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L'industria della menzogna quale parte integrante della macchina di guerra
dell'imperialismo
Domenico Losurdo
Debord
La società dello spettacolo
Mentre i media europei alimentano le emozioni nel mostrare le fotografie d’un bimbo annegato e con i servizi sulle folle che attraversano i Balcani a piedi, Thierry Meyssan mostra che queste immagini sono manipolate. Di certo, servono agli interessi del capo del padronato tedesco, Ulrich Grillo, nonché alla NATO. Ma esse non fanno capire il fenomeno nel suo insieme e conducono gli europei a risposte inadatte.
Un’ondata di emozioni ha brutalmente sommerso le persone che vivono nello spazio della NATO. Improvvisamente si sono rese conto del dramma dei profughi nel Mediterraneo; una tragedia che durava da anni nella loro indifferenza permanente.
Questa inversione è dovuta alla pubblicazione d’una fotografia che mostra un bimbo annegato, derelitto su una spiaggia turca. Non importa che questa immagine sia in sé una montatura grossolana: il mare rigetta i corpi parallelamente alle onde, mai perpendicolarmente. Poco importa che essa sia stata immediatamente riprodotta in prima pagina da quasi tutti i giornali dell’area NATO in meno di due giorni. Vi è stato già detto che la stampa occidentale è libera e pluralista.
Proseguendo sulla stessa falsariga, le televisioni hanno moltiplicato i servizi concernenti l’esodo di migliaia di siriani, a piedi, attraverso i Balcani. Particolare attenzione è stata rivolta alla traversata dell’Ungheria, che dapprima ha costruito un’inutile barriera in filo spinato, poi ha moltiplicato delle decisioni contraddittorie di modo che si potesse riprendere delle moltitudini marciare lungo le ferrovie e prendere d’assalto i treni.
"Reagendo" all’emozione che hanno causato presso i loro concittadini, i dirigenti europei "sorpresi" e addolorati si tormentano su come portare aiuto a questi rifugiati. Antonio Guterres, ex presidente dell’Internazionale socialista e attuale Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, s’invita al loro dibattito perorando «la partecipazione obbligatoria di tutti gli Stati membri dell’UE. Secondo le stime preliminari, i paesi europei hanno una potenziale necessità di accrescere le opportunità di reinsediamento a 200mila posti», dichiara.
Qual è il problema reale, chi lo strumentalizza e per quale scopo?
Sin dalla "primavera araba" nel 2011, il numero di persone che cercano di attraversare il Mediterraneo e di entrare nell’Unione europea è aumentato considerevolmente. È più che raddoppiato e si è innalzato nel 2014 fino a 626mila unità.
Tuttavia, contrariamente a un diffuso luogo comune, non si tratta di un’onda nuova e ingestibile. Nel 1992, quando l’Unione comprendeva solo 15 dei 28 stati attuali, ne riceveva ancora di più: 672mila per 380 milioni di abitanti. Vi è quindi un notevole margine prima che i migranti possano destabilizzare l’economia europea e i suoi attuali 508 milioni di abitanti.
Questi migranti sono per più di due terzi uomini. Secondo le loro dichiarazioni, più della metà di loro sono tra i 18 ei 34 anni. In generale, non si tratta quindi di famiglie.
Contrariamente all’idea attualmente diffusa dai media, solo meno di un terzo sono rifugiati in fuga dalle zone di guerra: il 20% sono siriani, il 7%afghani e il 3% iracheni.
Gli altri due terzi non provengono da paesi in guerra e sono principalmente migranti economici.
In altre parole, il fenomeno delle migrazioni è solo marginalmente legato alla "primavera araba" e alle guerre. I poveri lasciano il proprio paese e cercano fortuna nei paesi ricchi in virtù dell’ordine post-coloniale e della globalizzazione. Questo fenomeno, dopo il calo avutosi nel periodo 1992-2006, ha ripreso e sta aumentando progressivamente. Attualmente rappresenta solo lo 0,12% annuo della popolazione dell’UE, ovvero - se viene gestito correttamente - non rappresenta alcun pericolo a breve termine per l’Unione.
