Da leggere anche per sfatare certi luoghi
comuni
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Panorama 1Italia/2007/09/20/confcommercio-in-aumento-le-estorsioni-ma-solo-5-su-cento-denunciano/
Lo
scorso aprile Confcommercio, in collaborazione con Eurisko, ha chiesto a 60 mila
titolari di impresa (venditori ambulanti, benzinai, tabaccai, baristi e
ristoratori, orafi, proprietari di negozi di abbigliamento e alimentari) la loro
percezione sull’andamento dei crimini negli ultimi tre anni.
La percentuale di quelli
che hanno preferito non esprimersi oscilla, a seconda del reato (estorsioni,
usura, furti, rapine) tra il 15 e il 40 per cento.
Per
quanto riguarda le estorsioni, gli esercenti che non hanno risposto sono il 38
per cento
e il silenzio è stato più frequente nel Nord-Est e al Centro.
Tra quelli che hanno risposto il 15 per cento ritiene che il fenomeno sia
aumentato, il 42 per cento che sia rimasto stabile. L’11 per cento ha dichiarato
di conoscere un collega che ha ricevuto minacce da taglieggiatori e l’8 per
cento ha ammesso di averle ricevute direttamente.
Nella
maggior parte dei casi (il 73%) le pressioni sono state psicologiche, ma spesso
gli estorsori sono passati a danni alle cose (nel 35% dei casi) e alla violenza
personale (14%). I commercianti hanno per lo più dichiarato di aver respinto le
richieste, c’è però un 19 per cento che confessa di aver ceduto. E a questo dato
va probabilmente aggiunto l’8 per cento che non ha voluto rispondere a questa
domanda.
Le
denunce sono ancora poche: solo il 5 per cento degli imprenditori taglieggiati
reagisce al racket in questo modo (sono più numerosi al Sud).
In tutti gli
altri casi si preferisce fare da sé. Il 40 per cento degli intervistati ha preso
qualche provvedimento per cautelarsi. Il metodo più diffuso è l’assicurazione,
seguita dalla vigilanza privata e da telecamere e vetrine blindate.
Ma chi ha
pagato, come lo ha fatto? E quali sono le tariffe del pizzo? Le vittime pagano o
in merce (il 55%) o in denaro (il 52%). Tra le imprese che hanno ammesso di aver
ceduto alle minacce, il 60 per cento lo ha fatto nel 2006, il 22 per cento in
particolare ha consegnato più di 10 mila euro.
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Il
pizzo non parla solo siciliano. Ecco chi lo chiede e chi lo paga a Milano
http://blog.panorama.it/italia/2007/09/20/il-pizzo-non-parla-solo-siciliano-ecco-chi-lo-chiede-e-chi-lo-paga-a-milano/
È l’ora
dell’aperitivo. Lo struscio dei ragazzini alla moda è appena cominciato. Seduti
al tavolino di un bar all’aperto ci sono un uomo sui quarant’anni, grande e
grosso, e il proprietario di un paio di locali della strada più fashion della
città, che ha partecipazioni in una trentina di altre ben avviate attività
commerciali. Non vuole problemi. E paga. Mette sul tavolo una busta bianca,
dentro ci sono 10 mila euro in banconote da 500. Non siamo a Catania, ma in
corso Como a Milano, il cuore della movida meneghina. Non è la mafia a
riscuotere il racket. Il taglieggiatore stavolta è tunisino.
I 10 mila
euro sono la prima tranche di un pagamento più consistente. Jalel Titouhi ne
pretende 90 mila. Ha preso di mira il commerciante, vuole che gli ceda
gratuitamente uno dei suoi locali. Poi decide di accontentarsi del denaro e
cominciano le telefonate minatorie al titolare, ai suoi soci e ai suoi
familiari. Inizialmente la vittima cerca di uscirne pagando, ma quando capisce
di essere finito nelle mani di un criminale davvero pericoloso ha paura e chiede
aiuto ai carabinieri. Questa storia dello scorso novembre è a lieto fine: dopo
pedinamenti e intercettazioni gli investigatori del nucleo operativo di Milano
arrestano il tunisino con ancora la busta bianca nella tasca della giacca. Ma
non va sempre così bene.
