RASSEGNA STAMPA |
Alle radici del pregiudizio di Zenone di Elea
Aprile 2005
Chissà cosa avrebbero pensato degli alti ufficiali napoletani se fosse loro capitato – ipotizzando una storia rovesciata, dove il Nord fosse stato invaso dalle armate borboniche – di presidiare delle postazioni militari in una sperduta valle della bergamasca nel 1860 e, attraversando uno dei tanti orridi, di trovarsi all’improvviso di fronte a degli interlocutori che parlavano in lingua orobica.
Avrebbero pensato di essere giunti in Africa[1]? Oppure nella culla della civiltà padana?
Lasciamo al lettore la sua riposta personale.
Noi partiamo da questa provocazione per dipanare il filo della storia patria, all’indietro, alla ricerca delle radici del pregiudizio antimeridionale.
Anni fa, quando uscì il libro “La razza maledetta”[2] di Vito Teti, ci precipitammo a comprarlo nella illusione vana di trovarvi chissà quale grande verità. Purtroppo ci dovemmo ricredere, l’autore era partito da buone intenzioni ma si era avviluppato nei luoghi comuni in cui tutti noi italiani – meridionali e non – siamo stati allevati scambiando conseguenze per cause.
Scrive l’autore nella premessa “I libri, si sa, hanno un loro destino e hanno la loro presentazione rituale come se l'autore dovesse affidare a una bottiglia un messaggio che poi prenderà una strada indipendente dalle sue intenzioni”.
Le buone intenzioni di Teti naufragano miseramente quando va a centrare la sua attenzione sul Niceforo[3] – che espone le sue tesi a cavallo del 1900, quando i giochi sono ormai fatti, il Nord si sta industrializzando e l’ex Regno delle Due Sicilie è sottosviluppato – e non invece su Lombroso (che opera al seguito dell’esercito piemontese durante la spietata repressione della guerriglia), tralasciando così di indagare sugli elementi fondanti del pregiudizio[4].
Un pregiudizio le cui radici affondano nella formazione dello stato unitario, che la lotta al brigantaggio – la prima guerra civile dell’Italia unita – alimentò e consegnò alle generazioni future con la complicità di tanti meridionali[5].
Erano stati infatti gli intellettuali meridionali accolti e coccolati – con incarichi e prebende – alla corte sabauda, i primi detrattori del paese meridionale, dipinto come un luogo in cui non si poteva vivere a causa di una dinastia, la borbonica, retriva e corrotta.
Quando divampò la rivolta armata contro i Piemontesi lo scontro tra “vecchio” e “nuovo” si fece aspro e senza esclusione di colpi, sia sul campo di battaglia che nel campo culturale[6].
“Fu operata una damnatio memoriae a livello radicale e senza precedenti. – scrive Antonio Nicoletta in un suo recente articolo – Furono cancellati i monumenti, le lapidi, le ricorrenze, la toponomastica e tutto quanto poteva ricordare l’antico ed odiato Regno; su tutto fu imposta la croce sabauda!”[7]
Si dipinse il mondo che si ribellava come, vecchio, borbonico, arretrato, contadino, feudale, incapace di cogliere i frutti della modernità. Ovviamente quest’ultima era rappresentata dai nuovi arrivati – i Piemontesi col “Re galantuomo” – e dai loro cortigiani meridionali, alcuni dei quali erano gli esiliati tornati nei propri paesi di origine.
La ferocia con cui i briganti-contadini si batterono per difendere le proprie terre venne amplificata, nei salotti politici e sulla stampa, a tal punto da trasformare quel mondo contadino meridionale di cui i briganti erano figli come un mondo altro, incomprensibile e lontano[8].
In effetti lo era lontano, anni luce, da quella corte torinese da cui provenivano ufficiali che parlavano francese e non riuscivano a capire perché quei cafoni – ignoranti e selvaggi – rifiutavano la patria.
Per tentare di penetrare quel mondo incomprensibile si nominò una commissione di inchiesta la Massari[9], le cui conclusioni – diciamo la verità, sono passati tanti anni ormai – fecero da supporto alla legislazione di emergenza[10] nota come Legge Pica ”che sospendeva” leggiamo nel sito dei Carabinieri “le libertà nel Mezzogiorno. Tutto il potere veniva consegnato nelle mani dei militari con la possibilità per le “Giunte provinciali” di condannare, su base di labili indizi, al domicilio coatto”.
