RASSEGNA STAMPA |
La teoria razziale dell'inferiorità del mezzogiorno
Il razzismo è una evidentissima defezione da ogni criterio di materialismo storico! Il razzista oggi sostituisce alla parola razza la parola cultura
"Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di briganti".
Ordine Nuovo" 1920
Antonio Gramsci Il Risorgimento
Editore Riuniti 1979 pag.98/99
Un altro elemento per saggiare la portata reale della politica unitaria ossessionata di Crispi è il complesso di sentimenti creatosi nel Settentrione per riguardo al Mezzogiorno. La «miseria» del Mezzogiorno era «inspiegabile» storicamente per le masse popolari del Nord; esse non capivano che l’unità non era avvenuta su una base di uguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Mezzogiorno nel rapporto territoriale di città-campagna, cioè che il Nord concretamente era una «piovra» che si arricchiva alle spese del Sud e che il suo incremento economico-industriale era in rapporto diretto con l’impoverimento dell’economia e dell’agricoltura meridionale. Il popolano dell’Alta Italia pensava invece che, se il Mezzogiorno non progrediva dopo essere stato liberato dalle pastoie che allo sviluppo moderno opponeva il regime borbonico, ciò significava che le cause della miseria non erano esterne, da ricercarsi nelle condizioni economico-politiche obiettive, ma interne, innate nella popolazione meridionale, tanto piú che era radicata la persuasione della grande ricchezza naturale del terreno: non rimaneva che una spiegazione, l’incapacità organica degli uomini, la loro barbarie, la loro inferiorità biologica. Queste opinioni già diffuse (il lazzaronismo napoletano era una leggenda di vecchia data) furono consolidate e addirittura teorizzate dai sociologhi del positivismo (Niceforo, Sergi, Ferri, Orano, ecc.), assumendo la forza di «verità scientifica» in un tempo di superstizione della scienza. Si ebbe cosí una polemica Nord-Sud sulle razze e sulla superiorità e inferiorità del Nord e del Sud (confrontare i libri di N. Colajanni in difesa del Mezzogiorno da questo punto di vista, e la collezione della «Rivista popolare»). Intanto rimase nel Nord la credenza che il Mezzogiorno fosse una «palla di piombo» per l’Italia, la persuasione che piú grandi progressi la civiltà industriale moderna dell’Alta Italia avrebbe fatto senza questa «palla di piombo», ecc. Nei principii del secolo si inizia una forte reazione meridionale anche su questo terreno.
SALVEMINI[ ... ] Ogni giorno che passa diventa sempre più vivo in me il dubbio, se non sia il caso di solennizzare il cinquantennio [dell'Unità] lanciando nel Mezzogiorno la formula della separazione politica. A che scopo continuare con questa unità in cui siamo destinati a funzionare da colonia d'America per le industrie del Nord, e a fornire collegi elettorali ai Chiaraviglio del Nord; e in cui non possiamo attenderci nessun aiuto serio né dai partiti conservatori, né dalla democrazia del Nord, nel nostro penoso lavoro di resurrezione, anzi tutti lavorano a deprimerci più e a render più difficile il nostro lavoro? Perché non facciamo due stati distinti? Una buona barriera doganale al Tronto e al Carigliano. Voi si consumate le vostre cotonate sul luogo. Noi vendiamo i nostri prodotti agricoli agli inglesi, e comperiamo i loro prodotti industriali a metà prezzo. In cinquant'anni, abbandonati a noi, diventiamo un altro popolo. E se non siamo capaci di governarci da noi, ci daremo in colonia agli inglesi, i quali è sperabile ci amministrino almeno come amministrano l'Egitto, e certo ci tratteranno meglio che non ci abbiano trattato nei cinquant'anni passati i partiti conservatori, che non si dispongano a trattarci nei prossimi cinquant'anni i cosiddetti democratici». Cfr. Lettera di G. Salvemini ad A. Schiavi, Pisa 16 marzo 1911, in C. Salvemini, Carteggi, I. 1895-1911, cit., pp. 478-81. Lucchese, Salvatore, Federalismo, socialismo e questione meridionale in Gaetano Salvemini. Manduria-Bari-Roma, Piero Lacaita, 2
Note
di G.Ficarra e relativi dibattiti su facebook
sulla presunta cultura mafiosa del popolo siciliano.
1- Due tesi a confronto con dibattito nota pubblicata da Giuseppina Ficarra su facebook il giorno domenica 24 ottobre 2010
2- Uno scambio di idee con Salvatore Vaiana sulla cultura del popolo siciliano di Giuseppina Ficarra
4- Globalmafia stimola il dibattito Ulteriore commento alla nota Due tesi a confronto di Giuseppina Ficarra su facebook
Riflessioni su un interessante articolo di Peppino Di Lello Perché la mafia non è stata sconfitta apparso sul Il Manifesto il 24.02.2012 in una nota
pubblicata da Giuseppina Ficarra il giorno sabato 25 febbraio 2012 su facebookPalizzolo Cuffaro e il Comitato Pro-Sicilia di Giuseppina Ficarra
Parliamo di sicilianismo
Giuseppina Ficarra
http://www.ilpuntodue.it/?q=node/282
Una risposta che è un attacco stupido e falso a
Pietro
anche qui
Parliamo di familismo amorale
Giuseppina Ficarra
una
risposta di stampo culturalista alias "razzista"
anche in http://perlasicilia.blogspot.it/2011/05/luigi-ficarra-dialogo-fra-un-leghista.html
Delitto Notarbartolo alla luce de "Il ritorno del Principe" di Giuseppina Ficarra
Cultura del popolo siciliano Riflessioni di Giuseppina Ficarra
Io insegnante meridionale nel profondo Nord di Giuseppina Ficarra
Ancora io insegnante meridionale "Contro la Lega, sciopero politico della scuola" di Giuseppina Ficarra
vedi anche nella scheda sulla Libia: Gheddafi: ci rendiamo conto che non esiste un Parlamento in Italia... Solo l'amico popolo italiano vuole la pace. nota di Giuseppina Ficarra
Elezioni
2001 in Sicilia e il famoso 61 a 0!
Una conversazione su Facebook tra Giuseppe Carlo Marino, me ed altri (La deroga alla legge morale che ogni uomo ha dentro di se è un fatto individuale e non potrà mai essere antropologicamente riferito a "larga parte" di un popolo.)
(il giudizio non può essere una imprecazione moralistica che colpisce indistintamente tutti in quanto appartenenti ad un territorio o ad un ceto!)
La figura dell’antitaliano, cioè l’italiano che parla male dell’Italia e dei suoi abitanti. Randolino
Unità e separatismo di Fara di Misuraca e Alfonso Grasso
Prove tecniche di protettorato di Fara Misuraca e Alfonso Grasso
Marx: La Sicilia e i Siciliani
Questione meridionale
LA QUESTIONE MERIDIONALE E IL FEDERALISMO di Gaetano Salvemini
"Gli
oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili.
Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò non rifarei oggi la
via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate,
essendosi colà cagionato sol...o squallore e suscitato solo odio. (da
una lettera di Garibaldi ad Adelaide Cairoli del 1868)
L'INSABBIAMENTO CULTURALE DELLA "QUESTIONE MERIDIONALE"
TRATTAMENTO FATTO ALLA SICILIA IN OTTANTA ANNI DI UNITÀ ITALIANA
di Antonio Canepa
Un approccio nuovo dell'antimeridionalismo é quello che possiamo trovare nel primo capitolo di Terroni di Pino Aprile "Diventare meridionali"
Dibattito sul meridionalismo su facebook che parte da un articolo di Casarrubea
Il Brigantino Il portale del Sud Il sito del pensiero Meridiano ivi "Renitenti"
GIUSEPPE CARLO MARINO BRIGANTAGGIO MERIDIONALE E “GUERRA DI CLASSE” DOPO L’UNITA’ (1861-1870)
Prove tecniche di protettorato di Fara Misuraca
GLI AVVENIMENTI di SICILIA E LE LORO CAUSE CON PREFAZIONE DI MARIO RAPISARDI
Fabrizio Randolino La figura dell’antitaliano, cioè l’italiano che parla male dell’Italia e dei suoi abitanti è una figura che preesiste all’Unità, percorre molti intellettuali risorgimentali, e diventa infine, da Gobetti, Gramsci, Berlinguer.. l’architrave dell’autorappresentazione ideale della sinistra. Leggi tutto
Una versione aggiornata e più sofisticata di certe teorie razzistiche è presente nella letteratura.
La tesi della scuola antropologica positivistica che attribuiva il basso livello della vita nel mezzogiorno all’inferiorità della “razza” mediterranea fu condannata giustamente da Salvemini e Gramsci. Luigi Einaudi, riecheggiando il giudizio di Colajanni, ha rilevato:
<<Soltanto una pseudo-sociologia ciarlatanesca può dilettarsi a distinguere due razze in Italia, una votata al progresso e l’altra alla barbarie>>. (Parafrasando possiamo dire che soltanto una pseudo-sociologia può dilettarsi a distinguere due “culture” in Italia, due culture o peggio ancora due civiltà in Sicilia). Le teorie della scuola antropologica positivistica, ancorché superate hanno lasciato traccia nella coscienza collettiva, favorendo pregiudizi razzistici ieri come oggi. Non dimentichiamo che una versione aggiornata e più sofisticata di certe teorie razzistiche è presente nella letteratura. Mi riferisco, ad esempio, al desiderio di sonno, di oblio, di immobilità voluttuosa e di morte dei Siciliani di cui scrive Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel romanzo Il Gattopardo. Il protagonista del romanzo spiega al piemontese Chevalley di Monterzuolo cosa vogliono i Siciliani: <<Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare. […… ]. Da ciò proviene il prepotere da noi di certe persone, di coloro che sono semidesti; da questo il famoso ritardo di un secolo delle manifestazioni artistiche ed intellettuali siciliane..>>
Razzismo e lotta agli stereotipi
Carlo Marino su facebook mi dice: <<Hai ragione a respingere generici giudizi sulla mafiosità del popolo siciliano.>>vedi
La razza maledetta Origini del pregiudizio antimeridionale
Il
razzismo in italia Wikipedia
Fara Misuraca
Mi
riesce difficile accettare la mafia come fenomeno socio-psicologico.
Sono stanca di queste analisi che inchiodano i siciliani ad un
modello "umano" differente e delinquente. La mafia nasce per
esercitare un potere baronale , quello del mero e misto imperio,
nelle figure dei campieri e gabelloti che vessavano e sfruttavano,
per conto del "barone" e con personale tornaconto, il popolo
suddito. Continua la sua opera quando si istaura la dominazione
sabauda, mediando tra il popolo rimasto servo e il nuovo Stato. Che
la endemica mancanza di lavoro e l'ignoranza abbiano favorito il
reclutamento di manovalanza armata non significa che il fenomeno è
socio-psicologico ma semplicemente sociale, mancando un reale aiuto
alla popolazione e una reale difesa dalla delinquenza da parte delle
istituzioni.
http://www.facebook.com/note.php?note_id=455045559604&comments=
Umberto Santino
Origine di uno
stereotipo:
(vedere la precisazione/correzione fatta da Umberto Santino sull'espressione buona parte della popolazione e altro)
- Movimenti sociali e movimento antimafia http://www.centroimpastato.it/publ/online/movimenti_sociali.php3
l'Introduzione della storia del movimento antimafia di umberto santinoPerchè anonimo siciliano di Angelo Ficarra
Angelo Ficarra La strage di Canicattì del 21 dicembre 1947 Una bellissima pagina di una "straordinaria battaglia di civiltà che in tutta la Sicilia si combatteva per più umane condizioni di lavoro nelle campagne".
VENIVA DALLA IGNARA PETRALIA SOPRANA ED ERA UN FALSO IL DOCUMENTO PROVA DELL’INSURREZIONE CHE PIÙ DI CENTO ANNI FA CRISPI PORTÒ IN PARLAMENTO A GIUSTIFICAZIONE DELLO STATO DI ASSEDIO PROCLAMATO IN SICILIA Angelo Ficarra qui
Margherita Hack
Cenni di storia dell’astronomia di Sicilia Prefazione
.
e
Giuseppina Ficarra
E' sempre il meridionale l’invasore più odiato
Questa volta il nemico è l’insegnante meridionale (e la scuola al Sud è un miracolo) Gennaro Carotenuto
Io insegnante meridionale nel profondo Nord di Giuseppina Ficarra
Ancora io insegnante meridionale "Contro la Lega, sciopero politico della scuola" di Giuseppina Ficarra
Federalismo etnico di Pietro Ancona
Sicilia "culla della mafia" di Pietro Ancona
I nati al Nord sono più bravi (anche se non lo sono) di Pietro Ancona
Test Invalsi, i più bravi al Sud ma i dati sono stati "aggiustati" La Repubblica 11.09.2009
Palermo sarebbe perfetta senza i palermitani di Vincenzo Cacioppo
vedi pure CULTURA MAFIOSA E MAFIA
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Una delle questioni principali riguarda il modo in cui gli esseri umani sono considerati. Devono essere classificati secondo le tradizioni (in particolare la religione) della comunità in cui sono nati, e questa identità non scelta deve avere la priorità rispetto ad altre affiliazioni riguardanti la politica, la professione, la classe, il genere, la lingua, la letteratura, l’impegno sociale e molte altre? O le persone devono essere considerate sulla base delle loro varie affiliazioni e associazioni, secondo priorità che spetta a loro decidere (assumendosi la responsabilità di una scelta ragionata)? Il premio Nobel Amartya Sen
Attribuire alla “cultura di un popolo” comportamenti negativi, questo è razzismo! Il razzista oggi ha sostituito la parola "razza" con la parola "cultura". Non esistono caratteristiche generali che tipicizzano in negativo una popolazione. Non tutti siamo Brighella, Arlecchino o Pulcinella.