Questo flusso di migranti riguarda popolazioni europee, ma viene celebrato dal padronato tedesco. Nel dicembre 2014, il "capo dei capi" tedeschi Ulrich Grillo, dichiarava a DPA mascherando ipocritamente i propri interessi dietro buoni sentimenti: «Siamo da molto tempo un paese di immigrazione, e dobbiamo rimanerlo.» «In quanto paese prospero e anche per l’amore cristiano per il prossimo, il nostro paese dovrebbe permettersi di accogliere più rifugiati». E ancora: «Mi distanzio molto chiaramente dai neonazisti e dai razzisti che si radunano a Dresda e altrove.» Più seriamente: «A causa della nostra evoluzione demografica, assicuriamo la crescita e la prosperità con l’immigrazione» [1].
Questo discorso riprende i medesimi argomenti del padronato francese degli anni ’70. Oggi ancora di più, le popolazioni europee sono relativamente istruite e qualificate, mentre la stragrande maggioranza degli immigrati non lo sono e possono facilmente occupare certi tipi di posti di lavoro. A poco a poco, l’arrivo di una forza lavoro non qualificata, nell’accettare condizioni di vita inferiori a quelle degli europei, ha sollevato tensioni nel mercato del lavoro. Il padronato francese spinse a suo tempo al ricongiungimento familiare. La legge del 1976, la sua interpretazione da parte del Consiglio di Stato nel 1977 e la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo hanno largamente destabilizzato la società. Lo stesso fenomeno può essere osservato in Germania, dopo l’adozione delle stesse disposizioni con l’iscrizione, nel 2007, del ricongiungimento familiare nella legge sull’immigrazione.
Contrariamente a un diffuso luogo comune, i migranti economici non pongono alcun problema di identità in Europa, ma mancano ai loro paesi d’origine. Per contro, pongono un problema sociale in Germania, dove, a causa della particolare politica instillata da Ulrich Grillo, la classe operaia è già vittima di uno sfruttamento brutale.
Altrove, non sono i migranti economici, ma il successivo ricongiungimento familiare a porre problemi.
Dall’inizio dell’anno, il passaggio dalla Turchia all’Ungheria, che costava 10.000 dollari, è sceso a 2.000 dollari a persona. Mentre certi contrabbandieri sono degli schiavisti, molti stanno semplicemente cercando di fornire un servizio a persone in difficoltà. In ogni caso, chi paga la differenza?
Inoltre, se all’inizio della guerra contro la Siria, il Qatar stampava e distribuiva agli jihadisti di al-Qa’ida dei passaporti siriani falsi in modo che potessero convincere i giornalisti atlantisti che erano «ribelli» e non mercenari stranieri, dei falsi passaporti siriani sono ora distribuiti da certi contrabbandieri ai migranti non siriani. I migranti che li accettano pensano a buon titolo che questi documenti falsi faciliteranno la loro accoglienza nella UE. In effetti, poiché gli Stati membri dell’Unione hanno chiuso le loro ambasciate in Siria - tranne la Repubblica Ceca e la Romania -, non è loro possibile verificare l’autenticità di questi passaporti.
Sei mesi fa, mi sorprendevo della cecità dei leader dell’Unione che non comprendevano la volontà degli Stati Uniti di indebolire i loro paesi, anche attraverso la «crisi dei rifugiati» [2].
Il mese scorso, la rivista Info Direkt ha affermato che secondo i servizi segreti austriaci, il passaggio in Europa dei rifugiati siriani è stato organizzato dagli Stati Uniti [3]. Questa imputazione resta da verificare, ma costituisce già un’ipotesi solida.
Inoltre, tutti questi eventi e queste manipolazioni non sarebbero gravi se gli Stati membri dell’Unione europea mettessero un termine al ricongiungimento familiare. L’unico vero problema non sarebbe allora l’ingresso dei migranti, ma il destino di coloro che muoiono lungo la rotta, attraversando il Mediterraneo. L’unica realtà che però non mobilita alcun governante europeo.
Attualmente, la NATO, ossia il braccio militare internazionale degli Stati Uniti, non si è tirata indietro. Ma, secondo le sue nuove missioni, l’Alleanza atlantica si riserva la possibilità d’intervenire militarmente quando ci siano migrazioni significative.