A chi lo ignora, ricordiamo che il domicilio coatto[11], utilizzato in funzione antiguerriglia[12], è arrivato fino ai giorni nostri attraversando varie trasformazioni: domicilio coatto, confino di polizia, soggiorno obbligato[13]. Un istituto odioso che certamente non ha fatto amare il Mezzogiorno visto che ha finito per diffondere la criminalità organizzata più che combatterla.[14]
Agli inizi del ‘900 Gian Domenico Romagnosi parlava del domicilio coatto come “pena inefficace, ingiusta, crudele, feroce, tirannica” che recava “un male privato, senza produrre un bene pubblico”.[15]
L’accusa di manutengolismo introdotta con la Legge Pica diventa una potentissima arma per eliminare avversari ed oppositori politici – questo secondo noi costituisce un aspetto interessante e poco indagato della lotta al brigantaggio[16].
Tutto si confonde e si intreccia in un perverso coacervo di luoghi comuni e mezze verità, dove diventa inestricabile il distinguere le cause dalle conseguenze e le conseguenze dalle cause.
La ricerca accademica, storica e scientifica, fornisce il suo supporto culturale inquinante allontanando sempre più la possibilità di far luce su ciò che è accaduto nella neonata Italia durante il decennio che va dal 1860 (anno dello sbarco di Garibaldi a Marsala) al 1870 (anno in cui vennero soppresse le ultime zone militari nel Mezzogiorno – alcuni amici ci hanno segnalato episodi successivi, in Calabria per esempio, che testimoniano la prosecuzione del brigantaggio negli anni successivi).
Ai lavori della Massari, i cui risultati vennero letti in seduta segreta del Parlamento a Torino e restarono segreti per anni, seguirono altre inchieste, saggi, lamentazioni e ricerche varie tra cui quelle del Lombroso che tanto fecero e fanno discutere ancora oggi.
Nel campo della ricerca storica postunitaria si ignora tutto quanto è stato fatto di positivo dalla dinastia borbonica, spingendosi per rintracciare le cause della miseria del Sud ovvero di quella che diverrà la cosiddetta “questione meridionale” fino all’epoca romana. Oltre non si può andare, si va a sbattere contro i fulgori della Magna Grecia, duri da manipolare[17].
Nel campo della ricerca scientifica il Lombroso sposta dal piano socio-politico al piano antropologico la spiegazione della diversità meridionale, misurando crani e indagando forme dei briganti-contadini morti.[18]
E col passar degli anni, la lamentazione meridionalistica[19] diventa l’altra faccia della repressione militare così come il pregiudizio antimeridionale diventa l’altra faccia della incomprensibilità del mondo meridionale.
Un mondo che diventa un fardello, una zavorra, un ostacolo allo sviluppo del paese, anzi del settentrione[20]. In ambienti padani va forte questa tesi del Mezzogiorno=zavorra: essa costituisce un vero cavallo di battaglia a sostegno della secessione[21].
Gli abitanti di un mondo altro, incomprensibile, arretrato, visto come un tutt’uno che si oppone alla modernità, vengono accomunati in un giudizio unico e senza appello: rozzi, incolti, delinquenti, mafiosi. La mano pesante usata contro la guerriglia doveva avere una giustificazione anche di tipo culturale: demonizzare l’avversario sul piano è una tecnica usata da sempre contro il nemico in tutti i luoghi della terra. I briganti erano dei nemici, spesso anche feroci.
Viene inventata una “questione meridionale” per stendere un velo su una guerra civile che provoca decine di migliaia di morti: il numero esatto[22] non lo sapremo mai, molti documenti furono bruciati nel forno della carta dai vertici militari, altri dovrebbero essere messi a disposizione di tutti: esiste la tecnologia per farlo[23].
Col passar del tempo il calderone dei luoghi comuni si riempie, fino a traboccare, vi si aggiungono “privi di spirito di iniziativa”[24], “attaccati all’impiego statale e al posto sicuro” e chi più ne ha più ne metta.
Anzi la ricerca dei luoghi comuni va di pari passo con la ricerca delle cause della “questione meridionale”, ne diventa la faccia antropologica, manca poco che ci si spinga nella notte dei tempi per trovare il prototipo del “meridionale”, espressione e contenitore di tutte le nequizie della terra.
Di ogni popolo si possono rintracciare giudizi benevoli o giudizi malevoli o curiosi, frutto della soggettività e della esperienza positiva o negativa della singola persona che li emette. In certi casi, come quello che stiamo trattando, ci si appella all’ipse dixit: lo diceva già Tizio nel 1700, oppure Caio nel 150 avanti Cristo. E così via, facendo delle vere collazioni a supporto di tesi precostituitte e pseudoscientifihce.
