Emanuele
Macaluso
Nella recente
controversia tra Ingroia e Macaluso sulla trattativa
Stato-mafia, ci sono diversi punti non chiariti.
Forse vale la pena tentare di renderli meno confusi.
Con una pregiudiziale sulla quale non si può
discutere: i magistrati facciano il loro dovere,
come stanno facendo. E quelli che si dilettano con
la penna in disquisizioni varie, utilizzino come gli
pare il loro tempo. Ma senza prendere persone e cose
sottogamba o, peggio ancora, a pedate o a
scappellotti come facevano i maestrini, quando
usavano la bacchetta. E’ troppo comodo farlo. E
anche disdicevole per molti pennivendoli che, oggi
più che mai, si dànno a delegittimare il prezioso
lavoro dei magistrati, fondamentale alla nostra
democrazia. Come aveva previsto e scritto Giovanni
Falcone.
A Emanuele
Macaluso, che conosco dai miei tempi di militanza
nel Pci negli anni Settanta, devo dire che i suoi
recenti articoli su Ingroia non mi hanno aiutato
nella direzione sperata e per questo vengo a
interrogarmi e a interrogarlo.
Perchè tentare di
sminuire i caratteri e la consistenza della
trattativa tra Stato e mafia è irragionevole. Fa a
pugni con la storia che è sempre maestra di vita.
Così un vecchio militante del Pci come lui, non
può alterare il senso delle cose. Dovrebbe dare ad
esse il giusto peso, la direzione che hanno avuto,
visto, peraltro, che il nostro ex senatore è stato
un dirigente nazionale del Pci e direttore de
l’Unità.
Per questo non può
venirci a raccontare che “il grande compromesso tra
mafia e Dc” risale al 1948. A quella data i giochi
erano stati già fatti. Bastò un anno, come egli
stesso fa notare. Dalle regionali siciliane del
1947, quando il Blocco del popolo ebbe la
maggioranza relativa dei voti, alle politiche del
1948, quando la Dc sfiorò la maggioranza assoluta.
In Italia. Ma anche in Sicilia, dove si sarebbe
dovuto formare, già dall’anno precedente, un governo
di centro-sinistra con il contributo del partito di
Sturzo, e invece ci furono prima la strage di
Portella della Ginestra e, dopo, il governo di
centro-destra. La sequenza fu questa: strage, rinvio
all’opposizione della sinistra, che aveva vinto le
elezioni regionali, sbarco dei comunisti dal
governo di De Gasperi.
Ma ci fu di peggio
al momento del trionfo della democrazia cristiana:
la completa decapitazione del movimento sindacale
siciliano. Dalla strage di Alia (settembre 1946)
alle stragi di Messina (marzo 1947) e di Partinico
(22 giugno 1947).
Macaluso sa bene
che non furono quattro, dunque, i sindacalisti
ammazzati, come incredibilmente scrive su l’Unità
del 1° agosto scorso. La mafia, con l’accordo della
Dc, provvide a una loro decapitazione sistematica.
Il che è cosa ben diversa da quella che egli narra.
Tanto più se si pensa che per diversi di loro, come
Accursio Miraglia di Sciacca e Calogero Cangelosi
di Camporeale, non si arrivò neppure a una fase
processuale. Si faceva così allora, nel silenzio
generale: socialisti e comunisti venivano ammazzati
e i tribunali non arrivavano neanche a istruire un
processo. Tutti contenti. Mi sono sempre interrogato
su questo punto e sempre mi sono dato una sola
risposta. I morti, i caduti venivano richiamati nei
comizi. Ma nulla di più. Non servivano per la verità
e la giustizia. La prima veniva deviata, la seconda
resa impossibile.
Portella è una
cartina di tornasole. Macaluso ci dice poco in
merito. Dovrebbe ricordare gli articoli di prima
pagina de l’Unità del 1947 usciti nel primo semestre
di questo fatidico anno di piombo. Non c’era
compagno che non sapesse che dietro figure losche
come il bandito di Montelepre si annidavano le fecce
più nauseabonde della Rsi e del neofascismo
dell’epoca. E Macaluso sa bene che il suo dovere di
militante storico della sinistra gli impone di
dubitare di molte versioni propalate dal sistema di
potere come verità indiscusse, specie quando fondate
su falsi rapporti, su depistaggi, su conflitti mai
avvenuti, sulla distorsione intenzionale della
verità. Cosa che fecero ampiamente uomini dell’Arma
che nulla avevano da invidiare a Mori o Subranni,
come il colonnello Ugo Luca e il capitano Antonio
Perenze, un agente segreto attivo già all’epoca del
nazifascismo.