Sapendo che solo la NATO è
nota per avere la capacità di diffondere un’intossicazione informativa sulla
prima pagina di tutti i quotidiani dei suoi Stati membri, è altamente probabile
che sia essa a organizzare la campagna in corso. Inoltre, l’assimilazione di
tutti i migranti a dei rifugiati che fuggono dalle zone di guerra e l’insistenza
sulla presunta origine siriana di questi migranti suggerisce che la NATO stia
preparando un’azione pubblica legata alla guerra che essa conduce segretamente
contro la Siria. Thierry Meyssan
http://www.voltairenet.org/article188627.html
L'industria della menzogna quale parte integrante della macchina di guerra dell'imperialismohttp://www.instoria.it/home/Massacro_timisoara.htm
Domenico Losurdo |
domenicolosurdo.blogspot.it
04/09/2013
Nella storia dell'industria della menzogna quale parte integrante dell'apparato
industriale-militare dell'imperialismo il 1989 è un anno di svolta. Nicolae
Ceausescu è ancora al potere in Romania. Come rovesciarlo? I mass media
occidentali diffondono in modo massiccio tra la popolazione romena le
informazioni e le immagini del «genocidio» consumato a Timisoara dalla polizia
per l'appunto di Ceausescu.
1. I cadaveri mutilati
Cos'era avvenuto in realtà? Avvalendosi dell'analisi di Debord relativa alla
«società dello spettacolo», un illustre filosofo italiano (Giorgio Agamben) ha
sintetizzato in modo magistrale la vicenda di cui qui si tratta:
«Per la prima volta nella storia dell'umanità, dei cadaveri appena sepolti o
allineati sui tavoli delle morgues [degli obitori] sono stati dissepolti in
fretta e torturati per simulare davanti alle telecamere il genocidio che doveva
legittimare il nuovo regime. Ciò che tutto il mondo vedeva in diretta come la
verità vera sugli schermi televisivi, era l'assoluta non-verità; e, benché la
falsificazione fosse a tratti evidente, essa era tuttavia autentificata come
vera dal sistema mondiale dei media, perché fosse chiaro che il vero non era
ormai che un momento del movimento necessario del falso. Così verità e falsità
diventavano indiscernibili e lo spettacolo si legittimava unicamente mediante lo
spettacolo.
Timisoara è, in questo senso, l'Auschwitz della società dello spettacolo: e come
è stato detto che, dopo Auschwitz, è impossibile scrivere e pensare come prima,
così, dopo Timisoara, non sarà più possibile guardare uno schermo televisivo
nello stesso modo» (Agamben 1996, p. 67).
Il 1989 è l'anno in cui il passaggio dalla società dello spettacolo allo
spettacolo come tecnica di guerra si manifestava su scala planetaria. Alcune
settimane prima del colpo di Stato ovvero della «rivoluzione da Cinecittà» in
Romania (Fejtö 1994, p. 263), il 17 novembre 1989 la «rivoluzione di velluto»
trionfava a Praga agitando una parola d'ordine gandhiana: «Amore e Verità». In
realtà, un ruolo decisivo svolgeva la diffusione della notizia falsa secondo cui
uno studente era stato «brutalmente ucciso» dalla polizia. A vent'anni di
distanza lo rivela, compiaciuto, «un giornalista e leader della dissidenza, Jan
Urban», protagonista della manipolazione: la sua «menzogna» aveva avuto il
merito di suscitare l'indignazione di massa e il crollo di un regime già
pericolante (Bilefsky 2009). Qualcosa di simile avviene in Cina: l'8 aprile 1989
Hu Yaobang, segretario del PCC sino al gennaio di due anni prima, viene colto da
infarto nel corso di una riunione dell'Ufficio Politico e muore una settimana
dopo. Dalla folla di piazza Tienanmen il suo decesso viene collegato al duro
conflitto politico emerso anche nel corso di quella riunione (Domenach, Richer
1995, p. 550); in qualche modo egli diviene la vittima del sistema che si tratta
di rovesciare. In tutti e tre i casi, l'invenzione e la denuncia di un crimine
sono chiamate a suscitare l'ondata di indignazione di cui il movimento di
rivolta ha bisogno. Se consegue il pieno successo in Cecoslovacchia e Romania
(dove il regime socialista aveva fatto seguito all'avanzata dell'Armata Rossa),
questa strategia fallisce nella Repubblica popolare cinese scaturita da una
grande rivoluzione nazionale e sociale. Ed ecco che tale fallimento diviene il
punto di partenza di una nuova e più massiccia guerra mediatica, che è scatenata
da una superpotenza la quale non tollera rivali o potenziali rivali e che è
tuttora in pieno svolgimento. Resta fermo che a definire la svolta storica è in
primo luogo Timisoara, «l'Auschwitz della società dello spettacolo».
