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Leonardo Sciascia La linea della palma   

 vedi Dibattito su L. Sciascia Sciascia e il mito della mafia «buona»

                                                                                                         20 anni dopo la sua morte

"Forse tutta l'Italia sta diventando Sicilia... A me è venuta una fantasia, leggendo sui giornali gli scandali di quel governo regionale: gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno... La linea della palma... Io invece dico: la linea del caffè ristretto, del caffè concentrato... E sale come l'ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l'Italia, ed è già oltre Roma..." (Il giorno della civetta,  L.Sciascia Opere – 1956.1971, p. 479)

 

Undici anni dopo le cose non erano cambiate di molto, se Leonardo Sciascia volle che nell' edizione scolastica del romanzo, anch' essa pubblicata da Einaudi, fosse stampata una sua nota in cui spiegava come allora, appunto, fosse inusuale parlare di mafia facendo letteratura. Quella nota la possiamo ora leggere in appendice alla ristampa de Il giorno della civetta nella "Fabula" di Adelphi (pagine 137, lire 18.000). Ed e' utile leggerla: "...allora il Governo non solo si disinteressava del fenomeno della mafia, ma esplicitamente lo negava. La seduta alla Camera dei Deputati rappresentata in queste pagine, e' sostanzialmente, nella risposta del Governo ad una interrogazione sull' ordine pubblico in Sicilia, vera. E sembra incredibile: considerando che appena tre anni dopo entrava in funzione una commissione parlamentare d' inchiesta sulla mafia...". E, limpidamente, a chiudere: "...ma la mafia era, ed e' , altra cosa: un "sistema" che in Sicilia contiene e muove gli interessi economici e di potere di una classe che approssimativamente possiamo dire borghese; e non sorge e si sviluppa nel "vuoto" dello Stato (cioe' quando lo Stato, con le sue leggi e le sue funzioni, e' debole o manca) ma "dentro" lo Stato...".

 

http://espresso.repubblica.it/dettaglio/i-casalesi-a-cuneo/2042493/18
Giamapolo Pansa Il Bestiario
Trentotto anni fa Sciascia mi spiegò "la teroria della palma" per indicare l'espansione della mafia al Nord
Tanti anni fa si pensava che la mafia sarebbe rimasta confinata in Sicilia. E che la camorra e la 'ndrangheta non sarebbero uscite dalla Campania e dalla Calabria. Poi ci siamo accorti che non era così. Un italiano che aveva visto tutto per tempo è stato Leonardo Sciascia: grande scrittore e lucido pessimista, capace di guardare lontano. La prima volta che mi capitò d'intervistarlo fu per 'La Stampa' di Alberto Ronchey. Il direttore voleva pubblicare un colloquio con lo scrittore a proposito della mafia. E mi mandò in Sicilia. Era l'ottobre del 1970, trentotto anni fa. Andai a trovare Sciascia a Palermo. Tra le verità che mi offrì, una soprattutto mi colpì per la carica profetica.

Lo scrittore mi domandò: "Conosce la teoria della palma?". Ammisi di no. Lui proseguì: "Secondo una teoria geologica, per il riscaldamento del pianeta la linea di crescita delle palme sale verso il nord di un centinaio di metri all'anno. Per questo motivo, fra un certo numero di anni, vedremo nascere le palme anche dove oggi non esistono".

Gli chiesi: "Che cosa c'entrano le palme con la mafia?". Sciascia sorrise: "Anche la linea della mafia sale ogni anno. E si dirige verso l'Italia del nord. Tra un po' di anni la vedremo trionfare in posti che oggi sembrano al riparo da qualsiasi rischio. E anche al nord la mafia avrà gli stessi connotati che oggi ha in Sicilia. Qui da noi il mafioso si è mimetizzato dentro i gangli del potere. Una volta in Sicilia c'erano due Stati, adesso non ci sono più. Quello della mafia è entrato dentro l'altro. Un sistema dentro il sistema. Ha vinto il sistema di Cosa Nostra: più rozzo, più spregiudicato, più violento. E vincerà anche al nord".