E’ strano perciò
che egli releghi ancora oggi la vicenda di Portella
o gli assalti alle Camere del lavoro all’esclusiva
responsabilità di Giuliano. Furono opera di un
accordo in cui mafia, Servizi e Stato agirono
all’unisono. Come cercò di spiegare Gaspare
Pisciotta quando disse al giudice di Viterbo Tiberio
Gracco D’Agostino: “Siamo una cosa sola come il
padre, il figlio e lo spirito santo”.
Non capisco,
quindi, come egli possa scrivere: “Non ci furono
trattative: le grandi famiglie mafiose benestanti,
notabili rispettati nei grandi paesi della Sicilia
occidentale e di Palermo, erano grandi elettori e
frequentavano familiarmente i capi della Dc
siciliana”.
Questi amici che
si incontrano per caso nei salotti dei palazzi
nobiliari sono gli stessi che stipulano accordi a
Roma, con criminali e banditi, sono l’aristocrazia
nera, criminali che si dànno appuntamento nei pressi
delle abitazioni del principe Borghese e di Nino
Buttazzoni, o del segretario monarchico Covelli, al
bar del Traforo (ancora esistente fino a qualche
anno fa), a piazza San Silvestro o in via dei Due
Macelli e che poi decidono al Viminale o nelle sedi
romane della Dc, o in qualche convento, come meglio
fare a evitare che l’Italia sia consegnata ai
comunisti, alla sinistra.
Come è pensabile
che una vecchia volpe come Macaluso non sappia
queste cose? E come può egli ritenere che stragi di
quelle proporzioni non avessero una copertura
internazionale per un Paese strategico della guerra
fredda? Eppure il Nostro scrive: “Senza trattative
la mafia, che aveva sostenuto i liberali, i
separatisti, i monarchici transitò nel partito che
ormai deteneva il potere. Con la benedizione del
cardinale Ruffini. La rivista di Giuseppe Dossetti
‘Cronache sociali’ documentò il transito guidato
dalla mafia di elettori dai collegi di Vittorio
Emanuele Orlando, nel palermitano, alla Dc”.
Per questo il
vecchio senatore si riferisce al blocco
anticomunista del 1948 che vedeva la mafia “parte
del sistema, nel ‘quieto vivere’”. E aggiunge che i
democristiani di spicco pensavano “di poter
‘governare’ una convivenza con la mafia nella
‘legalità’ consentita dai tempi”. Ma quale metro
avevano i comunisti come lui per valutare il
superamento del grado di ‘legalità’ consentito dai
tempi? Certo è che Macaluso non era Pio La Torre, la
cui tolleranza della ‘convivenza con la mafia’ era
zero. Pio La Torre che contro i latifondisti e gli
agrari aveva combattutto e che per queste lotte
aveva fatto la galera, per poi morire ammazzato
assieme a Rosario Di Salvo negli anni della guerra
contro i missili atomici a Comiso. E il varo della
prima legge antimafia, quando l’associazione mafiosa
diventa un crimine per lo Stato (1982).
Resta un’altra
piccola questione che Macaluso dovrebbe spiegare.
Questo ‘quieto vivere’ interessava solo la Dc o
faceva parte di una strategia politica generale che
investiva anche certi ambienti del Pci? Voglio dire
i vertici comunisti. Perché, analogamente a quanto
avveniva con i carabinieri, per lo più giovani
ragazzi del Nord, mandati al macello in una vera e
propria guerra che essi combattevano per un ideale e
per un pezzo di pane, allo stesso modo forse si
realizzava, a livello territoriale, una carneficina
di teste pensanti e oneste del sindacalismo di
sinistra, mentre ai piani alti si sognava il
processo democratico. La mia non è un’affermazione,
né tanto meno una provocazione, ma una domanda che è
mio dovere pormi, per saperne un po’ di più di
questa nostra storia nazionale in parte retorica e
in gran parte a colabrodo. E senza verità.
Come sono
certamente i casi di: Moro, Costa, Chinnici,
Terranova, Mattarella, Boris Giuliano, Costa, Dalla
Chiesa, Falcone e Borsellino.