2. «Reclamizzare i neonati» e il cormorano
Due anni dopo, nel 1991, interveniva la prima guerra del Golfo. Un coraggioso
giornalista statunitense ha chiarito in che modo si è verificata «la vittoria
del Pentagono sui media» ovvero la «colossale disfatta dei media a opera del
governo degli Stati Uniti» (Macarthur 1992, pp. 208 e 22).
Nel 1991 la situazione non era facile per il Pentagono (e per la Casa Bianca).
Si trattava di convincere della necessità della guerra un popolo su cui pesava
ancora il ricordo del Vietnam. E allora? Accorgimenti vari riducono
drasticamente la possibilità per i giornalisti di parlare direttamente coi
soldati o di riferire direttamente dal fronte. Nella misura del possibile tutto
dev'essere filtrato: il puzzo della morte e soprattutto il sangue, le sofferenze
e le lacrime della popolazione civile non devono fare irruzione nelle case dei
cittadini degli USA (e degli abitanti del mondo intero) come ai tempi della
guerra del Vietnam. Ma il problema centrale e di più difficile soluzione è un
altro: in che modo demonizzare l'Irak di Saddam Hussein, che ancora qualche anno
prima si era reso benemerito, agli occhi degli USA, aggredendo l'Iran scaturito
dalla rivoluzione islamica e antiamericana del 1979 e incline a far proseliti
nel Medio Oriente. La demonizzazione sarebbe risultata tanto più efficace se al
tempo stesso si fosse resa angelica la vittima. Operazione tutt'altro che
agevole, e non solo per il fatto che dura o impietosa era in Kuwait la
repressione di ogni forma di opposizione. C'era qualcosa di peggio. A svolgere i
lavori più umili erano gli emigrati, sottoposti a una «schiavitù di fatto», e a
una schiavitù di fatto che assumeva spesso forme sadiche: non suscitavano
particolare emozione i casi di «serbi scaraventati giù dal terrazzo, bruciati o
accecati o picchiati a morte» (Macarthur 1992, pp. 44-45).
E, tuttavia… Generosamente o favolosamente ricompensata, un'agenzia
pubblicitaria trovava un rimedio a tutto. Essa denunciava il fatto che i soldati
irakeni tagliavano le «orecchie» ai kuwaitiani che resistevano. Ma il colpo di
teatro di questa campagna era un altro: gli invasori avevano fatto irruzione in
un ospedale «rimuovendo 312 neonati dalle loro incubatrici e lasciandoli morire
sul freddo pavimento dell'ospedale di Kuwait City» (Macarthur 1992, p. 54).
Sbandierata ripetutamente dal presidente Bush sr., ribadita dal Congresso,
avallata dalla stampa più autorevole e persino da Amnesty International, questa
notizia così orripilante ma anche così circonstanziata da indicare con assoluta
precisione il numero dei morti, non poteva non provocare una travolgente ondata
di indignazione: Saddam era il nuovo Hitler, la guerra contro di lui era non
solo necessaria ma anche urgente e coloro che a essa si opponevano o
recalcitravano erano da considerare quali complici più o meno consapevoli del
nuovo Hitler! La notizia era ovviamente un'invenzione sapientemente prodotta e
diffusa, ma proprio per questo l'agenzia pubblicitaria aveva ben meritato il suo
denaro.
La ricostruzione di questa vicenda è contenuta in un capitolo del libro qui
citato dal titolo calzante: «Reclamizzare i neonati» (Selling Babies). Per la
verità, a essere «reclamizzati» non furono soltanto i neonati. Proprio agli
inizi delle operazioni belliche veniva diffusa in tutto il mondo l'immagine di
un cormorano che affogava nel petrolio sgorgante dai pozzi fatti saltare
dall'Irak. Verità o manipolazione? A provocare la catastrofe ecologica era stato
Saddam? E ci sono realmente cormorani in quella regione del globo e in quella
stagione dell'anno? L'ondata dell'indignazione, autentica e sapientemente
manipolata, travolgeva le ultime resistenze razionali.
3. La produzione del falso, il terrorismo dell'indignazione e lo
scatenamento della guerra
Facciamo un ulteriore salto in avanti di alcuni anni e giungiamo così alla
dissoluzione o piuttosto, allo smembramento della Jugoslavia. Contro la Serbia,
che storicamente era stata la protagonista del processo di unificazione di
questo paese multietnico, nei mesi che precedono i bombardamenti veri e propri
si scatenano una dopo l'altra ondate di bombardamenti multimediali. Nell'agosto
del 1998, un giornalista americano e uno tedesco
«riferiscono dell'esistenza di fosse comuni con 500 cadaveri di albanesi tra cui
430 bambini nei pressi di Orahovac, dove si è duramente combattuto. La notizia è
ripresa da altri giornali occidentali con grande rilievo. Ma è tutto falso, come
dimostra una missione d'osservazione della Ue» (Morozzo Della Rocca 1999, p.
