come Rao, che dalla pietà, se ne trovavano in tutti paesi, Rao ha commosso più volte gli stessi magistrali descrivendo le miserie e le sofferenze dei contadini e degli operai delle zolfare.
Da Sommatino, l’11 ottobre siamo andati a Grotte, paese di 10 mila abitanti, centro importante di una regione zolfifera.
Anche là l'entusiasmo con cui De Felice e Bosco furono ricevuti non poteva essere maggiore. Più di tremila persone li aspettavano alla stazione, col concerto del Fascio che suonava gli inni patriottici popolari.
Da un balcone della casa del vecchio garibaldino signor Raimondo Gueli Buongiorno, essi dovettero naturalmente parlare. Una fittissima moltitudine che formava una grande superficie di leste scoperte, li ascoltava silenziosamente, applaudendoli nei punti migliori.
De Felice e Bosco furono invitati poi alla sede del Fascio, una vasta sala tutta adorna di festoni di mortella ; e poi alla sede del Circolo dei zolfatari, dove entusiasmarono gli operai parlando loro in dialetto. Essi facevano un grande uso di parabole e di similitudini. Da Bosco sentii questa: — Un bastone tutti lo rompono; ma un fascio di bastoni, picciotti miei, chi lo rompe? Un fatto notevole verificatosi a Grotte è questo, che da più di vent’anni vi fu fondata una chiesa evangelica, che oggi è molto frequentata. Ne fu iniziatore un ex prete cattolico, Stefano Dimino, benrstante di là. Da principio i preti gli fecero una guerra terribile e del dissidio religioso manifestatosi Grotte si occupò anche la Camera dei deputati nel 1874. Ma i preti dovettero finire col cedere e riconoscere la libertà di culto.
Ora tutti gli zolfatari evangelici erano diventati socialisti: prima ancora che si formasse il Fascio, essi avevano costituito un Circolo Savonarola nel quale il Dimino insegnava che il socialismo è il principio di Cristo e che Gesù predicava diciotto secoli or sono la comunione dei beni. Nella sede del Fascio di Grotte si tenne la mattina del dodici una riunione di zolfatari delle circostanti miniere per decidere se davanti alla crisi dello zolfo e alle condizioni loro che vanno ogni giorno peggiorando, non conveniva meglio scioperare.
Intervennero più di millecinquecento fra produttori e operai, perché anche i piccoli produttori dichiaravano di essere sfruttati dai proprietari e tendevano a fare causa comune coi lavoratori.
Dicevano i produttori che i proprietari delle zolfare esigevano dal 25 al 30 per cento sul prodotto netto e che essi produttori dovevano col resto pagare tutte le spese, compresa la tassa di ricchezza mobile. E siccome il prezzo dei zolfi è straordinariamente ribassato, affermavano che non potevano tirare innanzi e che erano tutti indebitati. Essi reclamavano per lo meno dal Governo i magazzini generali, perché l'attuale sistema di produzione, spedizione e magazzinaggio è una continua spogliazione fatta da usurai. La provincia di Girgenti, essi concludevano col dire, è ridotta l'Irlanda della Sicilia.
Da parte loro gli operai gridavano che se i produttori sono sfruttati dai proprietari, essi vengono dissanguati da tutti e due; che certi proprietari riscuotono dai lavoratori la tassa di assicurazione senza poi assicurarli; che sono vittime di cento altre camorre.
In quella riunione ho notato che i capi sezione dei Fasci di diversi paesi nell’incontrarsi si baciavano sulla bocca come veri fratelli.
Nel pomeriggio siamo partiti da Grotte con la ferrovia alla volta di Casteltermini dove erano stati operati alcuni arresti e dove i contadini, in una zona che comprendeva dodici paesi, si erano dati allo sciopero e rifiutavano di seminare se i proprietari non rinnovavano i contratti. La ferrovia attraversa una regione montuosa e brulla, tutta piena di zolfare. Tanto a destra come a sinistra si vedono agli ingressi dei pozzi gruppi di picconieri e di carusi quasi completamente nudi. Il binario stesso passa sopra un terreno sassoso Attraversato da gallerie sotterranee, dalle bolgie degli zolfatai.
Alla stazione di Campofranco interrogo un gruppo i contadini e di minatori, magri, neri, ischeletriti. — Qui — essi mi dicono — stiamo morendo di fame. Alla stazione di Acquaviva-Platani, mentre si aspettava una vettura per Casteltermini, ci informarono che le stazioni dei carabinieri venivano rinforzate con picchetti di soldati.
V Una riunione a Gasteltermini.
Casteltermini — dove pochi giorni prima erano Stati arrestati il maestro comunale Giuseppe Bivona, Presidente del Fascio, e altri sedici soci del Fascio stesso — è un grosso paese di montagna di 12 o 13 mila abitanti, a 550 metri sul livello del mare. Dalla stazione di Acquaviva-Platani vi si arriva in Un’ora e mezza per una salita dalla quale si ha tutto Intorno un panorama di cime aspre e selvagge.
Il territorio si compone quasi tutto di ex feudi, latifondi che vengono generalmente dati in affitto," o, come si dice in Sicilia, a gabella, ed il coltivatore si trova, per il modo con cui si fanno i contratti, in tali misere condizioni, che la relazione dell'in chiesta agraria per quelle provincie così concludeva (vol. XIII, tomo I, pag. 640): “Quest'angheria continuata a danno del capitale lavoro non potrà durare a lungo e sarebbe sperabile che cessasse per evitare serie conseguenze”
Lo sciopero parziale manifestatosi a Casteltermini e in vari comuni vicini non aveva altro scopo che! quello dì indurre i proprietari e i gabelloti a fare patti più umani ai contadini, e precisamente quelli stabiliti dal Congresso agrario di Corleone, che corrispondono ad una equa mezzadrìa.
Fino alla vigilia dell'arrivo a Caateltermini di Bosco e De Felice un solo grosso proprietario, il cav. Lo Bue Francesco Perez, figlio del noto defunto senatore, aveva spontaneamente ceduto, prima ancora che si parlasse di scioperi; gli altri tennero duro e fu allora che si procedette agli arresti, sperando di sciogliere così la questione. Appena arrivato nel paese — dove da qualche giorno stazionavano un tenente dei carabinieri e un centinaio di soldati — andai a sentire che cosa diceva il delegato di pubblica sicurezza signor Leo nardi. Il quale contro il Bìvona non seppe dirmi altro se non che aveva ammesso nel Fascio anche qualche individuo pregiudicato per reati comuni e che andava in giro a fare propaganda in favore dello sciopero dei contadini. Aggiunse che un certo Mondello, uno degli arre atati, dacché era entrato nel Fascio non lavorava s'era ben vestito e manteneva agiatamente la biglia. Chi gli dava i quattrini? Concluse con l'ammettere che gli arresti erano stati Eseguiti in seguito a un ordine del prefetto di Girgenti, non accompagnato dai relativi mandati di cattura.
Da parte loro, il cav. Lo Bue e altri amici dei Contadini mi dissero:
É verissimo che del Fascio fa parte anche qualche pregiudicato. Ma ciò avvenne perché tutti gli adulti del paese e molte donne, complessiva- mente circa quattromila persone, vi si iscrissero. Del restò è un piccolo inconveniente a cui noi stessi Pensavamo di rimediare espellendo i pregiudicati, che non sono molti e che costituiscono l'eccezione. In quanto al Mondello si spiega subito perché campava senza lavorare: lo manteneva il Fascio perché non si occupasse che della propaganda. Circa alla miseria di questi contadini basti dire che a Casteltermini si vendono all'asta ogni anno da novanta a cento fra tuguri e piccoli appezzamenti di terreno appartenenti a disgraziati che non possono pagare le imposte A proposito di arresti e di atti arbitrari, un certo Tullio Corona, facente funzione da presidente del Fascio del vicino comune di Acquaviva, mi raccontava che nel suo paese il presidente del Fascio stesso Angelo Zuccarello, era stato arrestato insieme con tredici soci semplicemente perché non avevano voluto consegnare alle autorità la bandiera Un delegato e alcuni carabinieri entrarono nella sede del Fascio, sequestrarono lo stemma strapparono la bandiera, calpestandola. I castelterminesi mandarono loro una seconda bandiera rossa e anche questa fu sequestrata.
Rinaldo di Napoli, direttore del Fascio di Grotte un giovane di ventun anno che ne dimostra una trentina, mi narrava che egli era stato processato già sette volte per la questione del Fascio. Aveva subito parecchi mesi di carcere. Parecchi arresti erano stati pure eseguiti nel mese di settembre a Lercara, in occasione della festa inaugurale del Fascio, durante la quale vennero ammanettati anche il vicepresidente e vari soci del Fascio di Frizzi, recatisi in quel paese per assistere alla cerimonia.
A Marineo il delegato di P.S. voleva che il Fascio scio cambiasse nome.
Nello stesso mese di settembre altri arresti erano stati eseguiti a Parco, a Belmonte Mezzagno, a Campofranco e Milocca. In quest'ultimo paese,oltre il presidente e molti soci del Fascio, era stato in carcere anche l'avv. Villa, presidente del Fascio di Recalmuto, invitato alla inaugurazione del Fascio di Milocca.
Questa persecuzione sorda irritava più di un guerra aperta. Bosco aveva preparato una lista di arresti illegali e di arbitrii commessi negli ultimi mesi e la voleva consegnare al comm. Sensales.
Eccone un saggio:
Durante il mese di agosto a Palazzo Adriano vennero arrestati Bernardino Verro e Giacomo Luciano, presidente di quel Fascio. Dopo quindici giorni furono ambedue rilasciati in libertà provvisoria, essendosi il tribunale dichiarato incompetente.
A Campofranco l'asseamblea del Fascio trovavasi riunita, quando i carabinieri entrarono nella sede e ammanettarono il presidente, il vicepresidente e altri tre soci.
Un ufficiale di complemento, Vincenzo Consiglio, fu destituito perché organizzatore del Fascio. In luglio avendo i contadini di Prizzi chiesto un aumento per la falciatura del grano, il delegato di P. S. arrestò il presidente del Fascio — Salvatore Tortorici — e vari soci i quali dopo un mese di carcere stavano in ottobre sempre in attesa del pubblico dibattimento.
Per un fatto simile si operarono a Bisacquino parecchi i arresti. Al dibattimento il P. M, chiese per gli accusati pene enormi, ma il Tribunale li condannò solo a 15 giorni, già sofferti, e li pose in libertà fra gli applausi del pubblico.
A Chiusa Sclafani venne denunziato e ammonito Il presidente di quel Fascio. In appello la sentenza Parve ingiustificata, e fu cancellata. A Villafranca il brigadiere dei carabinieri strappò dalle mani di un socio del Fascio l'elenco dei compagni e lo stracciò in pubblica piazza. A Canicattì vennero arrestati una quarantina di soci del Fascio. L'autorità giudiziaria giudicò gli arrestati vittime di un arbitrio e li rimandò in libertà.
Francesco Bilà da Mazzara e Pietro Giusto da Santa Croce Armerina, furono destituiti dall’impiego municipale perchè soci attivi dei Fasci. Cinque soci del Fascio di Naro furono arrestati perché tornando da Sommatino camminavano uniti e formavano un assembramento. Il pretore li con- dannò a dieci lire d'ammenda.
Anche a Campobello di Licata si processarono contadini e operai perché in giorno festivo se ne stavano riuniti in molti sulla pubblica piazza.
A Grotte un ragazzo di dodici anni riunì circa duecento suoi coetanei e parlò loro del socialismo I carabinieri sciolsero la riunione e arrestarono il ragazzo promotore.
A San Cataldo il delegato di P. S. entrò nella sede del Fascio, strappò ia bandiera, la consegnò ai carabinieri, cacciò i soci e chiuse il locale portando molta fatica per impedire ai compagni di reagire.
I soci della sezione del Fascio di Mezzomonreale furono chiamati in questura e invitati ad allontanarsi dal Fascio.
Bosco mi faceva osservare che appunto dacché l'autorità di P. S. aveva cominciato a perseguitarli, i Fasci andavano aumentando in modo sorprendente.
Ma torniamo a Casteltermini.
La mattina del 13 ottobre, per iniziativa del Comitato dei Fasci, in una sala del palazzo Lo Bue, si tenne una riunione dei delegati dei proprietari e dei gabelloti da una parte e dei contadini dall'altra
Vi assistevano Bosco, De Felice e Gaetano Rao. Invitato, intervenne anche l'arciprete del paese.
"Si trattava -, scrivevo alla Tribuna quel giorno stesso dopo la riunione, - di venire ad un accordo fra padroni e lavoratori, perché questi ultimi invece di non avere che un quarto appena dei prodotti ne ottenessero la parte concessa ai contadini del cav. Lo Bue, e chiesta dai contadini stessi nel Congressi di Corleone. La discussione, a cui ho assistito, riuscì interessantissima. I delegati erano complessivamente una dozzina. I contadini, in calotta, vestiti di fustagno, che col loro viso completamente sbarbato somigliano molto agli irlandesi, parlavano in dia- letto, con molta calma e serietà, -con una gravità che mi ricordava le palabras dei capi indiani reca- tisi anni or sono a New-York per esporre ai bianchi le loro lagnanze e chiedere di essere trattati un po' più umanamente nelle reservations.
Ricordavano anche le riunioni preparatorie fra nobili e plebei, tenutesi un secolo fa, prima della
convocazione degli Stati Generali in Francia, e in cui pareva già un fatto enorme quello di vedere i gran signori e i rappresentanti del terzo Stato discutere da pari a pari.
Con la cifre alla mano, enumerando tutte le angherie e le usure di cui sono vittime, i contadini dimostrarono stamane che coi contratti attuali essi non solo non possono sfamarsi, ma che rimangono eternamente in debito. Da parte loro i proprietari tiravano fuori le tasse aumentate, e i gabelloti i prezzi alti degli affitti e il ribasso del
frumento. Ma i contadini tennero duro ponendo il dilemma : o rinnovazione dei patti o sciopero generale.