Nel 1993 succede
qualcosa di analogo al 1947. La sinistra vince in
quasi tutti i grandi Comuni italiani. A Palermo
Leoluca Orlando ottiene il 70% dei consensi. Si
intravede la vittoria politica delle sinistre sul
piano nazionale. Invece arriva Berlusconi. E’ di
nuovo la paura a trionfare, dopo il segnale
dell’uccisione di Lima, il pupillo di Andreotti in
Sicilia. E così tornano gli anni di piombo che
questa volta sono al tritolo. Macaluso stranamente
nega la trattativa e dice che manca questa volta la
“contropartita”. Ma come si fa a credergli? Non c’è
solo il 41 bis. C’è qualcosa di più grave, di
pesante. Il potere, la legittimazione al potere che
Cosa Nostra aveva sempre avuto. E’ possibile che
Macaluso non lo sappia?
Giuseppe
Casarrubea
http://casarrubea.wordpress.com/2012/08/05/caro-emanuele-questa-non-me-la-bevo/
...............................
CHE COSA VERAMENTE
NASCONDE L'ARTICOLO DI SCALFARI CONTRO LA PROCURA DI
PALERMO
Nota pubblicata da Giuseppe Carlo Marino il giorno
Martedì 21 agosto 2012 alle ore 14.00 •
http://www.facebook.com/notes/giuseppe-carlo-marino/che-cosa-veramente-nasconde-larticolo-di-scalfari-contro-la-procura-di-palermo/519010561458570
Infuriano le polemiche sull’indecente articolo di
Eugenio Scalfari di domenica scorsa. Il nocciolo
dell’intera questione (compresa la vicenda
dell’azione avviata da Napolitano contro la Procura
di Palermo e in specie contro Antonio Ingroia), il
nocciolo duro, è la trattativa Stato-mafia sulla
quale i giudici palermitani intendono far luce e che
altri, con vari gradi di autorevolezza
“intellettuale” o istituzionale, vorrebbero
mantenere nell’oscurità. In tutto questo – occorre
riconoscerlo - Eugenio Scafari fa eccezione. Egli
lascia intendere di riconoscere che la “trattativa”
non è un’invenzione e che quasi certamente ci fu
davvero. Però, in sostanza, la ritiene politicamente
ben giustificabile e legittima e comunque, per la
sua natura e per i suoi fini, tale da essere al
riparo dai rigori del codice penale.
Come valutare una posizione come la sua e come,
nel contempo, quella di altri che, dicendolo o
scrivendolo, forse a partire dal Colle, sono stati e
sono dalla sua parte?
Prendiamone atto con franchezza, sine ira ac
studio. Nella sostanza – al di là dei toni polemici
arroventati che hanno investito oltre che Ingroia un
giurista di immenso prestigio qual è Zagrebelsky –
Scalfari e compagni difendono l’intangibilità della
Realpolitik e quindi il “diritto” dello Stato ad
avere dei “segreti” e dei misteri da tutelare.
Questo è sufficiente per metterli al di fuori
dell’orizzonte dei principi e dei valori della
nostra Costituzione e della stessa democrazia.
Ma, in definitiva, per quali motivi – per quali
motivi angoscianti e veritieri! – sono così tenaci
nella difesa ad oltranza di una siffatta invocazione
alla segretezza e al silenzio?
Diciamocelo francamente e con coraggio. Io stesso
mi permetto di ricordare di averne scritto (ma chi
legge i libri di questi tempi?!!) nella VII edizione
della mia “Storia della mafia” edita da Newton
Compton, da pochi mesi in libreria. Diciamolo
francamente : LA TRATTATIVA STATO-MAFIA, BEN AL DI
LA’ DEI SUOI IMMEDIATI RISVOLTI GIUDIZIARI,
EVIDENZIA CHE LA COSIDDETTA SECONDA REPUBBLICA E’
NATA SUL TERRENO DI UN TURPE PATTO CHE, TRAMITE I
VARII DELL’UTRI, HA CONSEGNATO A BERLUSCONI E AL
BERLUSCONISMO L’EREDITA’ DI QUELL’ALLEANZA
STATO-MAFIA SULLA QUALE SI ERA RETTO PER DECENNI IL
REGIME DEMOCRISTIANO.