Confindustria minaccia di espellere gli imprenditori che cedono al racket in
Sicilia e sembra quasi che il pizzo sia una questione soltanto meridionale.
Invece anche a Milano sono moltissimi i commercianti e i titolari di aziende
vittime di estorsione.
Secondo una ricerca di Confcommercio ed Eurisko, nel Nord-est il 15,6 per cento
dei titolari di pubblici esercizi ritiene che le estorsioni siano aumentate
negli ultimi tre anni, l’11,1 per cento la pensa così nel Nord-ovest. Le
percentuali dei commercianti che conoscono un collega che ha ricevuto minacce o
intimidazioni è superiore all’8 per cento, mentre quella degli esercenti che
ammettono di averle ricevute personalmente è del 5 per cento.
Alcuni
denunciano, la maggior parte paga e tace. Al Nord gli aguzzini raramente fanno
parte di organizzazioni che controllano il territorio e le richieste di pizzo
sono meno capillari che al Sud. Ma spesso i metodi sono altrettanto violenti.
Il
settore più colpito, in città e nell’hinterland, è quello dell’edilizia. I
taglieggiatori
usano una
strategia ormai collaudata: collaborano con un piccolo imprenditore, da cui
prendono in subappalto alcuni lavori. Lavori che non hanno nessuna intenzione di
portare a termine, ma per cui pretendono di essere pagati ugualmente e con cifre
altissime. La prima ritorsione è l’occupazione del cantiere e il blocco delle
attività. La ditta di costruzioni si trova così con l’acqua alla gola. Ma il
peggio deve ancora arrivare.
Lo sa
bene il titolare di un’impresa di viale Certosa, periferia est del capoluogo,
con cantieri sparsi in Brianza. L’incubo comincia con una gru che gli aguzzini
si rifiutano di smontare e che blocca i lavori per un anno e mezzo. La richiesta
è di 150 mila euro “e ogni giorno che passa, sono 1.000 in più”, incalzano.
L’imprenditore arriva a pagarne 46 mila, ma le minacce, al telefono e via sms,
non cessano. E dalle intimidazioni presto si passa ai fatti. Gli estorsori di
origine calabrese si presentano sempre più spesso al cantiere, uno di loro
grida: “Qui è tutto nostro, lo facciamo saltare in aria”, e ancora “ti sparo”.
Il cantiere viene incendiato due volte in due giorni.
L’imprenditore edile subisce aggressioni, pestaggi, minacce con un martello e
con un coltello puntato alla gola. Una mattina due dei suoi taglieggiatori
tentano di caricarlo in macchina e di sequestrarlo. Lui si barrica dentro un bar
e questa volta, ormai in preda del terrore, chiama i carabinieri. Alla fine
delle indagini vengono arrestate cinque persone di origine calabrese ma
residenti a Milano e dintorni, tutti con diversi precedenti penali.
E se il
business al Nord scopre nuove frontiere, il racket delle estorsioni si adegua:
tra le vittime è finito anche un imprenditore che commerciava integratori
alimentari online. A pretendere il pizzo proprio l’uomo cui aveva affidato la
gestione del sito di e-commerce. Che però, per minacciarlo, aveva a disposizione
sicari tutt’altro che virtuali. Risultato: una jeep incendiata e un pizzo di 10
mila euro consegnato in una stazione di servizio sull’autostrada.
Per
inquadrare il fenomeno basterebbero i dati dei vigili del fuoco del Comando
provinciale di Milano. Nel 2006 gli incendi dolosi sono stati 254. Di questi,
128 appiccati ad auto, camion, moto o mezzi da cantiere, 67 ad attività
commerciali e 37 ad abitazioni (il resto riguarda attività agricole e rifiuti
accatastati). Al Comando spiegano che non tutti gli episodi sono ritorsioni o
avvertimenti degli estorsori, ma di certo una buona parte. La Prefettura infine
nel 2006 ha registrato 300 casi denunciati di estorsione.
Il pizzo non parla solo siciliano. Ecco chi lo chiede e chi lo paga a Milano
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Antimafia duemila
La mafia al Nord cambia volto
di Dora Quaranta - 24 aprile 2009
Milano. Decine di imprenditori e professionisti del Nord ora
fanno parte organica delle cosche: non più vittime ma
veri mafiosi. I giornalisti Biondani e Portanova nel numero
dell’Espresso oggi in edicola scrivono che, stando alle più recenti
inchieste, tanti impreditori del Nord Italia ...