 

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Mafia: la linea della palma si alza (dalla Sicilia a Legnano)  da: Agorà I blog del Sole 24ORE

"..mentre le pistole sparano, le Forze dell’Ordine e la magistratura fanno i conti con i tagli agli investimenti e la gente comune è disorientata, i boss pianificano, investono e mangiano: la nostra vita e il nostro futuro".

http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2008/10/mafia-la-linea.html

Mafia: la linea della palma si alza (dalla Sicilia a Legnano)

San Giorgio su Legnano, Sinopoli, Foggia 27 e 28 settembre 2008. E poi ancora – solo per restare negli ultimi mesi – Gallura, Cesena, Firenze, Bologna, Padova e Fondi. A questo secondo appello mancano Campania, Calabria e Sicilia dove la violenza e la morte non fanno più notizia. Nell’elenco completo ci sono invece una metropoli e una data lontana nella clessidra delle politica ma vicinissima nel cronometro delle mafie: Milano-Expo 2015.

Luoghi e date diverse, un solo filo comune avvalorato dalle inchieste della magistratura e dalle indagini delle Forze dell’Ordine: la criminalità organizzata che sta divorando ovunque parti sane dell’economia e della società civile senza guardare in faccia a nessuno: supremazia sul territorio (Sinopoli) speculazione immobiliare (Gallura), traffici di droga e mattone (San Giorgio su Legnano), droga (Foggia), investimenti commerciali e finanziari (Cesena), aziende di trasporto (Firenze), locali notturni (Bologna e riviera romagnola), speculazioni immobiliari e  commerciali (Padova), mercato ortofrutticolo (Fondi).  Prima e dopo queste date e queste località – geograficamente cosi lontane tra loro eppure così vicine nel mondo globalizzato dell’economia criminale – centinaia di altre grandi, medie e piccole città sulle quali le mafie vecchie e nuove hanno puntato e stanno ingrassando i loro profitti che valgono – solo in Italia – almeno 44 miliardi all’anno (stime Eurispes).

E’ la linea della palma che si alza. Era il 1970 quando Leonardo Sciascia descrisse a Giampaolo Pansa della “Stampa” questo paragone: così come le palme, da piante esotiche, troveranno nuovi terreni fertili verso il nord del pianeta su cui mettere radici man mano che il clima diventerà più caldo, così la mafia risalirà la Penisola.

Previsto, detto, fatto. Da anni l’Italia è stata fertilizzata con il concime naturale su cui Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra crescono e si espandono fuori dalla Sicilia, dalla Calabria e dalla Campania: Governi e opposizioni cieche, Parlamento addormentato, amministrazioni locali disattente, Chiesa isolata o divisa, classe imprenditoriale impaurita e società civile apatica.

Dall’agenda della politica nazionale il tema delle mafie sembra ormai cancellato. L’ultima campagna elettorale ne è stata la dimostrazione: la parola mafia non esisteva né a destra né a sinistra. Al centro non ne parliamo.

Il Parlamento ha assecondato negli anni il comportamento dei leader politici nazionali. Le leggi che avrebbero potuto e dovuto mettere gradualmente nell’angolo la criminalità organizzata si sono fatte prima attendere e poi sono rimaste nel cassetto. La lotta al riciclaggio, la tracciabilità dei flussi finanziari nelle grandi opere e l’aggressione ai patrimoni delle cosche attraverso rapide confische erano e rimangono un’utopia.

Eppure già negli anni Ottanta un giovane magistrato trasferito da Trapani a Palermo capì immediatamente che per colpire Cosa nostra si dovevano inaridire i portafogli dei boss, perché un mafioso può mettere nel conto carcere e morte ma non il sequestro delle ricchezze, segno del comando e del rispetto sul territorio. Quel giovane magistrato si chiamava Giovanni Falcone.

Un Parlamento che – si badi bene – continua a dormire e che questa settimana dovrebbe varare l’ennesima e forse ormai inutile e debole Commissione bicamerale antimafia. A chi scrive, due anni fa, l’onorevole Maria Grazia Laganà, vedova di Francesco Fortugno, vicepresidente del consiglio regionale calabrese trucidato dalle cosche di Reggio il 16 ottobre 2005, dichiarò che “in Commissione antimafia stava imparando tante cose”. Ma c’è bisogno di imparare e o di agire? Di studiare ancora (e cosa che già non si sappia?) o di proporre? L’ultima Commissione bicamerale che (almeno) mise al centro del proprio operato il legame fra mafie e politica fu quella presieduta da Gerardo Chiaromonte. Correva l’anno 1988.