Questo è un motivo ben sufficiente per occultare
tale trattativa e per investire di insulti quanti
chiedono che venga pienamente alla luce o, come
Scalfari, pensano che, se ci fu, era “legittimo” ed
utile che la si facesse svolgere per superiori
esigenze di Realpolitik. Si tratta, in altri
termini, di oscurare la vera portata storica, e
immediatamente politica, di un fatto che di per se
stesso è di enorme portata sia storica che politica.
Si tratta di nascondere il fatto che con Berlusconi
e con la sua lunga stagione di governo, la
mafia-mafia (ovvero la mafia che si avvita alla
politica, la mafia del “colletti bianchi”, la vera
mafia che è cosa diversa e ben più potente della
cosiddetta “criminalità organizzata”) è stata
ufficiosamente al potere, ha condizionato ed invaso
dall’interno lo stesso Stato. Ed oggi, si badi, si
tratta di oscurare l’inevitabile imprinting mafioso
che grava su un nuovo corso politico (già avviato e
auspicato anche per la fase che si aprirà con le
prossime elezioni politiche) affidato all’alleanza
PDL-PD-UDC . Ora, sia Napolitano che Scalfari
intrigano per una siffatta alleanza il cui sconcio
carattere di continuità con il berlusconismo è del
tutto evidente. Pertanto, ben si comprendono i
motivi delle loro posizioni contro la Procure di
Palermo e Caltanissetta, in netta divaricazione
dalle forze sociali e culturali più sensibili alle
sorti della democrazia e dei valori costituzionali
della nostra repubblica.
GIUSEPPE CARLO MARINO
...............
Ingroia: “Non sono d’accordo con Monti”. Anm:
“Improprio parlare di abusi”
Il procuratore
aggiunto siciliano: "Con il conflitto di
attribuzioni i magistrati sono più isolati".
L'associazione dei magistrati: "Salvaguardare gli
strumenti di indagine e il diritto di cronaca". Pdl
all'attacco. Cicchitto: "La Severino ascolti il capo
del governo". Gasparri: "Il ministro scrive sotto
dettatura del pm di Palermo". Di Pietro e Grillo:
"Nessuno tocchi le intercettazioni"
di Redazione Il
Fatto Quotidiano | 18 agosto 2012
E’ stato
sufficiente che il procuratore aggiunto di Palermo
Antonio Ingroia dicesse di “non condividere” le
parole del presidente del Consiglio Mario Monti
sulle intercettazioni delle conversazioni del
presidente della Repubblica. E di nuovo si è
scatenata la polemica. Sulla trattativa Stato-mafia,
certo. Ma anche e soprattutto sulla riforma delle
intercettazioni e della giustizia. La miccia per
dire il vero è stata l’uscita di ieri di Monti che
aveva definito “grave” l’ascolto delle conversazioni
di Napolitano con l’ex ministro Nicola Mancino da
parte dei pm palermitani. Se infatti da una parte
Antonio Di Pietro e Beppe Grillo sentono “puzza di
bruciato” dopo l’uscita di Monti sulle annunciate
“novità” per la giustizia e per le intercettazioni
(“Vuole arrivare dove Berlusconi non è riuscito”
denuncia il leader dell’Italia dei Valori)
dall’altra il Pdl – alle parole del capo del governo
– è partito lancia in resta: “La Severino segua
quanto ha detto Monti” ha preso la palla al balzo il
capogruppo alla Camera Fabrizio Cicchitto ancora
“scottato” dalla resistenza del ministro della
Giustizia alle proposte del centrodestra.
Ma dopo un lungo
silenzio – al quale ha fatto riferimento anche lo
stesso Ingroia (“E’ una crisi di rappresentanza”) –
oggi Monti ha ricevuto anche la replica
dell’Associazione nazionale magistrati che ha
precisato quanto sia “improprio” parlare di “abusi”,
specialmente nel caso particolare (quello su
Napolitano) che sarà oggetto di un conflitto di
attribuzione alla Corte Costituzionale. L’Anm
“rileva che la questione relativa alle procedure cui
assoggettare le intercettazioni indirette dei
colloqui del presidente della Repubblica è oggetto
di un conflitto di attribuzione, in merito al quale
è doveroso attendere la decisione della Corte
Costituzionale. Pertanto, allo stato appare
improprio ogni possibile riferimento a presunti
abusi che sarebbero, comunque, oggetto di altre
procedure di controllo, secondo gli strumenti
previsti dalle normative vigenti”.