Il paradosso dei paradossi è che hanno inculcato al Popolo Siciliano il pregiudizio razziale su se stesso.
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Augusto Cavadi La cultura siciliana: indicazioni per una diagnosi
Giuseppe Carlo Marino, si serve anche del <<concetto di egemonia di Gramsci, per dar ragione della presenza della cultura mafiosa in parte del popolo siciliano.>>
Ma mai una parola della cultura “socialista”, “civica” di parte del popolo siciliano riferendosi ai Fasci, poi alle lotte contadine del dopoguerra di cui lo stesso Carlo Marino si occupa (La Sicilia della stragi), alla vittoria del “Fronte popolare” in Sicilia nel 1947. "Si ignora che [....] allo scontro con la mafia si sono mossi in Sicilia movimenti di massa tra i più grandi d'Europa [U. Santino 2000a]"
Si potrebbe dire che questa cultura “socialista” “civica” fu stroncata nel sangue, ma soprattutto viene meno per la “ferita” della grande migrazione dei contadini siciliani, circa un milione di persone in due distinti periodi, un quarto della popolazione siciliana!!
Invece niente! Cultura mafiosa dall’800 ad oggi!!! Dimenticando anche il “quasi” plebiscito alle primarie per Rita Borsellino
Salvatore Lo Leggio sul pregiudizio
razzistico antimeridionale:
http://salvatoreloleggio.blogspot.it/2012/04/pane-e-pomodoro-il-razzismo-della.html
Frasi storiche:
- "Siamo costretti ad accordare ai siciliani la qualifica di italiani"(Cilindro Montanelli detto Indro)
- Per combattere e
distruggere la mafia, è necessario che il Governo Italiano cessi di
essere il re della mafia."
(on. Napoleone Colajanni);
-Nel
1871, il presidente Lanza a Rattazzi: “Je ne vous demande qu’un faveur:
Muselez (mettete la museruola) le méridionaux. Le danger pour l’Italie
est dans le Sud”;
Sciocco complimento « Ma lei non sembra siciliano! »
vedi anche:
ALLE RADICI DEL PREGIUDIZIO di Zenone di Elea,
G. Lo Monaco --
Indiani d'America e briganti meridionali di Lucio Garofalo,
Augusto Cavadi La cultura siciliana -
Carlo Coppola L'insabbiamento culturale della questione meridionale -
La storia come non è mai stata insegnata dal tiranno di turno
http://sergiobontempelli.wordpress.com/2008/05/27/ma-gli-italiani-sono-bianchi/
vedi anche di Fr. Renda una pagina molto significativa che illustra lo scontro Nord - Sud
vedi Note all'articolo di Francesco Merlo e A proposito del _consenso sociale alle organizzazioni criminali organizzate di Giuseppina Ficarra
vedi anche QUANDO IL PREGIUDIZIO DIVENTA RAZZISMO
I Primati dei regni di Napoli e delle due Sicilie
Richiesta di sequestro dei gioielli di casa Savoia e di quant'altro depositati nei forzieri della Banca d'Italia (ruberie a danno del regno delle due Sicilie)
RISORGIMENTO INSANGUINATO di Antonella Randazzo
Alfredo Niceforo (presidente della Società Italiana di Antropologia e della Società Italiana di Criminologia, scriveva: "La razza maledetta, che popola tutta la Sardegna, la Sicilia e il mezzogiorno d'Italia dovrebbe essere trattata ugualmente col ferro e col fuoco - dannata alla morte come le razze inferiori dell'Africa, dell'Australia, ecc."
Teniamo presente che la pericolosità e la forza delle teorie razziali può essere quella di determinare per difesa e reazione, risposte e sentimenti razzisti.
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I termini politici e culturali della questione meridionale restano, generalmente, sullo sfondo dei saggi qui presentati e delle note che li precedono. Per essi si rinvia a numerosi lavori, scritti, riflessioni storiche, indicati nel saggio che apre questo volume e nelle note di commento ai brani. Mi è sembrato, inoltre, che l’aspra polemica sulle "due italie" e sulle cause che hanno determinato l’inferiorità del Sud e la superiorità del Nord, attribuite di volta in volta a fattori come la razza, la storia, la geografia, l’ambiente, o a un combinarsi di fattori antropologici e storico-sociali, possa avere un significato attuale anche al di là del periodo storico e del clima politico-culturale in cui ha avuto origine. Il dibattito, attraversato da una forte tensione politica, sui rapporti razza-società, razza-cultura, razza-storia e su quelli storia-società, geografia-cultura, ecc. non può essere comunque separato dalle più generali problematiche filosofiche, scientifiche e ideologiche, portate avanti dalla scuola antropologica positiva.
S’intende, altresì, che il dibattito sull’inferiorità razziale del Mezzogiorno e sulla decadenza della "razza" latina, mediterranea, meridionale non può essere compreso nemmeno a prescinder dalle teorie e dalle ricerche antropologiche sulle razze, sulla loro origine, diffusione, classificazione, che in quel periodo si svolsero in Italia, in Europa e negli Stati Uniti, o prescindendo dalle acquisizioni della "dorrtina positiva" e soprattutto dalle riflessioni e dalle ricerche dell’antropologia criminale sui "delinquenti nati", che videro impegnati numerosi studiosi in un periodo storico in cui la società italiana era attraversata da gravi "disordini" e la borghesia nazionale aveva bisogno di controllare ed esorcizzare tutte le forme di opposizioni, riconducendole alla "questione criminale". Nelle note di introduzione ai singoli brani ho tentato di segnalare, di volta in volta, i nessi e i legami con le problematiche più vaste e generali. Nella scelta antologica dei brani mi sono soffermato soprattutto sulla "costruzione della psicologia" dei meridionali e dei settentrionali, che in quel periodo prendeva forma nelle posizioni provocatorie dei positivisti e nelle posizioni di reazione e opposizone a queste dottrine. Le contrapposte psicologie delle "due italie", ricondotte, di volta in volta, alla razza, alla storia, al clima, all’economia, ai rapporti sociali, ecc. (e spesso a più fattori contemporaneamente) nascono spesso dalla rielaborazione di una serie di immagini stereotipe e di forme di autorappresentazione, storicamente determinate e consolidate, delle popolazioni delle diverse regioni d’Italia.
L’invenzione delle "due psicologie", che
sovente assumeva contorni polemico-oppositivi nei confronti
della mancata unificazione nazionale e conduceva a concezione
federalistiche, avrebbe influenzato e condizionato negli anni
successivi la mentalità e la cultura dei ceti intellettuali e
dominanti e dei ceti popolari del Nord e del Sud. Non è
difficile vedere come quei discorsi "scientifici" sulle razze e
sulle psicologie, suggeriti dai positivisti, stiano all’origine
di pregiudizi, luoghi comuni, divisioni che non tendono a
scomparire, ma che anzi, in un contesto profondamente mutato,
vengono riproposti in termini nuovi, diversi nella forma, ma non
nella sostanza. In quegli anni il dibattito sulla razza e sull’inferiorità
del Mezzogiorno venne condotta in un’infinità di saggi, libri,
articoli, interventi, a riprova di come esso non rispondesse a
una moda, ma a esigenze conoscitive, cariche di un’urgenza
politica, sociale, culturale. Ogni riflessione, anche la più
banale, non veniva mai separata da proposte concrete, da
indicazioni sul "che fare?". L’urgenza e la passione politica
spiegano anche il carattere aspre, teso, ironico della polemica. Soluzioni radicali, "avanzate", connesse con il nascente
movimento socialista, sono presenti anche nelle posizioni dei
teorici della razza (Sergi, Lombroso, Niceforo), che oscillano
tra un pessimismo coerente con la loro idea della "razza
maledetta" e un dichiarato bisogno di vedere trasformate e
migliorate le condizioni di quella parte d’Italia, da cui essi
spesso provengono. L’idea di progresso e di civiltà che animava
i posivisti di quel periodo si rivela, tuttavia, lontana dalle
esigenze dei ceti popolari del Sud. Il dichiarato socialismo di
tanti studiosi appare più che altro il doveroso tributo a una
filosofia "moderna". La sostanziale sfiducia nella possibilità
di cambiamento nasceva spesso dall’osservazione di una realtà
che appariva disperata, immobile, immodificabile come la razza.
E con questa realtà dovevano fare i conti anche quei
meridionalisti che, pur lontani da impostazioni razziste, spesso
arrivavano a conclusioni pessimistiche a contatto con un
ambiente e una società che sembravano, e per molti versi erano,
statiche e chiuse.
I brani antologici abbracciano un arco di tempo molto limitato e
vanno dal 1898 (anno di pubblicazione de 'L’Italia barbara
contemporanea' di Niceforo) al 1906, anno in cui il libro di
Colajanni, 'Latini e anglosassoni. Razze inferiori e razze
superiori', che però era già uscito, in prima edizione, nel
1903, e in cui lo studioso risponde agli ultimi lavoro di Sergi
e di Niceforo, chiudeva di fatto quel dibattito, che aveva
caratterizzato una stagione di crisi e di transizione del
meridionalismo e di crisi definitiva della cultura positivista
italiana. Il dibattito, come si vedrà, è concentrato nel
quadriennio 1898-1901 e particolarmente nel 1898 quando il
Pensiero Contemporaneo avvia un’inchiesta sulla questione
meridionale, a cui partecipano i maggiori studiosi positivisti e
merdionalisti, e che verrà pubblicata, insieme ad altri
interventi, da Antonio Renda nel 1900 (di questa inchiesta
vengono pubblicati integralmente soltanto gli interventi di
Sergi e di Salvemini, ma ad essa farò costante riferimento nelle
note introduttive ai singoli brani con l’indicazione: Renda QM).
I brani sono organizzati, essenzialmente, secondo la loro data di apparizione (non sempre puntualmente rispettata perchè uscivano spesso contemporaneamente), ma montati in maniera tale da dare conto anche dell’intensità e dell’asprezza del dibattito. Due volte s’incontreranno scritti di Niceforo e di Colajanni (il primo è il maggiore assertore e divulgatore della teoria dell’inferiorità razziale del Mezzogiorno, il secondo, figura di primo piano del meridionalismo, il suo più documentato e accanito oppositore) sia per seguire la costante evoluzione della polemica, sia per restituire la complessità, la ricchezza, la tensione del confronto. E’ ovvio che le problematiche affrontate dai singoli studiosi rinviano a un "prima" e un "dopo" del loro pensiero e delle loro impostazioni di cui qui non si è potuto tenere conto se non in minima parte. Nelle note di presentazione dei singoli brani ho tentato di segnalare, di volta in volta, motivi differenti che appaiono legati al dibattito sulla "razza maledetta", ma anche a tematiche meridinalistiche o a questioni proprie della scuola antropologica e dei suoi oppositori.
Naturalmente autori,
diversamente noti, come Sergi, Lombroso, Nicefor, Rossi,
Colajanni, Salvemini, Fortunato, Ciccotti che appartengono a
pieno titolo alla storia delle idee e della cultura nazionale,
qui vengono considerati quasi soltanto in relazione alla loro
partecipazione a quel particolare dibattito in quel limitato
periodo. Le note di presentazione dei brani rinviano a questioni
e a tematiche accennate o trattate nel saggio introduttivo, e
spesso sviluppano motivi che non potevano essere affrontati
nella loro complessità in un saggio relativamente breve, che
conserva una sua autonomia. Nelle note di presentazione fornirò
i riferimenti bibliografici completi soltanto quando non sono
stati già citati nel saggio introduttivo. Ho preferito non
intervenire minimamente sui testi degli autori e mi sono
limitato a eliminare qualche nota "superflua" o a integrare
qualche riferimento bibliografico incompleto.
Un amicale ringraziamento va a Massimo Cresta e a Marco Bascetta,
per i loro costanti suggerimenti e incoraggiamenti. Ringrazio
Ida Rende che nel corso di tanti incontri mi ha fornito
importanti indicazioni sulla figura di Pasquale Rossi. Ringrazio
pure la dott.ssa Cinzia Cassani e il personale della Biblioteca
Giustino Fortunato di Roma per la loro costante disponibilità.
Desidero esprimere la mia gratitudine a Maria Costanza la cui
affettuosità è stata decisiva anche in questa occasione. Un
pensiero particolare a Felicia che è stata preziosa con la sua
presenza e collaborazione. La mia vicinanza va alle "razze
maledette" di ieri e di oggi, a quanti si adoperano perchè la
"diversità" diventi elemento di attrazione e non di rifiuto.
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Il razzismo in italia Wikipedia
A partire dall'unificazione italiana l'establishment politico e culturale italiano influenzato dalle teorie internazionali del razzismo scientifico (vedi articolo nella pagina) del positivismo e dell'eugenetica si orientò verso posizioni razziste e antimeridionali (e molti studiosi meridionali sostennero a loro volta l'anti-meridionalismo). Di questo clima politico e culturale furono artefici tra l'altro le pubblicazioni del criminologo Cesare Lombroso (autore di saggi tendenti a dimostrare l'innata natura criminale dei meridionali e per il quale l'intero popolo del Mezzogiorno assume i connotati del delinquente atavico), le teorie di Giuseppe Sergi, Luigi Pigorini, Alfredo Niceforo (presidente della Società Italiana di Antropologia e della Società Italiana di Criminologia, che scriveva: "La razza maledetta, che popola tutta la Sardegna, la Sicilia e il mezzogiorno d'Italia dovrebbe essere trattata ugualmente col ferro e col fuoco - dannata alla morte come le razze inferiori dell'Africa, dell'Australia, ecc".), di Enrico Ferri (secondo cui "la minore criminalità nell'Italia settentrionale derivava dall'influenza celtica"), Guglielmo Ferrero, Arcangelo Ghisleri, nonché di moltissimi altri magistrati, medici, psichiatri, uomini politici, che influenzarono grandemente l'opinione pubblica italiana e mondiale.