Le amministrazioni locali tirano a campare. Quelle del Sud sono spesso conniventi o tenute sotto scacco, quelle del Nord ritengono ancora che la pervasività delle mafie sia “cosa loro” e non “cosa di tutti”. Eppure basta girare nel milanese, nel reggiano, nel padovano, nel forlivese, nel mantovano, a Genova, Firenze, Roma e Torino per interrogarsi su improvvise ricchezze, attentati alle attività imprenditoriali e commerciali, curiose migrazioni di imprese edili dal Sud e diffusione di racket e usura. Tutto normale? No, eppure Milano – che secondo Vincenzo Macrì, sostituto procuratore nazionale antimafia è la nuova capitale della ‘ndrangheta – si interroga ancora sull’opportunità di istituire una commissione comunale antimafia quando ormai appare chiaro anche ai ciechi che cosche, clan e ‘ndrine hanno messo nel mirino i ricchissimi subappalti in vista di Expo 2015. “Stiamo assistendo a scosse di assestamento della ‘ndrangheta in vista dei lavori di Expo 2015”, ha detto Macrì commentando l’omicidio del mammasantissima “Don” Carmine Novella avvenuto il 14 luglio di quest’anno a San Vittore Olona (Milano), freddato in un bar del centro, come nei film americani che raccontavano la vita dei gangsters con bonomia. Facile prevedere un terremoto se la politica continuerà a girarsi dall’altra parte.

Balbettano anche la Chiesa e la società civile. Per anni le parrocchie del Sud e del Nord sono state in posizione di stallo: sospese tra la denuncia e il calvario. Per la prima volta in decenni – nella Pasqua 2008 – la diocesi di Reggio Calabria, attraverso il messaggio dell’arcivescovo Vittorio Mondello, ha denunciato con forza la ‘ndrangheta. Un segnale incoraggiante, ma una rondine che non fa primavera. Decine di sacerdoti – nel napoletano, nel milanese, nel foggiano e nel reggino – alzano la voce e fanno tuonare quella del Signore contro la violenza. Molti, però, tacciono e spiace ch quest’anno – per la prima volta – il quartiere Brancaccio di Palermo e la parrocchia locale si siano divisi, anziché unirsi, nel nome di un sacerdote che il 15 settembre 1993 ricevette il colpo di grazia dai sicari con un sorriso e una frase “vi stavo aspettando”. Quel prete era Don Pino Puglisi. E spiace la società civile – che pure a Locri e a Palermo è stata capace di esprimere movimenti incoraggianti - sembri addormentata o forse (maliziosamente) piegata ad altri fini. Ma la società civile, la borghesia del Centro e del Nord dove sono? Dov è la reazione dopo l’omicidio di due giorni fa alle porte di Milano? E dov è l’indignazione nel novarese, nel lodigiano, nel fiorentino e nel bolognese dove pure la cosche si stanno arricchendo con la movimentazione delle terra e il nolo a caldo e a freddo nella costruzione delle linee ferroviarie per l’Alta velocità? Nessuno si interroga sul fatto che a Firenze un imprenditore toscano (attenzione: non era del Sud) è stato ucciso perché stava importando tecniche di espansione mafiosa sul territorio con la complicità dei siciliani di Cosa Nostra? Nessuno si interroga in tutte le metropoli e medie città d’Italia che spesso dietro le sale scommesse e le improvvise ricchezze dei gestori ci sono capitali sporchi? Nessuno ha dubbi sulla girandola a Roma delle licenze commerciali nelle vie del centro? E le agenzie di money transfer – come testimonia l’inchiesta 2007 della Guardia di finanza di Ancona – non sono spesso le nuove lavanderie del riciclaggio?

L’imprenditoria, il commercio, i professionisti, il sindacatao, l’agricoltura e i servizi si stanno – infine - scrollando di dosso la paura. Molto è stato fatto (in Sicilia), qualcosa si sta facendo (in Calabria) e da Roma (con Confindustria nazionale, le associazioni dei commercianti e degli agricoltori) l’appoggio non manca. Ma un tassello non c’è ancora: la reazione degli imprenditori grandi e piccoli del resto d’Italia, perché le infiltrazioni dei capitali sporchi e il riciclaggio non si fanno a Crotone, ad Agrigento, a Caserta o in Capitanata, ma nel Centro-Nord, ancora ricco e appetibile.