Infine
l’associazione magistrati fissa bene i paletti per
un’eventuale riforma della giustizia e delle
intercettazioni e auspica che ogni eventuale
modifica della legge “pur diretta a tutelare il
diritto alla riservatezza dei soggetti estranei al
procedimento, salvaguardi il pieno utilizzo di tale
indispensabile strumento d’indagine, senza peraltro
comprimere il legittimo diritto di cronaca”. Una
dichiarazione attesa tanto che il segretario di
Magistratura Indipendente Cosimo Ferri tira quasi un
sospiro di sollievo: “Meglio tardi che mai, ma
occorrono piu attenzione e dinamismo su temi così
delicati”.
Ingroia: “Non
condivido Monti”. E sì che Ingroia pareva aver
scelto accuratamente le parole. “Ho apprezzato molto
le parole che il presidente del consiglio Mario
Monti ha pronunciato il 23 maggio, in occasione
dell’anniversario della strage di Capaci, quando ha
detto che l’unica ragion di Stato è la ricerca della
verità - ha risposto a Klaus Davi durante
Klauscondicio, su Youtube – Non condivido invece le
ultime rilasciate dal nostro presidente del
Consiglio sull’operato della Procura di Palermo, ma
ovviamente ognuno ha il diritto di sostenere le
proprie opinioni”. Il magistrato siciliano, uno dei
titolari dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia
e in procinto di lasciare la Procura palermitana per
ricoprire un incarico per l’Onu in Guatemala, si è
invece detto sollevato nel “leggere le parole di un
profondo conoscitore della Costituzione come
Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito
della corte costituzionale, che ci ha assicurato che
la procura di Palermo non ha commesso alcuna
violazione ed ha solo applicato la legge”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/08/18/ingroia-non-condivido-parole-di-monti-sui-pm-di-palermo-e-politica-che-sconfina/328259/#.UC-ckyWYKzU.facebook
.......
L’Intervista. Antonio
Ingroia: il Guatemala e altre storie – Anticipazione
di Simona Zecchi
La missione in
Guatemala – le polemiche sulla trattativa – la morte
del giudice Michele Barillaro avvenuta il 23 luglio
scorso in Namibia. Questi i contenuti
dell’intervista rilasciata dal procuratore aggiunto
di Palermo Antonio Ingroia.
C’è l’Italia e poi
il resto del mondo anche quando l’altra parte del
pianeta sembra avere meno risorse e meno capacità
per affrontare le gravi problematiche che la
criminalità organizzata presenta ormai a livello
trasversale e globale. C’è l’Italia con la sua
grande tradizione di lotta alla mafia, Cosa Nostra
in primis, visto che sono origini che si fondano con
la nascita della Repubblica purtroppo e la strage di
Portella della Ginestra poi. Allora forse si può
raccogliere ciò che si è seminato nel proprio paese
e costruire un ponte che sia di ausilio a un’altra
realtà come quella del Guatemala e, in una più ampia
prospettiva, del Centro America tutto. Un ponte che
arrivi nuovamente in Italia e magari superi vecchie
polemiche all’interno di una realtà politica nuova,
più pronta a recepire certe necessità che l’intero
paese ormai richiede.
L’incarico che
Antonio Ingroia andrà a ricoprire in Guatemala è
frutto anche di passate relazioni dovute al suo
ruolo come magistrato e all’incarico che il
Ministero di Grazia e Giustizia gli commissionò nel
2010 come responsabile didattico di un programma di
formazione per magistrati e investigatori sul tema
della lotta alla mafia. Spiega così il procuratore
Ingroia l’importanza che questa sfida insieme per
lui professionale e personale può avere anche per
l’Italia.
Un progetto, quello
che lo vedrà impegnato per l’Onu e l’organismo ad
esso interno, una “Commissione internazionale contro
l’impunità in Guatemala”
(http://cicig.org/index.php?page=inicio), di più
ampio respiro: creare una sovrastruttura globale
Antimafia che sia di coordinamento a piccole procure
mondiali sull’antico modello del Pool di Palermo,
creato da Giovanni Falcone. Tra i motivi che lo
hanno spinto ad accettare la proposta anche la
volontà di lasciar lavorare l’ufficio della Procura
con più serenità. Non è escluso, se necessario, e
data la natura dell’incarico, un ritorno in forza
alla magistratura.