Non furono posizioni isolate, al contrario era la convinzione "scientifica" della quasi totalità degli degli uomini di cultura europei, nonchè dei ceti dominanti e dell'opinione pubblica dell'epoca. Già nel 1876 la tesi razzista fu pienamente avallata dalla commissione parlamentare d'inchiesta sulla Sicilia che concluse: «la Sicilia s'avvicina forse più che qualunque altra parte d'Europa alle infuocate arene della Nubia; in Sicilia v'è sangue caldo, volontà imperiosa, commozione d'animo rapida e violenta». Cioé le stesse caratteristiche "psico-genetiche" che, con lo stesso identico linguaggio, i razzisti di tutto il mondo attribuivano alla cosidetta "razza" nera. E di questo erano "accusati" i mediterranei: di essere "meticci", discendenti di popolazioni preistoriche di razza africana e semitica.
Questo clima determinò tre cose:
1. Subito fin dall'unità fu attuata una politica di tipo coloniale nei confronti del sud (spesso definito nei giornali dell'epoca «Africa italiana»), che ha portato quello che prima dell'unità era lo stato più ricco e sviluppato d'Italia (il Regno delle Due Sicilie) alla povertà quasi assoluta.
2. Il sud fu politicamente abbandonato alla criminalità poiché essa venne considerata inestirpabile, essendo intrinseca a una cultura inferiore e primitiva, frutto di un popolo che essendo "reo" di avere avuto influenze genetiche "negroidi" e semitiche era un popolo di "criminali nati" secondo la terminologia del Lombroso.
3. I governi del regno d'Italia smantellarono le industrie e le infrastrutture del sud per ricostruirle al nord. Questo anche perché si riteneva che i settentrionali, per indole razziale, clima, temperamento e superiore civiltà "bianca" fossero più idonei a comprendere e gestire l'economia della nazione.
L'atteggiamento dello stato italiano, che già nel 1876 accettò la teoria dell'esistenza di almeno due razze in italia: la euroasiatica (padana e "ariana"), la euroafricana (centro-meridionale e "negroide"), contribuì in modo determinante alla nascita di un diffuso razzismo antimeridionale nel nord Italia e in tutto il mondo. Basandosi sulle dichiarazioni degli scenziati italiani gli Stati Uniti d'America hanno dato luogo a forme esplicite di apartheid politico nei confronti dei meridionali (in particolare negli stati del sud degli USA: Alabama, Virginia, ecc.). Più in generale gli immigrati italiani venivano separati al loro arrivo a Ellis Island (New York), i settentrionali venivano fatti sbarcare dal lato riservato ai "bianchi" i meridionali da quello riservato ai "non-whites". Divisione ufficialmente avallata dalla Commissione Dillingham del Senato degli Stati Uniti nel 1911. Ai siciliani poi, per via della più recente (medioevale) commistione con mori e saraceni, spettava nel profondo sud americano il soprannome di "white niggers" (negri color chiaro) oltre quello di "black dagos" (black = negro & dagos da dagger= accoltellatore) con conseguente apartheid economico, politico e sociale. La loro paga era inferiore a quella dei "neri" e insieme a loro spesso erano linciati per futili motivi: dal 1880 al 1930, secondo i dati ufficiali, il 90% di tutti i linciati "europei" negli USA erano immigrati italiani, meridionali e/o siciliani. Ed erano spesso minacciati dal Ku Klux Klan.
La stessa campagna razzistica si svolse in l'Australia e in altre nazioni di cultura anglosassone, ma non solo. Fino a quando, verso la fine degli anni 1930 in Italia vennero varati provvedimenti, le cosiddette leggi razziali fasciste, principalmente contro le persone di religione ebraica o di origine semitica, a difesa di una presunta "razza italiana". Nel 1938 infatti alcuni scienziati italiani sottoscrissero il Manifesto della razza, noto anche come Manifesto degli scienziati razzisti, il cui testo fu scritto in netta contraddizione con le precedenti teorie, e in esso si volle affermare - per opportunismo politico, dovuto all'alleanza con la Germania - l'esistenza di un'unica ipotetica "razza italiana", interamente ariana.
Il "Manifesto della razza" del fascismo assimilava i popoli latini mediterranei, prima considerati inferiori, a quelli germanici e ariani, facendoli entrambi "puri ariani" e quindi razzialmente superiori a tutti gli altri (semiti, camiti, asiatici, slavi, ecc.). La sua pubblicazione coincise con quella delle leggi razziali in Italia, che furono responsabili della deportazione e uccisione di centinaia di migliaia di ebrei, zingari e appartenenti ad altre etnie. Come effetto grottesco, l'anno dopo la pubblicazione del Manifesto della razza, nel 1940, i meridionali negli USA divennero ufficialmente "whites" (bianchi).
Tuttavia né questo repentino e breve cambiamento, né il successivo capolinea del razzismo scientifico, rigettato come pseudoscienza subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, modificarono la mentalità formatasi in quasi un secolo di propaganda antimeridionale. Forme inconsce e semi-clandestine di razzismo antimeridionale hanno persistito fino ad oggi e sono spesso documentate da denuncie pervenute a livello mondiale. Oggi questo antico razzismo viene in gran parte riattualizzato da alcuni semplicemente sostituendo alla parola "razza" quella di "cultura", "popolo" o "civiltà" e mantenendo intatta la stessa precedente impostazione "pseudo-scientifica".
Secondo alcuni sociologi in Italia a partire dal dopoguerra gli effetti di questa lunga campagna propagandistica avrebbero dato luogo a due psicologie: la prima al nord sarebbe caratterizzata da un diffuso sentimento narcisistico di esagerata autostima (il Nord guida morale d'Italia), la seconda al Sud avrebbe determinato un vasto sentimento fatalista, autocommiseratorio e diffidente nei confronti dello stato.
Nell'ultimo decennio a questo si sono aggiunti fenomeni di avversione contro i popoli semiti (gli arabi) e non cristiani (in particolare musulmani) tra i quali ci sono gli stessi europei, come gli albanesi. Questi atteggiamenti sono facilmente misurabili al nord dove da tempo alcune consistenti minoranze politiche sono tornate a essere aperte sostenitrici di queste antiche teorie pseudoscientifiche e razzistiche che postulavano l'esistenza di civiltà e popoli "superiori". Non sono invece misurabili quantitativamente al sud dove nessuna idea xenofoba ha finora mai raccolto ampi consensi politici.
Il razzismo anti-ebraico, che ha origini storiche e religiose più antiche, secondo molte indagini demoscopiche continua ad esistere in tutta Italia, sebbene in forme meno manifeste.
http://it.wikipedia.org/wiki/Razzismo#In_Italia
Palermo sarebbe perfetta senza i palermitani di Vincenzo Cacioppo
Ho sentito
questa frase migliaia di volte e devo ammettere che rispecchia la realtà.
E sapete perché? Perché i palermitani odiano la propria città, non la accettano,
non la conoscono, se ne vergognano. E non sto parlando del “popolino”
(termine che uso senza alcuna accezione offensiva, ma solo per fare intendere al
lettore di quale parte di popolazione sto parlando) che, con tutti i suoi
difetti, riconosce la grandezza di questa città, a modo proprio la apprezza e
talvolta crede di non esserne degna.
Parlo proprio di quella fetta di palermitani del ceto medio e medio alto,
istruiti o pseudo tali, che viaggia ma non osserva, che vede solo quello che
vuole vedere.
Questi palermitani, che siamo noi, hanno avuto inculcato sin da piccoli che
tutto quello che viene da fuori è bene, tutto quello che è proprio di questa
città, non “serve”. E tutto questo è stato, e lo è tuttora, avallato da anni di
televisione nordica che ha convinto l’Italia intera, noi compresi,
dell’esistenza di un nord “operoso e civile” ed un sud “retrogrado, ignorante e
lavativo”, omettendo però che questo nord è frutto del lavoro di tanti
meridionali. (E qui ci vorrebbe un post a parte per approfondire i motivi che
hanno portato alla crescita del nord a scapito del sud).
Ci siamo, negli anni, così convinti di essere un popolo di serie C, che crediamo
ormai di essere gli unici. Siamo convinti che qualsiasi paese nel mondo, anche
l’Africa, sia più civile di noi.
Crediamo che l’inciviltà della gente, le doppie file, le strade sporche, gli
scippi, i borseggi, l’abusivismo, la gente “tascia”, la mafia e tutto
il peggio che l’uomo può produrre, siano esclusiva di questa città. Ebbene siamo
diventanti talmente presuntuosi che niente ci potrà far cambiare idea.
Abbiamo cominciato a viaggiare, non più Roma, Milano o Venezia, ma adesso le
nostre mete preferite sono Londra e New York. Ma quanti di noi si soffermano ad
osservare, a conoscere realmente le realtà locali, a leggere i loro quotidiani?
Pochi, molto pochi. Quello che facciamo realmente è una rapida occhiata ai
monumenti principali, e poi subito a fare shopping per poter sfoggiare in patria
quello che da noi ancora non c’è, in modo che quando arriverà, possiamo dire che
noi lo abbiamo da una vita. Perché? Per i motivi di cui sopra. Ovvero dobbiamo
dimostrare a noi stessi che quello che dice la TV è vero. Siamo retrogradi. Ne
siamo fermamente convinti.
Stanno per aprire finalmente diversi centri commerciali. Finalmente? Ma a parte
la creazione di posti di lavoro, a Palermo ce n’è veramente bisogno? Analizzo
meglio il concetto. Faccio il paragone preferito dai palermitani: Palermo e
Milano. Chi di voi è stato a Milano e coloro che ci vivono, difficilmente
avranno notato che la possibilità di fare acquisti in città è molto scarsa. A
parte la zona Duomo con Via Torino ed il Corso Buenos Aires, il resto della
città è desolazione. E perfino in corso Buenos Aires i negozi insistono solo in
quell’asse, nelle traverse non troverete negozi. Allora si che ha senso creare
dei centri commerciali alternativi.
Palermo è un centro commerciale a cielo aperto. Non c’è viale, strada, traversa,
vicolo che non abbia negozi.
E allora? Allora senza il centro commerciale ci sentiamo sottosviluppati.
Retrogradi.
Retrogradi come la nostra mentalità.
Qualche giorno fa, facendo zapping, mi sono soffermato sulla trasmissione di
Rita Dalla Chiesa dove vi era una donna di una certa età che non accettava la
corte di un uomo più giovane di lei. La signora Dalla Chiesa ad un certo punto
intervista un uomo del pubblico, un siciliano, che asseriva che l’uomo in
questione avrebbe dovuto farsi desiderare. La Dalla Chiesa lo apostrofò con la
seguente frase: «ecco la solita mentalità meridionale», dando a questa frase
un’accezione negativa (poi l’uomo espresse meglio il concetto e la Dalla Chiesa
gli diede ragione).
Qual è questa mentalità meridionale così catastrofica per la società?
È quella che la donna deve accudire la famiglia e fare le faccende di casa.
L’uomo va a lavorare e porta il pane a casa. Ambedue sono gelosi. Le ragazze non
devono uscire da sole e comunque ritirarsi a casa presto. L’onore della
famiglia.
No so per voi, ma per me tutto ciò è la trama di tutti i telefilm americani che
ho visto finora. Dai Jefferson alla Famiglia Bradford da Tutto in famiglia a La
vita secondo Jim per arrivare ai Simpson ed ai Griffin.
Ma allora anche gli americani sono retrogradi, o noi siamo come gli americani? E
perché agli americani tutto ciò è permesso e a noi meridionali è contestato?
Siamo sicuri che siamo noi quelli sbagliati?
E allora perché tendiamo sempre più ad assomigliare ai popoli nordici?
Siamo certi di volere ragazzini drogati, violenti, bambine non più tali, rave
party, droga, alcol, risse, impiegati imbottiti di birra o aperitivi dopo il
lavoro o i suicidi dei giovani norvegesi?
Sì. Vogliamo tutto questo perché ci sentiamo inferiori e perché non vogliamo
fare “malafiùra”.
La “malafiùra” è l’ossessione del palermitano. Ed è il più grande paradosso di
questa città.
Abbiamo il terrore che qualcuno possa pensare male di noi.
La “malafiùra” parte nell’ambito familiare verso parenti ed amici, si blocca e
sparisce verso i concittadini, riprende forza e vigore verso gli stranieri
(ovvero tutti quelli che vivono fuori dalla provincia).
Tutti abbiamo letto la lettera di scuse del nostro sindaco ai turisti per le
condizioni delle strade ricolme di spazzatura. Devo aggiungere altro?
O l’intervista di qualche anno fa del GdS ad una donna del nord colpita da una
masso scivolato da Monte Pellegrino. La cronista domanda se dopo questa
disavventura tornerà più a Palermo. La donna risponde di no. Tragedia.
Ma chi se ne frega? Ma se ne stia a casa sua nel civilissimo nord. Qualche anno
fa mentre ero a Parigi un siciliano morì in seguito ad uno scippo. Un trafiletto
nel giornale locale. Una cosa normale che non meritava approfondimenti.
Noi invece dobbiamo sbandierare ai quattro venti ed a voce alta il peggio di
questa città, dobbiamo sbatterlo in prima pagina, farlo conoscere a più gente
possibile. Ecco il paradosso della “malafiùra”.
Il resto del mondo lava i panni sporchi in casa propria. Ecco perché quando
viaggiamo, a parte i paraocchi che indossiamo, crediamo che tutto sia perfetto.
Siamo bravissimi a denigrare Palermo. È il nostro sport preferito.