Imprenditori, costruttori, politici, Chiesa, società civile, levate (leviamo) la vostra (la nostra) voce dal Nord e dal resto d’Italia, perché l’Expo 2015 per le mafie è ormai alle spalle e mentre le pistole sparano, le Forze dell’Ordine e la magistratura fanno i conti con i tagli agli investimenti e la gente comune è disorientata, i boss pianificano, investono e mangiano: la nostra vita e il nostro futuro.

roberto.galullo@ilsole24ore.com

 

DIBATTITO Nel « Giorno della civetta » si avverte un' attrazione per il codice d' onore dei boss

Sciascia e il mito della mafia «buona»

Prosegue il dibattito su Leonardo Sciascia, dopo che Luigi Malerba, in un' intervista rilasciata a Paolo Di Stefano sul Corriere del 31 maggio, ha accusato lo scrittore siciliano di aver in qualche modo mitizzato « Cosa nostra » nei suoi romanzi. A Malerba hanno replicato, in difesa di Sciascia, Matteo Collura ( sul Corriere dello stesso 31 maggio) e Massimo Onofri ( sulla Stampa dell' altro ieri). Ieri sono intervenuti Giorgio De Rienzo sul Corriere , Simonetta Bartolini sull' Indipendente, Roberto Alajmo ed Emanuele Macaluso sul Riformista . Oggi ospitiamo un articolo di Paolo Pezzino, storico dell' Università di Pisa e autore di saggi sulla mafia, tra cui « Una certa reciprocità di favori » ( Franco Angeli, 1990) e « Le mafie » ( Giunti, 1999). Non so se i mafiosi leggano i libri di Leonardo Sciascia, ma condivido il giudizio espresso da Luigi Malerba, nell' intervista uscita sul Corriere della Sera del 31 maggio, su una ambiguità dello scrittore siciliano nei confronti della mafia, una tendenza alla sua mitizzazione. La raffigurazione di una mafia « buona » e del mafioso come uomo d' onore, dispensatore di giustizia, protettore degli uomini senza potere contro i poteri costituiti, interprete dei sentim enti e dei veri interessi di una comunità, ha avuto una grossa diffusione, dentro e fuori l' isola. La rappresentazione della mafia come espressione di un particolare modo di sentire del siciliano, un « modo d' essere » , più che un potere criminale, forgiato dalla reazione alla secolare dipendenza dell' isola da dominazioni « straniere » , ha accompagnato la lunga storia di quella particolare forma di criminalità, nonostante il suo carattere mitico, la non rispondenza, in nessuna epoca, alla realtà. Lo stereotipo di una mafia « benigna » è stato un elemento costitutivo dell' ideologia sicilianista, al quale spregiudicatamente le élites economiche e politiche dell' isola sono ricorse quando si trattava di mascherare le proprie collusioni o complicità con la mafia reale. Sciascia, sia pure estraneo ad ogni forma di sicilianismo, ha subito la fascinazione del mito: quell' opera di dispensatore di giustizia viene così rivendicata, per i mafiosi, nel romanzo Il giorno della civetta , dall' ano nimo alto burocrate che spiega che « questi uomini, che la voce pubblica vi indica come capi mafia, hanno una qualità che io mi augurerei di trovare in ogni uomo, e che basterebbe a far salvo ogni uomo davanti a Dio: il senso della giustizia... Istintivo, naturale: un dono... E questo senso della giustizia li rende oggetto di rispetto... » . E, nello stesso romanzo, assistiamo all' attrazione reciproca fra il capitano Bellodi e don Mariano, collocati su opposti versanti ( quello della legge e quello della mafia), che porta ad un loro reciproco riconoscimento in quanto « uomini » , merce rara in un mondo popolato da « mezz' uomini, ominicchi, pigliainculo e quaquaraquà » . Omertà, onore, rifiuto della giustizia ufficiale, mafia come autogiustizia, mafia benigna: è probabilmente questo il percorso alla cui conclusione troviamo l' attrazione per la mafia anche di chi mafioso non è, e Sciascia non ne era esente: riconosceva alla mafia del passato, come quella che si diffondeva negli Stati Uniti fra gli emi granti siciliani, uno spiccato carattere « morale » , e confessava lucidamente in un' intervista a Marcelle Padovani pubblicata nel 1979: « Diciamo che scrivo su di me, per me e talvolta contro di me. Prendiamo ad esempio questa realtà siciliana nella quale vivo: un buon numero dei suoi componenti io li disapprovo e li condanno, ma li vedo con dolore e " dal di dentro"; il mio " essere siciliano" soffre indicibilmente del gioco di massacro che perseguo. Quando denuncio la mafia, nello stesso tempo soffro poiché in me, come in qualsiasi siciliano, continuano a essere presenti e vitali i residui del sentire mafioso. Così, lottando contro la mafia, io lotto anche contro me stesso, è come una scissione, una lacerazione » . La vitalità del « sentire mafioso » , la sua attrazione era per lui un qualcosa che andava al di là dell' « essere siciliano » ; a chi gli chiedeva se potesse essere definito scrittore « siciliano » , ribadiva che « la Sicilia offre la rappresentazione di tanti problemi, di tante contraddizioni, non solo italiani ma anche europei, al punto da poter costituire la metafora del mondo moderno » . All' interno di questa metafora la mafia ha potuto rappresentare l' opposizione diffusa ai processi storici che hanno dato vita allo Stato moderno, il rimpianto ancora operante di un' epoca mitica nella quale l' uomo non era soggetto al monopolio statale della violenza, e operava perseguendo la giustizia, l' onore, il rispetto per sé e la propria famiglia. Leonardo Sciascia