17).
Non per questo fa fabbrica del falso entrava in crisi. Agli inizi del 1999 i
media occidentali cominciavano a tempestare l'opinione pubblica internazionale
con le foto di cadaveri ammassati al fondo di un dirupo e talvolta decapitati e
mutilati; le didascalie e gli articoli che accompagnavano tali immagini
proclamavano che si trattava di civili albanesi inermi massacrati dai serbi.
Sennonché:
«Il massacro di Racak è raccapricciante, con mutilazioni e teste mozzate. E' una
scena ideale per suscitare lo sdegno dell'opinione pubblica internazionale.
Qualcosa appare strano nelle modalità dell'eccidio. I serbi abitualmente
uccidono senza procedere a mutilazioni [...] Come la guerra di Bosnia insegna,
le denunce di efferatezze sui corpi, segni di torture, decapitazioni, sono una
diffusa arma di propaganda [...] Forse non i serbi ma i guerriglieri albanesi
hanno mutilato i corpi» (Morozzo Della Rocca 1999, p. 249).
O, forse, i cadaveri delle vittime di uno degli innumerevoli scontri tra gruppi
armati erano stati sottoposti a un successivo trattamento, in modo da far
credere a un'esecuzione a freddo e a uno scatenamento di furia bestiale, di cui
era immediatamente accusato il paese che la NATO si apprestava a bombardare
(Saillot 2010, pp. 11-18).
La messa in scena di Racak era solo l'apice di una campagna di disinformazione
ostinata e spietata. Qualche anno prima, il bombardamento del mercato di
Sarajevo aveva consentito alla NATO di ergersi a suprema istanza morale, che non
poteva permettersi di lasciare impunite le «atrocità» serbe. Ai giorni nostri si
può leggere persino sul «Corriere della Sera» che «fu una bomba di assai dubbia
paternità a fare strage nel mercato di Sarajevo facendo scattare l'intervento
NATO» (Venturini 2013). Con questo precedente alle spalle, Racak ci appare oggi
come una sorta di riedizione di Timisoara, una riedizione prolungatasi per
alcuni anni. E, tuttavia, anche in questo caso il successo non mancava.
L'illustre filosofo che nel 1990 aveva denunciato «l'Auschwitz della società
dello spettacolo» verificatasi a Timisoara cinque anni dopo si accodava al coro
dominante, tuonando in modo manicheo contro «il repentino slittamento delle
classi dirigenti ex comuniste nel razzismo più estremo (come in Serbia, col
programma di "pulizia etnica")» (Agamben 1995, pp. 134-35). Dopo aver acutamente
analizzato la tragica indiscernibilità di «verità e falsità» nell'ambito della
società dello spettacolo, egli finiva col confermarla involontariamente,
accogliendo in modo sbrigativo la versione (ovvero la propaganda di guerra)
diffusa dal «sistema mondiale dei media», da lui precedentemente additato come
fonte principale della manipolazione; dopo aver denunciato la riduzione del
«vero» a «momento del movimento necessario del falso», operata dalla società
dello spettacolo, egli si limitava a conferire una parvenza di profondità
filosofica a questo «vero» ridotto per l'appunto a «momento del movimento
necessario del falso».
Per un altro verso, un elemento della guerra contro la Jugoslavia, più che a
Timisoara, ci riconduce alla prima guerra del Golfo. È il ruolo svolto dalle
public relations:
«Milosevic è un uomo schivo, non ama la pubblicità, non ama mostrarsi o tenere
discorsi in pubblico. Sembra che alle prime avvisaglie di disgregazione della
Jugoslavia, la Ruder&Finn, compagnia di pubbliche relazioni che stava lavorando
per il Kuwait nel 1991, gli si presentasse offrendo i suoi servizi. Fu
congedata. Ruder&Finn venne assunta invece immediatamente dalla Croazia, dai
musulmani di Bosnia e dagli albanesi del Kosovo per 17 milioni di dollari
all'anno, per proteggere e incentivare l'immagine dei tre gruppi. E fece un
ottimo lavoro!