«Un modello ideale
da esportare a livello mondiale: tante piccole
strutture collegate tra loro per crearne una
sovranazionale, che sia un punto di riferimento per
le procure antimafia del mondo. Un progetto del
genere deve prima essere accompagnato da un
cambiamento culturale in loco e globale
sull’argomento e poi deve anche sussistere l’impegno
politico a livello nazionale e
internazionale. Il tutto certo non potrà essere
svolto in poco tempo.»
E ancora: le
polemiche che l’hanno attaccato da più fronti, su
tutte politica e informazione, fino all’ultima
dichiarazione che letta come affermazione in un
titolo ha dato un altro senso all’intervista su
“Repubblica” del 29 luglio: «Ho dichiarato
espressamente che se si crede che una ragion di
stato debba prevalere sulla verità giudiziaria e
penale lo dicano chiaramente e cambino la
costituzione.»
Un’affermazione che
aveva l’aria della provocazione all’interno di una
dialettica pacata anche perché afferma Ingroia:« Che
si prendano questa responsabilità, cosa che credo
non faranno perché nessun italiano, penso,
accetterebbe un fatto del genere. E se così non è,
allora «la magistratura deve provvedere a perseguire
i singoli fatti penalmente rilevanti e relativi alla
trattativa e di conseguenza deve avere il diritto di
vedere rispettati i suoi singoli elementi, cosa che
non avviene ora e soprattutto non è avvenuta in
questi ultimi mesi.»
A una domanda
diretta su eventuali minacce ricevute maggiormente
in questa fase delicata dell’inchiesta sulla
trattativa, Ingroia risponde negativamente:« No, nel
tempo ho dovuto abituarmi a tutti i tipi di minacce
che mi sono arrivate e che continuano ad arrivarmi
ma non sono state certamente queste a farmi prendere
questa decisione»
In merito, invece,
alla morte del GIP di Firenze ed ex collaboratore di
Giovanni Falcone, Michele Barillaro, avvenuta il 23
luglio scorso durante un incidente stradale in
Namibia in cui persero la vita due suoi
accompagnatori dichiara: «Attività di coordinamento
tra i due paesi in tal senso ci sono state e ci sono
tuttora ma ovviamente non posso entrare nei
dettagli».
Vicenda riportata
un po’ sottovoce quella della morte del GIP Michele
Barillaro forse per il ciclone che attraversava
tutta la fase della inchiesta da poco conclusa e che
ha visto il suo epilogo nell’improvvisa scomparsa
dell’ex consigliere di Giorgio Napolitano, Loris
D’Ambrosio.
Di Michele
Barillaro e della sua morte ne hanno parlato in
pochi appunto: qualche quotidiano locale del
capoluogo toscano, la testata web “Notte Criminale”
e il “Fatto Quotidiano” (in merito a delle minacce
ricevute poco dopo che, per ragioni ignote, gli fu
tolta la scorta).
Questi i contenuti
della lunga intervista di Periodico Italiano ad
Antonio Ingroia.
http://www.periodicoitaliano.info/news/2012/08/06/lintervista-antonio-ingroia-il-guatemala-e-altre-storie-anticipazione/
.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/08/29/trattativa-panorama-annuncia-ricostruzione-esclusiva-ingroia-ricatto/337722/
Il Fatto Quotidiano > Trattativa, Panorama
annuncia ricostruzione esclusiva. Ingroia: “Ricatto”
Il pm commenta le anticipazioni del settimanale
che ha annunciato la pubblicazione di una
“ricostruzione esclusiva” delle telefonate tra il
Capo dello Stato e l’ex ministro dell’Interno Nicola
Mancino da cui emergerebbero giudizi pesanti su
Berlusconi, Di Pietro e magistrati di Palermo di
Redazione Il Fatto Quotidiano | 29 agosto 2012
“Se così fosse sarebbe un grave illecito”. Di più: “Un ricatto”.
Reagisce così il procuratore aggiunto di Palermo,
Antonio Ingroia, interpellato sulle
anticipazioni del settimanale Panorama, che
annuncia “una ricostruzione esclusiva”
delle telefonate tra il Capo dello Stato,
Giorgio Napolitano, e l’ex ministro
dell’Interno Nicola Mancino. Quelle
telefonate sono diventate caso politico e oggetto di
un ricorso che lo stesso Napolitano ha promosso di
fronte alla Consulta contro i pm di Palermo che
indagano sulla presunta trattativa
Stato-mafia. Silenzio dal Quirinale che ha
preferito non commentare indiscrezioni
giornalistiche.