Pezzino Paolo
 

Pagina 33
(3 giugno 2005) - Corriere della Sera

http://archiviostorico.corriere.it/2005/giugno/03/Sciascia_mito_della_mafia_buona_co_9_050603024.shtml

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http://archiviostorico.corriere.it/2005/maggio/31/Malerba_Sciascia_fece_della_mafia_co_9_050531003.shtml
 
Malerba: Sciascia fece della mafia un mito

« Con le sue storie la trasformò in una realtà romanzesca. Forse in quell' ambiente piacciono i suoi libri »

« Descrivere il mondo, ammesso che il mondo esista » . Ecco una buona ragione che fa di Luigi Malerba uno degli scrittori di più lungo corso della letteratura italiana d' oggi. Qui in casa Malerba il mondo visibile è ritagliato in una grande vetrata che guarda, dall' alto del Colle Oppio, la Domus aurea e, più sotto, il Colosseo. Malerba arrivò ventitreenne a Roma nel ' 50 dalla sua Berceto, in provincia di Parma, dove il papà si occupava della campagna e la mamma, oltre a badare alla famiglia, faceva lavorare la fantasia raccontando storie. Nella casa cinquecentesca di Orvieto, comperata da Luigi nel ' 68 con i suoi otto ettari di terreno, c' è l' anima del padre. Nei romanzi e nei racconti c' è la felicità di sua madre. « Emigr ai a Roma come le rondini, per cercare un clima più civile » ricorda Malerba. Quando arriva a Roma, Luigi Bonardi ( questo il suo vero cognome) ha alle spalle un liceo classico e una laurea in legge. Si stufa della giurisprudenza perché non sopporta i manuali giuridici: « Sono un inferno, impiegano venti righe per dire concetti che si posso esprimere in poche parole » . Si lancia nel cinema come sceneggiatore. Tredici anni vissuti pericolosamente, con gente come Festa Campanile, Zavattini, Lattuada, Monicelli, Tognazzi, finché rifiuta di diventare uno stipendiato di De Laurentiis, rifiuta di seguire per qualche mese Antonioni in Sardegna per pensare con calma a un' idea di film ( « Guerra lavorava con lui anche un anno e poi non compariva neanche nei titoli di coda... » ) . Insomma, si stufa pure del cinema. O meglio, lo fanno stufare: « Per una spiata, il sottosegretario Andreotti venne a sapere che ero amico del " comunista" Zavattini e così un giorno, mentre per la Titanus lavoravo al trattamento della Colonna infame , il produttore Goffredo Lombardo mi chiamò e mi disse che era meglio interrompere. Gli spioni erano due: uno è ancora vivo. In Italia c' era una vera e propria caccia alle streghe, come quella americana. Io ero nel libro nero di Andreotti e rimasi tagliato fuori » . Il « comunista » Malerba in realtà allora votava per Nenni, solo dopo avrebbe guardato al Pci: « Ma non sono mai stato iscritto a nessun partito, mai mai mai, assolutamente » . Così Malerba si inventa pubblicitario. Le caramelle Dufour, il cognac Polignac, la birra Becks e la Supercortemaggiore sono roba sua. Anche lo short della pasticca del Re Sole con Buscaglione. Poi si stufa anche della pubblicità e « si ricicla » come scrittore. Con il Gruppo 63, alla prima riunione di Palermo, c' è anche lui. Intanto pubblica il suo primo libro, La scoperta dell' alfabeto , grazie a Flaiano, che lo raccomanda a Bompiani. Presso la Bompiani c' erano già due futuri neoavanguardisti di punta: « Filippini era molto brillante e creativo. Porta sembrava un po' sonnolento ma il lettore più sensibile era proprio lui, mentre Filippini alla fine era un po' deludente e grossolano » . Un bilancio degli editori? Non sempre rapporti idilliaci: nel ' 76 una « garbata » contestazione contro la Bompiani porta Malerba, con