Spazioamico

RASSEGNA STAMPA

PRESENTAZIONI

ATEI  e AGNOSTICI

MEMORIE

                                             HOME         La teoria razziale dell'inferiorità del mezzogiorno   
 

                  L’interpretazione razzista della questione meridionale

http://www.domusmazziniana.it/vecchi/1991/91_1/Notiziario.htm

 UNA TESI DI LAUREA ANGELO CIAMPI

 L’inferiorità dimostrata. L’interpretazione razzista della questione meridionale nell’età del positivismo evoluzionistico.

 Tesi di laurea presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Relatore Prof. Rolando Nieri. Tra i tanti aspetti relativi alla questione meridionale, quello legato all’inferiorità razziale e alla polemica che esso ha sollevato, non ha suscitato un particolare interesse da parte della storiografia contemporanea. Le ragioni sono probabilmente rintracciabili nella sconfitta culturale delle teorie razziste nel primo decennio del XX secolo e nella assenza di una loro successiva riproposta. Ciampi ha orientato le sue ricerche verso una comprensione del significato ideologico di quelle teorie che giustificavano l’arretratezza sociale e culturale del Mezzogiorno attraverso parametri razziali, riconducibili agli studi che Cesare Lombroso aveva effettuato sull’uomo delinquente. La tesi si suddivide in quattro capitoli, dei quali solo il secondo tratta in modo analitico dell’interpretazione razzista della questione meridionale. Il primo capitolo si sofferma sullo studio delle nuove concezioni del diritto penale, sorte nella metà degli anni Settanta, che avevano come matrice culturale la grande corrente del positivismo, intesa dall’autore come ideologia della modernizzazione. L’antropologia criminale, la Scuola positiva di diritto penale elaborarono delle teorie che tendevano a giustificare quel modello di società borghese che sempre più andava affermandosi nel nord-Italia. I mali sociali, quindi, non venivano rintracciati in una patologia del sistema sociale stesso, ma in anomalie individuali rintracciabili scientificamente e sanabili attraverso opportune misure preventive e repressive. I delinquenti, gli oziosi, i vagabondi, gli alienati, insomma tutti quei soggetti che mostravano difficoltà ad adattarsi al nuovo ambiente sociale, presentavano dei caratteri razziali primitivi, che dimostravano incontestabilmente come in essi si fossero avuti un’involuzione o un arresto di sviluppo. I caratteri psicosomatici di questi individui rappresentavano la forma fenomenica della percentuale di delinquenza e di inadattibilità in essi presente. Quali conseguenze sociali avevano tali teorie? Scrive l’autore a pag. 12: “Il determinismo biologico di Lombroso ha offerto una potente giustificazione alla riduzione della questione sociale a mera questione di ordine pubblico: i gruppi sociali subalterni non si ribellavano per via delle misere condizioni di vita, bensì per una tendenza innata a non sottomettersi a nessuna forma di potere; essi costituivano una razza a sé, moralmente depravata”. A questa corrente di pensiero si opposero risolutamente Turati e Colajanni che individuarono nei fattori sociali la genesi della delinquenza e della criminalità. A loro avviso i caratteri fisici non erano indice di degenerazione, ma di adattamento a specifiche condizioni di vita. Di conseguenza, non poggiando su una base oggettiva, scientifica, qualsiasi tentativo di classificazione dei delinquenti avrebbe giustificato la necessità di ricorso alla repressione per la salvaguardia dell’utile sociale, in pratica degli interessi dei gruppi dominanti. Come si è detto, il secondo capitolo è dedicato alla trattazione dell’interpretazione razziale della questione meridionale. Alcuni paragrafi sono dedicati allo studio delle origini storico-culturali del razzismo, da Gobineau a Vacher de Lapouge, Gumplowicz e Woltmann. All’interno di questo solco eurocentrico e razzista si poneva la Scuola antropologica italiana, i cui maggiori esponenti erano Lombroso, Sergi, Orano, Ferri, Niceforo. Ciampi afferma che questa Scuola adottò gli stessi criteri di classificazione e la stessa analisi interpretativa che la Scuola positiva di diritto penale aveva adottato per il nord- Italia. A cambiare erano soltanto i destinatari di queste teorie. Nel Settentrione l’ideologia dell'esclusione era applicata a soggetti ritenuti non adatti allo sviluppo e alla società industriale; nel Mezzogiorno, dove non esistevano nemmeno i presupposti per l’industrializzazione, l’esclusione fu operata verso un’intera popolazione: ad essere inserite nel modello ideologico del controllo totale fu un’intera regione. Per quanto riguarda il meridione “l’esclusione