E’ il settimanale stesso ad annunciare che nel
numero in uscita domani proporrà una
“ricostruzione delle telefonate”,
aggiungendo quali sono gli argomenti trattati nelle
conversazioni. Si tratta – secondo Panorama – di
“giudizi e commenti taglienti su Silvio
Berlusconi, Antonio Di Pietro e parte della
magistratura inquirente di Palermo”. Proprio Antonio
Di Pietro, tra l’altro, è nuovamente tornato oggi
sulla vicenda: “Probabilmente – ha detto il leader
dell’Idv – Napolitano si sarà lasciato scappare
qualche parolaccia di troppo nei confronti dei
magistrati di Palermo e questo, detto dal presidente
del Csm, non appare opportuno”. “Lo avrà fatto per
delle ragioni sue personali”, ha aggiunto Di Pietro
invitando il Capo dello Stato a ritirare il ricorso.
Poi in serata fa l’eco ad Ingroia parlando anche lui
di “ricatto”. “Credo che la
pubblicazione sia una violazione al segreto
istruttorio e se si tratta solo di una
squallida denigrazione, è chiaro il
tentativo di ricatto nei confronti del Presidente
della Repubblica”. Sul sito internet di Panorama si
vede anche
la copertina del periodico in cui campeggiano
l’immagine di Napolitano e il titolo “Ricatto al
Presidente”.
In serata Ingroia ha però sottolineato come “in
passato Panorama ha tirato ad indovinare”. Le
indiscrezioni sulle intercettazioni – dice il
magistrato, che ha anche ricordato come il
presidente Scalfaro nel 1997, intercettato, non
sollevò alcun conflitto – sono iniziate ad uscire su
Panorama già da tempo. “Qualcuno sapeva, a partire
dagli stessi indagati, di aver parlato con varie
persone, anche con il Capo dello Stato. Lo sapeva
non solo chi indagava, ma anche chi aveva parlato al
telefono”.
“Ingroia sta mettendo le mani avanti rispetto al
disastro politico e istituzionale che lui ed altri
della procura di Palermo hanno combinato”, ha
commentato il capogruppo Pdl alla Camera
Fabrizio Cicchitto. “C’é qualcuno che ha
giocato in modo irresponsabile ad un attacco alle
istituzioni e adesso cerca goffamente di cancellare
le impronte”.
Un’ulteriore indiscrezione è circolata su
“Lettera 43″. Il quotidiano online
riferisce di una presunta telefonata di Napolitano
al procuratore di Caltanissetta, Sergio Lari,
nel 2009 per “spingere” l’applicazione del Pm di
Milano Ilda Boccassini alla procura
nissena che indaga sulla strage di via D’Amelio in
cui morì Borsellino. Ma Lari ha smentito
“categoricamente” qualsiasi “pressione dal
Quirinale” sulla Boccassini e “in generale sulle
indagini relative alla trattativa condotte dal mio
ufficio”. Un anno dopo l’inizio della collaborazione
del pentito Gaspare Spatuzza, ha
spiegato Lari, “il procuratore nazionale antimafia
Piero Grasso mi propose
l’applicazione della Boccassini alle indagini sulla
strage di via D’Amelio. Io risposi
dicendo che, pur riconoscendo le grandi doti della
collega, ritenevo inopportuna l’applicazione in
quanto si era occupata già dell’inchiesta
(Boccassini ha lavorato a Caltanissetta tra il ’92 e
il ’94, ndr) e avremmo dovuto sentirla come
testimone. La cosa finì lì. Ma ci tengo a ribadire
che né Napolitano né il suo staff si è mai occupato
della vicenda”.
E’ un fiume in piena Ingroia, s’indigna per un paese che “è un’arena dove tutto è consentito, anche gli insulti peggiori, senza che accada nulla, come se fosse normale calunniare e diffamare magistrati che cercano di fare il proprio dovere”, ritorna sulla questione del passaggio di testimone alla politica (“la magistratura credo che abbia fatto, stia svolgendo e continuerà a svolgere la propria parte fino in fondo,ma sullo specifico terreno di verità su quella stagione difficile delle stragi e delle trattative,con gli strumenti attuali non può andare avanti. E’ la Politica che deve consegnare gli strumenti giusti per abbattere i muri dell’ omertà mafiosa e della reticenza istituzionale”), non si fa sfuggire un passaggio sullo scontro tra poteri in Italia (“si è creata un preoccupante scollamento tra legalità e giustizia: la legge, che dovrebbe essere uno strumento per giustizia, con il moltiplicarsi di leggi di privilegio, impunità, immunità è percepita sempre più ingiusta. La radice del problema è che la magistratura, per decenni un blocco di potere, garante di una giustizia diseguale nella sua applicazione, da qualche decennio è sfuggita al controllo dei poteri della classe dirigente, è diventata un corpo estraneo, da attaccare per normalizzare o costringere ad applicare leggi ingiuste”).