... “si finanziano con capitali
sporchi, ottengono protezione criminale, si prestano a dividere e
reinvestire i profitti di droga ed estorsioni, affidano alla violenza dei
clan il recupero dei crediti, ordinano attentati contro i concorrenti. Fino
a diventare, come avvertono i magistrati più esperti, imprenditori organici
alle più pericolose cosche del sud”.
Il capo dell’Antimafia a Milano, il pm Ferdinando Pomarici, denuncia che in
mezza Lombardia le attività a rischio di partecipazione mafiosa sono
nell’ordine: edilizia, immobiliare, centri commerciali, alimentari,
sicurezza, discoteche, appalti, garage, bar e ristoranti, sale da gioco,
distributori, cooperative di servizi, trasporti”. Intere province del Nord
sono spartite tra Cosa Nostra e ‘Ndrangheta: i gelesi controllano estorsioni
e spaccio nella zona est, tra Busto e la statale varesina – dice ancora
Pomarici – ai calabresi tocca la parte ovest fino a Malpensa. Dalle indagini
dei carabinieri sembra che nella zona non vi sia un cantiere edile che non
paghi il pizzo, come numerosi esercizi commerciali”.
A Modena gli inquirenti segnalano la presenza di famiglie mafiose
siciliane,in Emilia quella della Camorra; in Liguria, per il mese di
dicembre 2008, è emersa l’operatività di ben 15 clan calabresi; sul modello
dell’infiltrazione nei cantieri navali di Palermo Cosa Nostra mira ora al
controllo del porto di La Spezia.
Giancarlo Caselli, procuratore a Torino, intervistato
dall’Espresso, spiega che già Falcone diceva che la mafia uccide a Palermo
ma investe a Milano. “Più l’investimento è lontano dall’attività illecita –
dice Caselli – più è facile passare inosservati e farla franca. La nostra
procura ha costituito un nuovo gruppo di lavoro sul riciclaggio, che è
sempre più sofisticato. I mafiosi hanno i soldi per pagarsi i migliori
cervelli. C’è uno sforzo di rispondere con competenze giudiziarie e non
solo. Ma c’è anche chi non vede o fa finta di non vedere”.
Importante l’operazione denominata “Gheppio” che stamane ha
condotto all’arresto per associazione mafiosa di Maurizio La Rosa e Maurizio
Trabia entrambi di Gela. L’inchiesta ha rivelato che il gruppo mafioso degli
Emmanuello, in collaborazione con altri boss residenti da anni fra Milano e
Varese, era in procinto di uccidere il sindaco di Gela, Rosario Crocetta ed
alcuni imprenditori che si opponevano al pizzo. Negli ultimi mesi La Rosa
aveva intrapreso numerosi viaggi fra la Sicilia e la Lombardia. “Gheppio” ha
fatto emergere gli affari illeciti in Lombardia del clan di Gela il quale
avrebbe anche a disposizione armi ed esplosivi.
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"..preoccupanti segnali della
persistente presenza di organizzazioni di tipo mafioso ....soprattutto
nell'area metropolitana di Milano.."
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Tranfaglia:
Mafia il contagio dilaga 01 marzo 2009
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Leonardo Sciascia La
linea della palma
"Forse tutta l'Italia sta diventando
Sicilia... A me è venuta una fantasia, leggendo sui giornali gli scandali di
quel governo regionale: gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè
il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il
nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno... La linea della palma... Io
invece dico: la linea del caffè ristretto, del caffè concentrato... E sale
come l'ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè
forte, degli scandali: su su per l'Italia, ed è già oltre Roma..." (Il
giorno della civetta, L.Sciascia Opere – 1956.1971, p. 479)
Undici anni dopo le cose non erano cambiate di
molto, se Leonardo Sciascia volle che nell' edizione scolastica del romanzo,
anch' essa pubblicata da Einaudi, fosse stampata una sua nota in cui spiegava
come allora, appunto, fosse inusuale parlare di mafia facendo letteratura.