Abbiamo una storia che il mondo ci invidia, monumenti spettacolari, il parco
pubblico più grande d’Europa, il teatro lirico più grande d’Italia, uno degli
orti botanici più importanti del mondo, una spiaggia fantastica, abbiamo la
possibilità di andare a mare quando vogliamo, abbiamo menti brillanti, artisti
importanti, viali alberati, bei negozi, Monte Pellegrino e chi più ne ha più ne
metta.
Tutto questo il palermitano non lo apprezza, molti non lo conoscono neppure,
altri credono che comunque quello che c’è nelle altre città è molto meglio.
Siamo sempre alla ricerca della perfezione, ma aspettiamo che siano gli altri ad
agire per primi. Ma siamo subito pronti a criticare.
Molti di voi adesso diranno che abbiamo, di contro, un’amministrazione pubblica
ed un sindaco che hanno ridotto questa città uno schifo.
È vero. Ma ricordatevi che il sindaco è palermitano. Anzi è più palermitano di
tutti noi e noi lo abbiamo voluto.
Pertanto una preghiera. Cominciate ad amare questa città, apprezzate quello che
c’è di buono, difendetela, prendetevene cura. Allontanate coloro che ne parlano
male e la disprezzano solo per il gusto di farlo. Cerchiamo di essere più
propositivi e smettiamo di criticare sempre e comunque in maniera disfattista.
Uniamoci ed alleamoci per il bene comune che è il grande assente di questa
città. Abbiate sempre pensieri positivi e Palermo ce ne sarà grata.
****
Memorie di quand’ero italiano, 1994, Nicola Zitara Editore L'Unità d'Italia: nascita di una colonia, 1971, Jaca Book di NICOLA ZITARA Tema centrale del discorso, che egli porta avanti nella sua attività, è il concetto che l'unità d'Italia sia stata sostanzialmente un danno, se non la causa principale dei mali che affliggono il meridione, devastando un regno, quello delle Due Sicilie, nel periodo preunitario florido e avviato verso un equilibrato decollo economico-sociale. È attivamente impegnato in un'opera di divulgazione storico-politica tendente a contrastare la storiografia ufficiale, che egli considera capziosamente squilibrata in favore delle classi dominanti e dell'area geopolitica settentrionale.
Scrive di lui Bruno Cutrì nel libro Potere da spartire. Meridionalismo ascaro:
« Leggere gli scritti di Nicola Zitara è come vedere l’altra faccia della Luna. Dalla Terra non si vede, ma c’è ed è diversa da quella usuale. E per vederla bisogna fare uno sforzo titanico, pari a quello compiuto dalla NASA. Soprattutto bisogna eludere la congiura del silenzio che avvolge i suoi scritti ed i suoi pensieri guida. Io l’ho fatto; avvalendomi dei miei mezzi di produzione tecnologici, ho impegnato la passione intellettuale per ritornare alle origini mediterranee e per ricostruire, in memoria elettronica, quella parte di realtà storica e culturale svanita nel rumore dei tromboni ufficiali.
Nicola Zitara mi ha guidato nei meandri della nazione meridionale, a cavallo della cosiddetta Unità d’Italia, ed ho scoperto l’altra faccia della Luna. »
Carissimo Santino,
come sai ti leggo sempre e oggi rileggendo un capitolo di Mafie e globalizzazione (pag.214) vedo che tu ...
Fabrizio Randolino <<E’ da qualche giorno in libreria L’Italia non esiste (per non parlare degli italiani), un mio pamphlet in occasione del centocinquantenario dell’Unità di cui i lettori di FrontPage hanno già potuto leggere una parte del primo capitolo. Contrariamente alla lettera del titolo, la tesi del libro è che l’Italia purtroppo esiste, ma soltanto come somma di vizi, errori e storture non rimediabili e, anzi, destinati ad aggravarsi sempre più. Non si suggeriscono soluzioni, ma si prova a ragionare sulle cause.
Il settimo capitolo è dedicato alla figura dell’antitaliano, cioè l’italiano che parla male dell’Italia e dei suoi abitanti. E’ una figura che preesiste all’Unità, percorre molti intellettuali risorgimentali, e diventa infine, da Gobetti a Berlinguer (a Saviano), l’architrave dell’autorappresentazione ideale della sinistra. La sinistra italiana è la parte peggiore del Paese, perché ne condivide tutti i vizi e tutte le mancanze, ma si crede diversa e migliore.
C’è, al fondo della sinistra italiana, un disprezzo radicato e profondo per l’Italia e per gli italiani; una diffidenza e un’incomprensione, quasi un mancato riconoscimento reciproco; l’istintiva convinzione che qualcosa di profondamente sbagliato nella natura stessa del Paese la condanni ogni volta al fallimento. Probabilmente è per questo che non ha mai vinto davvero: per vincere bisogna sedurre: e non è facile sedurre chi, al fondo, si disprezza.
Il disprezzo per gli italiani, e la conseguente teorizzazione di una sinistra “antitaliana”, diversa e migliore, hanno come data di nascita ideale il 23 novembre 1922.
Quel giorno, ad un mese dalla marcia su Roma, Piero Gobetti pubblica sulla Rivoluzione liberale, il giornale che ha fondato a vent’anni, un editoriale intitolato “Elogio della ghigliottina”. È in questo articolo che Gobetti conia una definizione del fascismo destinata ad un enorme successo, e a non meno grandi conseguenze: il fascismo, scrive, è l’“autobiografia di una nazione”. Gli italiani, in altre parole, raccontando se stessi diventano fascisti; o, il che è lo stesso, l’Italia è per sua natura fascista: perché il fascismo non è un governo come gli altri, ma, sostiene Gobetti, è l’espressione paradigmatica di “certi difetti sostanziali” del popolo italiano, che “rinuncia per pigrizia alla lotta politica”, manca di coraggio, si piega a Mussolini per paura e vigliaccheria, e così mostra al mondo intero il proprio “animo di schiavi”.
Gobetti non capiva molto di politica: nel maggio del ’22 definì Mussolini un “anacronismo”, sottovalutando completamente la forza e la portata del movimento fascista. E anche la sua interpretazione del fascismo come semplice ipostasi del carattere nazionale è a dir poco riduttiva rispetto alla complessità, alla portata e alla peculiarità novecentesca, e niente affatto soltanto italiana, del totalitarismo moderno. Anche in questo, tuttavia, Gobetti va annoverato tra i padri della sinistra italiana, che di analisi sballate sarà dispensatrice feconda e prolifica.
Ma torniamo, per ora, agli italiani. A Gobetti, come del resto a quasi tutti gli intellettuali primonovecenteschi, molti dei quali apertamente di destra, gli italiani non piacevano per niente. Nel primo numero della Rivoluzione liberale il giovane torinese abbozza un’analisi spietata dell’Italia, che gli appare profondamente arretrata, senza una classe dirigente moderna e un sistema di relazioni economiche paragonabile a quelli europei, nonché storicamente priva di “una coscienza e un diretto esercizio della libertà”. Il risultato – ma potrebbe esserne anche la causa – è un paese senza un sistema politico efficiente e senza cittadini dotati di senso dello Stato. “Abbiamo sempre saputo – scriverà, sempre nel ’22, Gobetti – di lavorare a lunga scadenza, quasi soli, in mezzo a un popolo di sbandati che non è ancora una nazione”.
Non stupisce dunque che l’intellettuale torinese abbia definito una volta il suo antifascismo come una “polemica contro gli italiani”. I quali avevano ritrovato in Mussolini l’uomo che più di tutti ne impersonava le peggiori caratteristiche, scambiandole per virtù: l’ottimismo e la “sicurezza di sé”, l’“astuzia oratoria”, l’“amore per il successo”, la “virtù della mistificazione e dell’enfasi”, la teatralità. Sembra di leggere un ritratto di Berlusconi: non perché il presidente del Consiglio in carica (2010) sia il nuovo Mussolini, ma perché la sinistra cent’anni dopo preferisce ancora la caricatura all’analisi, il (pre)giudizio morale alla sfida politica.
Nell’addossare agli “italiani” in quanto tali ogni responsabilità per l’ascesa del fascismo, si scorge un altro tratto caratteristico della sinistra italiana: l’autoassoluzione. È certo vero che non vi furono insurrezioni democratiche all’indomani della marcia su Roma, e che l’Italia si prese il fascismo senza troppo protestare; ma è altrettanto vero che le opposizioni fecero di tutto per rendere più agevole la strada che Mussolini intendeva percorrere. Frammentati e litigiosi, gli antifascisti erano profondamente divisi fra loro: democratici, liberali progressisti, popolari (quella parte che non appoggiava Mussolini), socialisti riformisti, socialisti massimalisti, comunisti: ciascuno giocava per sé, e nessuno aveva un’idea precisa di quanto stesse accadendo. Anziché riflettere sulla propria impotenza, l’opposizione antifascista preferì prendersela con gli italiani.
E infatti nella condanna degli italiani Gobetti non è affatto solo. Giustino Fortunato scrive di un “popolo organicamente anarchico, corrotto, molto servile”, Anna Kuliscioff di un “paese di servi”, Carlo Rosselli di un popolo “moralmente pigro”, che ad Antonio Gramsci appare “inquinato dalla lue individualista, disorganizzato da lunghi secoli di malgoverno, viziato da impulsive tendenze egoarchiche e disgregatrici”. Storia e psicologia si mescolano fino a diventare inseparabili, e l’elenco dei difetti degli italiani – più o meno invariato da tre o quattro secoli – assurge a categoria storico-politica fondamentale, e dunque anche a chiave dell’agire politico individuale e collettivo.
La sinistra prende a percepirsi e a presentarsi come “antitaliana”, cioè come diversa e alternativa al tipo italiano medio: l’antropologia e la morale si sovrappongono alla politica fino a sostituirvisi. Il senso di superiorità coltivato dalla sinistra, che in realtà non è che un paravento dietro cui nascondere malamente le insufficienze teoriche, organizzative e politiche delle opposizioni antifasciste, denuncia un senso di estraneità profonda rispetto al paese reale, e ancora una volta, come sempre accade in Italia, trasforma un vizio in una virtù. Essere altra cosa rispetto agli italiani, da Gobetti in poi, diventerà un segno di nobiltà e di superiorità morale.
La patria ideale degli antitaliani, nella visione del torinese Gobetti (ma anche in quella dell’immigrato sardo Gramsci), è il Piemonte. L’“altra Italia”, l’Italia diversa e migliore, s’incarna secondo Gobetti in quella regione del paese che, promuovendo l’unità a costo di rinunciare alla propria stessa identità (e alle proprie virtù), cercò con ogni sforzo di “tenere il collegamento tra gli istinti africani della penisola e la civiltà europea”. Gobetti ripercorre qui un altro topos della polemica antitaliana di fine Ottocento, soprattutto di matrice anglosassone: la contrapposizione fra i popoli “latini”, per natura e per indole indisciplinati e inefficienti, e i popoli anglosassoni, dinamici e produttivi.
Al Piemonte e ai piemontesi spetterebbe, in questa visione profondamente razzista della complessità e delle diversità dell’Italia, il compito nobile e improbo di “civilizzare” un paese “africano”. Compito evidentemente fallito, come dimostra l’avvento del fascismo “italiano”. Ciò nondimeno, Torino e il Piemonte restano secondo Gobetti il fulcro dell’“altra Italia”: per la presenza di un forte “spirito pratico” e concreto, per la crescente industrializzazione, e persino per l’“anglomania” dei suoi imprenditori.
Non la pensava diversamente Gramsci, che nella Torino operaia vedeva l’unico faro di modernità acceso su un paese arretrato e “indisciplinato” (la “disciplina”, anche in senso militare-sabaudo, sarà un’ossessione ricorrente nel fondatore del Pci, che non per caso chiamò la sua rivista L’Ordine nuovo). Torino è “poco italiana”, secondo Gramsci, perché “la larga massa dei suoi abitanti è tutta viva e compone armonicamente un organismo sociale che vibra tutto”.
Fa una cerca impressione leggere tante sciocchezze idealistiche nel più grande teorico marxista italiano; la fascinazione per la classe operaia è tutta estetica, diresti quasi futurista: la modernità è uno spettacolo disciplinato in cui l’ordine nuovo si afferma come armonia tanto astratta quanto totalitaria; e la politica diventa una branca dell’etica.
Con Gramsci siamo al cuore della sinistra italiana, e all’origine di una visione del paese più antropologica che socioeconomica, più morale che politica. Quando Gramsci pone l’accento sulla “riforma intellettuale e morale” degli italiani anziché sulla rivoluzione sociale, che gli pare insufficiente, da sola, a risolvere i problemi del paese, la prospettiva stessa del compito dei rivoluzionari cambia profondamente, fino a capovolgersi da ampliamento della sfera della libertà, quale era all’origine e nelle intenzioni, in sforzo di condizionamento e limitazione delle singole libertà.
Tutto il gramscismo è una grande, complessa e impotente teorizzazione del compito educativo, pedagogico e missionario che spetta alla classe operaia e al suo partito in un paese privo di civiltà politica, di cultura, di classi dirigenti, di virtù civili. I comunisti sono i rappresentanti di una civiltà superiore, scesi su questa pessima Italia per trasformare i suoi disastrati abitanti in uomini veri: e così, nella sostanza, si considerano ancor oggi che si chiamano “democratici”.
La raffinatezza teorica con cui Gramsci analizza la modernizzazione fordista che accompagna la nascita della grande fabbrica, la sua attenzione quasi maniacale per la “società civile”, e persino l’enfasi posta sulla conquista dell’“egemonia”, che è concetto ben più complesso e articolato della semplice presa del potere, lo rendono certo un unicum nel panorama del rozzo pensiero marxista della prima metà del Novecento, ma anche ne segnalano l’arretratezza profonda.