Quando nel 1876 – cavalcando il malcontento soprattutto meridionale, sembra cronaca dei nostri giorni! – la sinistra storica scalza la destra e la sostituisce al governo, potrebbe essere arrivato il momento di voltare pagina nella gestione del Mezzogiorno, di far luce su quanto è accaduto nelle province meridionali nei tre lustri precedenti. Invece la sinistra – che tra i suoi leader annoverava Francesco Crispi, il fratello massonico che col famoso telegramma aveva indotto, nel 1860, il restio eroe dei due mondi a veleggiare verso la Sicilia[25] – da una parte per tentare di risolvere i problemi del mezzogiorno prova l’avventura coloniale[26] e dall’altra da un contributo notevole a mettere definitivamente una cappa sulla verità risorgimentale, portando avanti la santificazione dell’unificazione.
“Bisognava creare una "religione civile", capace di sostituire o almeno di affiancarsi a quella cattolica - scrive Gianfranco Morra - per cementare l'unità morale dei cittadini dei sette stati diversi di venuti Regno d'Italia. Per tale compito si impegnò soprattutto la sinistra, che nel 1876 sostituì al potere la destra storica. Gli esempi non mancavano: tutti i secoli della storia moderna avevano visto nascere un po' dovunque una "civil religion", capace di sostituire o almeno di affiancare i vecchi valori delle religioni confessionali per produrre identità e solidarietà.
[…] I luoghi più idonei per questo culto furono le piazze e i giardini. I monumenti ai grandi del risorgimento, quasi sempre opere di scarso livello artistico, si moltiplicarono. I parchi si riempirono di busti di eroi, non prima di 25 anni dopo la morte, si stabilì: ma poi la necessità di nazionalizzare le masse limitò gli anni di attesa a dieci. La toponomastica venne sconvolta e vecchie denominazioni lasciarono il posto a Vittorio Emanuele II, Cavour, Garibaldi[27]”.
Ci sono dei libri che un meridionale dovrebbe leggere, uno di questi è senz’altro “II Risorgimento visto dall’altra sponda - Verità e giustizia per l'Italia meridionale” di Cesare Bertoletti, ufficiale piemontese a Napoli nel 1918, innamorato di una ragazza napoletana, poi di tutta la città partenopea. Al punto da dedicare al Sud un libro, un testo commovente, nel quale l'autore pone cuore e intelletto per ritrovare, fra i meandri della palude risorgimentalista, le ragioni del Meridione.
Ne riportiamo qualche brano.
“Sta di fatto che la storia dell’Italia meridionale dalla metà del 1700 ad oggi, e quindi la storia del Regno Borbonico, delle qualità del suo esercito, della sua marina (sia da guerra che mercantile), delle ricchezze o meno delle sue regioni e soprattutto dell’importanza nazionale ed europea del pensiero dei filosofi, degli economisti e dei politici meridionali, è sempre stata falsata, sia ufficialmente, sia dai singoli, e in modo tale da fare apparire tali regioni come misere, arretrate e dì peso, morale e materiale, per le altre provincie italiane, mentre invece, è vero esattamente il contrario.
Ossia è vero che con l'unione dell’Italia meridionale al resto della penisola, tale regione ha dato enormi ricchezze e ne ha ricevuto in cambio la rovina delle proprie industrie e della propria agricoltura facendo sempre la parte della Cenerentola, subendo anche la mortificazione di ricevere aiuti dai vari governi che si sono succeduti in Italia, come un parente, povero e svogliato, ne può ricevere da un parente ricco che sa far pesare il suo dono; mentre, invece, l'Italia meridionale ha pieno diritto di riavere quanto le è stato tolto sia moralmente che materialmente.
Chi scrive ha piena coscienza della gravità di quanto afferma, ma ha altrettanta piena coscienza di poter dimostrare come quanto afferma sia rispondente a verità, sicuro che, riconosciuta tale verità, si potrà con animo sereno giudicare fatti, personaggi e popolazioni in modo più vicino alla realtà, rendendo così giustizia ad un buon terzo della popolazione Italiana.
E inoltre chi scrive tiene a far sapere di non essere un meridionale, ma di appartenere ad una famiglia piemontese e di non essere quindi spinto al presente studio da sentimenti o da interessi regionalistici, ma solo dall’amore per la verità storica e per la giustizia.”[28]
Zenone di Elea
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CONTRIBUTI | CRITICHE |
[1] Cialdini, in una lettera al Cavour, scriveva: «Questa è Africa! Altro che Italia! I beduini, a riscontro di questi caproni, sono latte e miele». Cfr. (GLI ULTIMI BORBONI DI NAPOLI, Harold Acton, Martello, Milano 1962 – Voll. II pag. 51)
[2] Cfr. “LA RAZZA MALEDETTA - Origini del pregiudizio antimeridionale”, Vito Teti, Edizioni il manifesto libri, 1993
[3] Furono gli studi di C. Lombroso sulla devianza e la criminalità, a ispirare studiosi come A. Niceforo, che teorizzarono, sulla base di misurazioni antropometriche, la distinzione tra la razza ariana e la razza mediterranea e quindi l'inferiorità delle popolazioni del Mezzogiorno d'Italia rispetto a quelle settentrionali (L'ITALIA BARBARA CONTEMPORANEA, 1898; ITALIANI DEL NORD E ITALIANI DEL SUD, 1901).