« Gaetano Rao, oltre che come Fascio di Canicatt'i, parlò efficacemente come pro prietarìo e come gabelloto. Egli tratta fraternamente i suoi ! contadini e non si è per questo rovinato!
« I rappresentanti dei proprietari e dei gabelloti dopo aver molto tentennato, non solo finirono col cedere, ma promisero di persuadere i loro colleghi a rinnovare i patti direttamente col Fascio dei lavoratori (depurato dai pregiudicati), riconoscendolo cosi come una specie di ente giuridico.
« Appena informato di questa decisione il popolo di Casteltermini improvvisò una imponente dimostrazione, gridando: — Viva il cav. Lo Bue! (quello che per primo ha dato il buon esempio) Viva il socialismo! Viva il Fascio dei lavoratori!”
E alla sera quando i rappresentanti del Comitato centrale dei Fasci si recarono con due vetture del cav. Lo Bue alla stazione di Acquaviva-Platani a prendere il treno diretto, tutta la popolazione li accompagnò per buon tratto di strada, agitando cappelli e fazzoletti. Le donne si mostravano entusiaste al pari degli uomini. Molti piangevano.
Poi un gruppo di più di trecento contadini di Casteltermini, Sutera, Acquaviva e Campofranco, tutti a cavallo dei loro muli, vollero seguire i capi dei Fasci fino alla ferrovia. Divisi in varie squadriglie con uomini alla testa che recavano bandiere rosse e fazzoletti rossi inalberati su lunghi bastoni e formando ai lati delle carrozze come una specie
di scorta d'onore, essi presentavano uno spettacolo nuovo e pittoresco.
Vero è bensì pure che, siccome non pioveva da parecchi mesi, quella cavalleria rusticana innalzava nuvole di polvere e ci fece arrivare alla stazione bianchi come tanti mugnai.
Come i lettori vedono, bastò a Casteltermini che Bosco, De Felice e Rao promuovessero una riunione chiamandovi tanto i proprietari e i gabelloti come i contadini: l'accordo fu possibile e la pace fu fatta. Se avessero fatto dappertutto cosi e se le autorità da parte loro si fossero persuase che l'unica cosa da fare era promuovere e aiutare la conciliazione!-
Qualche aneddoto raccolto a Casteltermini per finire. In quei comuni si fa pagare il dazio consumo perfino alle mammelle delle capre che i pastori conducono- nell'abitato per mungere: si calcola cioè quanto latte possono produrre e si riscuote la tassa prima ancora che sia munto. Mi fu presentato un vecchio mendicante che paga Ventinove lire di fuocatico come capo di famiglia, mentre è tanto povero e inabile al lavoro che deve chiedere l'elemosina. Durante gli ultimi arresti di Casteltermini e durante- la successiva dimostrazione un soldato è morto di colica (alcuni dicono di paura) e un contadino era impazzito e non faceva che gridare: — Viva il socialismo!
VI « Domate è gghindevet cè scerbein”- Ossia il Fascio Dei Lavoratori di una colonia albanese.
Come accennavo fin dalle prime pagine, uno dei Fasci meglio organizzati non solo della provincia di Palermo, ma di tutta l'isola, era quello di Piana dei Greci. Da Palermo si va a Piana dei Greci in tre ore mezzo di vettura quando si abbiano due buoni cavalli perchè la strada è una continua, erta e faticosa salita. Ma quanto è bella! È certamente delle più meravigliose che si possano vedere.
Serpeggia da principio fra una doppia serie di ville piene di fichid'India, di ulivi, d'aranci,di limoni; poi vi offre dall'alto, attraversando i paesi di Villa Grazia e di Parco, lo spettacolo di tutta la Conca d'oro e del mare. Partito alle cinque e un quarto con una temperatura primaverile e con un cielo limpidissimo — non si conosce la nebbia in quella terra della eterna primavera — io potei godermi la mattina del 15 ottobre l'incantevole panorama illuminato gradatamente dalle prime luci del giorno {una cosa da far ammattire), finchè alle otto giunsi sulla cima delle montagne che cingono la valle dell’Oreto.
Sono creste aride e sassose, su cui non si vede che qualche corvo; ma poco dopo, scendendo . Leggermente si trovano ben presto dei vigneti carichi di grappoli neri, dei castagni, cbe in quella stagione lasciavano vedere il frutto maturo attraverso le spaccature dell'involucro spinoso, e una quantità d'uliveti.
Situato a settecento metri d'altezza, Piana dei Greci è un vero paese di montanari. I suoi abitanti, circa novemila, sono discendenti, come è noto, da una colonia albanese fondala nel 1488, e dei loro padri hanno conservato la lingua, il rito greco nelle chiese il carattere fiero, ardito e amante dell'indipendenza.-
Le donne poi hanno conservato dei bellissimi costumi, che indossano però solo nelle grandi occasioni.- Ordinariamente portano sulla testa una mantellina di lana bianca o azzurrognola: il corpetto molto fazzoletto bianco ricamato, incrociato sopra il busto. Scollato lascia vedere il petto coperto da un fazzoletto bianco ricamato,incrociato sopra il busto. Ce n'è di bellissime, che camminano diritte e maestose come tante regine.
Ora, con una popolazione di appena 9000 abitanti, Piana dei Greci contava un Fascio di 2500 uomini e di quasi 1000 donne intelligentissime, che parlavano in pubblico con vera eloquenza. Quando entrai solo soletto nel paese verso le nove, essendo domenica, parecchi soci d'ambo i sessi si trovavano appunto in un locale sopra la sede del Fascio a discutere sui preparativi d'una festa che si doveva fare all'indomani per inaugurare la bandiera della sezione femminile.
Gli uomini stavano da una parte e le donne dal- l'altra. Queste ultime formavano un gruppo bellissimo con le loro mantelline sulla testa e coi candidi fazzoletti sul petto. Appena mi feci conoscere,mi accolsero con grandi cordialità e mi fecero sedere in mezzo a loro, pronti a darmi tutte le informazioni che desideravo. La conversazione riuscì cosi interessante che stimo utile riprodurla testualmente.
Io. — Come avvenne che questo Fascio diventò in poco tempo così numeroso?
Un contadino. — Perchè abbiamo capito subito che per ottenere qualche cosa bisogna cominciare coll'unirsi.
Io. — È vero che fanno parte del Fascio anche dei piccoli proprietari?
Un piccolo proprietario (Vito Fusco). — Sicuro, io sono uno dì quelli. Ci siamo convinti che domani vivremo meglio col nostro lavoro di quello che oggi con le nostre terre. Senta: io possiedo tre salme di terra e devo pagare ogni anno: L. 127,50 per il censo, L. 100 di tassa fondiaria, L. 50 d'altre tasse e più di lire 300 per la coltivazione mentre non ne ricavo in media che da 550 a 600.
Un contadino nullatenente (Stasi Pietro), io non trovo da lavorare che durante sei mesi i l'anno per non guadagnare che da 7 a 8 lire la settimana, quando non piove.
— E come fate quando siete disoccupato?
— Si va a erbe, per mangiarle colte senza sale
— Avete famiglia ?
— Moglie e due bambini. Per una camera devo pagare settanta lire all'anno di pigione. Dormiamo sulla paglia. Quando lavoriamo in campagna, dormiamo all'aperto. Se la pioggia ci bagna non abbiamo che il vento per asciugarci. E quando si guadagna qualche soldo dobbiamo pagare anche il dazio di consumo per quel pezzo di pane nero con cui sfamiamo. Il giorno della paga certi padroni ci fanno aspettare delle ore, poi ci pagano in rame; se contiamo i soldi se n'hanno a male e poi se troviamo qualche soldo che non ha corso ci dicono che cerchiamo d'imbrogliarli.
Un altro contadino. — Quando i padroni ci danno Qualche anticipazione, ce la danno con grano di scarto e pieno di terra. E noi dobbiamo poi restituire grano di prima qualità. Taluni hanno una doppia misura: il tumulo piccolo per dare e il tumulo grande per riscuotere! E per queste anticipazioni si pigliano il 25 per cento d'interesse, il 25 che diventa il 100 quando si tratta di poche settimane. Qualche - padrone giunge perfino a spruzzare d'acqua il grano per farlo crescere: per vino poi ci danno dell'aceto. Per fargli vedere come ci trattano, tempo fa fu Portato al delegato di P. S. un pane. Era cosi nero e pieno di terra che non lo potevano mangiare neppure i cani.
- E che cosa sperate dai Fasci Una contadina maritata (bella donna con denti Bellissimi e grandi occhi pieni d'intelligenza), — Vogliamo che, come lavoriamo noi, lavorino tutti, e non vi siano più né ricchi né poveri. Che tutti abbiano del pane per sé e per i figli. Dobbiamo essere eguali. Io ho cinque bambini e una sola cameretta, dove siamo costretti a mangiare, a dormire tutto, mentre tanti signori hanno dieci o dodici camere, dei palazzi interi.
— E cosi vorreste dividere le terre e le case?
— No, basta metterle in comune e distribuire con giustizia quello che rendono.
— E non temete che, anche se si arrivasse a questo collettivismo, non venga fuori qualche imbroglione, qualche capo ingannatore?
— No, perchè ci deve essere la fratellanza, e se qualcheduno mancasse ci sarebbe il castigo.
— In quali relazioni siete coi vostri preti?
— Gesù era un vero socialista e voleva appunto quello che chiedono i Fasci, ma i preti non lo rappresentano bene, specialmente quando fanno gli usurai. Alla fondazione del Fascio i nostri preti erano contrari e al confessionale ci dicevano che i socialisti sono scomunicati. Ma noi abbiamo risposto che sbagliavano, e in giugno, per protestare contro la guerra ch'essi facevano al Fascio, nessuno di noi 1 andò alla processione del Corpus Dammi. Era la prima volta che avveniva un fatto simile.
Una zitella (alzandosi e venendo a parlare in mezzo al circolo perchè la sentissi bene). — I si- gnori prima non erano religiosi e ora che c'è il Fascio hanno fatto lega coi preti e insultano noi donne socialiste come se fossimo disonorate. Il meno che dicono è che siamo tutte le sgualdrine del presidente.
Una vecchia. — lo ho avuto il marito malato per sette anni e andai al Municipio a dire che non j potevo pagare il fuocatico. Mi hanno risposto che dovevo andare a servizio, ma che era necessario pagare.
- Ah! C'è anche qui la tassa del fuocatico?
Francesco Mastranga {vecchio contadino): — Sicuro,- e anche la tassa animali. Dal fuocatico sono esclusi solo i mendicanti che dormono nei fienili. I mendicanti che hanno una cameretta devono pagare anch'essi. Per la tassa animali si paga ogni anno L. 10 per ogni mulo e L. 5 per ogni asino. Spesso sono bestie che non valgono tanto. Qualche volta facendo il ruolo sbagliano e mettono tre muli invece di due, come hanno fatto a me. Ho dovuto pagare trenta lire invece di venti. E alle mie proteste risposero: “Reclamerete poi”. “Ma se, replicai io,ho reclamato anche nel 1889, quando sbagliaste ugualmente e tutto fu inutile?”
Michelangelo Falsoni (consigliere comunale operaio): — Io vi posso dire poi, per averlo constatato nei ruoli, che certi signori i quali hanno, per esempio venti muli, non ne mettono in nota che quattro e nessuno si cura di verificare.
La contadina maritata (quella bella). — E i nostri muli servono a noi per farci campare, mentre i signori che non pagano ne hanno d'avanzo.-
Un’altra contadina. — Non trovando qui lavoro, mio marito è andato in America, e, per campare, le mie due figlie hanno dovuto mettersi al servizio a Palermo . Sentendo che c'era il colera, la settimana scorsa io volli andarle a trovare. Non avevo di che pagare il carretto e fui costretta ad impegnare qualche straccio presso uno strozzino, perchè qui non abbiamo Monte di pietà, ma solo certi usurai che volta erano poveri come noi. La terza contadina. — Quando poi si sono arricchiti Molto , vanno a stare a Palermo o a Napoli come i grandi proprietari, e lasciano qui noi alle prese con altri strozzini prepotenti, i quali ci dicono che per chi fa la legge non c'è legge
Una zitella (quella che quando parlava si alzava | e andava in mezzo alle compagne): — Infatti, quando un reato è commesso da un ricco, nessuno se ne cura, mentre il povero che ruba un pugno di grano per sfamarsi va subito in prigione.
Gaetano Scarola (un consigliere del Fascio). — Ne vuole un esempio? Il nostro compagno Paolo J Carboni si trovava questa estate sull'aia dell'ex feudo Fissella quando il suo padrone Andrea Sclafani gli disse: «Tu non darai più il diritto di cuccia al campiere, ora che appartieni al Fascio? » Paolo rispose: «Secondo: se il campiere misura con giustizia, glielo darò; se no, no. » Il padrone si allontanò offeso. Poi quando cominciò la misurazione si avvicinò a Paolo, lo prese per il collo, gli cacciò la testa nel mucchio del grano e gli disse: « Te lo misura bene o ti ruba?» Paolo aveva in mano la pala, ma non fece neppure l'atto di alzarla, che lo Sclafani gli diede uno schiaffo, «Ma perchè trattarmi in questo modo?» fece Paolo. Lo Sclafani, non contento ancora, tirò fuori il revolver e a bruciapelo gli esplose contro un colpo. Fortunatamente il proiettile invece di penetrare nel petto deviò nella parte superiore dell'omero. Lo Sclafani non è stato arrestato neppure per un momento e dopo tre mesi da quel tentato omicidio non sappiamo ancora se si farà il processo.
Una sposa. — Vedete che per i poveri non c’è giustizia in Piana dei Greci! I signori dicono Apertamente che ci vogliono ammazzare ad uno ad uno.