Non è un caso se, fra tutte le metafore e i rimandi storici cui poteva ricorrere, Gramsci scelse proprio il Principe di Machiavelli per definire la sua idea mitologica di partito. I liberali vi hanno visto, e giustamente, una minaccia alle libertà; ben più preoccupante, però, è l’idea di politica che quella metafora suggerisce: l’Italia non potrà mai governarsi da sé, poiché mancano agli italiani le capacità per farlo; soltanto un principe illuminato, autorevole e autoritario e paternalista, intriso di buona volontà e pedagogicamente predisposto alla formazione di nuovi e migliori cittadini, può svolgere con successo l’incarico.
La politica è pedagogia, e la pedagogia è morale: è così in Gramsci, e così sarà in tutti i leader comunisti venuti dopo di lui. La sinistra italiana, egemonizzata per l’intero secondo dopoguerra dal Pci, fa della “riforma intellettuale e morale” il suo mantra e la sua missione, attribuendosi una medaglia di superiorità che nessuno le ha mai conferito, e guardando sprezzante, dall’alto di una cattedra immaginaria, il brulicare scomposto degli italiani comuni.
Per questo la storia della sinistra italiana è una storia di fallimenti: non si possono vincere le elezioni disprezzando chi dovrebbe votarti, né si può conquistare la maggioranza degli italiani impancandosi ad antitaliano. Anziché sedurre l’elettorato, la sinistra l’ha sempre redarguito. Anziché promuovere la modernizzazione e progettare concretamente il futuro, ha sempre gridato all’imminente catastrofe. Anziché proporsi di governare l’Italia, ha preferito gloriarsi della propria diversità.
È stato Enrico Berlinguer, com’è noto, a coniare per il Pci la parola “diversità”. Lo fece quando l’assurdità della politica di compromesso storico divenne talmente evidente da non poter più essere tollerata, nemmeno dal gruppo dirigente di Botteghe Oscure. Il Pci si è sempre autorappresentato come diverso: Togliatti lo paragonò alla giraffa, un animale ben strano che in natura non dovrebbe neppure esistere. L’elogio della diversità è stato nel corso degli anni una giustificazione del legame politico e finanziario con l’Unione sovietica, un potente collante per la collettività dei militanti, un formidabile alibi ideologico per l’impotenza politica. Con Berlinguer, tuttavia, la parola assume una nuova coloritura morale, che porta alle estreme conseguenze, e cioè alla bancarotta politica, il calvinismo astratto di Gobetti.
Il “compromesso storico”, va ricordato, fu il tentativo di mascherare l’unica vera diversità del Pci, cioè la sua dipendenza finanziaria (e dunque politica) dall’Urss, affidando il partito alla tutela alla Democrazia cristiana, i cui da trent’anni di fedeltà atlantica bastavano a rassicurare gli americani.
Berlinguer sapeva bene di non poter dar vita ad un governo di alternativa imperniato sul Pci: non certo perché sarebbe finita come nel Cile di Salvador Allende, cioè con un colpo di Stato militare organizzato dalla Cia, ma per la semplice ragione che nessuna coalizione si sarebbe potuta realisticamente formare intorno ad un partito legato a doppio filo all’Unione sovietica e al Patto di Varsavia.
Anziché procedere speditamente – e con almeno vent’anni di ritardo – sulla strada dell’emancipazione definitiva dal movimento comunista e dell’elaborazione di una nuova cultura politica socialdemocratica, anziché insomma “andare a Bad Godesberg”, come allora si diceva ricordando l’esempio dei socialdemocratici tedeschi, Berlinguer fece in un certo senso l’esatto contrario: portò alle estreme conseguenze l’accordo consociativo che, in forme diverse, aveva retto gli equilibri politici della “Repubblica nata dalla Resistenza”.
Il Pci di Berlinguer non capì mai l’Italia che lo aveva votato, come non aveva capito né il Sessantotto, né la portata del referendum sul divorzio. Abituato gramscianamente alla “guerra di posizione” – tradotta nei fatti in una rendita di posizione – il Pci sbagliò completamente la “guerra di movimento”, fraintendendo e demonizzando la spinta alla modernizzazione che saliva impetuosa dalla società, esattamente come era stato frainteso e demonizzato il centro-sinistra dieci anni prima.
Alla parte del paese che votava Pci perché si era stufata dei democristiani e voleva un’alternativa di governo, cioè una normale fisiologia democratica, Berlinguer rispose con l’esaltazione opportunistica della Dc, riconsacrata perno immutabile del sistema. Alla parte del paese che chiedeva la modernità, offrì l’elogio pauperista dell’“austerità”, dei sacrifici, dell’emergenza. E quando infine l’esperimento consociativo – com’era da aspettarsi – fallì, e il Pci fu riaccompagnato all’opposizione mentre molti elettori lo lasciavano per sempre, Berlinguer rilanciò e rispose con la “questione morale”.
La “diversità” era divenuta infine un contrassegno etico, indiscutibile e non mediabile, nonché la coperta ideologica sotto cui nascondere l’impotenza politica, la devastante arretratezza culturale accumulata negli anni, e, non ultima, la paralizzante incapacità di sciogliere fino in fondo ogni legame con il Patto di Varsavia (si sciolse prima il Patto di Varsavia).
La “diversità”, a ben guardare, è un’altra forma del qualunquismo italiano: il popolo è ignorante, sceglie sempre la pagnotta; la maggioranza degli italiani è di per sé moralmente debole quando non corrotta, perdere in queste condizioni è un onore. Con il corollario metafisico che il potere, in quanto tale, corrompe. Abbacinata per troppi anni da questa convinzione inespressa, la sinistra italiana ha perso, regolarmente, tutti gli appuntamenti con la storia.
La “diversità” è, anche, un’altra forma dell’arretratezza italiana. Tutte le democrazie occidentali si sono sviluppare lungo un asse destra liberale/sinistra socialdemocratica: soltanto in Italia l’egemonia di un partito comunista ha segnato così pesantemente il sistema politico (e naturalmente anche quello culturale), cancellando nei fatti la possibilità stessa dell’alternativa.
L’anomalia del Pci, anziché essere affrontata e risolta, come ci si sarebbe aspettati da un gruppo dirigente responsabile, cioè impegnato nella conquista democratica del governo e non nella tutela di sé e dei propri privilegi castali, è diventata invece un motivo di orgoglio. L’Italia, si è detto spesso a sinistra, almeno dagli anni Sessanta del secolo scorso in poi, è un “laboratorio”: qui si sperimentano le formule politiche più interessanti, più innovative, più fantasiose. La grande sciocchezza della “terza via” – cioè l’illusione di poter essere né comunisti né socialdemocratici – conquista rapidamente un’immensa popolarità perché in questo modo, come sempre accade in Italia, un elemento di arretratezza si trasforma magicamente (e illusoriamente) in un vanto, in un tratto originale, in una diversità di cui andare fieramente orgogliosi.
La “terza via”, del resto, non era che una riproposizione della “via italiana al socialismo”, la grande trovata con cui Togliatti inventò il partito a due scomparti, democratico e riformista nel gioco politico locale e nazionale, sovietico in politica estera e nelle fonti di finanziamento. Di italiano, nella “via italiana”, c’è dunque, e vistosamente, molto: la vocazione al compromesso, una certa vigliaccheria, l’idea che le verità siano sempre almeno due, il tornaconto personale, l’ambiguità, la furbizia.
È la furbizia di Togliatti, in un popolo di furbi, a plasmare i comunisti italiani, e a renderli ben presto egemoni a sinistra. Il senso di superiorità si sposa perfettamente all’ambiguità gesuitica dei capi; l’autoreferenzialità rafforza i vincoli comunitari dei militanti; ogni compromesso è giustificato alla luce di una verità superiore; le opinioni personali sono riservate alla sfera privata; la disciplina è rigorosa quanto generoso è il perdono. Sembra davvero la Chiesa cattolica plasmata dalla Controriforma.
Il “cattocomunismo” – e ne parleremo qui una volta per tutte – non è una sintesi più o meno riuscita di culture diverse, né un incontro, né un dialogo; e non è neppure un esperimento politico più o meno avanzato, più o meno significativo: è, né più né meno, il modo d’essere del comunismo italiano, il modo italiano di essere comunisti.
I tentativi di elaborazione teorica e culturale, così come i programmi politici o la strategia delle alleanze, costituiscono in questo quadro un aspetto del tutto secondario e irrilevante, che infatti viene regolarmente manipolato e persino rovesciato a seconda delle convenienze tattiche e delle opportunità che si presentano. Come i Gesuiti, anche i comunisti in nome della causa e a fin di bene possono stringere qualsiasi alleanza, sottoscrivere qualsiasi dichiarazione di principio, interpretare in qualsiasi modo qualsivoglia testo o documento ufficiale, e mutare qualsiasi opinione nella contraria.
Se ne accorse con ilare chiarezza Luigi Barzini all’inizio degli anni Sessanta: “Gramsci non visse quanto bastava per vedere persino il suo piccolo ed eroico partito trasformato, dopo l’ultima guerra, in un’ennesima e vasta associazione all’italiana di mutua assistenza, diretta solo vagamente dall’ortodossia ideologica, e soprattutto da un agile senso tattico di adattamento.”
Il cattocomunismo costruisce il suo equilibrio vincente mediando con furba sapienza fra ideologie vagamente (o espressamente) totalitarie, antindividualiste e antimoderne, e pratiche consociative, compromissorie, lottizzatrici, immobiliste. E quando comunisti e democristiani finalmente si incontreranno per fare un governo insieme – in pompa magna nel 1976, come reduci scampati ad una guerra termonucleare nel 1996 –, il risultato sarà il mesto incontro di due conservatorismi, che spengono sul nascere ogni speranza di rinnovamento, rinunciano alla sfida della modernizzazione, rapidamente ripiegano nella gestione feudale dell’esistente, e infine crollano nell’impopolarità generale.
Non dev’essere un caso se le due vere novità della storia politica repubblicana – Bettino Craxi e Silvio Berlusconi – acquistano, ciascuno a modo suo, centralità politica e culturale proprio all’indomani del fallimento dei due soli governi cattocomunisti – guidati rispettivamente da Giulio Andreotti e da Romano Prodi – che l’Italia abbia mai avuto.
Intorno a questo nucleo ideologico a doppio strato – il sol dell’avvenire e la consociazione –, il Pci di Togliatti costruì rapidamente una vera e propria Italia alternativa: ovvero, per usare un’espressione più comune, un radicato sistema di potere che sopravvive ancor oggi. Case editrici, riviste, produzioni cinematografiche, giornali, festival e rassegne, università e fondazioni: il mercato della cultura italiana divenne ben presto controllato quasi esclusivamente dai comunisti.
Colpa, certo, di una Dc disattenta al “culturame” e concentrata esclusivamente – e profeticamente – sul ministero della Pubblica istruzione, che non lascerà mai per cinquant’anni, e sul nascente mezzo televisivo, che dominerà fino alla fine degli anni Settanta. Ma, soprattutto, merito di una scelta strategica lungimirante, di cui va dato atto a Togliatti.
Il fatto è che questa scelta – l’egemonia del Pci sulla cultura italiana – ha finito col perpetuare, in forme sempre più devastanti, la tradizionale arretratezza dei nostri intellettuali, sostanzialmente tagliati fuori dal pensiero contemporaneo più vivace, e prigionieri invece di una vulgata crociano-gramsciana che li ha sempre più allontanati da quanto di nuovo e importante accadeva nelle università e sulle riviste straniere. O forse vale l’inverso: proprio perché arretrati, i nostri intellettuali sono diventati en masse comunisti. Di certo, il nostro zdanovismo è stato provinciale, conservatore e impregnato di idealismo: per questo oggi non esiste una cultura di sinistra in Italia, ma soltanto un suo sistema di potere culturale.
Egemonia culturale in Italia ed egemonia politica sulla sinistra procedono di pari passo, e ben presto definiscono il ruolo del Pci nel Paese. Sono queste le due cause della mancanza, caso unico in Europa, di una sinistra moderna, riformista, socialdemocratica. Ogni volta che s’è presentata l’occasione riformista – dalla scissione socialdemocratica di Saragat del ’47 alla crisi del ’56 seguita all’invasione sovietica dell’Ungheria, dal primo centro-sinistra degli anni Sessanta al Psi di Craxi degli anni Settanta e Ottanta – il Pci si è sempre schierato fermamente all’opposizione, ha boicottato in ogni modo e con tutti i mezzi la novità politica e culturale che si andava profilando, e così comportandosi, in virtù della sua forza, l’ha condannata presto o tardi alla sconfitta.
È la posizione ostruzionistica del Pci, rilevante tanto per la mole elettorale e organizzativa quanto per la costanza nel tempo, ad aver fatto fallire ogni tentativo di costruire in Italia una cultura e una politica riformiste. Da Saragat a Craxi, nessuno è sopravvissuto al corpo morto della “diversità”. Che, per una crudele ironia della storia, il Pci morente seppe brandire anche contro se stesso: quando nel 1989 cade il Muro di Berlino, Occhetto infatti scioglie il Pci continuando a difenderne la diversità e l’originalità rispetto al “socialismo reale”, sbarrando la strada al riformismo con il pretesto che in Italia fosse “craxiano”, e tornando al mito di una nuova “terza via” che avrebbe dovuto andare “oltre” le tradizioni socialdemocratiche europee – salvo poi, nell’azione politica concreta, accodarsi ai giudici e alle inchieste di Mani Pulite nella speranza di cavarne quel vantaggio politico che le urne erano reticenti ad affidargli.
Il risultato è che ancora oggi, vent’anni dopo la “svolta” di Occhetto, nessuno sa che cosa sia e che cosa voglia il Partito democratico, che della lunga agonia del Pci è l’ultima, fatiscente incarnazione.