James Harf, direttore di Ruder&Finn Global Public Affairs, in un'intervista
[...] affermava: "Abbiamo potuto far coincidere nell'opinione pubblica serbi e
nazisti [...] Noi siamo dei professionisti. abbiamo un lavoro da fare e lo
facciamo. Non siamo pagati per fare la morale"» (Toschi Marazzani Visconti 1999,
p. 31).
Veniamo ora alla seconda guerra del Golfo: nei primi giorni del febbraio 2003 il
segretario di Stato USA, Colin Powell, mostrava alla platea del Consiglio di
Sicurezza dell'ONU le immagini dei laboratori mobili per la produzione di armi
chimiche e biologiche, di cui l'Irak sarebbe stato in possesso. Qualche tempo
dopo il primo ministro inglese, Tony Blair, rincarava la dose: non solo Saddam
aveva quelle armi, ma aveva già elaborato piani per usarle ed era in grado di
attivarle «in 45 minuti». E di nuovo lo spettacolo, più ancora che preludio alla
guerra, costituiva il primo atto di guerra, mettendo in guardia contro un nemico
di cui il genere umano doveva assolutamente sbarazzarsi.
Ma l'arsenale delle armi della menzogna messe in atto o ponte per l'uso andava
ben oltre. Al fine di «screditare il leader iracheno agli occhi del suo stesso
popolo» la Cia si proponeva di «diffondere a Bagdad un filmato in cui veniva
rivelato che Saddam era gay. Il video avrebbe dovuto mostrare il dittatore
iracheno mentre faceva sesso con un ragazzo. "Doveva sembrare ripreso da una
telecamera nascosta, come se si trattasse di una registrazione clandestina». A
essere studiata era anche «l'ipotesi di interrompere le trasmissioni della
televisione irachena con una finta edizione straordinaria del telegiornale
contenente l'annuncio che Saddam aveva dato le dimissioni e che tutto il potere
era stato preso dal suo temuto e odiato figlio Uday» (Franceschini 2010).
Se il Male dev'essere mostrato e bollato in tutto il suo orrore, il Bene deve
risultare in tutto il suo fulgore. Nel dicembre 1992, i marines statunitensi
sbarcavano sulla spiaggia di Mogadiscio. Per l'esattezza vi sbarcavano due
volte, e la ripetizione dell'operazione non era dovuta a impreviste difficoltà
militari o logistiche. Occorreva dimostrare al mondo che, prima ancora di essere
un corpo militare di élite, i marines erano un'organizzazione benefica e
caritatevole che riportava la speranza e il sorriso al popolo somalo devastato
dalla miseria e dalla fame. La ripetizione dello sbarco-spettacolo doveva
emendarlo dei suoi dettagli errati o difettosi. Un giornalista e testimone
spiegava:
«Tutto quello che sta accadendo in Somalia e che avverrà nelle prossime
settimane è uno show militar-diplomatico […] Una nuova epoca nella storia della
politica e della guerra è cominciata davvero, nella bizzarra notte di Mogadiscio
[…] L' "Operazione Speranza" è stata la prima operazione militare non soltanto
ripresa in diretta dalle telecamere, ma pensata, costruita e organizzata come
uno show televisivo» (Zucconi 1992).
Mogadiscio era il pendant di Timisoara. A pochi anni di distanza dalla
rappresentazione del Male (il comunismo che finalmente crollava) faceva seguito
la rappresentazione del Bene (l'Impero americano che emergeva dal trionfo
conseguito nella guerra fredda). Sono ormai chiari gli elementi costitutivi
della guerra-spettacolo e del suo successo.
Riferimenti bibliografici
Giorgio Agamben 1995
Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino
Giorgio Agamben 1996
Mezzi senza fine. Note sulla politica, Bollati Boringhieri, Torino
Dan Bilefsky 2009
A rumor that set off the Velvet Revolution, in «International Herald Tribune»
del 18 novembre, pp. 1 e 4
Jean-Luc Domenach, Philippe Richer 1995
La Chine, Seuil, Paris
François Fejtö 1994 (in collaborazione con Ewa Kulesza-Mietkowski)
La fin des démocraties populaires (1992), tr. it., di Marisa Aboaf, La fine
delle democrazie popolari. L'Europa orientale dopo la rivoluzione del 1989,
Mondadori, Milano
Enrico Franceschini 2010
La Cia girò un video gay per far cadere Saddam, «la Repubblica», 28 maggio, p.