[4] Non vogliamo ridurre ad una rozza e semplicistica spiegazione marxiana la genesi del pregiudizio antimeridionale (ricordiamo, a puro titolo di cronaca, che a proposito della Shoah uno storico comincia l’ha definita un “omicidio di massa a scopo di rapina”) ma è indubbio che una guerra civile che vede in campo un esercito di 120 uomini qualche problema di giustificazione lo genera. Se poi vi aggiungiamo le complesse vicende economico-finanziarie – su cui sta facendo luce Nicola Zitara ne “L’UNITÀ TRUFFALDINA” – che misero in ginocchio il paese meridionale, sostenere che le rapine ai danni dei popoli si giustificano quasi sempre denigrando il derubato non è una tesi così peregrina.
[5] Soprattutto con la complicità o l’ignavia degli appartenenti alle classi alte, colte della società meridionale, “le uniche vere categorie italiane del Mezzogiorno”, secondo la definizione datane da Nicola Zitara.
Un veemente attacco di Nicola Zitara al ruolo della intellettualità meridionale e non nella costruzione del pregiudizio antimeridionale, lo si trova nella introduzione a “LA STORIA PROIBITA”, Controcorrente, Napoli, 2000, dove egli scrive: “La patriottica campagna denigratoria dell'uomo meridionale ebbe un corposo seguito al tempo della conquista del Sud. Cominciò, Cesare Abba, seguirono Francesco De Sanctis e Pasquale Villari. Edmondo De Amicis e Renato Fucini vi aggiunsero un tocco di elegante scrittura, la testa bovina di Cesare Lombroso inquadrò il tema in termini scientifici. Poi, rinsaldatosi lo Stato unitario, la cosa passò in mano agli stessi meridionali, quelli reputati piú illustri, come voscienza Giovanni Verga e il plurimiliardario don Benedetto Croce (fotte e chiagne). Dopo la seconda guerra mondiale, avendo letto Gramsci, il Principe di Lampedusa e tutta un'orda di maestri della penna e della macchina da presa trovarono che era pagante l'intingere nel brodo dell'arretratezza sudica. La corale e patriottica condanna dei sudici e acefali meridionali s'intrecciò - non proprio per caso - con la sistematica diffamazione dell'intera dinastia dei Borbone di Napoli, con calunnie confezionate nelle logge massoniche nazionali e forestiere.”
A proposito del ruolo dell’opera della massoneria vedi anche la nota n. 24 inviataci da S. Gernone.
[6] Pasquale Villari, uno dei tanti patrioti meridionali, ha la percezione di quanto stia accadendo già sul finire dell’estate del 1861, ma non riesce a trarre delle conclusioni politiche, stretto com’è fra la scelta unitarista e il timore di portare acqua ai propri avversari, cioè ai filoborbonici: “Qui non v'è quasi impiegato che conosca le sue attribuzioni. I consiglieri di luogotenenza si lamentano di avere le mani legate, di non sapere quel che possono e quel che non possono. Il governo centrale grida che oltrapassano i loro poteri. Per ogni affare vi mandano da Erode a Pilato, e finalmente siete costretto andare a Torino, dove vi dicono che spetta al governo locale. In questo modo il governo si discredita, perché apparisce come poco serio agli occhi della moltitudine, e i suoi stessi funzionari sono sfiduciati e lo criticano. Ogni giorno incontrate, per via, gente incaricata di missioni indefinibili, incomprensibili. Ogni giorno si sente il nome di nuovi impiegati e di nuovi impieghi.”.
Le sue tre lettere pubblicate da “La Perseveranza” di Milano nel settembre 1861 sono da leggere e da meditare. Ricordiamo a chi conosce poco la storia meridionale che Pasquale Villari pubblicò nel 1875 – sul periodico "L'OPINIONE – le “LETTERE MERIDIONALI”, riunite in volume per i tipi di Le Monnier a Firenze nel 1878. Villari è l’antesignano del perfetto meridionalista: partecipa ai moti del 1848, va in esilio a Firenze, nel 1861 scrive da Napoli le prime lettere meridionali, è deputato al parlamento e poi ministro della Pubblica Istruzione nel 1892.
Le LETTERE MERIDIONALI costituiscono uno dei testi più studiati e citati da tutti gli meridionalisti, fino ai giorni nostri.