Così la sinistra si ritrova oggi minoranza nel proprio stesso elettorato, tradisce quotidianamente i propri ideali libertari sposando la lugubre causa giustizialista, alimenta un sistema di potere sempre più asfittico, non riesce a venire a capo di un dilemma – se essere “riformisti” o “radicali” – che il resto del mondo ha archiviato mezzo secolo fa, è felicemente e consapevolmente prigioniera della conservazione, detesta gli italiani che continuano a non votarla, e quando non diffida della modernità ne imita malamente gli aspetti più volgari.
In altre parole, la sinistra in Italia non esiste. E se non ci fosse Berlusconi, non saprebbe neppure come riempirsi le giornate.
Una conversazione tra Giuseppe Carlo Marino, me ed altri
Giuseppe
Carlo Marino
CIALTRONI! Cialtroni,cialtroni, cialtroni, cialtroni, cialtroni, cialtroni,
cialtroni! Questa nostra Italia amatissima, con una metà di cialtroni che ancora
non capisce e ubbidisce, rassegnata! L'Italia dei pub con le birrette in mano.
L'italietta degli scriteriati, dei vanesii, dei consumisti alla moda! Oh serva
Italia di dolore ostello/non donna di provincia ma bordello. Spererei in
un'altra estate.
Giuseppina Ficarra Vi scordate l'Italia dell'ultimo referendum. I 4 SI non sono
venuti da scriteriati, vanesii, cialtroni né tanto meno consumisti alla moda!
Vittorio Chirminisi Sicuramente la maggiore colpa di questa Italia "bordello" è
della classe dirigente del paese, sicuramente la popolazione italiana non ha
ragione quando dorme ( ricordo 60 a zero per il popolo della libertà in Sicilia
).
Giuseppina Ficarra Vittorio, io ricordo il “quasi” plebiscito alle primarie per
Rita Borsellino; il quasi 5% per il prc in sicilia contro la disfatta nazionale
perchè nel simbolo c'era scritto Rita Borsellino Presidente. Ricordo le grandi
lotte del popolo siciliano dei Fasci e quella dell'occupazione delle terre
nell'ultimo dopoguerra, seguite dalla sconfitta, ma anche dalla grande
migrazione: un milione dopo i fasci, un milione e mezzo nell'ultimo dopoguerra.
E un popolo che trova interesse nell'illegalità non va via in massa. Rita
Borsellino ci è stata scippata da Anna Finocchiaro!! Per quanto riguarda il 60 a
zero per il popolo della libertà in Sicilia, molto effetto del maggioritario,
vedi la bella analisi di Umberto Santino "Cu vincìu? Ovvero: la Sicilia dopo la
disfatta"
http://www.centroimpastato.it/publ/online/Dopo_voto.php3
Giuseppe
Carlo Marino
Vedo tanta gente stupida in giro: masse sterminate che assediano
ovunque,pressano, tallonano e nel loro mediocre gioco si sollazzano,
gozzovigliano, sbevacchiano e credono di vivere,così beatamente dissipatrici,
inutili e incoscienti . Spesso (benestanti e puri parassiti a parte) hanno a
stento i mezzi per sopravvivere, ma nonostante tutto si ingegnano con ogni mezzo
legale o illegale a trovare il modo per continuare a sollazzarsi e a dissipare:
con un'avidità del consumare e dell'apparire che conferma la loro alienante
condizione e serve ad esorcizzare la disperazione. E' largamente questo il
"popolo" di Berlusconi e lo potrebbe diventare per un qualsiasi altro suo
successore, con qualsiasi altra sigla "politica" (ovvero con qualsiasi altro
segno di analoga incultura e di analoga fuga dal senno e dal senso civico). Più
ancora che Berlusconi (politicamente in disfacimento!) mi allarma quel mare di
stupidità che ha costituito il suo largo bacino di consenso sociale ed
elettorale. Ed è un mare che mi allarma non soltanto in Italia, perché fa
tutt'uno con gli effetti del capitalismo globalizzato che ha imposto il diktat
del cosiddetto "mercato" e sta rafforzando ovunque i sostanziali caratteri
mafiosi ("GLOBALMAFIA") del suo turpe e cinico dinamismo. Ma l'Italia presenta
un quadro ancora più desolante. Ai vecchi arnesi della "beata stupidità"
collettiva se ne aggiungono sempre dei nuovi. Adesso vedo avanzare quella faccia
ebete con bocca faconda che si chiama Alfano e so bene che viene dagli impasti
oscuri di potere dell'Agrigentino e che ha l'immagine giusta per ereditare
l'immane potenziale di stupidità collettiva funzionale ai poteri mafiosi di cui
si alimenta il "berlusconismo", ultimo prodotto (il peggiore) dell'eterno
trasformismo italiano. E non mi rassicurano molti altri volti, siano pure, a
loro detta, di "sinistra" . Invero manchiamo ormai in Italia di una classe
dirigente o forse non l'abbiamo mai avuta. E addirittura, adesso più che nel
passato, forse manchiamo anche di un popolo, di un popolo vero. Il degrado
morale dell'Italietta del malaffare, come si dice, è entrato in circolo, nelle
vene profonde del tessuto sociale e colpisce grandemente i giovani, così come mi
trovo a constare in un'Università sfibrata e non di rado incolta,sempre più
lontana dal suo ufficio civile. E' un grande compito storico quello che si apre
oggi alle avanguardie in lotta contro la stupidità-malaffare: lavorare
tenacemente per una "rivoluzione culturale", con lo spirito di una nuova
Resistenza. Cerchiamo di diventare molti, moltissimi. Allarghiamo la nostra
avanguardia. Facciamola diventare un'avanguardia di massa. Ci riusciremo?
Dobbiamo crederlo.
Giuseppe Carlo Marino Si, Giuseppina, fai bene a ricordare i 4 SI delle recenti consultazioni referendarie. Ed io aggiungerei le vittorie di Pisapia e di De Magistris.Ma resta il fatto che saremmo incauti a ritenere di avere davvero vinto nel Paese. Il berlusconismo (al di là dello stesso Berlusconi) ha costruito un assai resistente blocco sociale. Non mi sorprende constatare che anche notevoli porzioni di "sinistra" ne fanno parte, magari inconsapevolmente. Semplicemente perché si trovano, come si dice, a "far politica" (ed anche affari!). Nessuno come me è convinto di non dover scaricare sul popolo le responsabilità delle classi dirigenti (ovviamente concordo con Pietro).Però, mi sembra, il fenomeno della capitalizzazione selvaggia della società sotto la sovranità del "mercato" ha costituito una sua propria, assai larga "cultura di massa" (in senso antropologico) con la quale da sinistra - ben al di là del caduco fenomeno del berlusconismo - è molto difficile e quasi disperante confrontarci. Per comprendere specificamente quel che sta accando in Italia, sono ancora attuali le "Lezioni sul fasicsmo" di Palmiro Togliatti. Semplificando molto,ho indicato tale "cultura di massa" come un'imponente area di "stupidità collettiva". Ci assedia da tutte le parti e io, nel quadro poltico oltre che in quello sociale, la vedo grandemente montare anche tra i giovani (se penso poi alla cosiddetta Sinistra dei vari Renzi e ..Faraone...! ).
Giuseppina Ficarra Caro Marino, a me viene l'orticaria quando sento parlare di "senso antropologico". Ho sempre difeso la Sicilia da definizioni antropologiche e naturalmente difendo il popolo italiano. Ma avendo tu scritto la GLOBALMAFIA penso che a breve forse mi toccherà difendere l'umanità da definizioni che non potremmo più chiamare antropologiche riguardando tutti i popoli della terra ma sicuramente "speciste". E per tornare all'Italia, permettimi di dire, caro Marino, che parlare di STUPIDE masse sterminate che hanno a stento i mezzi per sopravvivere, ma nonostante tutto si ingegnano con ogni mezzo legale o illegale a trovare il modo (anche "legale") per continuare a sollazzarsi, è una visuale borghese e di disprezzo per il morto di fame che vuole sollazzarsi. Che diritto ha di sollazzarsi il morto di fame? di andare in vacanza, di avere un bel televisore per vedersi la partita, di mandare i figli all'università... Tra queste stupide masse ci devi mettere milioni di disoccupati, milioni di pensionati al minimo, milioni di donne tagliate fuori perché donne, di precari, milioni di milleuristi. Io non mi sento di parlare male di costoro. Ad occhi chiusi dico che mi vergogno di avere i mezzi per arrivare, sia pure a stento, alla fine del mese. Dico a stento, perche, pur avendo due piccole ma dignitose pensioni, abbiamo sulle spalle un figlio milleurista e una nuora disoccupata.
http://www.facebook.com/home.php#!/profile.php?id=100000524797868
Giuseppina
Ficarra copio e incollo da un amico e compagno: Rousseau credeva che i climi
caldi favoriscono popolazioni indolenti, Leopardi parla degli italiani inclini
al malaffare, lombroso è arrivato financo a scoprire la criminalità nella
grandezza della fronte o delle orecchie delle persone, Pasolini parla della
piccola borghesia come un agglomerato di milioni di porci. Credo che nessuno di
questi signori avesse ragione.
Giuseppina Ficarra copio e incollo ancora da un amico e compagno: Non
generalizzare non vuol dire deresponsabilizzare le persone dei loro
comportamenti come singoli e come aderenti ad un gruppo sociale. Ma il
giudizio non può essere una imprecazione moralistica che
colpisce indistintamente tutti in quanto appartenenti ad un territorio o ad un
ceto!
Giuseppina Ficarra copio e incollo dal caro amico Carlo Marino: a pag.58 di
GLOBALMAFIA nella nota n.16 Marino ci parla di una borghesia mafiosa “come
serbatoio di una mafia, così occultata dal perbenismo e da forme assolutamente
legalitarie da riuscire a rendersi insospettabile”.
E se la cultura mafiosa e non solo quella mafiosa, ma la cultura in generale del
malaffare è mascherata, occultata, io mi chiedo come possiamo colpevolizzare
tutto un popolo. Non ci ha ricordato lo stesso Marino che le idee dominanti di
un'epoca sono le idee della classe dominante? Possiamo solo sperare in una
sollevazioni di tutti i popoli della terra, (si é visto che sono difficili le
rivoluzioni di un singolo popolo, prima o poi i mafiosi che governano il mondo
ci esportano la democrazia, vedi ultimamene la Libia).Come ho detto prima, è ora
che tutti i popoli oppressi prendano coscienza dei propri diritti calpestati
alzando come vessillo l'ANTIMAFIA GLOBALE e i valori del SOCIALISMO!!
Giuseppe Carlo Marino Si certamente mi sembra che Giuseppina proponga quel che anch'io propongo. Quanto alla questione di....colpevolizzare tutto un popolo ho già risposto e precisando meglio il mio pensiero: non lo colpevolizzo affatto; rilevo soltanto che una sua larga parte (si badi una parte, per quanto sia grande e non si sa bene se tuttora maggioritaria) è vittima dell'egemonia del berlusconismo e del pensiero unico della globalizzazione capitalistica. Per ritrovare la possibilità concreta di batterci per il socialismo dobbiamo partire da un'analisi dei processi attivati dalla grande trasformazione che le società stanno vivendo. Le vecchie categorie di analisi risultano insufficienti. E' questo il lavoro critico al quale la Sinistra dovrebbe dedicarsi.
Carlo Marino Quanto alle osservazioni sulla "stupidità di massa" , rilevo che oggi, con un'Italia che va come va, quanti fossero appena dotati di un minimo di senno dovrebbero scendere in piazza e restarci a tempo indeterminato fino alle dimissioni di Berlusconi. Purtroppo non è così, mentre la Sinistra continua a crogiolarsi nell'idea di poter "fare opposizione" con i vecchi strumenti del "confronto costruttivo" e con il solito linguaggio "politichese".