23
John R. Macarthur 1992
Second Front. Censorship and Propaganda in the Gulf War, Hill and Wang, New York
Roberto Morozzo Della Rocca 1999
La via verso la guerra, in Supplemento al n. 1 (Quaderni Speciali) di «Limes.
Rivista Italiana di Geopolitica», pp. 11-26
Fréderic Saillot 2010
Racak. De l'utilité des massacres, tome II, L'Hermattan, Paris
Jean Toschi Marazzani Visconti 1999
Milosevic visto da vicino, Supplemento al n. 1 (Quaderni Speciali) di «Limes.
Rivista Italiana di Geopolitica», pp. 27- 34
Franco Venturini 2013
Le vittime e il potere atroce delle immagini, in «Corriere della Sera» del 22
agosto, pp. 1 e 11
Vittorio Zucconi 1992
Quello sbarco da farsa sotto i riflettori TV, in «la Repubblica» del 10 dicembre
Franco Venturini 2013
L'orrore e l'indignazione, come altre volte, dureranno poco. Tragedia nella tragedia, il potere mediatico della crudeltà umana è diventato un'arma devastante, una atomica dei tempi moderni. Sono state le forze governative a fare macelleria con il gas nervino che possiedono, e ciò senza tenere conto che proprio in questi giorni è in corso una ispezione dell'Onu sull'utilizzo delle armi chimiche in Siria?CONTINUA A PAGINA 11SEGUE DALLA PRIMA Assad si sarebbe dunque sparato sui piedi? Possibile, probabile secondo certi analisti, anzi sicuro secondo i ribelli. I quali però altre volte sono stati colti a fabbricare provocazioni video, e secondo alcuni (compreso l?Onu) possiedono anch?essi gas nervino.Oggi prevale la brutalità delle immagini che fanno il giro del mondo e l?accento viene posto sui bambini assassinati, domani (ma la Russia ha già cominciato) tornerà il tempo delle smentite e delle recriminazioni, del sangue versato non si sa bene da chi ma che comunque sottolinea l?impotenza dell?Occidente davanti alla guerra civile siriana.Il rapporto tra strumenti mediatici e conflitti è antico quanto la propaganda, e precede di molto la nascita di Internet. Per restare ai tempi nostri, non possiamo dimenticare che lo sbarco dei Marines in Somalia fu ripetuto per migliorare l?effetto televisivo, non possiamo cancellare che fu una bomba di assai dubbia paternità a fare strage nel mercato di Sarajevo facendo scattare l?intervento Nato.L?elenco potrebbe continuare a lungo. Non stupisca dunque l?atroce balletto sull?utilizzo di armi chimiche in Siria, nel presupposto che il loro uso da parte di Assad potrebbe «costringere» Obama a fare di più contro il regime di Damasco, mentre l?ipotesi contraria rafforzerebbe dubbi e reticenze che già si nutrono verso le formazioni ribelli di stampo jihadista.L?unico risultato sicuro di questo ennesimo episodio di videostragismo è di riportare la Siria al centro di quella scena mondiale che l?Egitto per sua disgrazia gli contende. Per ricordare che la mattanza siriana ha ormai superato le centomila vittime. Che l?intervento delle milizie sciite di Hezbollah ha rovesciato almeno in parte il rapporto di forze sul terreno a favore di Assad. Che nelle fila dei ribelli prevalgono sempre più nettamente le formazioni islamiste sunnite che si richiamano a Al Qaeda, il che induce alla prudenza i fornitori di armi euro-americani mentre più spregiudicati sono Arabia Saudita e Qatar peraltro in gara tra loro (come in Egitto). La Siria rimane lì, devastata e seduta sull?orlo del cratere. Perché il fuoco che brucia in Siria lentamente ma implacabilmente si estende, minaccia la fragilità libanese, mette a dura prova quella giordana, rischia di riaccendere la miccia multiforme dei Curdi, estende il terreno della battaglia tra sunniti e sciiti all?Iraq, tiene in bilico l?Iran del nuovo presidente Rohani, moltiplica com?è logico le preoccupazioni di Israele.Intanto Stati Uniti e Russia tra una lite e l?altra affermano che occorre negoziare e preparano insieme la conferenza di Ginevra II. Che rischia di essere, semmai sarà, una risposta mediatica organizzata da chi non sa come fermare la strage. Ma almeno senza gas nervino, senza cadaveri, senza l?infinita ferocia di chi uccide uomini, donne e bambini per alzare l?Auditel nelle stanze dei bottoni che possono decidere, ma forse non più, chi vince e chi perde.