Gaetano Scarola. — S'è già cominciato. Nello scorso giugno il nostro compagno Demetrio Carnese, onestissimo uomo, fu trovato ucciso nell'ex feudo Aggiotto, in un declivio accanto ad una roccia. Siccome vicino al cadavere c'era una grossa pietra, si disse che doveva essere stato ucciso da quella pietra caduta accidentalmente dall'alto della roccia, e non se ne parlò più. Ma noi ci siamo recati sul posto e abbiamo constatato che se quella pietra, pesante più di mezzo quintale, fosse realmente precipitata dalla cima del monte, avrebbe orribilmente schiacciato il povero Demetrio e poi in forza dell'impulso sarebbe rotolata giù per la china.
Noi ci siamo persuasi che in seguito ad una discussione sul Fascio, Demetrio è stato ucciso da qualche e padrone con un colpo di calcio di fucile sulla a tempia.
La bella sposa (ai contadini): — E non gli dite
nulla dei baffi?
Un contadino. — Ah, già! Prima del Fascio, come in tutta la Sicilia, anche qui noi contadini usavamo di raderci completamente la barba. Ma visto il modo con cui i signori seguitavano a trattarci, per protestare ci siamo tutti lasciati crescere i baffi, come vede. Ora i padroni ce l'hanno con noi anche per questo e ci minacciano dicendo: «Ce la conteremo questo inverno, quando avrete più fame di adesso. Vedremo se mangerete i baffi, allora!” -Al Municipio — domandai — avete mandato come consiglieri alcuni dei vostri nelle ultime elezioni? — Sì — mi fu risposto — e nelle prossime elezioni siamo sicuri di essere in maggioranza: tutti gli elettori, meno i signori, fanno parte oramai del Fascio.
— Ma — continuai rivolgendomi alle donne - quando pure i vostri uomini fossero padroni del Consiglio, non potranno per questo levare le tasse
— Lo sappiamo — saltò su a dire la contadina più intelligente, quella dai cinque bambini —che per ora i nostri consiglieri non potranno far altro che impedire gli abusi e le prepotenze dei signori i quali finora comandavano anche nel Comune.
Ma i Fasci nomineranno anche i consiglieri provinciali e i deputati, e quando alla Camera avremo maggioranza socialista....
— I Fasci però non esistono finora che in Sicilia.
— Ma noi speriamo che sorgano presto anche nel continente. Voi vedete come si moltiplicano qui. Possibile che nel resto d'Italia i nostri fratelli che soffrono seguitino a dormire? Basterà che qualcheduno cominci a predicare anche là l'unione del proletariato. Anche noi fino alla primavera scorsa non sapevamo che cosa fossero i Fasci. Morivamo di fame e tacevamo. Eravamo ciechi. Non ci vedevamo.
— È appunto per impedire che si propaghino nel resto del regno, che qualcheduno vorrebbe sciogliere i Fasci siciliani. Voi siete in un'isola. Se il Governo vi circonda con qualche nave da guerra e manda qui molti soldati, che cosa volete fare? — Morire gridando: Viva il socialismo! — dissero- in coro uomini e donne alzandosi in piedi. — Farsi sfasciare la testa prima che sfascino i nostri Fasci. Il nostro Fascio esisterà finché uno dei suoi sarà vivo. Ma il nostro sangue griderebbe vendetta e sentendo che qui ci massacrano solamente perchè domandiamo pane e lavoro, i contadini e gli operai d'Italia insorgerebbero alla loro volta. Così dicendo, uomini e donne, circa un centinaio, mi circondavano, cogli occhi e coi gesti animati da una gran fede. Le contadine specialmente alzavano le braccia in atto di sfida. - Vedete questa nostra compagna? — mi dissero poi mostrandomi una bella giovane diciottenne, formosa, dai grandi occhi neri, che col viso incorniciato dalla mantellina albanese di lana bianca aveva tutto l'aspetto di una vestale. — Durante l’ultimo tumulto ella si avanzò verso i soldati che avevano spianato le armi contro il popolo e disse loro: <<Avreste il coraggio di tirare contro di noi? »
Un soldato le rispose piano, per non farsi sentire dagli ufficiali: « Io per me ti do anche il fucile, se lo vuoi.>> Il capitano poi le disse: «Invitate le vostre compagne e i vostri uomini a gridare: Viva il Re! Viva l'esercito!’» e tutto sarà allora finito. Cosi infatti avvenne. Da quel momento noi abbiamo scelto questa compagna per portabandiera della sezione femminile del Fascio. Dritta come una palma, col viso soffuso da un leggero rossore, la portabandiera sorrideva serenamente.
- Un'altra domanda — feci io. — Le autorità e i signori accusano alcuni Fasci di accogliere nel loro seno anche dei pregiudicati per reati commessi. Ne avete iscritti voi? — Sì — mi risposero francamente — ma non sono che tre o quattro su qualche migliaio di soci. E noi li abbiamo accettati per migliorarli, perché se hanno rubato qualche po’ di grano lo hanno fatto unicamente perché spinti dalla miseria. Il nostro presidente ci ha detto che lo scopo dei Fasci è di dare agli uomini tutte le condizioni per non delinquere. In mezzo a noi i pochi pregiudicati sentono di appartenere ancora alla famiglia umana, ci sono riconoscenti di averli accettati come fratelli malgrado le loro colpe e faranno di tutto per non commetterne più. Se fossero cacciati anche dal popolo, commetterebbero altri delitti. La società dovrebbe ringraziarci se li ammettiamo nei Fasci. Noi siamo per il perdono, come Cristo.
A me pareva impossibile di sentire dei rozzi montanari parlare proprio così.
— E quali vantaggi — seguitai sempre più sorpreso — avete ricavato finora dal vostro Fascio?
— Quello di migliorare i patti colonici. Alcuni proprietari, se non ancora completamente, hanno accettato in parte le condizioni stabilite dal Congresso di di Corleone. Poi si fanno delle conferenze che sono la nostra scuola. Finalmente cerchiamo nelle sventure di aiutarci fraternamente fra noi Quando muore un socio, come avvenne recentemente facciamo una colletta e a furia di centesimi raggranelliamo qualche lira per la famiglia superstite. Così abbiamo aiutato la vedova del compagno trovato ucciso vicino alla pietra nell'ex feudo Aggiotto. Un giovane uscito l'altro giorno dall'ospedale e ancora inabile al lavoro, è mantenuto da quelli tra noi che stanno meno peggio.
Mi accompagnarono poi a vedere la sede del Fascio degli uomini, che in albanese essi chiamavano Domatè egghindevet cè scerbejn (parole che tradotte letteralmente significano: unione della gente che lavora). Era una rustica sala a pianterreno, a volta. La porta d'ingresso e le pareti erano tutte adorne di festoni di piante verdi di montagna per l'inaugurazione della bandiera delle donne. In fondo, sopra il tavolo dei consiglieri della Società, spiccava una tabella che portava le parole seguenti:
“Proletari di tutto il mondo, unitevi. Non gridate: ‘Viva i capi’ — essi vi possono tradire — Lottate sempre nel nome del socialismo. La patria del proletariato è il mondo,la patria d'oggi appartiene ai ricchi e ai re. Noi la malediciamo”
Siccome alla lettura di queste ultime parole io arricciavo il naso: La patria d'oggi! intendiamoci bene — mi dissero— chè noi amiamo al pari di ogni altro il paese dove siamo nati. Nel 1860 tutta Piana dei Greci sapeva il luogo preciso in cui si erano fermati per un alt i volontari di Garibaldi, ma quando passarono poco dopo le truppe borboniche non si levò uno solo in questo paese che volesse fare la spia e dire ai soldati napoletani dove si trovavano i garibaldini. Mi condussero quindi a vedere la sede delle donne del Fascio, situata in una strada vicina e consistente in tre camere al primo piano, tutte inghirlandate con rami d'ulivo, alloro, ellera e altre piante rampicanti, con festoni adorni di pannocchie, melanzane, piccole zucche gialle e bacche rosse. Nella stanza principale era spiegato il nuovo stendardo rosso, con queste parole ricamate in bianco dalle stesse socie: “Fascio delle lavoratrici — Piana dei Greci”. Una stanza più piccola serviva per concerto e per la fanfara del Fascio. I suonatori erano quasi tutti giovinetti tornati da poco dal servizio militare. Essi stavano esercitandosi per imparare a eseguire l'inno dei lavoratori, che era la marsigliese dei Fasci:
Su! fratelli, su compagne
Su! venite in fitta schiera;
Sulla libera bandiera
Splende il sol dell'avvenir.
Nelle pene e nell'insulto
Ci stringemmo in mutuo patto;
La gran causa del riscatto
Niun di noi vorrà tradir.
Ritornello:
Il riscatto del lavoro
De' suoi figli opra sarà,-
O vivremo del lavoro,
O pugnando ai morrà.
— Le pigioni per queste sedi —finì col dirmi un consigliere del Fascio — sono per noi una spesa piuttosto forte, perché 150 lire all'anno ci costa il locale per gli uomini e 114 questo per le donne e per la musica. Ma le sosteniamo volentieri perché è indispensabile un luogo dove riunirsi per le sedute e per le conferenze. Ne potremo fare forse a meno quando tutti i consiglieri comunali saranno dei nostri; basterà allora la sala del comune. Conclusero col dichiarare che se il Fascio di Piana dei Greci era allora cosi compatto, lo si doveva al dottor Nicolò Barbato, uomo di trentadue anni, molto studioso (uno dei più colti socialisti siciliani e senza dubbio il più istruito fra i presidenti dei Fasci), il quale esercitando la medicina là dove è nato, come medico libero, non comunale, faceva da tre anni la propaganda nelle famiglie dei contadini.
La scena di disordine del mese precedente, susseguita da ben 37 arresti, mi fu così raccontata dai soci del Fascio: -Il popolo era in fermento perché, appena saputo che il colera sviluppavasi a Palermo, aveva chiesto invano un cordone sanitario. La collera aumentò quando si vide che una donna malata veniva chiusa in una stalla, e scoppiò quando rimase senza acqua. Fu allora che si invase il Municipio e che si spezzò il filo telegrafico che ci congiunge con Palermo. Non vi fu però alcun ferimento, sebbene per otto ore la popolazione fosse rimasta assoluta padrona del paese. Tutte le vendette si ridussero a gettare dalle finestre del Municipio, non però sulla gente, un tavolo e quattro sedie. Un ragazzo stava per staccare i ritratti del re e della regina, ma noi intervenimmo e dicemmo che quelli non si dovevano toccare. E non furono toccati. Sopraggiunte le truppe e operatisi poi gli arresti, parecchi di noi, armatisi, si rifugiarono in campagna per non essere carcerati; ma appena il dottor Barbato ebbe dal questore di Palermo l'assicurazione che non si sarebbero operati altri arresti, tutti tornarono al paese. Fra gli arrestati c'era anche una donna nell'ottavo mese di gravidanza. Vennero lasciati dopo sedici giorni. Avendo io ricordato che il dottor Barbato era ancora sotto l'accusa di eccitamento all'odio fra le classi e per associazione di malfattori: — Sa mai — dichiararono i contadini del Fasci — l'associazione siamo noi, 2500 uomini e 1000 donne, e devono mettere dentro noi tutti. Ma a chi abbiamo fatto male noi, che domandiamo solo un pezzo di pane? Così parlavano i soci del Fascia di Piana Greci.
VII Bernardino Verro e il Fascio di Corleone.
Importante al pari di quello di Piana dei Greci, se non più ancora, era in provincia di Palermo il Fascio di Corleone, presieduto da Bernardino Verro, giovane e ardente socialista, già impiegato municipale, che perdette il posto appunto per le idee che professava.
Da Palermo si va a Corleone in quattro ore ed un quarto, con una piccola ferrovia, attraverso una regione montuosa, ora tutta arida per la siccità ed ora ricca di uliveti e di aranceti, sempre pittoresca. Man mano che si procede, il paesaggio muta continuamente e l'orizzonte, ristrettissimo, è chiuso da cime di montagne e da rovine di antichi castelli.
Si toccano le stazioni di Villabate, Misilmeri, Bolognetta, Marineo, Ogliastro, Mulinazzo, Baucina, Villafrati, Mezzoiuso, Godrano, Ficuzza (dal celebre e stupendo parco reale), Bifarera, Scalilli e Donna Beatrice, stazioni tutte deserte. Solo a Villafrati c'erano la sera del mio passaggio, 17 ottobre, circa duecento soci del Fascio, i quali aspettavano il loro presidente arrestato tre giorni prima.
Mi faceva compagnia nel treno un ufficiale dell'esercito, il quale, a proposito della gente che si trovava alla stazione di Villafrati, essendo venuto a parlare dei Fasci, mi diceva francamente che le condizioni estremamente misere dei contadini erano innegabili e che era deplorevole che l'esercito dovesse essere chiamato, in quello contingenze, in difesa di certi signori prepotenti, contro gli affamati.
- Bisogna — continuava — risiedere qui come faccio io per assistere a scene che vi fanno male. In una calda giornata dello scorso luglio, ricordo, per fare riposare un po’ i miei soldati dopo una lunga marcia, mi fermai davanti a un'aia dove si stava misurando del grano. Ed essendo entrato per bere dell'acqua, fui testimonio di questo fatto. Finita la misurazione , non rimase al contadino che un tumulo di grano. Tutto il resto era andato al padrone. Il contadino, con le mani e il mento appoggiati al manico dì una pala, guardò da principio come inebetito, quell’unico tumulo della sua parte, poi guardò sua moglie e i suoi quattro o cinque piccoli figli che se ne stavano in disparte, e pensando che dopo un anno di stenti e di sacrifici gli era avanzato per mantenere la famiglia quel tumulo di grano, rimase come impietrito: solo due lacrime gli scendevano silenziosamente dagli occhi. Fin che campo non dimenticherò mai quella scena muta. E noti che dopo la divisione non solo certi contadini rimangono senza grano, ma restano anche in debito. Ci vuole ben altro che la truppa qui.