sociale - scrive Ciampi - si identificava con quella geografica” (p. 74). Gli antropologi positivisti liberarono la società e la politica dalle loro responsabilità e dall’apporto della verifica storica. Il problema che le classi dirigenti si ponevano era come guidare l’incipiente sviluppo industriale senza creare conflitti e tensioni insanabili. Una questione complessa e dagli innumerevoli fattori caratterizzanti, come quella meridionale, venne così semplificata e ridotta al condizionamento di un’unica causa, la razza, considerata il solo fattore determinante della storia umana. Grazie alle teorie razziali venne sancito il diritto del nord a dominare il sud, il diritto della parte più evoluta ad esercitare il dominio su quella meno evoluta, se non addirittura primitiva. I meridionali furono dipinti in vari modi: come insofferenti verso il lavoro metodico e monotamente svolto, come incapaci di adattarsi ai ritmi ed ai lavori imposti dalle società moderne, dotati di un forte sentimento individuale tipico delle società primitive, mentre era necessario un forte sentimento sociale per vincere la dura lotta contro i popoli più sviluppati. I meridionali, deviando dal modello prefissato di comportamento, vennero descritti come antropologicamente inferiori, destinati a perpetuare all’infinito i comportamenti tipici delle società primitive o di gruppi umani ormai scomparsi. Ma per giungere a simili conclusioni, afferma Ciampi, occorreva individuare dei segni inconfondibili che provassero la naturale diversità tra individui superiori ed individui inferiori. La “diversità” psico-somatica venne a sanzionare una diversità ed una devianza nei comportamenti. Le teorie razziali degli antropo-sociologi, nel sancire la naturalità delle differenze, per colmare le quali nulla era possibile, miravano ad abbandonare il meridione al suo destino di terra soggetta al controllo e al dominio dei popoli più forti. Il terzo capitolo tenta di comprendere le ragioni per le quali le teorie degli antropologi positivisti trovarono largo spazio all’interno del partito socialista. Scrive il Ciampi: “L’immissione del partito [socialista] nel solco della tradizione positivistica, per cui l’avvento di una nuova società era affidato a condizioni deterministicamente avverabili, e l’attenzione espressa verso le nuove concezioni sociologiche e criminologiche, non prive di forti spunti razzistici, destò l’interesse verso le idee socialiste da parte della corrente razzista del meridionalismo italiano” (p. 133). Non era tanto il marxismo ad orientare le elaborazioni teoriche del Partito socialista, quanto l’acquisizione del contenuto positivista. Ma come poteva essere confuso il socialismo dei darwinisti sociali con quello di un Turati o di un Antonio Labriola? Ciampi sostiene che i concetti di razza e di socialismo non erano, per i darwinisti sociali, necessariamente antitetici. I principi base del darwinismo, cioè la selezione dei migliori e la sopravvivenza dei più adatti, potevano benissimo assumere una caratterizzazione socialista. Se si accettava la legge dell’evoluzione, vale a dire di un processo lineare dello sviluppo storico, i più adatti, i migliori, garantivano il progresso del genere umano; gli altri, i più deboli, sarebbero destinati a perire. Per quanto riguarda l’Italia esistevano due civiltà completamente diverse: l’una, al nord, avviata verso grandi traguardi sociali e civili, l’altra, al sud, destinata a rimanere in uno stato di perenne inferiorità. Le classi povere del nord non esprimevano una patologia individuale e sociale, come era per il meridione; esse facevano parte di un grandioso processo evolutivo che le avrebbe portate un giorno ad essere partecipi della transizione del socialismo. Nel nord- Italia il socialismo, come forma do organizzazione sociale superiore a tutte le altre, sarebbe subentrato al capitalismo non appena fossero maturate tutte le condizioni. L’inferiorità del Mezzogiorno stava invece ad attestare, per i darwinisti sociali, l’arresto nella scala evolutiva, e la sopravvivenza, per tale ragione, di forme sociali primitive. Nell’ultimo capitolo sono contenute alcune riflessioni dell’autore sui concetti di “norma” e di “pregiudizio”, su come cioè “un giudizio scientifico viene tramutato in pregiudizio antiscientifico” (p. 172). Per l’elaborazione della sua tesi di laurea Ciampi si è servito di numerosi testi di Napoleone Colajanni e di alcuni antropologi positivisti, nonché di tutti i numeri della “Rivista Popolare”, diretta dal Colajanni, di altre riviste del tempo, e della corrispondenza Colajanni-Ghisleri, reperiti presso la biblioteca della Domus Mazziniana di Pisa.