Noi invitiamo i nostri amici naviganti a confrontare i testi del 1875 con quanto egli scriveva meno di quindici anni prima. Mentre nelle prime lettere meridionali si denota una visione chiara degli avvenimenti, nelle seconde – la stagione del brigantaggio è terminata, il paese meridionale è stato domato col ferro e col fuoco, le zone industriali borboniche distrutte – si vede già il passaggio alla lamentazione meridionalistica inconcludente e mistificatoria.
Come spunto di riflessione, segnaliamo anche che Villari fu autore anche di un saggio LA FILOSOFIA POSITIVA E IL METODO STORICO (1865), considerato una sorta di manifesto del positivismo in Italia.
[7] Cfr. “MARSALA NON SARA’ L’INIZIO MA LA FINE!”, Antonio Nicoletta - http://www.eleaml.org/
[8] Questa visione astorica del mondo contadino meridionale, su cui si sono cimentate penne di illustri letterati, sociologi e antropologi, la ritroviamo in un libro tradotto in tutto il mondo che a noi non è mai piaciuto: “CRISTO SI È FERMATO A EBOLI” di Carlo Levi.
[9] “La sola miseria non sortirebbe forse effetti cotanto perniciosi se non fosse congiunta ad altri mali che la infausta signoria dei Borboni creò ed ha lasciato nelle province napolitane. Questi mali sono l'ignoranza, gelosamente conservata ed ampliata, la superstizione diffusa ed accreditata, e segnatamente la mancanza assoluta di fede nelle leggi e nella giustizia. Gli uomini che a migliaia nel periodo di soli sessant'anni il governo borbonico ha scannato sui patiboli o fatti dolorare negli ergastoli, nelle galere, negli esigli, non furono le vittime più infelici; la scure del carnefice, il capestro non furono i maggiori nè i più crudeli tormenti di supplizio usati dai Borboni, i quali a tutta possa si adoperarono a commettere il più nefando dei parricidi, quello di togliere ad un intiero popolo la coscienza del giusto e dell'onesto. Ferdinando II segnatamente arrecò nella proterva impresa una operosità ed un ingegno veramente infernali. Del tribunale della giustizia umana come di quello della giustizia divina aveva fatto il sacrario della denuncia e della menzogna; aveva confusa l'onorata assisa del soldato con quella del delatore e dello scherano; glorificava ed onorava il delitto, puniva come infamia la virtù e l'eroismo; famelico di dominio assoluto, poco gli premeva di regnare su di un deserto, purchè regnasse; poco gli premeva che puntelli del suo trono fossero l'iniquità, la frode, la venalità, purchè vi sedesse sopra; il suo regno lungo e funesto fu un brigantaggio permanente contro il più sacro diritto di proprietà, quello della onestà, contro la più preziosa prerogativa della vita delle nazioni, la morale.” (INTRODUZIONE – Commissione Massari, 1863)
[10] “Per vincere la dura resistenza dei briganti, il parlamento italiano votò una legge estremamente anticostituzionale, la Pica (dal nome del deputato abruzzese che la propose), che prevedeva la competenza dei tribunali militari sui reati di brigantaggio, nonché il domicilio coatto, gli arresti senza mandato e la fucilazione per vari tipi di reati, anche non gravissimi. Furono condannate madri colpevoli di avere portato un po' di cibo ai figli latitanti nelle campagne; furono fucilati ragazzi, donne, vecchi, preti e frati, oltre agli stessi briganti. L'operato dei tribunali militari fece inorridire anche molti unitari e piemontesi. Tutto in nome della libertà, perché fosse sradicato il ricordo del Borbone liberticida.” (Cfr. “REGNO DELLE DUE SICILIE - ULTIMO ANNO - anno 1860” http://www.cronologia.it/)
[11] “Il domicilio coatto, istituito come strumento transitorio contro il brigantaggio dopo l'unificazione d'Italia, fu utilizzato in seguito come strumento di repressione del dissenso politico. Anarchici e socialisti durante il Governo Crispi, furono i più colpiti. Sul finire del secolo, contro tale istituto, fu condotta una consistente campagna stampa agitando il problema nel Paese e nel Parlamemnto. Nel periodo giolittiano il domicilio forzato per motivi politici fu abolito ma rimase per reati comuni. A differenza degli altri periodi, durante il ventennio, con Mussolini, diventa strumento permanente di Governo. Il fascismo, infatti, nel novembre del 1926, per annientare l'ultimo residuo dello stato di diritto e completare il passaggio al regime dittatoriale, istituì il confino di polizia. Esso non funzionò soltanto come strumento per reprimere l'antifascismo, ma servì anche per soffocare ogni esile espressione di dissenso o di collera popolare contro le miserevoli condizioni di vita.” (Cfr. “LE ALI DELLA MEMORIA” di Pietro Mascaro, scaricabile da http://digilander.libero.it/orac - pag. 13).