Alto circa seicento metri e situato in una bella posizione, Corleone conta sedici o diciassette mila abitanti ed è di origine araba. Un po' per questa loro origine e un po' perché montanari, i corleonesi sono di carattere molto fiero.
Verro, il presidente del Fascio, giovinotto di ventisette o ventott'anni, ha realmente dell'arabo nel viso, nella barba e specialmente negli occhi grossi e sporgenti. Egli era stato arrestato già due volte, la prima nell'aprile 1892, per un petardo scoppiato nei magazzini del barone Cammarata e a lui attribuito — il Tribunale lo assolse ed se la cavò coi tre giorni di carcere già subito -; la seconda nello scorso agosto, per un pubblico discorso. Lo rilasciarono dopo sedici giorni.
— Il nostro Fascio — egli mi ha detto — conta circa seimila soci fra maschi e femmine, ma oramai si può dire che, meno i signori, ne fa parte tutto il paese, tant'è vero che non facciamo più distinzione fra soci e non soci. Fu fondato nel settembre dello scorso anno e le nostre donne hanno capito così bene i vantaggi dell'unione fra i poveri, che oramai insegnano il socialismo ai loro bambini.
— Se non vi fossero stati, però, dei capi come lei, come Barbato e Bosco,...
— No, no — mi interruppe — lo creda che oramai i contadini hanno capito da loro stessi la necessità di mettersi d'accordo. Abbiamo una quantità di Comuni nei quali i Fasci o sono nati o si stanno formando spontaneamente, senza bisogno di prediche, né di agitatori.
Verro cosi mi riassumeva poi la situazione a Corleone.
- Parecchi proprietari hanno accettato qui i Patti colonici stabiliti appunto nel Congresso provinciale di Corleone, tenutosi il 30 luglio scorso, che si riducono semplicemente alla mezzadria e che, noti bene, furono proposti dai delegati degli stessi proprietari, più che dai contadini. Ma altri proprietari e fra i più ricchi, come i Cammarata, i Bentivegna ed i Paternostro, non hanno voluto Cedere ancora, non tanto por la questione economica, quanto per puntiglio, per non aver l'aria di sottomettersi ai Fasci. Cosi avvenne che le terre di questi ultimi non hanno ricevuto da qualche mese un colpo di zappa....
— E come faranno quest'inverno i contadini disoccupati?
- In previsione appunto dell'inverno, sì è organizzata una cassa di resistenza: abbiamo già raccolto 300 salme di frumento {825 ettolitri) e 2500 lire. E quando quei signori saranno costretti a chiamare dei contadini per lavorare a giornata le loro terre, non ne troveranno a meno di 3 lire al giorno. Nello scorso inverno per far la guerra al Fascio i proprietari chiusero i granai, rifiutando di vendere grano, ma noi aprimmo un magazzino e potemmo dare del grano a miglior prezzo dei proprietari stessi.
— Come s'è regolato lei per pregiudicati?
— Siccome non sono che pochi e condannati per qualche piccolo furto campestre, li accettiamo nel Fascio, come a Piana dei Greci, per renderli migliori. Dacché esiste il Fascio, infatti, abbiamo qua una grande diminuzione nella delinquenza. Non avvengono quasi più liti, perché tutte le questioni si accomodano al Fascio, dove facciamo spesso da pretori e da giudici conciliatori. I veri delinquenti sono certi proprietari usurai, ex manutengoli di briganti, stupratori di contadinelle, bastonatori di contadini. Se sapesse i reati di questi prepotenti che rimangono impuniti! Qui avvengono ancora delle cose da medioevo. Al Fascio invece noi non abbiamo nulla da nascondere e lasciamo liberamente che vi si inscrivano anche le spie della questura e i confidenti dei proprietari. Contro i proprietari grossi stanno ora con noi anche i piccoli i quali sono disposti a disfarsi dei poderetti diventati una passività. Per Corleone poi, noti un'altra cosa, che la mezzadria chiesta al Congresso provinciale non è per noi una novità: essa si usò qui fino a dieci anni addietro.
La sede del Fascio era una vasta sala a pianterreno, a volta. Al disopra del tavolo del Consiglio spiccava un busto in terracotta di Carlo Marx, fiancheggiato dai ritratti di Mazzini e Garibaldi. Sotto c'era un trofeo di vecchie armi, di sciabole e fucili, fra i quali ho notato un antico trombone, di quelli del brigantaggio classico.
I soci che si trovavano alla sede mi hanno detto che si riunivano ogni domenica e che coloro che sapevano leggere tenevano informati gli analfabeti delle notizie degli altri Fasci.
Alla mia solita domanda di ciò che avrebbero fatto in caso di scioglimento, hanno risposto dì non credere che il Governo pensasse più a sciogliere i Fasci, diventati oramai troppo numerosi.
- Invece di mandar qui tanti soldati — aggiunsero (quel giorno era arrivato a Corleone un battaglione di bersaglieri) — un Governo giusto dovrebbe interessarsi perché tutti i proprietari accordino la mezzadria, e cosi farebbe una opera di pace. Che se proprio vogliono la guerra civile, ammazziamoci pure. Ma vi assicuriamo che qui non troveranno delle pecore. Noi siamo armati tutti. Corleone non si tollererebbe che ai stracciasse la bandiera del Fascio, come s'è fatto impunemente altrove. Se arrestassero i nostri capi ne abbiamo altri già pronti.
Il sottoprefetto,che era un funzionario piemontese e proveniva da Mazzara dove esisteva un Fascio importante, mi disse anch'egli che la soluzione migliore era quella della mezzadria, poiché per parlare di repressioni violente a vantaggio dei proprietari bisognava non essere mai stati in quelle province e ignorare la condizione dei contadini.
— I proprietari che non hanno voluto cedere da principio volentieri — concluse — dovranno cedere ora per forza, se non vogliono lasciare le terre abbandonate.
Alla sera sono intervenuto ad una seduta del Fascio di Corleone. Si doveva discutere se conveniva ai soci di prendere in affitto un mulino a vapore. La sala era piena zeppa. Finita che fu la seduta, mi feci presentare all'assemblea e cominciai col domandare che cosa intendono i contadini corleonesi per socialismo.
— La rivoluzione! — risposero alcuni in coro.
— Mettere insieme la proprietà e mangiare tutti eguali — dissero altri. —
Domando la parola — fece alzandosi un contadino di nome Bernardo Sinatra, padre di sei figli. — Da una settimana la mia famiglia non ho potuto mangiare una briciola di pane e si sfama coi fichi d'India.
— Aiu cinquant'anni — aggiunse un vecchio - e un aiu manciatu carni mai! (Io ho cinquant'anni e non ho mai mangiato carne).
— Certi proprietari — dichiarò un altro vecchio - non ci permettono neppure di raccogliere delle erbe da mangiare. Vogliono che le lasciamo per le pecore.
— Una settimana fa — raccontò un terzo - il barone Cammarata vide due ragazze che avevano raccolto della legna nelle suo terre. Scese da cavallo, fece deporre i fasci della legna e vi attaccò fuoco. Vi sono dei proprietari che non fanno neppure l'elemosina e dicono ai mendicanti: “Andate al Fascio.”
— E che cosa vi dicono — continuai — quando Parlano del Fascio?
— Che siamo dei vagabondi. Alcuni odiano tanto il nostro Fascio che fanno ora lavorare i loro vigneti da contadini d'altri paesi. Taluni invece hanno paura e quando c'incontrano ci salutano per i primi.
— Avete fede nell'avvenire?
- Sicuro: o con le buone o con le cattive, vinceremo. Certe prepotenze non devono continuare. Non sapete che all'inverno anticipandoci del grano certi padroni ci davano i tumuli da 13 litri e noi dovevamo restituire tumuli da 17 litri?
- Ma possibile che siano tutti ladri così?
- C'è qualche padrone onesto, come il sig. Palazzo. Ma sono rari come le mosche bianche. Per I più sono usurai che ci prestano al sessanta per cento. Era tempo che ci unissimo.
- L'altro giorno — narrò uno — ero per la strada, quando la mia mula molto carica cadde. «Sei del Fascio?» - mi chiesero alcuni contadini. E appena intesero che si, mi aiutarono a rialzare la mula come tanti fratelli.
- I borghesi di Corleone — dissi per ultimo — vi accusano di avere nella scorsa estate dato fuoco ad alcuni loro fienili.
— È una calunnia! — mi risposero. — Gli incendiari saranno stati gli stessi proprietari per guadagnare il prezzo dell'assicurazione e per accusare poi il Fascio allo scopo di far venire qui la truppa, come hanno ottenuto. Quando noi decidessimo di scendere alle violenze, faremmo la nostra guerra in modo più serio.
VIII Il Fascio di Bisacquino. Un frate socialista.
Un medico che ha studiato i carusi. Una
lettera del vescovo di CaltanissettaTutti i comuni del circondario di Corleone avevano oramai i loro Fasci. Il 19 ottobre approfittai di una causa che doveva discutersi in pretura per andar a vedere quello di Bisacquino, che contava circa duemila soci e aveva una numerosa sezione femminile.
Bisacquino è un comune di montagna di diecimila abitanti, a diciotto chilometri da Corleone, distanza che bisogna percorrere coi muli. Il Consiglio direttivo del Fascio composto da undici contadini, era accusato di aver promosso una pubblica riunione senza averne chiesto il permesso perchè la sera del 27 settembre circa duecento soci uscendo dalla sede del Fascio avevano attraversato il paese in processione, cantando l'inno dei lavoratori, inno che nel suo rapporto il delegato chiamava sovversivo.
La mattina del 19, apertasi l'udienza, l'aula fu invasa da una gran folla di soci del Fascio. Gli undici accusati dichiararono che non avevano preso parte a quella dimostrazione fattasi a loro insaputa e il delegato di pubblica sicurezza affermò infatti che li aveva denunziati non già perchè gli constestassero che avessero preso parte alla processione, ma semplicemente perchè erano i direttori del Fascio.
Il pubblico ministero allora, visto che gli accusati erano impregiudicati, che non si trattava di una riunione preparata né di un assembramento, che tutti i documenti dell'accusa si riducevano ad una denunzia del delegato, non confortata neppure dai verbali delle guardie, chiese che gli undici fossero assolti.
E lo furono infatti dal pretore barone Quaranta, tra gli applausi degli astanti, che non si aspettavano un atto di giustizia proprio in quel giorno in cui era giunta a Bisacquino una compagnia di bersaglieri destinata evidentemente al Fascio, perchè da quelle parti non esistevano briganti, Una curiosità di Bisacquino è la chiesa della Madonna del Balzo, addossata ad un'altissima rupe, a più di 1000 metri. È una Madonna celebre nei dintorni per i suoi miracoli. Tutta una parete della Chiesa è coperta di voti consistenti in braccia, teste, piedi e gambe di cera, che formano una strana collezione anatomica, poco piacevole a vedersi perché vi sono riprodotte, con gran copia di color rosso, ferite e piaghe d'ogni sorta.
Cappellano della chiesa è un frate eremita chiamato padre Lorenzo, un vecchietto dalla barba bianca soprannominato il Socialista, perché diceva apertamente ai contadini che il far parte dei Fasci non portava la scomunica e che san Francesco d'Assisi è stato uno de' primi e dei più grandi socialisti che fra le altre cose, ha abolito la moneta.
- Eh! se non fosse per i superiori — mi diceva
Fra Lorenzo — io andrei a predicare il socialismo,
così, con la mia tonaca.
Per amor del vero, debbo aggiungere che,se da una parte il vecchio eremita favoriva il socialismo dall'altra dava anche ai contadini i numeri del lotto. Devo aggiungere pure che il presidente del Fascio di Bisacquino mi fece l'effetto d'un uomo che s'era messo alla testa dei contadini più per vendicarsi d'un processo e di certi soprusi che diceva d'aver subiti, di quello che per semplice filantropia.
Prima di lasciare Bisacquino ho fatto una breve visita al Club dei signori, o, come dicono là, al Casino dei civili.
Qualche proprietario, pieno d'ira contro il Fascio mi disse che i contadini erano diventati troppo prepotenti, che per essersi uniti credevano di poter fare i padroni, ma che il Governo avrebbe saputo metterli a posto.
Alcuni gabelloti invece, pur confessando che le condizioni dei contadini non potrebbero essere più misere, mi dimostrarono con le cifre alla mano che coi contratti gravosissimi d'affitto che avevano già stipulato coi proprietari era loro impossibile accettare i patti di Corleone, ossia trattare più umanamente i lavoratori.
— Taluno di noi — continuarono — ha idea di proporre ai proprietari la rescissione dei contratti. Qualche altro pensa d'intentar lite al Governo, dicendo: «Voi c'imponeste la ricchezza mobile e la sovrimposta, basandovi sul reddito consueto; con lo sciopero sopravvenuto la terra non fu coltivata e noi non possiamo pagare.»
Dal canto loro i contadini replicavano:
— E intanto dobbiamo andarci di mezzo noi ancora?-
Sbrigatevela fra voi. O ci accordate la mezzadria o non lavoriamo.
Per resistere nel futuro inverno stavano organizzando anche a Bisacquino una Cassa di resistenza. Alcuni soci del Fascio andavano con quattro mule bardate alle case dei compagni meno poveri a fare la questua.
Fattami così un'idea dei Fasci del lato occidentale dell'isola, stimai inutile girare ancora da quella parte. Oltre i nominati esistevano Fasci a Torretta, Carini Partinico, Borgetto, Montelepre, Trappeto, Balestrate, Castellammare, Alcamo, Calatafimi.
Partendo da Castelvetrano si trovavano poi i Fasci di Montevago, Santa Margherita, Caltabellotta, Sciacca, Mazzara, Marsala e Trapani con borgate. Di questi i più importanti erano quelli di Partinico, Borgetto, Castellammare, Marsala e Trapani. Meno quelli di Palermo e Marsala, che erano di operai, tutti gli altri erano formati di contadini, e loro rapida costituzione si doveva anche al fatto che in Sicilia, com'è noto, i lavoratori della terra non vivono sparpagliati nelle campagne, ma agglomerati in paesi di dieci, quindici o ventimila abitanti, insieme coi porci, con le galline, coi muli e coi somari.