Giuseppe
Carlo Marino Non hai da temere, cara Giuseppina, per il mio richiamo ad una
cultura di massa in senso "antropologico". L'aggettivo va riferito alla parola
"cultura". In senso appunto "antropologico" la cultura, tu mi insegni, significa
qualcosa di ben diverso di quel che con tale parola si intende comunemente (il
sapere dei colti, degli intellettuali, dei letterati, ecc.). Significa, se
vuoi,"mentalità" ovvero "costume". Il che non ha niente a che fare con
implicazioni di tipo razzistico, quelle che tu temi per i siciliani. Poste così
le cose, mi sembra evidente che la "cultura" di una larga parte del popolo
italiano sia stata invasa, intorpidita, deprivata di senso critico e
ulteriormente incialtronita dalla lunga egemonia del berlusconismo che - insieme
al pensiero unico della globalizzazione - ha podotto, appunto un habitus, un
modo di pensare, un costume, che ci sono decisamente avversi: oggi, per una
larghissima parte di "popolo" (si tratti pure di un popolo sofferente) parole
come "socialismo" e "comunismo" e persino "marxismo" che sono familiari alla
nostra generazione assumono un significato decisamente negativo. Persino a
sinistra, a parte certi gruppetti di resistenti, si registra largamente la
tendenza ad occultare il passato marxista, sia socialista che comunista. Molti
addirittura se ne vergognano. Dobbiamo adesso comportarci come quegli infelici
ebrei che per sfuggire all'isolamento e alle persecuzioni si dichiaravano
pubblicamente cristiani, (con tanto di certificato parrocchiale di conversione)
? Oppure dobbiamo studiare a fondo le conseguenze dei grandi e radicali processi
di cambiamento in corso (che vanno annientando quel che chiamavamo "classe
operaia" e stanno facendo della stessa borghesia un'altra ben diversa e più
pericolosa "borghesia")? Dobbiamo lavorare davvero, tenacemente e con strumenti
adeguati alle necessità imposte dai tempi, alla costruzione di nuove avanguardie
del pensiero critico e indissociabilmente del nuovo impegno rivoluzionario? Per
farlo, l'ho già scritto, non bastano le nostre antiche categorie di giudizio
(categorie ideologiche). E certo lo stesso Marx critico dell'ideologia (di tutte
le ideologie) - Lui il cui pensiero è metodologicamente ancora vivo e vitale -
sarebbe pienamente d'accordo. Tu insisti lodevolmente nel ricordare grandi lotte
civili di popolo come quelle dei Fasci siciliani. Ma lo sai che mi è capitato
recentemente di costatare, con immenso raccapriccio, che persino i professori di
storia di un nostro Liceo li scambiavano con i Fasci di Mussolini?Occorre capire
come sia possibile che la stessa Scuola sia diventata, come è purtroppo
diventata, un largo bacino di paradosale "ignoranza colta" ufficializzata da
ministri come la Gelmini. Spesso non è che gli insegnanti combattano con
l'ignoranza degli allievi: è, invece, che sono essi stessi,gli insegnanti, ben
più che lettori di libri, fruitori e vittime della "beata stupidità" di cui si
alimentano le televisioni. Se ti capita di salire su una nave, ti accorgi che la
stragrande maggioranza, nei saloni di bordo, si accalca per vedere il "grande
fratello" o "l'isola dei famosi", mentre restano in un angolo, appartati, quelli
interessati che so, a una qualsiasi trasmissione che inviti a riflettere, a
pensare. E' vero che altrove esistono anche i milioni che seguono Santoro, ma,
pur moltissimi, sono pur sempre "una grande minoranza". E' molto duro, per noi,
tentare di ridiventare una grande maggiornza. E, a dirla con ogni rispetto,
viviamo assediati dai cialtroni
Giuseppina
Ficarra Caro Marino, per me parlare di cultura in senso antropologico significa
riferirsi agli usi e costumi di un popolo, alla sua produzione letteraria e
artistica in genere, alla religione senza nessuna implicazione morale o
moralistica. Parlare invece di cultura mafiosa dei siciliani, di berlusconismo
alias cultura del malaffare riferendosi antropologicamente ad un popolo, non mi
stancherò mai di ripeterlo, è razzismo. La deroga alla legge morale che ogni
uomo ha dentro di se è un fatto individuale e non potrà mai essere
antropologicamente riferito a "larga parte" di un popolo. E’ scomparsa la razza
caro Marino, per una scoperta scientifica. Ma questa scoperta scientifica non ha
fatto scomparire anche il razzismo. Semplicemente alla parola razza ora si
sostituisce la parola cultura.
Le radici razziste dell’antropologia, come certamente tu sai, sono state
individuate da tempo. Ti ricordo il famoso intervento di Frantz Fanon dal titolo
Razzismo e cultura
Certamente possiamo parlare delle idee dominanti di un’epoca (Marx) anche
riferendoci ad un popolo, ma parliamo di idee, (oggi domina il capitalismo, il
liberismo sfrenato), ma non di moralità e immoralità, di cultura mafiosa o del
malaffare, quella è imputabile al singolo individuo che dobbiamo indicare con
nome e cognome.
Ricordo agli amici che di questo abbiamo parlato ampiamente in una nota con
dibattito qui su facebook e precisamente: Globalmafia stimola il dibattito
Ulteriore commento alla nota Due tesi a confronto con dibattito pubblicata su
face book che chi volesse può leggere qui:
http://www.spazioamico.it/dibattito_aperto_sulla_cultura_del_popolo_siciliano.htm#mafiosità
Naturalmente caro Marino, non finirò mai di apprezzarti per l'idea geniale
dell'ANTIMAFIA GLOBALE e per avere detto che senza GIUSTIZIA SOCIALE non si può
sconfiggere la mafia!!
Marilla
Fontana PURTROPPO la produzione letteraria ed artistica non è del popolo, ma di
pochi geni. L'incuria e l'abbandono, riservati al patrimonio artistico, sono
manifestazioni del popolo. Siamo un non popolo! Storicamente tenuto a freno, ma
senza nessuna volontà di crescere e migliorare. Siamo un non popolo
rappresentato degnamente e specularmente dalla politica.
6 ore fa • Mi piaceNon mi piace piùNicola Lo Bianco non tutto il popolo, ma gran
parte del popolaccio
Giuseppe Carlo Marino Ovviamente, non tutto il popolo, caro Nicola. C'è,per
esempio, il popolo ben consapevole e combattivo, delle "Agende rosse". Le
avanguardie del pensiero critico e dell'impegno per il rinnovamento devono
lievitare, crescere, dotarsi di una ...strategia condivisa, diventare grandi
"avanguardie di massa" e legarsi insieme in una Comunità civile che io auspico
sia una specie di Internazionale antimafia. Ne hai letto il Manifesto ("Globalmafia",
edito da Bompiani)?
.Nicola Lo Bianco Caro Prof, no no l'ho letto, ma mi ripropongo di farlo e le
dirò.
Nicola Lo Bianco Io, comunque, nelle mafie includo anche il sistema(non borghese
che non esiste più)delinquenziale dell'economia contemporanea legalizzato
Giuseppina Ficarra
Non si può
dare un giudizio moralistico che colpisce indistintamente tutti in quanto
appartenenti ad un territorio o ad un popolo!
Parlare di cultura mafiosa dei siciliani riferendosi antropologicamente al
popolo siciliano o comunque a buona parte di esso, non mi stancherò mai di
ripeterlo, è razzismo. La deroga alla legge morale che ogni uomo ha dentro di se
è un fatto individuale e non potrà mai essere antropologicamente riferito a
"larga parte" di un popolo. E’ scomparsa la razza per una scoperta scientifica.
Ma questa scoperta scientifica non ha fatto scomparire anche il razzismo.
Semplicemente alla parola razza ora si sostituisce la parola cultura se ci
serviamo di questa parola per condannare una popolazione bianca, nera o gialla
che sia.
«Non è il censo, né l'origine nazionale, né il sesso, né la carica o il grado, ma sono le capacità personali di ogni cittadino che determinano la sua posizione nella società»(Jozef Stalin)
http://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=243583875669104&id=100000524797868
http://www.facebook.com/note.php?saved&¬e_id=10150446636604605#!/note.php?note_id=10150446636604605
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Marx: La Sicilia e i siciliani
In occasione del 124° Anniversario della morte di Marx, cofondatore del socialismo scientifico e grande maestro del proletariato internazionale, avvenuta il 14 marzo 1883, gli rendiamo omaggio pubblicando l'articolo che scrisse nel 1860: "La Sicilia e i siciliani".
In tutta
la storia della razza umana nessuna terra e nessun popolo hanno sofferto in modo
altrettanto terribile per la schiavitù, le conquiste e le oppressioni straniere,
e nessuno ha lottato in modo tanto indomabile per la propria emancipazione come
la Sicilia e i siciliani. Quasi dal tempo in cui Polifemo passeggiava
intorno all'Etna, o in cui Cerere insegnava ai siculi la coltivazione del grano,
fino ai giorni nostri, la Sicilia è stata il teatro di invasioni e guerre
continue, e di intrepida resistenza. I siciliani sono un miscuglio di quasi
tutte le razze del sud e del nord; prima dei sicani aborigeni con fenici,
cartaginesi, greci, e schiavi di ogni parte del mondo, importati nell'isola per
via di traffici o di guerre; e poi di arabi, normanni, e italiani.
I siciliani, durante tutte queste trasformazioni e modificazioni, hanno
lottato, e continuano a lottare, per la loro libertà. Più di trenta secoli fa
gli aborigeni della Sicilia opposero resistenza come meglio poterono al
predominio degli armamenti e all'arte militare degli invasori cartaginesi e
greci. Vennero resi tributari, ma non furono mai del tutto sottomessi né dagli
uni né dagli altri. Per lungo tempo la Sicilia fu il campo di battaglia dei
greci e dei cartaginesi; la sua gente fu ridotta in rovina e in parte resa
schiava; le sue città, abitate da cartaginesi e greci, furono i centri da cui
oppressione e schiavitù si diffusero all'interno dell'isola.
Questi primi siciliani, tuttavia, non persero mai l'occasione di lottare per la libertà, o almeno di vendicarsi quanto più potevano dei loro padroni cartaginesi e di Siracusa. I romani infine sottomisero cartaginesi e siracusani, vendendone come schiavi il maggior numero possibile. Furono così venduti tutti in una volta 30.000 abitanti di Panormo, la moderna Palermo. I romani fecero lavorare la terra siciliana da innumerevoli squadre di schiavi, allo scopo di sfamare i proletari poveri della Città Eterna con il grano siciliano. In vista di ciò, non solo resero schiavi gli abitanti dell'isola, ma importarono schiavi da tutti gli altri loro domini. Le terribili crudeltà dei proconsoli, pretori, prefetti romani sono note a chiunque abbia un certo grado di familiarità con la storia di Roma, o con l'oratoria ciceroniana. In nessun altro luogo, forse, la crudeltà romana arrivò a tali orge. I cittadini poveri e i piccoli proprietari terrieri, se non erano in grado di pagare lo schiacciante tributo loro richiesto, erano senza pietà venduti come schiavi, essi stessi o i loro figli, dagli esattori delle imposte. Ma sia sotto Dionigi di Siracusa che sotto il dominio romano, in Sicilia accaddero le più terribili insurrezioni di schiavi, nelle quali popolazione indigena e schiavi importati facevano spesso causa comune. Durante la dissoluzione dell'impero romano, la Sicilia fu assalita da vari invasori. Poi i mori se ne impadronirono per un certo periodo; ma i siciliani, soprattutto le popolazioni originarie dell'interno, resistettero sempre, con più o meno successo, e passo dopo passo mantennero o conquistarono diversi piccoli privilegi. Quando le prime luci avevano appena cominciato a diffondersi sulle tenebre medievali, i siciliani avevano già ottenuto con le armi non solo varie libertà municipali, ma anche i rudimenti di un governo costituzionale, quale allora non esisteva in nessun altro luogo. Prima di ogni altra nazione europea, i siciliani stabilirono col voto il reddito dei loro governi e dei loro sovrani. Così il suolo siciliano si è sempre dimostrato letale per gli oppressori e gli invasori, e i Vespri siciliani restarono immortalati nella storia.
Quando la casa di Aragona ridusse i siciliani alle dipendenze della Spagna, essi seppero come mantenere più o meno intatti i loro privilegi politici; e fecero la stessa cosa sotto gli Asburgo e i Borboni. Quando la rivoluzione francese e Napoleone espulsero da Napoli la tirannica famiglia regnante, i siciliani - incitati e sedotti dalle promesse e dalle garanzie inglesi - accolsero i fuggiaschi, e li sostennero nella lotta contro Napoleone col sangue e col denaro. Tutti conoscono il successivo tradimento dei Borboni, e i sotterfugi o le impudenti smentite con cui l'Inghilterra ha cercato e continua a cercare di nascondere il fatto di avere slealmente abbandonato i siciliani e le loro libertà alle tenere grazie dei Borboni. Attualmente, l'oppressione politica, amministrativa, e fiscale schiaccia tutte le classi della popolazione; e queste ingiustizie sono sotto gli occhi di tutti. Ma quasi tutte le terre sono ancora nelle mani di un numero relativamente piccolo di latifondisti o baroni. In Sicilia vengono tuttora mantenuti i diritti medievali del possesso della terra, salvo che chi coltiva non è più un servo della gleba; non lo è più circa dall'undicesimo secolo, quando divenne un libero fittavolo. Le condizioni dell'affitto sono, tuttavia, generalmente così oppressive, che la stragrande maggioranza degli agricoltori lavora esclusivamente a vantaggio dell'esattore delle imposte e del barone, producendo a malapena qualcosa in più rispetto alle imposte e all'affitto, e rimanendo essi stessi o disperatamente, o almeno relativamente, poveri. Pur producendo il famoso grano siciliano e frutti eccellenti, costoro vivono miseramente di fagioli tutto l'anno. Ora la Sicilia è di nuovo insanguinata, e l'Inghilterra è la distaccata spettatrice di queste nuove orge dell'infame Borbone, e dei suoi non meno infami favoriti, laici o clericali, gesuiti o uomini d'arme. I chiassosi declamatori del parlamento britannico riempiono l'aria di vuote chiacchiere sulla Savoia e i pericoli della Svizzera, ma non hanno neppure una parola da dire sui massacri delle città siciliane. Non un grido di indignazione si leva in tutta Europa. Nessun capo di governo e nessun parlamento chiede la messa al bando di quell'idiota assetato di sangue di Napoli(1). Solo Luigi Napoleone, per questo o quello scopo - naturalmente non per amore della libertà, ma per rafforzare la sua famiglia o l'influenza francese - può forse fermare il macellaio nella sua opera distruttiva. L'Inghilterra griderà alla perfidia, sputerà fuoco e fiamme contro il tradimento e l'ambizione napoleonica, ma i napoletani e i siciliani saranno alla fin fine i vincitori, anche sotto un Murat o qualsiasi nuovo dominatore. Ogni cambiamento non sarà che verso il meglio. (Marx-Engels, Opere complete, Editori Riuniti, vol. XVII, pagg. 375-377).
(1) Francesco II
Dialogo
tra un leghista del Nord e un leghista del Sud 07-05-2010
Nel pieno della crisi capitalistica, che, come è stato efficacemente detto, ha già modificato il paese antropologicamente sul piano sociale, culturale, politico ed economico; in una crisi che accentua, aggrava gli elementi di insicurezza e di paura per tutti; con un Pil sceso in dieci anni di oltre il 4%, con una disoccupazione all’8,8% e nel contesto di una gestione politica di destra della crisi medesima, tesa a scaricarla sul taglio del welfare, anche col federalismo fiscale, sì che le regioni meridionali ne subiranno conseguenze drammatiche; nel quadro di un attacco generalizzato per distruggere le posizioni dei lavoratori e le organizzazioni sindacali autonome, sì da avere solo sindacati “collaboranti”, cioè complici del potere politico padronale e in una recrudescenza e diffusione di massa del razzismo e di culture “fasciste”; in coincidenza con una grave pesante sconfitta delle organizzazioni politiche di classe e quale sintomo del malessere profondo che attraversa il paese, assistiamo a un dialogo veramente allucinante, a distanza, fra leghisti del nord e del sud, speculari gli uni agli altri.