* ***
Repubblica-Domenica 24 marzo 2013, p. 33
Nella sua
opera più famosa, La società dello spettacolo (di cui curammo la
prefazione all’
edizione italiana nel 1997),
Debord descrive il consumismo che ci siamo appena lasciati alle spalle. Per Debord lo spettacolo «è il cattivo sogno della società incatenata». Ne consegue
che «svegliarsi da quest’ incubo è il primo compito che si assegnano i
situazionisti».
Oggi che questo evento si è realizzato, che lo spettacolo è andato in frantumi e
abbiamo bruscamente riacquistato il contatto con la realtà, l’ impressione che
ne traiamo non è di liberazione, quanto piuttosto di disperazione e rimpianto.
Cypher, il traditore di Matrix, non chiede in cambio del suo tradimento dei
benefici economici: vuole solamente regredire allo stato di incoscienza che
caratterizzava la sua vita prima di assumere la fatale pillola rossa, che l’ ha
liberato dalle accoglienti illusioni di Matrix per scagliarlo brutalmente nei
sotterranei della vita vera, dove si combatte in trincea contro il male, ma a
costo di rinunciare a ogni piacere. Conoscere la verità non significa
necessariamente schierarsi dalla parte giusta.
Marx come ispiratore di rivolta ha avuto un compito tutto sommato più facile di
Debord. Marx aveva come oggetto di studio la prima rivoluzione industriale, e la
sua analisi era intrisa di sudore, sfruttamento e dolore. Il consumismo invece
non viene percepito come sofferenza, ma come godimento condiviso,
redistribuzione del benessere. Se quindi Marx ha buon gioco a connotare di
significati negativi il concetto di alienazione, Debord, che è una sorta di Marx
del consumismo, prova maggiori difficoltà a farci odiare la contemplazione, che
è l’ anello di congiunzione tra alienazione e spettacolo. Anche la
contemplazione è passività, ma una passività che non nasce dall’ impotenza bensì
dall’ ammirazione. Si contempla la Madonna, si contempla il sacro, si contempla
lo spettacolo. Lo spettacolo, inteso come consumismo, ha rappresentato nel
nostro recente passato una sorta di sacralità.
Se dunque lo spettacolo è morto non è perché l’ abbiamo combattuto, ma perché le
leggi economiche hanno preso un’ altra strada. Alla fine degli anni Settanta
nacque il capitalismo finanziario. Il valore non scaturisce più dal lavoro,
dalla produzione e dal consumo. Nasce dal mercato, dalla libera contrattazione
dei valori azionari. Spazzato via il mondo della produzione reale, lavoro e
consumi diventano superflui. Le luci dello spettacolo si spengono ad una ad una
e il mondo sembra tornato a uno scenario da prima rivoluzione industriale.
Finito il consumismo, cosa può dunque insegnarci oggi Debord? In realtà sembra
che le sue risorse profetiche si rivelino inesauribili. Nel 1988 scrisse
I commentari sulla società dello spettacolo
che descrivono lucidamente non la società di allora, ma la realtà di oggi. Ne
La società dello spettacolo
Debord identificava due forme di spettacolo, legate a due diverse forme di
regime politico:
lo
spettacolo concentrato, proprio delle società totalitarie e dittatoriali, e lo
spettacolo diffuso, proprio delle democrazie occidentali dominate dal consumismo.
Nei
Commentari
introduce il concetto di
spettacolo
integrato,
che ha molte caratteristiche in comune con lo spettacolo concentrato, dove «il
centro direttivo è ormai diventato occulto». Qui la Mafia non rappresenta più un
residuo arcaico del passato, ma il modello economico vincente: «nell’ epoca
dello spettacolo integrato, essa appare di fatto come il modello di tutte le
imprese commerciali avanzate». Ancora una volta Debord descrive dal passato il
nostro presente. Pensiamo al concetto di spettacolo integrato, miscela di stato
tollerante e autoritario, come anticipazione del capitalismo autoritario
contemporaneo. E pensiamo all’ idea di Mafia come modello di tutte le imprese
future. Incomprensibile nel momento in cui viene scritta, quella definizione
anticipa in maniera sorprendente un’ opera come Gomorra: la delinquenza
non è corruzione, deviazione, ma la matrice stessa della produzione
capitalistica.
Repubblica-Domenica,
24 marzo 2013, p. 33