Alcuni di quei Fasci erano stati creati per amore del socialismo da studenti e avvocati, taluno dei quali aveva di mira probabilmente un posto di consigliere comunale o di deputato. Qualche altro era stato messo su da gente battuta nelle elezioni comunali, per combattere la piccola cricca che stava al potere. I partiti municipali sono sempre stati nell'isola vivacissimi, battaglieri e danno luogo continuamente a guerre intestine,a odi e vendette.
Ma qualunque fosse l'origine di alcuni di quei Fasci del lato occidentale dell'isola, è innegabile che nella grande maggioranza erano costituiti da veri operai e di veri contadini, i quali non avevano altro di mira che la questione economica.
Da Bisacquino e da Corleone mi recai a Caltanissetta In viaggio mi sono fermato a Lercara per visitare il sig. Alfonso Giordano, un distinto medico che da anni si occupa del lavoro dei fanciulli nelle miniere e che all'ultimo Congresso medico nazionale di Palermo presentò i seguenti voti, che furono approvali all'unanimità:
1." Regolare con esami antropometrici le condizioni fisiche per l'accettazione del fanciullo ai lavoro nelle zolfare in rapporto all'età.
2: Elevare a 12 anni il limite più basso pel trasporto a spalla di giorno e a 14 anni per quello nell'interno della zolfara.
3. Tutelare meglio !a durata dei lavoro diurno e notturno, portandolo ad otto ore, con due intervalli di riposo.
-4. Curare meglio la salubrità e la sicurezza dai zolfare.
— Mi perdoni, caro dottore — gli dissi- dopo ciò che ho veduto nella zolfara Virdilio credo che uno solo dovrebbe essere il provvedimento da prendere, quello cioè di proibire assolutamente il lavoro dei fanciulli nelle miniere, come s'è fatto fuori d'Italia.
— É certo — egli mi rispose — che questo
sarebbe il rimedio migliore e lo posso dire io che da venticinque anni sono chiamato a curare e le malattie causate dalle condizioni insalubri dei luoghi e le molteplici lesioni provenienti dalle cadute della persona o del carico, cadute facili a verificarsi per la melma sparsa lungo gli scalini, per l'umidità e sopratutto per la debolezza di quei disgraziati ragazzi.-
ll dottor Giordano mi raccontò poi le ricerche da fatte per sapere quali siano le conseguenze dannose alla salute dei ragazzi per il trasporto a spalla del minerale nelle zolfare.
Esaminando la statura, il peso del corpo, la circonferenza toracica e la forza muscolare tanto dei carusi, quanto dei fanciulli di uno stesso comune tratti specialmente dalle scuole elementari e quindi appartenenti alle varie classi sociali, egli compilò una tabella comparativa da cui risulta tutto il danno che l'improbo lavoro delle miniere reca ai ragazzi. Un'altra serie di ricerche fu eseguita dal dott. Giordano sui fanciulli occupati al trasporto, rilevandone principalmente la scadenza della nutrizione, l'imperfetta ematosi, il ritardo nello sviluppo della pubertà, (un caruso di nome Vincenzo Militello di Salvatore non è ancora pubere a 22 anni), l’asimmetria delle membra e tutte quelle alterazioni costituzionali e organiche sospese nell'atto della loro prima apparizione sul corpo del fanciullo, in diretta relazione del lavoro a cui è sottoposto.
Su 539 ragazzi cosi esaminati dal dott. Giordano, se ne trovarono difettosi 170, cioè il 33 per cento. L'ingiuria alla costituzione ed alla vigoria dello individuo indubbiamente palesata dalla deficiente statura, dalla gracilità, raggiunge il suo apogeo in difetti di conformazione, nelle vere e proprie deformità, nella gobba.
Per darmi un'adeguata idea delle proporzioni raggiunte da codeste deformazioni, il dott. Giordano mi fece vedere alcuno fotografie di carusi gibbosi scelti fra i più caratteristici.
Il 23 ottobre ero a Caltanissetta. Anche in quella provincia i Fasci avevano preso un grande sviluppo: ve n'erano sedici già costituiti e due in formazione nei comuni più importanti. Il più forte era quello di Sommatino, di cui ho già parlato. In qualche comune i proprietari e i gabelloti si erano accomodati coi contadini, ma in altri non volevano cedere e i lavoratori si trovavano in sciopero e rifiutavano di seminare.
Avendo saputo che preoccupato dalla situazione il vescovo di Caltanissetta, un nobile discendente dell'antica famiglia dei Guttadauro, aveva mandato in proposito una lettera ai parroci della diocesi, gli ho chiesto una udienza. Monsignore, più che ottantenne, era a letto malato: mi ricevette in sua vece il vicario generale monsignor Nicolantonio Diliberto.
— È verissimo — egli mi disse. — Monsignore ha interessato lo zelo dei parroci a interporsi,coi modi suggeriti dalla prudenza e dalla carità, tra il ceto dei lavoratori delle terre e tra i gabelloti dei feudi, affinché si compongano tra loro le recenti vertenze cagionate in gran parte dalla ingiustizia di talune condizioni apposte nei contratti delle
mezzadrie, colonie parziarie e inquilinaggi, condizioni che creano una grave sproporzione tra quello che i gabelloti forniscono ai lavoratori e ciò che questi rendono ai fittaiuoli, tutto il danno e la iattura ridondando sulla classe dei lavoratori.
- Monsignor Guttadauro — osservai — ha dato Buon buon esempio agli altri vescovi dell'isola.
-Il nostro vescovo — continuò il vicario generale
— parla molto chiaro nella sua pastorale;
“In vero - egli dice testualmente - ragioni del
malumore esistono e non si possono dissimulare.
Il ricco per lo più abusa della necessità del povero, che viene costretto a vivere di fatica, di stento, di disinganno. I mestatori socialisti ne approfittano ed eccitano le masse a sollevarsi contro coloro che dovrebbero conoscere le regole della giustizia ed osservarle secondo lo spirito della carità cristiana. Reclamino i reverendi parroci, naturali protettori dei poveri, presso i proprietari ed i gabellotti, che si ristabilisca la giustizia e l'equità nei contratti, che si cessi dall'usura manifesta o palliata, che non si tolleri l'aggio del frumento al di là dei tumuli due a salma (il che è già troppo, ed anche pei soccorsi che si somministrano di tempo in tempo e si ripigliano nel tempo del raccolto); non si tolleri l'aggio del denaro al di là dì quello che tollera la Chiesa; si modifichi il cosiddetto terraggiuolo esagerato ed abusivo, e si ristabisca l'equa proporzione tra il lavoro del contadino ed il capitale apprestato dai gabelloti, sicché il raccolto risulti diviso giustamente».
— I gabelloti — interruppi — obbiettano che avendo fatto i contratti cogli antichi prezzi non possono assolutamente trattar meglio per ora i contadini.
— Monsignor vescovo — seguitò il vicario risponde appunto nella sua pastorale a obiezione: «Che se per il momento, - egli dice- per caagione dell’elevato prezzo delle gabelle, i gabelloti non possono del tutto modificare i pesi che gravano sugli inquilini, è d'uopo che i medesimi gabellotti si mettano d'accordo a diminuire per quanto equamente si può i pesi suddetti, e così, con equa transazione, contentare le non ingiuste pretese dei lavoratori. Della qual cosa bisogna che i proprietari dei feudi si persuadano, affine di venire in seguito modificando il prezzo delle gabelle e ristabilire la comune concordia. Se ciò non vorrà praticarsi, ci converrà assistere al desolante spettacolo della continua emigrazione dei poveri contadini, che vanno a cercar pane nelle lontane Americhe, ove raro è che trovino quel desiderano. Giustizia e religione s'invochi dai reverendi parroci e si inculchi per ogni modo; carità e larghezza si usi pel povero operaio, che spesso lottando con la miseria e la fame, privo del pane quotidiano per la famiglia che languisce, non sorretto dal sentimento della rassegnazione cristiana, si crede quasi costretto a ribellarsi.
— Il vescovo di Caltanissetta parla molto bene – esclamai. — Egli dice più ancora. Senta, senta: “Lo intendano i ricchi, i proprietari, i padroni, i gabelloti dei feudi del vasto territorio della nostra diocesi; i proprietari e gabelloti delle miniere zolfifere; si uniscano, si accordino in unità di principi; stabiliscano l'equità e la giustizia nei contratti coi loro dipendenti ed operai, secondo che la legge naturale, le dottrine del Vangelo e le lodevoli approvate consuetudini prescrivono e consentono. I reverendi parroci e predicatori ricordino in ogni occasione ai padroni e capitalisti l'insegnamento della Chiesa, che grida altamente, per bocca del Sommo Pontefice, esser loro dovere: non tenere gli operai in conto di schiavi; rispettare in essi la dignità dell’umana persona e del carattere cristiano; non imporre lavori sproporzionati alle forze o mal confacenti con l'età o col sesso. Principalissimo poi tra i loro doveri è dare a ciascuno la giusta mercede, determinarla secondo giustizia, e non trafficare sul bisogno dei poveri infelici.”
-Il vescovo non avrebbe potuto dir meglio.
— Si, la pastorale è piaciuta: appena ne ebbe cognizione, il prefetto della provincia, comm. De Rosa scrisse a monsignor vescovo ringraziandolo di concorrere alla pubblica tranquillità.
— E crede ella che la pastorale stessa riuscirà molto efficace ?
-L'autorità ecclesiastica ha fatto con essa in questa diocesi tutto ciò che poteva: so che in alcuni luoghi i fittaiuoli han cominciato a fare delle ragionevoli concessioni e che i contadini si sono acconciati a riprendere i lavori. In altri luoghi invece non si dà alcun segno di conciliazione. Ieri sera ci hanno informati che a Sutera, per esempio, non si vuol cedere. L'opera dell'autorità ecclesiastica non basta: ci vuole anche quella dell'autorità civile, ma in senso pacifico, e non con le repressioni, le quali non faranno altro che peggiorare situazione.
Il nuovo prefetto di Caltanissetta, comm. De Rosa, già magistrato, un uomo che aveva saputo conquistarsi subito molte simpatie, mi faceva giustamente osservare da parte sua che uno dei guai della Sicilia è il fatto che gran parte delle proprietà appartengono a signori che vivono nel continente, all'estero, come il duca d'Aumale, e i quali non si preoccupano d'altro che di affittare i loro possedimenti al più alto prezzo possibile. In tal modo il contadino, anziché col padrone, ha da fare con intermediari, gabelloti e sub-gabelloti, avidi speculatori che traggono profitto dagli usi feudali per avocare a loro nei patti angarici della colonia parziaria a breve scadenza tutto il frutto del lavoro del proletario. Chi si reca nell'isola da altre province dove L’agricoltura è più avanzata, resta sorpreso nel trovare in un paese fertile come la Sicilia,l’industria agraria impacciata dal più pretto empirismo. Invece di essere arata profondamente, la terra è semplicemente grattata alla superficie come nei tempi preistorici. Come concludeva la relazione dell'Inchiesta Agraria l'assenza di stalle e di case per la conservazione dei prodotti e per i coltivatori, l'ignoranza assoluta dei moderni sistemi razionali, e gli arnesi preadamitici sono i caratteri salienti dell’industria agricola siciliana.
E l'assenza del proprietario dal fondo, la breve durata degli affitti e l'ignoranza delle classi agricole possono ben dirsi cause concomitanti a mantenerla nello stato attuale. Passando a parlare per un momento dei Fasci, il comm. De Rosa riconobbe che la loro rapida formazione era dovuta principalmente alle misere condizioni degli operai e dei contadini, ma si meravigliò dei fondi che qualche Fascio aveva già raccolto per le casse di resistenza. Alcuni Fasci mantenevano poi i loro direttori con uno stipendio di quattro o cinque lire al giorno. Donde venivano quei denari? Per ciò che constava a me nel giro fatto fino allora, i fondi erano meno rilevanti di quello che il comm. De Rosa supponeva; le offerte in grano ed in denaro provenivano dagli stessi soci dei Fasci che si trovavano in migliori condizioni. Di offerte estranee per la propaganda non ho sentito parlare che di dodici mila lire all'anno che dava un giovane e ricco amateur socialista per la stampa della Giustizia Sociale, l'organo dei Fasci. Siccome in quei giorni aveva luogo in Caltanissetta la leva per i giovani della provincia, col gentile permesso del prefetto ho assistito una mattina all’esame dei coscritti dì Serradifalco, tutti contadini e zolfatai. C'erano fra essi parecchi ex carusi che invece di vent'anni non ne dimostravano più di tredici o quattordici e che dovettero essere riformati per insufficienza di sviluppo e di statura. — In questi mandamenti — mi diceva il capitano dei carabinieri che assisteva alle operazioni - non mi riesce di trovare un allievo carabiniere. Manca la statura. I pochi abili sono quasi tutti analfabeti. Caltanissetta ha le strade principali larghe, pulite, ben selciate. Penetrando però nei quartieri abitati dalla povera gente, si trovano vicoli sudicissimi e stamberghe dove la gente vive insieme alle bestie. Per provvedere la città di acqua potabile o per altre opere, il Municipio dopo avere speso dei milioni, aveva dovuto gravare gli abitanti con tutte le imposte e sovrimposte possibili, cosicché le lagnanze e il malcontento erano generali. Trovai che il pane era molto più caro che a Roma.
IX Una discesa nella miniera Cinnirella. — Due ore fra i sepolti vivi.