Quella nota la possiamo ora leggere in appendice alla ristampa de Il giorno
della civetta nella "Fabula" di Adelphi (pagine 137, lire 18.000). Ed e' utile
leggerla: "...allora il Governo non solo si disinteressava del fenomeno della
mafia, ma esplicitamente lo negava. La seduta alla Camera dei Deputati
rappresentata in queste pagine, e' sostanzialmente, nella risposta del Governo
ad una interrogazione sull' ordine pubblico in Sicilia, vera. E sembra
incredibile: considerando che appena tre anni dopo entrava in funzione una
commissione parlamentare d' inchiesta sulla mafia...". E, limpidamente, a
chiudere: "...ma la mafia era, ed e' , altra cosa: un "sistema" che in
Sicilia contiene e muove gli interessi economici e di potere di una classe che
approssimativamente possiamo dire borghese; e non sorge e si sviluppa nel
"vuoto" dello Stato (cioe' quando lo Stato, con le sue leggi e le sue funzioni,
e' debole o manca) ma "dentro" lo Stato...".
Giamapolo Pansa Il Bestiario
Trentotto anni fa Sciascia mi spiegò
"la teroria della palma" per indicare l'espansione della mafia al Nord
Tanti anni fa si pensava che la mafia sarebbe
rimasta confinata in Sicilia. E che la camorra e la 'ndrangheta non
sarebbero uscite dalla Campania e dalla Calabria. Poi ci siamo accorti che
non era così. Un italiano che aveva visto tutto per tempo è stato Leonardo
Sciascia: grande scrittore e lucido pessimista, capace di guardare lontano.
La prima volta che mi capitò d'intervistarlo fu per 'La Stampa' di Alberto
Ronchey. Il direttore voleva pubblicare un colloquio con lo scrittore a
proposito della mafia. E mi mandò in Sicilia. Era l'ottobre del 1970,
trentotto anni fa. Andai a trovare Sciascia a Palermo. Tra le verità che mi
offrì, una soprattutto mi colpì per la carica profetica.
Lo scrittore mi domandò: "Conosce la teoria della palma?". Ammisi di no. Lui
proseguì: "Secondo una teoria geologica, per il riscaldamento del pianeta la
linea di crescita delle palme sale verso il nord di un centinaio di metri
all'anno. Per questo motivo, fra un certo numero di anni, vedremo nascere le
palme anche dove oggi non esistono".
Gli chiesi: "Che cosa c'entrano le palme con la mafia?". Sciascia sorrise:
"Anche la linea della mafia sale ogni anno. E si dirige verso l'Italia del
nord. Tra un po' di anni la vedremo trionfare in posti che oggi sembrano al
riparo da qualsiasi rischio. E anche al nord la mafia avrà gli stessi
connotati che oggi ha in Sicilia. Qui da noi il mafioso si è mimetizzato
dentro i gangli del potere. Una volta in Sicilia c'erano due Stati, adesso
non ci sono più. Quello della mafia è entrato dentro l'altro. Un
sistema dentro il sistema. Ha vinto il sistema di Cosa Nostra: più
rozzo, più spregiudicato, più violento. E vincerà anche al nord".
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Mafia: la linea della
palma si alza (dalla Sicilia a Legnano)
da: Agorà I blog del Sole 24ORE
San Giorgio su Legnano, Sinopoli,
Foggia 27 e 28 settembre 2008. E poi ancora – solo per restare negli
ultimi mesi – Gallura, Cesena, Firenze, Bologna, Padova e Fondi. A
questo secondo appello mancano Campania, Calabria e Sicilia dove la
violenza e la morte non fanno più notizia. Nell’elenco completo ci
sono invece una metropoli e una data lontana nella clessidra delle
politica ma vicinissima nel cronometro delle mafie: Milano-Expo
2015.