[12] Legge Pica (15 agosto 1863/1409) - Art. 5. Il Governo avrà inoltre facoltà di assegnare per un tempo non maggiore di un anno un domicilio coatto agli oziosi, ai vagabondi, alle persone sospette, secondo la designazione del Codice penale, non che ai camorristi, e sospetti manutengoli, dietro parere di Giunta composta del Prefetto, del Presidente del Tribunale, del Procuratore del Re e di due Consiglieri provinciali. (Cfr. “IL SERGENTE ROMANO: ANOMALIA DI UN BRIGANTE. RACCOLTA DI SCRITTI” di Michele Albrizio – http://www.giuristi.thebrain.net/ )
[13] “Nato per esigenze del tutto eccezionali, l'istituto troverà con il provvedimento in materia di P.S. del 1865 cittadinanza fra le misure ordinarie di polizia, ponendosi come agile meccanismo di controllo sociale nei confronti delle classiche categorie di soggetti esposte al controllo poliziesco. D'altra parte, però, scompaiono l'obbligo del libretto operaio (reso adesso facoltativo, anche se non scompare l'obbligo della "consegna di dipendenti") e l'obbligo, per l'Autorità di P.S., di adoperarsi per tentare una conciliazione nelle controversie di lavoro.
Se nel 1865 lo strumentario di polizia si arricchisce di un nuovo istituto, nel 1871 viene ulteriormente allargata la categoria dei soggetti cui tali provvedimenti si rivolgono, viene infatti modificato l'art. 105 della legge del 1865, che nella sua nuova formulazione reciterà: "saranno a cura dell'autorità di Pubblica sicurezza denunciati gli individui sospetti come grassatori, ladri, truffatori, borsaioli, ricettatori, manutengoli, camorristi, maffiosi, contrabbandieri, accoltellatori e tutti gli altri diffamati per crimini o per delitti contro le persone e la proprietà". Cfr SOCIETÀ DISCIPLINARE E «CLASSI PERICOLOSE» NELL'ITALIA DEL XIX SECOLO - L'altro diritto - Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità - http://dex1.tsd.unifi.it/altrodir/index.htm
[14] “Il soggiorno obbligato è stato un potente fattore di inquinamento e di trasmissione del fenomeno mafioso. Una notevole quantità di pericolosi mafiosi hanno avuto la residenza - almeno per un certo periodo - nelle varie regioni del nord. Non pochi di loro, fra l’altro, non hanno più fatto rientro nella loro regione d’origine e successivamente, per libera scelta, si sono definitivamente fermati con le loro famiglie in quei luoghi dove erano stati obbligati a soggiornare. Molti soggiornanti obbligati hanno così importato le mafie al Nord costituendo vere e proprie énclaves mafiose. Il soggiorno obbligato è figlio del domicilio coatto che fu introdotto nella legislazione italiana con la legge Pica che doveva servire a reprimere il brigantaggio esploso all’indomani dell’unità d’Italia.
Estirpato il brigantaggio, il domicilio coatto fu conservato come misura di polizia in successive leggi che estendevano sempre di più i poteri del governo in questo campo. Quella filosofia di misura di polizia è sopravvissuta fino a tempi a noi vicinissimi. Eppure furono numerose, e costanti nel tempo, le polemiche. La denuncia risuonò anche nelle aule parlamentari.