A poco più di tre chilometri da Caltanissetta si trova un gruppo importante dì zolfare, la maggior parte delle quali appartengono al deputato Testasecca creato conte per la cospicua donazione che fece ai poveri in occasione delle nozze d'argento dei sovrani. I nonni del neo conte erano dei poveri borghesucci quando verso il 1830 comperarono per pochi soldi alcune colline di quei dintorni. Erano colline superficialmente molto povere, ma che nel loro seno racchiudevano tesori. E infatti appena se ne accorsero e cominciarono a sfruttarle, i genitori all'onorevole Testasecca diventarono in pochi anni arcimilionari. Le zolfare del conte deputato sonò oggi coltivate Cin sistemi abbastanza razionali (macchine, vagoncini e ascensori), ma vicino ad esse se ne trovano altre dove vigono ancora gli antichi sistemi e nelle quali la creatura umana è ridotta peggio di una bestia da soma. Non faccio che trascrivere le note prese col lapis durante un'escursione che feci la mattina del 24 ottobre.
Ore sette ant. — Uscendo dalla città, i due amici che gentilmente mi accompagnano, l'avv. Angelo Giarrizzo e lo studente di medicina Paolo Trobia, mi mostrano lungo la via di Sant'Anna alcune caverne scavate nel tufo e nelle quali fino a poco tempo fa abitarono molte famiglie di zolfatai. Alcune vi abitano ancora. Il Municipio fece sgombrare le altre non già per igiene e per filantropia, ma perché le tane da trogloditi minacciavano di rovinare ed in caso di disastro il Municipio stesso temeva dì essere chiamato responsabile e di dover pagare i danni.
Ore otto. — Siamo arrivati in un vallone pieno di monticelli che paiono fatti da talpe gigantesche. Sono ingressi di zolfare e calcheroni, ossia mucchi di minerale greggio preparato per accenderlo e ricavarne lo zolfo col sistema primitivo.
Ci avviciniamo ad un calcherone in formazione. Otto uomini raccolgono con le pale il minerale greggio di un mucchio e ne riempiono delle ceste che vengono da una quindicina di ragazzi portati nella buca del calcherone.
É un lavoro che potrebbe esser fatto benissimo con vagoncini. Si adoperano i carusi perché si spende meno. L'età di questi ragazzi varia dai dieci ai 18 anni. Alcuni di essi, imberbi, magri, sembrano molto più giovani di quello che sono. Guadagnano dai quindici ai trenta soldi al giorno secondo la quantità del minerale che possono portare.
Per guadagnare qualche soldo di più, corrono continuamente dal mucchio del minerale alla vasca del calcherone. Lavorando esternamente, non sono del tutto nudi; indossano i pantaloni.
Una cosa che colpisce il visitatore è questa, che il lavoro meno pesante, cioè quello di riempire le ceste, è fatto dagli adulti, dai picconieri, e quello più faticoso, ossia il trasporto delle ceste piene addossato esclusivamente ai ragazzi.
A breve distanza si vedono gli ingressi della zolfara Gessolungo, dove circa dieci anni or sono accadde una catastrofe che uccise cinquanta persone. I cadaveri mutilati delle vittime non vennero trasportati neppure nel camposanto di Caltanissetta; s'improvvisò qui vicino un cimitero dove vennero sepolti in una fossa comune.
Ore otto e mezza. — Ci avviciniamo ai due ingressi della zolfara Cinnirella, dove lavorano attualmente circa cento persone, col vecchio sistema del trasporto a spalla. Da una delle due bocche di pozzo si entra nella miniera e dall'altra si esce: è già un progresso in confronto di altre zolfare dove si entra e si esce dallo stesso buco. Ci siamo appena accostati all'ingresso del pozzo di uscita, che ne vediamo uscire uno dopo l’altro tre carusi gobbi. Seguono altri disgraziati per lo più adulti, curvi sotto il peso del sacco di minerale che portano in spalla. Sono tutti ansanti e grondanti di sudore. Alcuni non hanno altro indumento che una pezzuola davanti; altri portano i soli pantaloni; altri — cosa stranissima — il solo gilè. La maggior parte sono deformati dalla immane fatica.
Un ragazzo di sedici anni — un vero nano per la deficiente statura — non dimostra più di dieci anni e ci dice che ha cominciato a fare il caruso a otto anni. Un altro ci racconta che ha cominciato a sette. Ora non li prendono se non hanno almeno nove anni,ma ciò succede qui nelle zplfare vicinissime al capoluogo di provincia e sorvegliate dalla direzione degli ingegneri: nell'interno si continua come in passato, nel modo che potei constatare nella zolfara Virdilio.
- Quanto guadagnate voi? — chiesi a un caruso trentenne, il quale mostra di avere cinquant'anni. - Una lira al giorno — mi rispose — ma io sono dei discreti, dei bravi: altri miei compagni più giovani non riescono a guadagnare più di dodici soldi al giorno; i più forti e resistenti giungono a guadagnarne trenta, il massimo.
— E quanti viaggi fate al giorno?
— Siccome la miniera è mollo profonda, possiamo fare più di dieci o dodici viaggi al giorno, percorrendo ogni volta trecentocinquanta metri di scale, senza contare le gallerie.
Ore otto e tre quarti. — Chiesto il permesso ad uno dei proprietari e ottenuto un caruso per guida, che ci precede portando una lampadina a olio, entriamo nella zolfara. Queste lampade, che generalmente i carnsi s’attaccano al berretto con un filo di ferro, sono piccoli orciuoli scoperti, di terracotta, con un becco da cui passa il lucignolo; per la forma ricordano le lampade etrusche. Costano 2 centesimi l'una, ma sono difficili da portare, si rompono facilmente e lasciano versar l'olio, di cui non contengono che una piccola quantità, cosicché è necessario riempirle ogni ora.
Scendiamo per una scala scavata nel masso. La volta, di gesso, di minerale o di tufo, ora ci permette di stare ritti e ora ci costringe a curvarci.
I gradini, che qui chiamano scaloni, quando L’inclinazione dello scavo non eccede i 40°, occupano tutta la larghezza della scala: sono detti allora scaloni sani, hanno un'alzata da 20 a 25 centimetri ed una pedata presso a poco eguale. Quando l’inclinazione supera i 40°, la larghezza della scala è divisa e si trovano i cosidetti scaloni rotti o a maschio e femmina: sopra ogni metà della scala è tracciata una gradinata, per modo che i riposi o pedate d'una metà corrispondono a metà delle alzate dell'altra. Si rende così possibile l’ascesa e discesa, che altrimenti riuscirebbe difficilissima per la soverchia alzala dei gradini. Molti gradini sono rotti e tutti appaiono lustri per il continuo strofinamento dei piedi scalzi dei carusi.
Anche sulla volta, specialmente quando è di gesso, si vedono delle strisce lucide prodotte dalle mani dei carusi che s'appoggiano.
Ma dopo un centinaio di metri dì discesa — avremo fatto più di quattrocento gradini — non trovammo più né scaloni sani né scaloni rotti: il buco procedeva a zig-zag e invece che sulle scale si camminava sui detriti del minerale. Ogni tanto dovevamo scostarci per lasciar passare file di carusi scarichi che correndo scendevano a prendere nuovi carichi. Per lo più nudi, con un semplice grembiulino davanti, malamente illuminati dalle lampadine, con le loro facce sfigurate e con la pelle bruna, più che europei sembravano isolani dell'Oceania.
In certi punti le pareti delle volte nelle scale e nelle gallerie sono puntellate con tavole e travi, alcune delle quali piegano sotto il peso e minacciano di spezzarsi. Ai lati vediamo qua e là delle gallerie chiuse con un cancello di legno, perché o sfruttate o trovate pericolose. Perché non sono state riempite come l'esperienza di tante catastrofi ha insegnato?
Ore nove. — Al punto detto “pié della scala” troviamo una galleria circolare somigliante ad un'ampia grotta. Un picconiere dal torso nudo tutto scintillante di sudore, batte il suo piccone contro il minerale dal colore oscuro dalle larghe vene gialle di zolfo. Quattro o cinque carusi raccolgono i pezzi del minerale e ne riempiono i loro sacchi. All'incerta e tremolante luce delle lampadine, la grotta, dalla volta a strisce gialle, rossicce e scure, è d'un orrido pittoresco: meriterebbe di essere ritratta da un Salvatore Rosa. Avviene non di rado che i picconieri trovano delle grotte naturali dalle volte ricoperte di stalattiti, di cristallizzazioni stupende. Ne fu scoperta recentemente una a Lercara Friddi, ma in pochi giorni tutti i bellissimi e risplendenti ornamenti naturali furono vandalicamente portati via. A stento io ne potei trovare un campione. Il caldo è soffocante, e non possiamo resistere che pochi minuti nella galleria “pié della scala”.
Ore nove e un quarto. — Imbocchiamo un altro cunicolo dalle pareti dirupatissime e scendiamo, tortuosamente, curvi. Le volte basse sono sostenute da travi e puntelli messi in modo molto primitivo. Grondanti di sudore — grossi goccioloni ci cadono continuamente dal viso e dalle mani e vanno a bagnare la polvere del minerale che ricopre il ripido sentiero — giungiamo finalmente verso le nove e mezzo alle gallerie finali, dette camminanti, vastissime caverne in cui lavorano vari picconieri. I colpi di piccone continui, incessanti, come fossero dati da una forza automatica, risuonano cupamente nella semioscurità. Quelle macchine umane dei picconieri fanno venire in mente il Canto dei minatori del Rapisardi:
Tra cieche forre, tra rocce pendenti
Sul nostro capo entr'oscure caverne,
Tra pozzi cupi e neri anditi algenti,
Tra rei miasmi, fra tenebre eterne,
D'ogni consorzio, dal mondo noi scissi
A nutrir gli ozi d'ignoti signori,
Noi picconieri di monti e d'abissi,
Sepolti vivi scaviam tesori.
E scavano tesori davvero. Anche questa zolfara Cinnirella, che passa per una delle meno produttive, ha già arricchito parecchi a Caltanissetta. E tuttavia proprietari non si sono indotti ancora ad applicarvi sistemi di trazione più razionali e umani. Ora è data in affitto o a gabella.
Ore nove e tre quarti. — Dopo un po' dì riposo torniamo indietro e cominciamo la faticosa salita. È durissima per noi che non portiamo nulla sulle spalle, che siamo robusti e ben nutriti. Come deve essere più dura, malgrado l'abitudine, per gl'infelici carusi! (Ne incontriamo a ogni minuto. Si sente ora la Loro respirazione affannosa, e ora quel lamento che fa tanto pena. Qualcheduno urta di tanto in tanto il suo carico contro la volta bassa. Qualche altro sdrucciola e cade come Gesù sotto la croce, senza trovare un pietoso Cireneo. Altri, non potendone più, gettano per un momento il pesante fardello e siedono ansanti per riprendere un po' di fiato. Alla svoltata di una galleria un caruso è lungo disteso sui pezzi aguzzi del minerale che a lui, sfinito dalla fatica, devono sembrare un soffice materasso. Passa in quella un sorvegliante e toccandolo con l'aguzza asta di ferro che gli serve da bastone gli domanda: Dormi? Man mano che saliamo una corrente d'aria, che a noi pare gelata, scende dall'altissima imboccatura del pozzo. Anche coperti di lana, c'è da prendere una polmonite. E i carusi, grondanti di sudore sono nudi!
Ore dieci e un quarto. — Quando noi usciamo a rivedere la luce del sole — venendo dalle tenebrose gallerie ci pare per qualche minuto abbarbagliante — siamo talmente stanchi che riparandoci in una baracca ci gettiamo a sedere, disfatti come cenci I carusi invece, appena deposto il carico, devono ridiscendere frettolosamente e continuare così fino a sera per guadagnare la mercede che s'è detto. E quasi tutti hanno anche una famiglia da tenere.
X Da Girgenti a Cattolica Eraclea in diligenza. Un tumulto.
Da Caltanissetta passai a Girgenti. Nella provincia di Girgenti i Fasci più importanti erano quelli di Canicattì, Grotte, Casteltermini Campobello, Ravanusa (dei quali ho già brevemente parlato), Racalmuto, Favara, Siculiana Palma, Cianciana, Sciacca, Cattolica Eraclea, Caltabellotta, Licata. Altri se ne andavano costituendo ogni settimana.
Parecchi erano stati formati o si andavano formando da individui che si servivano del movimento unicamente per combattere il partito municipale “al potere”; altri da mafiosi o mattoidi. Un Fascio s'era intitolato “della Madonna Addolorata”.
In Girgenti città, il Fascio era presieduto dall’avvocato Francesco De Luca e non contava che sei o settecento soci poco bellicosi; ma in cambio tutta la cittadinanza formava un altro fascio di malcontenti che alla continuazione del disagio attuale preferirebbero tutto, magari un protettorato dell'Inghilterra.
Da principio quest'idea mi sembrava uno scherzo; ma più m'internavo nelle provincie prive di comunicazioni, malsicure e trascurate, e più la sentivo ripetere. Uno dei lagni principali di quegli abitanti era che le isole vengono considerate come luoghi dì punizione per i funzionari del Governo e che così gli isolani hanno i rifluii delle provincie, ufficiali pubblici corrotti e corruttori. II marcio era deplorato specialmente nella magistratura. Mi citavano continuamente esempi di venalità e di ingiustizie inesplicabili, a danno sempre dei poveri. Sono occorsi sette anni perché alcune famiglie delle 140 vittime della catastrofe nella zolfara Mintina ottenessero il gratuito patrocinio, e accadde solo grazie alla perseveranza di un giovane avvocato di cuore.
Di pari passo con la miseria crescono i delitti. Il carcere giudiziario di Girgenti, costruito per 375 detenuti ne conteneva nello scorso ottobre 427. Tribunali e Circoli d'Assise stanno aperti in permanenza a Girgenti e non bastano al lavoro, tanto che gli accusati devono aspettare da due a tre anni prima di essere giudicati. La sera del 26 ottobre stavo per andarmene da Girgenti quando giunse la notizia di disordini piuttosto gravi accaduti a Cattolica Eraclea, un paese di contadini,di circa ottomila abitanti, distante da Girgenti 44 chilometri.
Siccome non c'è ferrovia, bisogna andarvi con la diligenza postale, che, scortata da due carabinieri parte ogni sera da Girgenti alle 11.