Luoghi e date diverse, un solo filo comune
avvalorato dalle inchieste della magistratura e dalle indagini delle
Forze dell’Ordine: la criminalità organizzata che sta divorando
ovunque parti sane dell’economia e della società civile senza
guardare in faccia a nessuno: supremazia sul territorio (Sinopoli)
speculazione immobiliare (Gallura), traffici di droga e mattone (San
Giorgio su Legnano), droga (Foggia), investimenti commerciali e
finanziari (Cesena), aziende di trasporto (Firenze), locali notturni
(Bologna e riviera romagnola), speculazioni immobiliari e
commerciali (Padova), mercato ortofrutticolo (Fondi). Prima e dopo
queste date e queste località – geograficamente cosi lontane tra
loro eppure così vicine nel mondo globalizzato dell’economia
criminale – centinaia di altre grandi, medie e piccole città sulle
quali le mafie vecchie e nuove hanno puntato e stanno ingrassando i
loro profitti che valgono – solo in Italia – almeno 44 miliardi
all’anno (stime Eurispes).
E’ la linea della palma che si alza. Era il
1970 quando Leonardo Sciascia descrisse a Giampaolo Pansa della
“Stampa” questo paragone: così come le palme, da piante esotiche,
troveranno nuovi terreni fertili verso il nord del pianeta su cui
mettere radici man mano che il clima diventerà più caldo, così la
mafia risalirà la Penisola.
Previsto, detto, fatto. Da anni l’Italia è
stata fertilizzata con il concime naturale su cui Cosa nostra,
‘ndrangheta e camorra crescono e si espandono fuori dalla Sicilia,
dalla Calabria e dalla Campania: Governi e opposizioni cieche,
Parlamento addormentato, amministrazioni locali disattente, Chiesa
isolata o divisa, classe imprenditoriale impaurita e società civile
apatica.
Dall’agenda
della politica nazionale il tema delle mafie sembra ormai
cancellato. L’ultima campagna elettorale ne è stata la
dimostrazione: la parola mafia non esisteva né a destra né a
sinistra. Al centro non ne parliamo.
Il Parlamento ha assecondato negli
anni il comportamento dei leader politici nazionali. Le leggi che
avrebbero potuto e dovuto mettere gradualmente nell’angolo la
criminalità organizzata si sono fatte prima attendere e poi sono
rimaste nel cassetto. La lotta al riciclaggio, la tracciabilità dei
flussi finanziari nelle grandi opere e l’aggressione ai patrimoni
delle cosche attraverso rapide confische erano e rimangono
un’utopia.
Eppure già negli anni Ottanta un
giovane magistrato trasferito da Trapani a Palermo capì
immediatamente che per colpire Cosa nostra si dovevano inaridire i
portafogli dei boss, perché un mafioso può mettere nel conto carcere
e morte ma non il sequestro delle ricchezze, segno del comando e del
rispetto sul territorio. Quel giovane magistrato si chiamava
Giovanni Falcone.
Un Parlamento che – si badi bene –
continua a dormire e che questa settimana dovrebbe varare l’ennesima
e forse ormai inutile e debole Commissione bicamerale antimafia. A
chi scrive, due anni fa, l’onorevole Maria Grazia Laganà, vedova di
Francesco Fortugno, vicepresidente del consiglio regionale calabrese
trucidato dalle cosche di Reggio il 16 ottobre 2005, dichiarò che
“in Commissione antimafia stava imparando tante cose”. Ma c’è
bisogno di imparare e o di agire? Di studiare ancora (e cosa che già
non si sappia?) o di proporre? L’ultima Commissione bicamerale che
(almeno) mise al centro del proprio operato il legame fra mafie e
politica fu quella presieduta da Gerardo Chiaromonte. Correva l’anno
1988.
Le amministrazioni locali tirano a
campare. Quelle del Sud sono spesso conniventi o tenute sotto
scacco, quelle del Nord ritengono ancora che la pervasività delle
mafie sia “cosa loro” e non “cosa di tutti”. Eppure basta girare nel
milanese, nel reggiano, nel padovano, nel forlivese, nel mantovano,
a Genova, Firenze, Roma e Torino per interrogarsi su improvvise
ricchezze, attentati alle attività imprenditoriali e commerciali,
curiose migrazioni di imprese edili dal Sud e diffusione di racket e
usura. Tutto normale? No, eppure Milano – che secondo Vincenzo
Macrì, sostituto procuratore nazionale antimafia è la nuova capitale
della ‘ndrangheta – si interroga ancora sull’opportunità di
istituire una commissione comunale antimafia quando ormai appare
chiaro anche ai ciechi che cosche, clan e ‘ndrine hanno messo nel
mirino i ricchissimi subappalti in vista di Expo 2015. “Stiamo
assistendo a scosse di assestamento della ‘ndrangheta in vista dei
lavori di Expo 2015”, ha detto Macrì commentando l’omicidio del
mammasantissima “Don” Carmine Novella avvenuto il 14 luglio di
quest’anno a San Vittore Olona (Milano), freddato in un bar del
centro, come nei film americani che raccontavano la vita dei
gangsters con bonomia. Facile prevedere un terremoto se la politica
continuerà a girarsi dall’altra parte.