Zavattini, Moravia, La Capria, Guerra, D' Agata, Guglielmi, Barilli, a firmare la ri chiesta di « partecipare in modo diretto e attivo » alle iniziative editoriali. La proposta si dovrebbe tradurre in una collana, Il cavallo di Troia , che si opponga alla politica del « profitto immediato » voluta dai dirigenti, tra i quali ci sono anche gli « amici » Porta e Eco. Non se ne farà nulla e Il cavallo di Troia sarà una rivista. Quando Malerba propone alla Einaudi i racconti delle Galline pensierose , Calvino li accoglie con entusiasmo e scrive subito la quarta di copertina. « Ma Natalia Ginzburg, non so perché, mi odiava, per lei il libro era troppo piccolo. Il libro uscì nell' 80, ma mi vendicai aggiungendo una gallina di nome Natalia » che « aveva deciso di scrivere un romanzo, ma non le vennero in mente né la trama né i personaggi né il titolo né lo stile della scrittura » . E che con i suoi romanzi autobiografici « ebbe molto successo fra le oche » . La controvendetta di Natalia non si fece attendere e Il serpente scomparve dalla lista della Biblioteca ideale Einaudi. Giulio Einaudi nell' 86 gli dice che ha letto con piacere il dattiloscritto de Il pianeta azzurro . Ma il romanzo sarebbe poi uscito da Garzanti: « All' Einaudi c' erano Ferrero e Bollati... » . Malerba era già uno scrittore da antologia. Ne aveva fatta di strada dagli esordi degli anni Sessanta, quando Angelo Guglielmi decise di proporre un suo racconto per Il Verri . Fu allora che aderì al Gruppo 63. « Le riunioni non avevano un' aria così polemica o truce come si pensa. C' erano i grandi parlatori, Sanguineti era il più loico , l' unico davvero di estrema sinistra, marxismo leninismo duro e puro. Poi, Filippini, Eco, Giuliani, Leonetti, Arbasino, Barilli, eccetera. Io appartenevo alla sinistra moderata, rosso pallido o rosa antico. Poi diventai amico di Arbasino, una persona onesta, corretta, perbene. Una delle poche amicizie che durano ancora oggi » . Che cosa è rimasto di quella esperienza letteraria? « Ne Il fascino discreto della borghesia , a un certo punto entrano in scena quattro personaggi di spalle, con impermeabili svolazzanti, che camminano su un prato. Quella sequenza non c' entra niente ma ci sta bene. Ecco, ci è rimasta questa stessa libertà... » La libertà che c' è nel Serpente e poi via via nel Diario di un sognatore , fino al Fuoco greco , forse il capolavoro di Malerba. « Per me la necessità nella scrittura è il mio stesso rinnovamento » dice. Sperimentare sempre. « Non più per storpiare il lessico o per stravolgere la sintassi: quel che mi interessa oggi è lavorare sull' architettura e sui soggetti. Se avessi continuato a scrivere come ne Il serpente o nel Pataffio o in Salto mortale , sarei caduto nella maniera, come è capitato ad altri » . Altri chi? « Manganelli ha scritto libri molto belli come Centuria , ma a volte andava a ruota libera e adottava una specie di stampo. Spesso è caduto nella ripetizione e nella maniera » . Sperimentare sempre. Anche con il nuovo romanzo, i cui fogli sono già ben sistemati davanti a un computer eternamente acceso sulla piccola scrivania della sala. Ma torniamo al ' 66. La Spezia. Quarta riunione della neoavanguardia. L' incontro con Calvino. « Stava lì in fondo alla sala senza dire una parola, da osservatore. Diventammo amici, d' estate lui veniva a trovarci a Orvieto e noi andavamo da loro a Roccamare. Parlava poco, con qualche eccezione. Nel periodo in cui doveva pagare le tasse, era ossessionato, stava male e non parlava d' altro » . Un dispiacere, anzi un rimpianto, anzi