Per provare anche questo genere di locomozione così usato ancora in Sicilia, dove le ferrovie sono scarsissime e dove i treni (meno i pochi diretti Palermo-Messina-Catania) non fanno più di quindici chilometri all'ora, partii quella sera stessa. — A che ora arriveremo a Cattolica Eraclea? - chiesi salendo nel carrozzone tirato da tre cavalli mentre cadeva un acquazzone.
— Alle nove di domani mattina — mi fu risposto.
Nove ore di diligenza per poco più di quaranta chilometri! E pazienza se i passeggieri fossero stati pochi. Eravamo invece in nove e bisognava incastrare le gambe dell'uno in quelle dell’altro,, un modo che ci riduceva alla immobilità perfetta.
Il ragazzo che mi portava la valigia era Mancante di un braccio. — Dove hai perduto quel braccio? — gli domandai mandai. — In una grassazione — mi rispose — quando i briganti assaltarono questa diligenza quattro anni or sono. Con questa notizia di buon augurio si partì alle undici un quarto. Alle dodici e tre quarti eravamo a Porto Empedocle, e passando per una vera sierra selvaggia, sulla quale si infrangevano fragorosamente le onde, costeggiando il mare africano ci avviammo verso Siculiana. Un abitante di questo paese che si trovava nella diligenza, narrava cose incredibili intorno alla miseria che regna in Siculiana stessa, il cui territorio è tutto di un barone che vive in un vero castello coi suoi bravi, come se fossimo ancora nel quattrocento. Non si ha idea nel continente di certi usi che si conservano in quelle regioni segregate dal mondo civile.
Rasserenatosi il cielo, al chiarore della luna non si vedevano dalle finestrelle della diligenza che rupi e cime nude. A un certo punto, mentre imboccavamo un burrone, mi dissero che si attraversava la gola dell'”uomo morto “ famigerata per delitti e grassazioni. Dopo una notte orribile, tutti zoppicanti, indolenziti, ammaccati, scendemmo finalmente alle sei e mezzo della mattina nella sudicia strada di uno squallido villaggio che per una feroce ironia si chiama Montallegro e dove si aspetta la diligenza di Sciacca. Coi suoi dintorni brulli, pare un villaggio dell'Asmara. Molti cani magri e spelati ed alcuni abitanti gialli per la malaria e per mancanza di acqua potabile, ci vennero intorno, mentre cercavamo il buffet di quella stazione africana, un bugigattolo coll'insegna: “Spiriti e sigari.”
Il più bello si è che con tanta miseria di mezzi di trasporto e con tanti disagi si finisce con lo spendere in quelle diligenze medioevali più che negli sleeping-cars. I biglietti infatti sono cari e poi ad ogni scambio, alla partenza ed all'arrivo, bisogna distribuire continuamente mance che vi sì chiedono con una insistenza prepotente che contrasta singolarmente col linguaggio servile e coi continui — Eccellenza, vi bacio le mani. -
Basta, alle nove e un quarto, dopo aver passato a guado il torrente Saia, sbarcavo a Cattolica Eraclea e deposta la valigia in una locanda dove giurai di non dormire, andai in cerca degli operai del Fascio. .......................................................................... .Il locale era chiuso — nel cercarlo notai che il paese è sudicissimo e che, meno pochissime abitazioni tutte le case sono vere stalle piene di letame — ma trovai ben presto alcuni abitanti che mi misero al corrente della situazione. Ecco brevemente di che si trattava. Quel Fascio era stato fondato poche settimane prima allo scopo di combattere il partito municipale che stava al potere. In breve si iscrissero duemila soci e fra essi e i proprietari cominciò guerra di insulti e di minacce.
I padroni esclusero qualcheduno del Fascio dai lavori. Questo fatto, le ingiurie continue e la circostanza che la miseria è grande e che infinite sono le angherie a danno dei contadini, fecero si che questi ultimi decisero di scioperare se i padroni non ripigliavano a lavorare anche i soci del Fascio.
Prima di mettere in opera il divisamento, chiesero al delegato di P.S. il permesso di fare una questua fra i soci del Fascio per costituire una cassa di resistenza. Il delegato accordò il permesso a patto che i questuanti non fossero più di dieci. La questua cominciò una domenica e fruttò subito varie salme di grano; ma invece di girare a dieci per volta, quelli del Fascio giravano a centinaia. Senz'altre dilazioni, quella stessa domenica i soci del Fascio decisero di cominciare lo sciopero alla mattina seguente. I membri del Consiglio direttivo si opposero, minacciando di dimettersi; i contadini insistettero e al lunedì mattina, messisi agli sbocchi di tutte le strade che escono dal paese, impedivano ai contadini non appartenenti al Fascio di andare a lavorare.
- Se non accettano anche noi — dicevano — non dovete lavorare neppur voi. I più, in seguito a questa intimazione, tornarono in paese e con altri che volevano ribellarsi vi furono qua e là delle piccole colluttazioni, ma senza conseguenze. Il presidente del Fascio e altri tre del Consiglio Direttivo furono allora chiamati nell'ufficio di P.S. Il delegato li rimproverò per quanto era accaduto li lasciò andare dopo che essi promisero che la cosa non sarebbe continuata.
Tutto pareva finito, quando la mattina seguente, martedì, il delegato fece chiamare nuovamente ì quattro. Essi erano da poco entrati nell'ufficio, quando un tenente e dieci carabinieri si presentarono e li arrestarono, mentre una sessantina di soldati giunti in paese allora allora si schieravano davanti all'ufficio stesso di P.S. I quattro arrestati erano: Vincenzo Rizzuto-Vecchio, presidente del Fascio; Francesco Mazza, vice presidente; Antonino Mazza, segretario e il medico dr. Giovanni Cicala, cassiere. Ammanettati, fra due ali di soldati, essi furono condotti subito al carcere. Appena si sparse la notizia di quegli arresti, tutto il paese fu sottosopra e verso mezzogiorno più di duemila persone circondavano la prigione domandando ad alte grida che gli arrestati fossero rilasciati. Le donne specialmente si mostravano più accanite e affrontavano ì soldati, i quali avevano innastato le daghe.
Dopo parecchi squilli la folla fu allontanata senz’altre conseguenze che la caduta di qualche donna. Alla sera, tornati che furono dalla campagna i contadini che erano andati a lavorare, la dimostrazione si rinnovò, più numerosa ancora. I soldati riuscirono ad allontanarla di nuovo, ma nel tafferuglio un sordo, certo Nardogrosso, ricevette una ferita da baionetta, non tanto leggera, dietro le costole.
A onor del vero, bisogna dire che gli ufficiali si contennero molto prudentemente verso la moltitudine inerme: essi pregavano gli amici degli arrestati di persuadere la popolazione a ritirarsi. Furono però operati altri nove arresti.
La folla rimase nei paraggi del carcere fino a mezzanotte. Ciò era successo alla vigilia del mio arrivo, cioè il 25 ottobre. Al 26 il paese era un po' più calmo, ma nessuno era andato a lavorare e quelli del Fascio stavano all'erta, decisi di impedire che gli arrestati venissero trasportati fuori del paese.
Da parte loro due proprietari, il marchese Borsellino e il consigliere provinciale cav. Spoto, mi dicevano che i soci del Fascio erano diventati dei prepotenti; che non era vero che fossero stati esclusi dal lavoro , e che ad Eraclea guadagnavano qualche centesimo più che in qualche paese vicino. Non negarono però che in estate si nutrono esclusivamente di fichi d'India.
Aggiunsero che la scena del lunedì aveva spaventato tutte le famiglie civili, che si parlava di un probabile assalto delle case dei proprietari e che alcuni di questi avevano telegrafato al prefetto di Girgenti domandando della truppa.
Per timore di nuove dimostrazioni si stava per nominare una Commissione mista di contadini e di proprietari per venire a qualche accomodamento che pacificasse gli animi. Tanto il Borsellino come lo Spoto erano disposti a fare delle concessioni.
XI. Nelle Provincie di Catania e di Messina.
La mattina del 27 ottobre nel recarmi da Cattolica Eraclea a Porto Empedocle, trovai nella diligenza il negoziante Emanuele Garofalo, presidente del Fascio di Siculiana. Era costui un curioso tipo di agitatore. Faceva l'orefice, e, girando per le fiere, dopo aver badato ai propri affari, teneva conferenze e impiantava Fasci, animato esclusivamente, pare, dall'amore del prossimo, perchè aveva già rifiutato più volte la candidatura a consigliere comunale. Egli non voleva dimostrazioni né chiassate: mi diceva che i lavoratori devono prima di tutto dirozzarsi e istruirsi, e a tale scopo la sede del Fascio di Siculiana non era che una scuola serale tutta piena di banchi e di lavagne. Alle pareti, ritratti di Gesù, di Mazzini e di Garibaldi.
— Questo Fascio — egli continuava — l'ho fondato con ventiquattro contadini. Tutti mi davano del matto, e oggi, invece, dopo pochi mesi, i soci sono settecento e aumentano continuamente, abbiamo già ottenuto qualche cosa: i medici comunali si facevano pagare prima da tutti, ma esaminati i patti della loro nomina, li richiamammo al loro dovere, a curare, cioè, gratuitamente i poveri. Per non incorrere poi in contravvenzioni ci siamo muniti di una copia del Codice penale e della Legge di pubblica sicurezza. — Voi mostrate di essere un presidente di buon senso — gli dissi —ma non tutti vi somigliano. Ho sentito, per esempio, che i capi di un fascio vicino sono dei mafiosi, e gliene dissi i nomi. — È verissimo — mi rispose. — Sono gli stessi che presiedevano le associazioni che esistevano in quel paese prima del Fascio. Però è da notare questo: che quando quelle associazioni si chiamavano Francesco Crispi e della Madonna Addolorata nessuno si curò di esaminare le carte dei presidenti.
Ad ogni modo i Fasci falsi non vengono riconosciuti dal Comitato Centrale e i cattivi verranno riformati. Per noi l'importante è che i contadini si riuniscano: a disciplinarli, a liberarli dai capi non buoni penseremo poi. E venendo a parlare delle condizioni di Siculiana, mi raccontò come in quel paese, dove non esiste che un solo grande proprietario, la miseria è grande e nel Municipio sì verifica la solita storia: la tassa del fuocatico non è imposta con equità. Il più ricco non paga in proporzione dei poveri. In quasi tutti i piccoli comuni, nel compilare i ruoli delle varie tasse, sindaci e consiglieri favoriscono i loro amici e gravano la mano sugli avversari e sui poveri. Chi ha quaranta bestie non ne denunzia che sei o sette, e via dicendo. Un brigadiere dei carabinieri mi narrava che il prefetto lo incaricò recentemente di compilargli segretamente un ruolo esatto degli animali di un comune. Il brigadiere lo fece con diligenza e risultò che sindaco e consiglieri non avevano denunziato che la decima parte delle bestie di loro proprietà, mentre a certi poveri diavoli e ai loro nemici ne avevano attribuite più di quelle che realmente possedevano. Cento altre camorre esistono nella massima parte dei municipi e chi ci va di mezzo è sempre il lavoratore, vittima cosi di tre governi: di quello centrale per le imposte principali, della cricca che comanda al Municipio e del gran proprietario o dei suoi gabelloti. Ma torniamo ai miei giri.
Da Porto Empedocle Andai a Catania, dove arrivando di sera alle dieci vi trovai la città completamente deserta, con tutti i negozi chiusi come se fossero state le due dopo mezzanotte. In quella provincia i Fasci avevano una fisionomia tutta differente da quelli delle provincie che avevo attraversato fino allora: erano più che altro società di mutuo soccorso ed elettorali, perfettamente calme perchè sorte già da qualche anno e perchè la miseria era relativamente minore.
Il Fascio di Catania città, il più antico di tutti i Fasci siciliani, contava circa 10 mila soci (al corrente coi pagamenti ve ne saranno stati seimila) divisi in sezioni secondo le differenti arti e mestieri Ogni socio pagando 25 centesimi alla settimana aveva diritto al medico ed alle medicine gratis, aveva una lira al giorno in caso di malattia e i caso di morte la sua famiglia riceveva una indennità di 400 lire. Il Fascio aveva istituito così una vera cassa di assicurazione. Di tali indennità di 400 lire ne erano state pagate diciotto.
La contabilità era tenuta con molto ordine dal ragioniere Salvatore Marcellino, il quale mi fece vedere i registri da cui risultava che il Fascio incassava in media 22 mila lire all'anno, e siccome ne spendeva meno, possedeva un fondo di cassa.
Lo stesso Fascio aveva fondato dei magazzini cooperativi di generi alimentari per i soci e aumentava il proprio fondo dando spesso delle feste Stava per aprire una Scuola d'arti e mestieri, la quale il Municipio aveva accordato un sussidio annuo dì 5 mila lire, e una scuola femminile di lavoro. Le vecchie società popolari catanesi” I figli del Lavoro” “I figli della pace” {tra lavoranti fornai) I figli della speranza (fra i conciapelli),” Onestà e Lavoro” e altre, erano diventate sezioni del Fascio La sede era situata in via Lincoln. Nella vasta sala delle conferenze si vedevano i ritratti di Mazzini, Garibaldi, Saffi, Giordano Bruno, e cartelli con iscrizioni come le seguenti: “Chi non lavora non mangi”; “La fame fa un solco nel cuore e vi mette l’odio”; “La libertà è un'ironia quando l’uomo é schiavo della fame”. I Fasci più notevoli della provincia erano quelli di Paterno, Catenanuova, Misterbianco, Tremestieri, Motta Sant'Anastasia, Regalbuto, Raddusa, Agira, Acireale, Acicalma, Linguaglossa.