Ingroia spiega in parole povere la questione del conflitto di attribuzione: “il tema riguarda la procedura da utilizzare per la distruzione di intercettazioni irrilevanti e inutilizzabili. Nel caso in questione, è indubbio, e la procura di Palermo l’ha sempre sostenuto, che il Capo dello Stato non sia intercettabile (e infatti non è stato mai intercettato direttamente). Detto questo: sarebbe avvenuto che nel corso di un’intercettazione dell’ex senatore Mancino, indagato, sarebbe stata colta casualmente una conversazione con il Capo dello Stato. Quando ci si imbatte in personalità coperte da immunità, quali sono le conseguenze previste dall’ ordinamento? Da alcuni, tra cui Scalfari, è stato proposto che nello stesso momento dell’intercettazione l’ufficiale di polizia dovrebbe interrompere e distruggere tutto: ma questo non è possibile tecnicamente perché le intercettazioni non vengono ascoltate con la cuffia in diretta, ma registrate automaticamente. Dalla Presidenza della Repubblica si ritiene invece che si debba procedere a immediata distruzione con richiesta del pm a giudice, senza depositarle mettendole a conoscenza di altro intercettato, che però potrebbe per difesa avere utilità di conoscerle… tra l’interesse potenziale dell’ indagato intercettato di ascoltare intercettazione e l’interesse della personalità istituzionale la cui immunità deve essere tutelata, quale prevale? La legge non prevede una disciplina particolare per il Capo dello Stato, quindi la distruzione sarebbe avvenuta dopo avere depositato… ma poiché avevamo ritenuto che queste intercettazioni fossero irrilevanti, le avevamo stralciate, neanche depositate agli atti, quindi il rischio di un’imminente conoscibilità non c’era… La Presidenza ha ritenuto fosse necessario sollevare la questione alla Corte Costituzionale, ma ci sono stati altri casi simili: in particolare, nel 1997, Scalfaro fu intercettato sempre casualmente dalla procura di Milano che depositò l’intercettazione, in seguito oggetto di interpellanza parlamentare. L’allora ministro della giustizia si pronunciò ritenendo che vi fosse nell’ordinamento una mancanza legislativa da colmare, ma non si è mai fatto.”
E sul Guatemala Ingroia afferma: “nell’ipotesi in cui dovessi davvero accettare questo incarico che comunque è temporaneo, ho deciso di non prendere ferie, resterò al lavoro per tutto agosto…Non sparirò, comunque. Tra le motivazioni, ritengo da anni che possa essere controproducente un eccesso di personalizzazione delle indagini giudiziarie a uomini che diventano volenti o nolenti simbolo, perchè quando la speranza delle indagini e la ricerca della verità si coagulano attorno a una personalizzazione, innanzitutto si scatenano polemiche politiche da parte di chi ha fastidio per le indagini e non potendo attaccarle direttamente attacca il giudice (per cui, se si toglie la personalizzazione, le indagini affidate in mani sicure e altrettanto competenti procedono e se ne giovano); in secondo luogo, i cittadini finiscono per depositare tutto sulle spalle di questa personalità, e quindi ci si aspetta che faccia il miracolo (impossibile con questi strumenti)…Poi, sono convinto che l’impegno a livello internazionale può servire non solo per il mondo ma anche per l’Italia (abbiamo bisogno di riannodare fili dall’altra parte), abbiamo la necessità di esportare la cultura dell’antimafia in tutto il mondo… Credo che delegando tutto alla magistratura non si vada da nessuna parte. Ci vuole un salto di qualità, ora. Non è un passo indietro, una fuga, ma un passo di lato.” E poi una promessa: “al primo ritorno dal Guatemala torno a Reggio Calabria” Ma: “la circolare del CSM stabilisce che fino al giorno in cui prenderò possesso della nuova sede posso sempre revocare, magari ho un ripensamento, chi lo sa…”