un dolore: « Mi ricordo che lo incontravo qualche volta al Pantheon: una mattina mi disse che aveva un terribile mal di testa, dietro l' orecchio, una pugnalata, era spaventatissimo perché suo padre era morto per un aneurisma. Gli dissi: vai da mio fratello, che è medico... Aveva una tale paura che non osava neanche farsi vedere. Dopo qualche mese... Se si fosse curato, probabilmente sarebbe ancora vivo. Forse non ho insistito abbastanza » . Un altro ricordo, questa volta piacevole: i pranzi con Italo e Manganelli. « Una volta eravamo a tavola in casa Calvino, non c' era il peperoncino e Manganelli disse che senza peperoncino non poteva mangiare. Giorgio era speciale per mettere in difficoltà i suoi ospiti. Recitava molto e a furia di ripetere certe scene diventò maniaco davvero: la finzione, del resto, fa parte della malattia » . 1986. Pianeta azzurro è il romanzo più « politico » di Malerba. La politica come gigantesca allegoria? « La politica affrontata direttamente nei romanzi non mi è mai interessata. Penso a Sciascia, le cui posizioni alla fine risultano vagamente ambigue. Io vorrei sapere che cosa pensano i mafiosi dei suoi libri. E' probabile che li leggano, ma ho sempre il dubbio che possano piacere alla mafia, perché i libri di Sciascia hanno finito per mitizzarla come un' entità misteriosa e romanzesca » . Anche nel Pianeta azzurro ci sono oscure trame e un professore che assomiglia ad Andreotti. Ma siamo pur sempre nell' allegoria. Dieci anni dopo, Malerba scriverà a Belzebù dalle colonne de « la Repubblica » per invitarlo a scrivere un romanzo in cui raccontare le verità della Prima Repubblica. Era il messaggio di uno scrittore convinto da sempre che la finzione è realtà e viceversa. Una confusione che aveva scombinato le carte della tradizione. Rompeva con il realismo italiano di Moravia, Bassani, Cassola e persino Pasolini. La storia di Bassani « fatto fuori » da Balestrini e dagli altri « ragazzi » della neoavanguardia come direttore della Feltrinelli è nota. Il rifiuto di Fratelli d' Italia pure. « Bassani - dice ora Malerba - fu giustamente messo da parte: aveva pubblicato un romanzo molto modesto di Rodolfo Celletti, presentandolo come un nuovo Gattopardo . Una gaffe pesante. Senza dire che si prese il merito di aver scoperto Il Gattopardo , ma in realtà era stata Elena Croce a segnalarglielo » . Ma l' allontanamento di Bassani da parte di Feltrinelli non fu un colpo di mano della cultura di sinistra? « Io dico sempre: come mai in tanti anni di potere politico e finanziario la Dc non fu capace di metter su neanche una casa editrice, una rivista, un giornale? La risposta è: perché non avevano nessun grande intellettuale. In realtà non è colpa di nessuno se gli scrittori tendevano tutti al rosa o al rosso; gli intellettuali di destra chi sono: l' apocalittico e pazzo Ceronetti mi diverte; il cattolicissimo Parazzoli lo stimo. C' è stata l' Adelphi, d' accordo. Ma gli altri? Non sono stati capaci di niente » . di PAOLO DI STEFANO Luigi Malerba, nato a Berceto (Parma) nel 1927, è considerato uno dei maggiori scrittori italiani viventi. Tra i suoi romanzi, «Il pianeta azzurro», «Il circolo di Granada» e «La scoperta dell' alfabeto» Mondadori sta ristampando le sue opere nella collana «Oscar»: pochi giorni fa è uscito nelle librerie «Ti saluto filosofia», mentre lo scorso ottobre è stata la volta di «Pietre volanti», a gennaio, invece, «Itaca per sempre» Sempre da Mondadori è in preparazione un volume della collana «Meridiani» dedicato all' opera omnia dello scrittore