Balbettano anche la Chiesa e la
società civile. Per anni le parrocchie del Sud e del Nord sono state
in posizione di stallo: sospese tra la denuncia e il calvario. Per
la prima volta in decenni – nella Pasqua 2008 – la diocesi di Reggio
Calabria, attraverso il messaggio dell’arcivescovo Vittorio
Mondello, ha denunciato con forza la ‘ndrangheta. Un segnale
incoraggiante, ma una rondine che non fa primavera. Decine di
sacerdoti – nel napoletano, nel milanese, nel foggiano e nel reggino
– alzano la voce e fanno tuonare quella del Signore contro la
violenza. Molti, però, tacciono e spiace ch quest’anno – per la
prima volta – il quartiere Brancaccio di Palermo e la parrocchia
locale si siano divisi, anziché unirsi, nel nome di un sacerdote che
il 15 settembre 1993 ricevette il colpo di grazia dai sicari con un
sorriso e una frase “vi stavo aspettando”. Quel prete era Don Pino
Puglisi. E spiace che la società civile – che pure a Locri e a
Palermo è stata capace di esprimere movimenti incoraggianti - sembri
addormentata o forse (maliziosamente) piegata ad altri fini. Ma la
società civile, la borghesia del Centro e del Nord dove sono? Dov è
la reazione dopo l’omicidio di due giorni fa alle porte di Milano? E
dov è l’indignazione nel novarese, nel lodigiano, nel fiorentino e
nel bolognese dove pure la cosche si stanno arricchendo con la
movimentazione delle terra e il nolo a caldo e a freddo nella
costruzione delle linee ferroviarie per l’Alta velocità? Nessuno si
interroga sul fatto che a Firenze un imprenditore toscano
(attenzione: non era del Sud) è stato ucciso perché stava importando
tecniche di espansione mafiosa sul territorio con la complicità dei
siciliani di Cosa Nostra? Nessuno si interroga in tutte le metropoli
e medie città d’Italia che spesso dietro le sale scommesse e le
improvvise ricchezze dei gestori ci sono capitali sporchi? Nessuno
ha dubbi sulla girandola a Roma delle licenze commerciali nelle vie
del centro? E le agenzie di money transfer – come testimonia
l’inchiesta 2007 della Guardia di finanza di Ancona – non sono
spesso le nuove lavanderie del riciclaggio?
L’imprenditoria, il commercio, i
professionisti, il sindacatao, l’agricoltura e i servizi si stanno –
infine - scrollando di dosso la paura. Molto è stato fatto (in
Sicilia), qualcosa si sta facendo (in Calabria) e da Roma (con
Confindustria nazionale, le associazioni dei commercianti e degli
agricoltori) l’appoggio non manca. Ma un tassello non c’è ancora: la
reazione degli imprenditori grandi e piccoli del resto d’Italia,
perché le infiltrazioni dei capitali sporchi e il riciclaggio non si
fanno a Crotone, ad Agrigento, a Caserta o in Capitanata, ma nel
Centro-Nord, ancora ricco e appetibile.
Imprenditori, costruttori, politici,
Chiesa, società civile, levate (leviamo) la vostra (la nostra) voce
dal Nord e dal resto d’Italia, perché l’Expo 2015 per le mafie è
ormai alle spalle e mentre le pistole sparano, le Forze dell’Ordine
e la magistratura fanno i conti con i tagli agli investimenti e la
gente comune è disorientata, i boss pianificano, investono e
mangiano: la nostra vita e il nostro futuro.
roberto.galullo@ilsole24ore.com