Inoltre, seguendo il flusso migratorio dal sud al nord dei lavoratori meridionali, non pochi mafiosi si sono inseriti in questa migrazione e si sono stabiliti con le loro famiglie. Una minoranza; anzi: un’esigua minoranza nell’immenso, sterminato esercito di emigrati che con loro avevano in comune soltanto la terra di origine.” (Cfr. “LA MALAVITA CALABRESE TORNA A COLPIRE” di Enzo Ciconte, http://www.antimafiaduemila.com/)
[15] “Con il sistema generalizzato degli arresti in massa e delle esecuzioni sommarie, con la distruzione di casolari e di masserie, con il divieto di portare viveri e bestiame fuori dai paesi, con la persecuzione indiscriminata dei civili, si vuole colpire "nel mucchio", per disgregare con il terrore una resistenza che riannodava continuamente le fila. Viene introdotto per la prima volta nel diritto pubblico italiano l'istituto del domicilio coatto, che risulta particolarmente odioso per la sua arbitrarietà. La moltiplicazione dei premi e delle taglie crea un'"industria" della delazione, che è un'ulteriore macchia indelebile nella repressione e ispira amare riflessioni sulla proclamata volontà moralizzatrice dei governi unitari nei confronti delle popolazioni meridionali. Attenzione particolare è dedicata alla guerra psicologica, condotta su larga scala mediante bandi, proclami e soprattutto servizi giornalistici e fotografici, che costituiscono i primi esempi di una moderna "informazione deformante". (Cfr. “IL BRIGANTAGGIO (1860-1870) DI FRANCESCO PAPPALARDO” - http://www.kattoliko.it/)
[16] “Nel 1862, insieme al Clero e ad altri soci, si oppose alla “proposta Municipale” di riforma dell’amministrazione dei Pii Luoghi esistenti in San Pietro Infine, fatta dal Sindaco Ercole Raimondi. Questa sua opposizione non gli fu mai perdonata dal Raimondi che, memore delle traversie subite in epoca pre-unitaria a causa di altri compaesani, senza mezzi termini lo denunciò e lo fece arrestare con l’accusa di collusione con il brigantaggio. In quel tempo imperava una legge militare repressiva, la cosiddetta “legge Pica” che, come già detto, dava molto potere alle Autorità locali. Ma l’innocenza del notaio Decina venne ben presto provata pienamente.” (Cfr. “IL SINDACO ANTONIO DECINA” di Maurizio Zambardi - “L’Inchiesta – La Cantina” Anno VI n°15 dell’ 11 aprile 1999 e Anno VI n°16 del 18 aprile 1999 - http://www.sanpietroinfine.com/ )
[17] Anche se bisogna riconoscere, al poeta Di Ciaula, in un suo volumetto del 2000, ARCHITA DI TARANTO – Ti.p. Gandolfo, Bari, di aver mostrato che anche l’epoca della Magna Grecia viene saccheggiata per sottrazione, nel senso che si evita di dilungarsi troppo – a volte le si ignora del tutto – sulle straordinarie personalità che vissero in quella felice epoca nel Meridione d’Italia. L’amico Nino Gernone ci ha ricordato anche del bel libro di Lucio Russo, LA RIVOLUZIONE DIMENTICATA, Feltrinelli 2001, nel quale vi sono cenni interessanti su scoperte scientifiche e matematiche: quanti per esempio, a proposito della costruzione dei due medi proporzionali , hanno mai visto citato Archita di Taranto? (Cfr. pag .71 dell’opera di Russo)
[18] A proposito del Lombroso, leggiamo alcune righe tratte da “CESARE LOMBROSO - UN CRIMINALE MEDICO AL SERVIZIO DELL'ESERCITO PIEMONTESE” di Alessandro Romano, uno scritto inoltrato nella Rete di Informazione Due Sicilie: “Nel 1859 si arruola nel Corpo Sanitario Militare piemontese per essere inviato, nel 1861, in Calabria quale "consulente" medico nella campagna di repressione del brigantaggio. Qui il Lombroso, grazie all'abbondante "parco umano" a disposizione, comincia un approfondito ed incontrollato "studio" criminologico sulle popolazioni calabresi ostili all'invasione piemontese, arrivando addirittura a ricercare un improbabile rapporto delinquenziale tra linguaggio, folklore, indumenti e caratteristiche fisiche. “
A quanto scrive Romano possiamo aggiungere che negli ultimi anni il Lombroso è stato ritirato fuori dai cimeli del passato per sostenere la visione di una Calabria come unico corpo mafioso!
[19] Quella che noi chiamiamo “lamentazione meridionalistica” – di cui probabilmente anche noi siamo in parte ancora affetti – dal 1860 ad oggi ha riempito migliaia di pagine di libri, riviste, quotidiani, resoconti parlamentari. Appena ieri, 24 aprile 2005, ne leggevamo un esempio a pagina 2 dell’inserto domenicale del quotidiano “Il sole 24 ore”. Al lettore meridionale che lamenta “l'impropria dicotomia di un Paese dai valori spezzati dove a un Nord liberatore fa da contrappasso un Sud smemorato e neghittoso, raccontato come una zattera mediterranea atavicamente sospesa tra la "marcia su Roma" e lo swing al cioccolato delle truppe anglo-americanegiornali” il chiamato in causa reagisce con un “non si offenda se le dico che dal tono della sua lettera traspare il vittimismo tipico di una certa cultura meridionalista, che per quanto ammantata di nobili motivazioni ha fatto del piagnisteo e della recriminazione sistematica contro i nordisti usurpatori la propria cifra distintiva”.
[20] Tesi ridicola: il triangolo industriale ha costituito una delle aree a più alta concentrazione industriale di tutta l’Europa.
[21] Quello della secessione di un’area forte rispetto ad un’area \debole è uno di quei strani paradossi di cui è piena la storia umana. Il Sud avrebbe delle ragioni storiche per invocarla – visto che l’unificazione è stata deleteria per l’ex Regno delle Due Sicilie – invece a predicarla sono quelli che non ne hanno alcuna giustificazione storica!