Di Stefano Paolo

Pagina 35
(31 maggio 2005) - Corriere della Sera

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 20 anni dopo la sua morte

L'Eredità di  Leonardo Sciascia  di Pietro Ancona
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Vengono compiuti  vari tentativi  di annessione della memoria di Leonardo
Sciascia. I cattolici, con un articolo pubblicato dall'Avvenire di oggi, a firma di Vincenzo Arnone,
descrivono   Sciascia alla ricerca di una fede che in effetti non ebbe mai tranne che nella Ragione; i radicali lo ricordano come membro del loro gruppo parlamentare dove lo vollero nella Commissione Moro e come uomo di punta in tante battaglie per "una giustizia giusta". In effetti Sciascia trovava congeniale i radicali nei tanti versanti dei diritti civili negati o calpestati, ma sono convinto che se ne sarebbe allontanato come a suo tempo si allontanò dal PCI. Il suo sentimento di giustizia era troppo profondo perchè continuasse un sodalizio con Pannella ed il suo Partito  accettandone tutte le politiche. Non credo che avrebbe condiviso la posizione dei radicali per la spartizione della Jugoslavia e di acritico appoggio agli israeliani nella loro opera genocida del popolo palestinese nè credo che condividesse il liberismo radicale per cui i contratti di lavoro debbono essere individuali e trattati soltanto tra datore di lavoro e lavoratore. Si era allontanato dal PCI non condividendone la somiglianza di comportamenti della DC. Il compromesso storico, la teoria che con il 51% non si possa e non si debba governare, era quanto di più lontano potesse esserci dalla sua cultura  ed intelligenza razionalista che rifiutava collaborazionismi che diventerebbero cappe di piombo e prigioni per
la società civile. I suoi libri sono popolati da figure di monaci e di preti ma la fede nel cattolicesimo non c'entra per niente. Quando scrive di Monsignor Ficarra "Dalla parte degli infedeli"parla di un Vescovo  originario di Canicattì e poi a Patti che nonostante il divieto di Pio XII e le ingiunzioni mafiose del Cardinale Ruffini sposava in chiesa i comunisti e non faceva da spalla alla DC nella sua diocesi. La figura dell'Abate Vella viene disegnata come quella di un leggendario falsario che si era improvvisato  conoscitore della lingua araba fino al punto di inventarsi un testo per fare saltare in aria i privilegi feudali o frate Diego La Mattina che uccide l'Inquisitore che lo tiene prigioniero e pretende
la confessione della sua eresia. Tutti i personaggi religiosi di Sciascia non c'entrano niente con la Fede
e tutta la sua opera ne è assai distante. In Todo Modo lo sfondo è l'Istituzione Religiosa dove si consumano i delitti dei tre giorni di esercizi spirituali tra politici, banchieri, industriali.  Istituzione come ricettacolo e sede del Potere e della sua malvagia logica di morte.
  Venti anni dopo la sua morte, la realtà ha travalicato di molto la sua visione pessimistica.
 La democrazia si è mostrificata e l'Italia è diventata un paese di gran lunga più incivile e malvagio di quanto non fosse durante la vita di Sciascia. Morì poco dopo  il crollo del muro di Berlino
che avrebbe salutato come fatto di liberazione e di libertà ma che, se fosse vissuto fino ai nostri giorni,avrebbe analizzato anche come il via libera  ad  una nuova fase di sfruttamento e di crudeltà sociali del capitalismo. In Italia stanno diventando famigerate le prigioni dove i detenuti vengono picchiati e molti di loro si uccidono. Ad oggi sono 65 dal primo gennaio di quest'anno. L'Italia si è dato leggi razziste che differenziano le pene a seconda del colore della pelle. Abbiamo un ministro
che incita ad essere "cattivi" verso gli immigrati ed i poveri. I senza casa vengono schedati dalla polizia. I rom vengono allontanati dalle ruspe e dagli incendi dei loro miseri accampamenti. I giovani italiani, a milioni, vengono sfruttati con i mille sotterfugi della legge Biagi. Il Parlamento serve soltanto per votare, senza discutere, i decreti predisposti dal Padrone dello Stato che pretende per se di stare al disopra della Legge come gli antichi Faraoni. I deputati ed i senatori  sono diventati Oligarchi con privilegi  scandalosi.
  Venti anni dopo la sua morte tutto è degenerato e la società italiana è in avanzato stato di decomposizione. Si è realizzata nel peggiore dei modi la società asociale della signora Tatcher.
 Stamane, ho visto vicino casa mia una anziana  signora frugare in un cassonetto di immondezze per prendervi  un vecchio e moscio broccolo buttatovi  dal fruttivendolo. Una signora vestita con decenza munita di un borsone con carrello con il quale  (presumo) si fa il giro dei cassonetti della città.
 I mostri nascosti alla vista nel mistero del Potere al quale il nostro grande scrittore si è accostato tante volte
sono in parte usciti allo scoperto.  Al suo laico civilissimo ragionare oppongono la rozzezza brutale del "me ne frego" fascista.  L'Italia di oggi è distantissima dalla civiltà della Ragione di cui  Leonardo Sciascia era esponente. La Mafia è al potere.

 Pietro Ancona

 

Vincenzo Consolo Leonardo Sciascia dalla zolfara all'agorà



Camilleri: Il giorno della Civetta “Leonardo Sciascia non avrebbe mai dovuto scriverlo”