Nei pittoreschi dintorni di Catania sono andato a vedere alcune cave di lava in cui non lavoravano allora che 400 operai, perchè la crisi generale aveva fatto sospendere anche le costruzioni e la selciatura delle nuove strade. Gli strati di lava vengono spezzati a furia di mine. I grossi blocchi sono poi divisi e ridotti a pietre quadrate mediante grosse mazze di ferro. Siccome si scava dal sotto in su, avvengono spesso degli infortuni. Certi massi, staccandosi prima del momento preveduto, schiacciano miseramente gli operai. Fino a qualche anno fa questo lavoro, per quanto faticoso e pericoloso, era molto produttivo, ma ora i migliori spaccapietre non riescono a guadagnare due lire in dieci ore di lavoro. La poca lava che si lavora adesso, viene mandata all'estero, a bassissimo prezzo.
Dalle cave di lava sono passato a quelle della cosiddetta ghiaia, la quale è una terra rossa bruciata al momento delle eruzioni dell'Etna, una specie di pozzolana o dì polvere di mattone, ottima come cemento. Per andarla a trovare si scavano delle gallerie sotto gli strati della lava, lunghe da tre a quattrocento metri, basse, dove bisogna camminare curvi e, in certi punti, carponi. Il trasporto della ghiaia si fa con casse portate da asinelli. Ogni asino ha due ceste, una per lato, ed è guidato da un ragazzo. Così in queste cave è una bestia da soma che fa da caruso e non il caruso che fa da bestia di soma. Per il carico di ogni asino il proprietario della cava si fa pagare dagli scavatori 60 centesimi.
A proposito di ragazzi, se in provincia di Catania non si trovano che pochissimi carusi, vi sono però parecchi giovanetti che in tenera età vengono messi alla custodia delle mandrie, specialmente nella piana di Catania. Abbandonati completamente a loro stessi nelle vaste solitudini, questi piccoli cow-boys crescono come le bestiuole, senza poter mai andare a scuola. Della loro ignoranza e del loro abbandono abusano spesso certi massari, e i delitti contro natura sono all'ordine del giorno.
Questi disgraziati ragazzi non sono retribuiti direttamente: chi li impiega passa solo una miseria, in generi alimentari, alle loro famiglie. Il 30 ottobre costeggiando il mare Jonio sono andato da Catania a Messina, percorrendo quel tratto di strada che pare un pezzo di Eden regalato dagli Dei ai mortali. In un clima d'una dolcezza deliziosa, si attraversano continuamente boschi d'aranci; le acque turchine si cullano in lunghe ondulazioni e a sinistra si stendono montagne e colline d'un effetto pittoresco che pare quasi inverosimile. Arrivato a Messina verso sera, trovai in un giardino pubblico che guarda sul mare una folla elegante che ascoltava la musica all'aria aperta come bel mese di maggio: davanti al giardino gli ultimi raggi del sole scherzavano sulle vette dei vicini monti della Calabria. Un quadro incantevole. Me ne staccai a malincuore per andar a raccogliere le solite informazioni. Nella città di Messina il Fascio era stato fondato nel 1888; contava 5300 soci, per lo più operai del porto ; dodici sezioni del Fascio stesso erano sparse nella provincia. In complesso gli associati erano 6600 soltanto e tutti operai, perché intorno a Messina è in uso la mezzadria e i contadini stanno relativamente bene.
Il che prova, ancora una volta che il primo agitatore e il principale pescatore nel torbido era la miseria; dove avevano almeno il pane i villani non si muovevano neppure in Sicilia, e, se mezzadri, erano dei veri conservatori. Pagando 70 centesimi al mese ogni socio del Fascio messinese aveva diritto al soccorso in caso di malattia, e in caso di morte la vedova riceveva un sussidio di duecento lire. Il Fascio cominciò a prender parte alle elezioni pochi mesi or sono, e nominò sei consiglieri comunali a Milazzo ed a Messina. In Messina riuscirono Noè e Petrina, Quest'ultimo, che era presidente del Fascio, scopri subito alcuni gravi abusi che da anni si commettevano nel Municipio: appunto nel giorno del mio arrivo si stavano arrestando alcuni grossi impiegati.
Se i contadini di Messina e dintorni stavano discretamente, gli operai della città invece si trovavano in misere condizioni, perché la maggior parte erano disoccupati e gli altri non avevano lavoro che tre mesi su dodici nel carico e nello scarico del carbone, dei grani e degli agrumi. Si lagnavano poi dello sfruttamento dei pesatori e dei capi stivatori, i quali ultimi prendono essi soli metà del prezzo dello stivaggio. Anche nello scarico del carbone c'è una camorra: gli agenti prendono uno scellino per ogni tonnellata e non pagano ai lavoratori che 75 centesimi.
Aggiungasi che alcune fabbriche, dove molte braccia venivano impiegate, si erano chiuse, come la fabbrica di alcool di Pirandello, la manifattura dei tabacchi, la fabbrica di calzature per i soldati: i magazzini generali erano parimenti chiusi. Il Governo aveva inscritto nel bilancio per il prolungamento delle banchine del porto 600 mila lire, ma non cominciava mai i lavori.
Notisi finalmente che fino a qualche anno fa Messina godeva del porto franco ed oggi ha dazi gravosissimi: per il vino si paga lire 10,50 all'ettolitro. Il pane non costa in media meno di 40 Centesimi al chilo.
Ho chiesto al signor Petrina che cosa pensasse del movimento nelle provincia siciliane più travagliate dalla fame, ed egli mi ha risposto: — Ritengo che questo moltiplicarsi dei Fasci sia frutto della miseria e dei tempi. Nel 1860 si credeva di migliorare la nostra condizione e invece siamo andati indietro. Se un serio movimento di rivolta cominciasse ora in qualche punto dell'isola, sarebbe secondato dappertutto, specialmente nei luoghi dove non esistono Fasci. Ha sentito ciò che è successo l'altro giorno a Villa Floresta, dove le donne hanno disarmato e fatti prigionieri i carabinieri? Ebbene, a Villa Floresta non esiste Fascio. Richiesto di ciò che, secondo lui, vi sarebbe da fare per migliorare la situazione a Messina, il signor Petrina rispondeva : — franchigie doganali o diminuzione delle tasse che colpiscono le industrie ed i commerci, perchè Messina, circondata com'è di montagne, vive di commercio e di industria. Dieci o dodici anni or sono, quando il porto era franco, qui sì stava benissimo.
Con le due piccole tappe a Catania ed a Messina, dove la situazione era infinitamente migliore che non fosse nelle altre provincie, finii la mia escursione nell'isola. Nel tornarmene a Roma, cercando di condensare nella mia mente le impressioni ricevute durante il giro, così le riassumevo nella Tribuna:
“In confronto dei contadini delle altre più povere regioni d'Italia, i contadini siciliani stanno peggio, perchè sono vittime di un maggior numero di angherie, di usure e di soprusi. Essi non sono solamente i servi di un padrone, ma i vassalli di un feudatario e del loro vassallaggio portano i marchio nel viso completamente sbarbato. Ciò si verifica specialmente nei latifondi.
Oltre che vittime di usi e di sistemi d'altri tempi, i contadini siciliani lo sono anche delle tasse comunali, perchè vivendo agglomerati in dieci, venti e trenta mila abitanti, devono pagarsi i dazi e il fuocatico e altre imposte a cui sfuggirebbero se abitassero nelle campagne. Queste tasse poi, come ebbi già a notare più volte, sono applicate in modo da gravare più sui poveri che sui ricchi, e questa ingiustizia, che salta agli occhi di tutti, è una nuova causa permanente di irritazione.
Il contadino siciliano finalmente ha un minor numero di strade e di scuole d'ogni altra regione — fatte poche eccezioni come per la Sardegna e per le Calabrie — ed ha da fare con funzionari mandati per lo più nell’isola in punizione e con una magistratura che avrebbe bisogno di una riforma ab imis.
Così stando le cose, chi può meravigliarsi e del profondo malcontento esistente nell'isola e del rapido svilupparsi dei Fasci? Dato il temperamento caldo degli abitanti, c'è da sorprendersi di una cosa sola : che una volta affiatatisi col mezzo della propaganda socialista, certi gruppi di paesi circondati dai latifondi si mantengano in una calma relativa e non chiedano ai padroni che i patti di Corleone cioè la semplice mezzadria.
Questa modestia di pretese se indica da una parte l'indole buona degli abitanti, dovrebbe insegnare dall'altra, a chi deve tutelare l'ordine pubblico, che invece dei mezzi repressivi sarebbero più opportuni quelli conciliativi. Per pacificare gli animi, invece delle zone e delle sottozone, sarebbe utile un intervento nel senso di favorire gli arbitrati fra i lavoratori, i fittaiuoli ed i proprietari. L'arbitrato è avvenuto spontaneamente già in alcuni i paesi; e in altri, come ebbi a constatare, non vi sarebbe bisogno che di un po' d'iniziativa.
Il grido di “Pace, pace, pace!” dovrebbe essere la parola d'ordine per migliorare la situazione in Sicilia. Questa parola sarebbe accolta con gioia dagli stessi interessati perchè se da parte dei contadini si chiede ben poco, da parte dei proprietari meno ciechi si capisce che è meglio fare di necessità virtù e dare oggi con le buone ciò che si dovrebbe cedere più tardi con le cattive.
In conclusione, in quest'isola, circondata da pezzi di paradiso terrestre, vi sono delle zone che paiono africane, dove nelle terre di pochi gran signori stentano migliaia di schiavi, che stanno peggio degli schiavi antichi, perchè quelli almeno avevano il pane assicurato. Non dimentichiamo che in questa stessa isola duemila anni or sono gli antenati degli schiavi attuali insorgevano e che occorsero tre anni di lotte sanguinose per soffocare quella rivolta nel sangue, dopo la sconfitta di varie legioni mandate da Roma.
E allora erano i soli servi della gleba che insorgevano; mentre oggi se si volesse proprio, come pare, tentare di far tacere il grido di dolore con le manette e si venisse disgraziatamente a qualche serio conflitto, non i soli contadini insorgerebbero. Essi sarebbero aiutati dai malcontenti di tutte le classi, che nell'isola sono oramai la grande maggioranza e dai giovani e studiosi socialisti, a cui parrebbe nobile cosa sacrificarsi per i deboli e avere sulla propria tomba un epitaffio che dicesse: “Spartaco pugnavit”
Povere parole gettate al vento! Invece del pareri della gente sincera e spassionata, invece dei consigli di veccbi venerandi e pieni d'esperienza come il vescovo di Caltanissetta, attraverso i cambiamenti di ministeri prevalse il suggerimento di un uomo di polizia, del Sensales, direttore generale di pubblica sicurezza, ed in luogo di promuovere gli arbitrati e le conciliazioni fra contadini e proprietari si volle tutto soffocare con la forza, inondando l'isola di truppe, che devono essere costate a quest’ora parecchi milioni.
Dal dicembre 1893 al marzo del corrente anno io mi trovavo in Africa a studiare la colonia Eritrea, a proposito della battaglia di Agordat, é potei tornare in Sicilia durante l’occupazione e lo scioglimento dei Fasci. Rimpatriando, ho trovato che tutti i rimedi portati ai mali dell'isola si riassumevano nel grande processo di Palermo.
De Felice e compagni potevano essere ritenuti colpevoli fin che si vuole di aver aumentato il numero dei Fasci colla loro propaganda, seminato l’odio di classe e predicato ai contadini: unitevi, invece di prestarsi — come fecero a Casteltermini - per metterli d'accordo coi proprietari; ma non sono certamente responsabili delle misere condizioni dei contadini stessi (nelle quali sta la vera origine dei Fasci e dei disordini che accaddero) e dal processo nulla risultò di fondato intorno all'accusa della cospirazione.
La loro enorme condanna — tutti ne sono persuasi — non ha fatto che creare dei nuovi martiri politici ed una nuova agitazione in loro favore che non finirà finché non sarà decretata una amnistia. E intanto le condizioni dei contadini siciliani sono immutate: levato lo stato d'assedio, il malcontento tornerà a manifestarsi e non cesserà finché i proprietari non avranno ceduto. Auguriamoci che si capisca finalmente che il segreto della tranquillità nell'isola (per i contadini, che formano la grande maggioranza) sta nei patti dì Corleone, in quella mezzadria ragionevole accordata da qualche proprietario di buon senso, e che prestandosi presto per il buon accordo, vedendolo agevolmente riuscire si dica: — Guarda com'è vero che le cose più semplici sono spesso le più difficili da capirsi! Quanto sangue e quanti milioni si sarebbero risparmiati se fino dall'ottobre scorso ci fossimo interposti per la riconciliazione.
Un ricordo per finire. In questo mese di giugno si è commemorata la morte di Cavour. Per quanto gli uomini di Stato facciano poi il rovescio di ciò che predicano, è opportuno ristampare qui ciò che Cavour scriveva nel 1861:
“Niente stati d'assedio niente violenze, niente repressioni.... Tutti sono buoni di governare collo stato d'assedio.... Governate colla libertà.... Io - governerò colla libertà e farò delle province meridionali le migliori del regno! “
FINE
L'AGITAZIONE IN SICILIA.
Premessa di ADOLFO ROSSI
I A Palermo. Garibaldi Bosco. L’organizzazione dei Fasci
II. Da Palermo a Canicattì, Sommatino e Campobello di Licata. — Le entusiastiche accoglienze ai capi. — Una imponente processione
III Una discesa nella zolfara di Virdilio. — I carusi
IV Gli evangelici e i zolfatari di Grotte
V Una riunione a Gasteltermini.
VI « Domate è gghindevet cè scerbein”- Ossia il Fascio Dei Lavoratori di una colonia albanese
VII Bernardino Verro e il Fascio di Corleone.
VIII Il Fascio di Bisacquino. Un frate socialista. Un medico che ha studiato i carusi. Una lettera del vescovo di Caltanissetta
IX Una discesa nella miniera Cinnirella. — Due ore fra i sepolti vivi.
X Da Girgenti a Cattolica Eraclea in diligenza. Un tumulto.
XI. Nelle Provincie di Catania e di Messina.
XII. Conclusione
vedi anche I fasci siciliani