Nel 1994 Gianfranco Miglio fece pubblicare il libro di Allen Buchanan sulla secessione, ma i padani che lo citano a destra e a manca si guardano bene dall’esporre in modo corretto il pensiero del filosofo, il quale riconosceva il diritto alla parte ricca di un paese di secedere per conservarsi il suo liovello di vita, ma precisava: “I fatti sono molto meno chiari quando i ricchi non possono giustificare la secessione perché non hanno subito ingiustizie e non sono stati vittime di ridistribuzione discriminatoria. Consideriamo il caso in cui la premessa della secessione è che il gruppo che vuole secedere desidera preservare la sua particolare identità culturale nella forma originale, o semplicemente godere di una prosperità non condivisa e liberarsi dal dovere di contribuire al benessere di una popolazione più indigente nel resto del paese. Come essi siano diventati il gruppo più ricco è di grande rilevanza.
Se la loro maggiore prosperità è il risultato di una preferenza ingiusta del governo – se, per esempio, piuttosto che vittime sono stati i beneficiari di una distribuzione discriminatoria, allora la secessione può essere ingiusta, a meno che essi non paghino una compensazione appropriata al gruppo meno abbiente.” Cfr. “SECESSIONE: quando e perché un paese ha il diritto di dividersi” di Allen Buchanan, Mondadori, 1994 – pag. 195
[22] Giordano Bruno Guerri, ex direttore di Storia Illustrata, durante una trasmissione su RaiUno condotta da Giletti, un paio di anni fa, stimò in almeno 100mila i morti durante il brigantaggio postunitario. La sua affermazione avrebbe dovuto far discutere, fu completamente ignorata, anche dal pubblico presente: sembrava avesse parlato di un altro paese del mondo!
[23] Alcuni documenti sul brigantaggio, scoperti e riordinati da Molfese (direttore dell’archivio della Camera dei deputati a autore de “STORIA DEL BRIGANTAGGIO DOPO L'UNITÀ”, Franco Molfese, Feltrinelli, 1966) sono a disposizione di tutti gli utenti della rete sul sito della Camera: http://www.camera.it
[24] Potrebbe essere un problema di composizione dell’aria? Magari è colpa dell’aria che si respira al Sud. Fuori dal Meridione, eccellono in tutti i campi, delle professioni, della finanza e dell’imprenditoria, purtroppo anche in quella criminale non lo nascondiamo.
[25] Sull’opera della Massoneria nella costruzione della coscienza nazionale, l’amico e collaboratore S. Gernone ci ha inviato la nota seguente: Il gran maestro Adriano Lemmi indicò il: "...concetto giacobino della precedenza della politica e della sua capacità di modellare dall'alto i costumi dei popoli". Nella circolare del 3 marzo 1890 scrisse che la massoneria: "...non serve né s'impone ai governi; essa deve avere, ed ha, la potenza di creare e dirigere la opinione politica". Cfr. "Storia della massoneria italiana. Dal Risorgimento al fascismo", Fulvio Conti, cap. IV in "Creare e dirigere l'opinione pubblica", Ediz. "Il Mulino" Bologna, pag. 130.
[26] Parole di fuoco contro le avventure coloniali furono pronunciate da Felice Cavallotti, garibaldino, giornalista, poeta e drammaturgo, che nelle sue battaglie in parlamento parlò di "spedizioni dissennate, sterili come le sabbie che vanno a conquistare" e si augurò che esse si concludessero presto, affinché "possiamo liberarci dell'incubo di quest'Africa maledetta e dei predoni suoi, per pensare all'altra Africa che abbiamo qui in casa ed ai predoni che vivono fra noi.". Per chi non avesse capito, quando con l’espressione “Africa che abbiamo qui in casa” si riferiva alla questione meridionale.
A proposito della sinistra storica, potremmo parlare anche del diverso atteggiamento del governo italiano verso i Fasci Siciliani e verso le prime forme di cooperative nel norditalia, ma questo scritto non finirebbe più. Ricordiamo solo che il siciliano e patriota Crispi, presidente del consiglio, il 3 gennaio 1894 decretò lo stato d'assedio, sciogliendo le organizzazioni dei lavoratori, arrestandone i capi e restaurando l'ordine con le armi.
[27] Cfr. “LE ITALICHE GLORIE? - INVENTATE DA CRISPI PER SFRATTARE I SANTI” di Gianfranco Morra, "Libero" - sabato 28 febbraio 2004
[28] Cfr. II RISORGIMENTO VISTO DALL’ALTRA SPONDA - VERITÀ E GIUSTIZIA PER L'ITALIA MERIDIONALE di Cesare Bertoletti, Arturo Berisio editore, 1967, Napoli.