Quello del nord attacca accusando i meridionali di essere succubi delle organizzazioni criminali mafiose: camorra, ‘ndrangheta, sacra corona unita, cosa nostra; quello del sud risponde dicendo che anche loro, i padani, si sono serviti e si servono di queste organizzazioni criminali per la gestione-trasporto nelle regioni meridionali dei rifiuti industriali tossici e hanno dato e danno una mano interessata e partecipe per il riciclaggio, a livello di società finanziarie e industriali, del “denaro sporco”. Si scambiano poi con veemenza l’accusa di essere entrambe, il nord ed il sud, società in cui domina l’omertà. Il leghista del sud dice infatti a quello del nord che l’omertà è dettata, nel suo ambiente, dall’egemonia, a livello territoriale, del potere politico delle mafie, dal timore, dalla paura che l’autorità cui denunciare un sopruso, una minaccia, possa essere legata, condizionata dalle mafie; e gli rinfaccia, quasi a mo’ di autoconsolazione e con un certo compiacimento, che anche loro, durante il periodo del terrorismo, sono stati omertosi, paurosi di denunciare le minacce e la violenza di gruppi armati.
E quando il leghista del nord lo attacca dicendogli che loro, quelli dei sud, non hanno senso civico e per qualunque cosa si raccomandano, si affidano sempre a qualcuno, gli viene di contro detto che anche il Bossi per il figlio “Trota” si è raccomandato a tutti per farlo promuovere a scuola e poi l’ha sistemato nei posti di comando della Lega, dimostrando così che il familismo vive e vegeta anche dalle loro parti.
Sembra che entrambi trovino una consonanza e si riconoscano nel detto che caratterizza da tempo il nostro costume nazionale: “tengo famiglia”, e nell’altro, omologo, “fan così tutti”; nessuno dei due dialoganti, ovviamente, considerati i punti culturali di partenza, svolge la benché minima critica nei confronti della concezione del mondo di cui sono rispettivamente la piatta espressione.
Il messaggio che danno è la fotografia della miseria morale che domina il paese, dell’offuscamento di ogni valore di riscatto e rinascita, dell’oppressione, anzi dell’egemonia culturale del padronato, dell’imperante berlusconismo.
Non c’è negli uni e negli altri, né, per quanto sopra detto, potrebbe esserci, il benché minimo riferimento a coloro che, al nord e al sud, hanno saputo e sanno essere uomini, cioè eretici, cittadini che scelgono il fronte della lotta, che hanno tenuto e tengono alta la testa: operai, contadini, intellettuali, sindacalisti, dirigenti politici e oggi anche imprenditori. Solo, infatti, chi ha affrontato e affronta il rischio insito in ogni scelta, specie in quella per la libertà, la dignità e la democrazia, si pone come soggetto e non più come comparsa, persona, maschera nel significato che nell’antica lingua latina aveva la parola persona.
Non un leghista del sud, sia campano che siciliano, vittima quest’ultimo della subcultura del sicilianismo, porta come esempio di riscatto e di dignità le scelte compiute da uomini come Placido Rizzotto, Accursio Miraglia, Giancarlo Siani, Giuseppe Fava, Mario Francese, Beppe Alfano, Pio La Torre, Falcone, Borsellino, Libero Grassi, Peppino Impastato, solo per citarne alcuni, i primi che vengono alla memoria. Questi non sono stati degli eroi, ma solo uomini che hanno scelto di essere liberi, di non morire ogni giorno, come tutti coloro, che, secondo il canone indicato dal leghista del sud, peggio se cultore del sicilianismo, si nascondono opportunisticamente dietro l’usbergo della c.d. paura. Falcone, con un’immagine forte amava ripetere che egli, non avendo paura, avendo scelto di essere uomo, cioè soggetto libero, sarebbe morto una sola volta, mentre chi soggiaceva vigliaccamente alla paura, moriva ogni giorno ed era nella società una “maschera”, un cadavere ambulante.
Non un leghista del nord che, assieme a quelli del sud, indichi l’esempio luminoso degli antifascisti che numerosi non accettarono la compromissione col regime, difendendo la libertà loro e nostra con duri anni di carcere, o quello dei condannati a morte della Resistenza che affrontarono a testa alta il nemico, tramandando a noi un messaggio forte di dignità; ovvero ancora quello fulgido di Guido Rossa che scelse di lottare per la libertà degli operai a non avere paura e non soggiacere alle vigliacche minacce di gruppi armati autoproclamatisi capi del popolo e detentori delle sue sorti; ovvero di magistrati come Alessandrini e avvocati come Ambrosoli che non si abbassarono alle minacce della mafia e/o dei terroristi, bollati giustamente, questi ultimi, da Berlinguer come espressione di un imbelle “diciannovismo rosso”.
Entrambi, il leghista del sud e quello del nord, lontani a distanza stellare dalla dignità propria di un uomo, non immaginano di poter portare ad esempio la scelta libera di un cittadino come Saviano, che non a caso viene attaccato da chi oggi esprime al massimo livello il plebeismo della subcultura civile e politica di gran parte degli italiani; né pensano di identificarsi nella coraggiosa civile battaglia dei giovani del “No pizzo” di Palermo, che hanno fatto dire a Ingroia, giustamente, che “una rivoluzione culturale si sta avviando in Sicilia”, rivoluzione che ci auguriamo rappresenti una nuova linea della palma che attraversi veloce l’intero paese.
Un amico e compagno siciliano ebbe la dignità di sapere affrontare e dire un no duro a un delinquente della mafia come Genco Russo che perorava dall’amministrazione comunale di un grosso centro dell’agrigentino favori per suoi protetti; e lo stesso succitato amico, trasferitosi poi in una città del nord, minacciato con una scritta anonima, attaccata alla porta di casa sua, di essere gambizzato dagli “autonomi” nella seconda metà degli anni ’70, perché comunista del Pci, fece subito denuncia alla procura rendendola pubblica, sì che sapessero che non aveva paura, ché altrimenti sarebbe stato già un uomo morto.
Ai giovani del nord e del sud occorre indicare sempre ad esempio il comportamento dei Meli, i quali, a testa alta, dissero ai greci che volevano sottometterli che “sarebbe grande viltà e debolezza non affrontare ogni rischio della lotta prima di essere fatti schiavi”: solo così infatti essi hanno salvato e tramandato alla memoria dei posteri la loro dignità di uomini liberi e chiunque voglia essere uomo non può non seguire la fulgida strada da loro indicata; ché, come amava ripetere Sciascia, solo l’eretico, cioè chi sceglie non pronandosi al potere altrui, è un uomo.
Cultura del popolo siciliano Riflessioni di Giuseppina Ficarra
Leggendo "Riflessioni e commenti su I Padrini di Giuseppe Carlo Marino" di Gabriella Portalone (http://www.isspe.it/Ago2002/portalone_g_.htm) sembrerebbe che il popolo siciliano non sia mai stato attore autonomo di rivolte, ma sia sempre stato strumento nelle mani dei baroni che ricattavano il potere centrale minacciando rivolte del popolo, aizzato da loro a ribellarsi al potere costituito nell'illusione di ottenere condizioni meno miserevoli di vita. Il popolo in verità non avrebbe una sua cultura.
Dice inoltre la Portalone, commentando il libro di Marino, <<Un popolo abituato all’anarchia e al dominio dei più forti, cioè alla prevaricazione e alla prepotenza, viene naturalmente abituato ad accettare supinamente la mentalità mafiosa, l’individualismo, il rifiuto di ogni tipo di sottomissione a poteri legittimi, la negazione dello Stato. Di conseguenza tutti i siciliani, per dirla come Gaetano Falzone, sono mafiosi,- è una questione di percentuale, - o come affermò dopo lunghi e dettagliati studi Franchetti, sono mafiosi per proliferazione genetica.>>
Nella presentazione del libro La Sicilia delle stragi Carlo Marino afferma: <<Questo volume dimostra almeno la credibilità della linea interpretativa che ho seguito ai fini di una valorizzazione della cultura siciliana come cultura “trafitta”, come cultura “crocifissa”, dalle classi dirigenti che si sono susseguite e che purtroppo hanno rappresentato il potere.>> Senza dubbio nel libro c'è veramente una valorizzazione della cultura del popolo siciliano, attore in primo piano di grandi lotte e rivolte.
A questo punto, crocifissione o meno della cultura, mi chiedo cosa veramente pensa Marino. Me lo chiedo anche perché, come ci dice Luigi Ficarra in "Dalla bolla di componenda....", lo storico Giuseppe Carlo Marino, si serve del concetto di egemonia di Gramsci, per dar ragione della presenza della cultura mafiosa in parte del popolo siciliano.
Se poi penso che Giuseppe Carlo Marino ha definito la sua Storia della mafia "ardimentosa", ritenendo necessario usare, oltre alle fonti classiche della ricerca storiografica, "metodi di ricerca di tipo indiziario", (http://www.centroimpastato.it/tesauro/biblio.htm) e poiché per me per via indiziaria non si dovrebbe condannare nessuno, tanto meno un popolo, mi chiedo se si è mai fatta una verifica concernente la “mentalità” del popolo siciliano che sia in qualche modo scientifica
La presenza della cultura mafiosa tra gli studenti, classe molto rappresentativa di tutti gli strati della popolazione, fin’ora non è stata confermata dalle ricerche fatte (Franco Di Maria e Falgares, Daniela Dioguardi in Liberazione 28-Gennaio-2006, La Torre a_sud_europa_anno-3_n-16) Non si tratta di ricerche rigorosamente scientifiche? Bene, ce ne sono altre che dimostrano il contrario? Non risulta neanche dall’esperienza pluridecennale di insegnamento mia, di colleghe mie molto affidabili, di Daniela Dioguardi con la quale ho avuto uno scambio di idee a proposito. Il sociologo Giovanni Lo Monaco (http://www.spazioamico.it/Giovanni_Lo_Monaco.htm) in una ricerca scientificamente seria (fa riferimento anche a ricerche effettuate in campo nazionale), pubblicata su Segno – mensile
Palermo – Anno XXXIII – N. 289+ - Settembre-Ottobre 2007, confuta molti luoghi comuni riguardo l’ipotetica cultura mafiosa del popolo siciliano.
Non mancano ricerche sicuramente attendibili su la "cultura", la "struttura mentale" del mafioso che è stato analizzato e studiato da medici e psicologi, proprio in quanto criminale mafioso. Ma questa è un’altra cosa.
Giuseppina Ficarra
“SICILIANISMO E LEGHISMO”Una risposta che è un attacco stupido e falso a Pietro, di L.F.
Padova, lunedì 11 Agosto 2008
( Riceviamo e volentieri pubblichiamo la lettera al quotidiano LIBERAZIONE, del nostro concittadino residente a Padova, L. F. Nei condividiamo il taglio e le motivazioni. La mail è del 13 agosto scorso V. S.)
Caro Direttore,
ho letto con ritardo, non avendo trovato il 6 agosto Liberazione in edicola ed avutola quindi da un compagno solo alcuni giorni dopo, l’interessante ed intelligente lettera - articolo di Umberto Santino dal significativo titolo : <<La memoria secondo Lombardo e seguaci. La storia della Sicilia non ha bisogno di “sicilianismi”>>. Ho avuto modo di occuparmi con impegno della problematica oggetto dell’articolo di Santino, per avere svolto a Padova, quale dirigente dei Giuristi Democratici, dei dibattiti su “mafia e politica” con Caselli ed anche con il sindaco di Gela, Crocetta.
Un segno grave della sconfitta del movimento operaio, non solo elettorale ma soprattutto storica e culturale, e quindi della deriva cui siamo pervenuti, è dato dall’incontro, sugli stessi temi, fra <<leghismo>> e <<sicilianismo>> e dall’egemonia da entrambi esercitata su larghe masse di popolo: ceto medio, sottoproletariato ed in parte non marginale anche proletariato. Entrambi, per i motivi evidenziati da Santino, conducono l’attacco contro <<Roma ladrona>> e contro Garibaldi : i leghisti per conservare alla borghesia capitalistica del nord, col federalismo fiscale, tutto il pil realizzato in loco e i sicilianisti e seguaci ora di Lombardo e prima di Cuffaro per contrattare ed ottenere maggiori finanziamenti e contributi, specie dalla comunità europea, per la borghesia mafiosa. Categoria, questa, molto usata e credo anche elaborata per primo da Mario Mineo nei suoi interessanti scritti sulla Sicilia (Edizioni Flaccovio 1995).
Come cento anni fa, ricorda Santino, la stragrande maggioranza, anzi la quasi totalità del ceto medio siciliano, dominato e subalterno alla cultura della borghesia mafiosa sottoscrisse una petizione a favore dell’on. Palizzolo, uomo del Crispi e mandante del delitto Notarbartolo - (furono raccolte circa 250.000 firme) -, così oggi quasi tutto il ceto medio siciliano, subalterno alla cultura ed all’ideologia della mafia, ha dimostrato con il voto di essere per Cuffaro e Lombardo, espressione politica, entrambi, degli interessi della borghesia mafiosa. E non è certo casuale la cesura che è stata operata nella memoria del popolo siciliano in relazione al grande movimento di lotta dei <<Fasci dei lavoratori siciliani>> : il più importante movimento di massa anticapitalistico d’Europa, come lo definì il segretario del Partito socialdemocratico tedesco di fine ‘800, il quale provvide, per questo motivo, a far tradurre in lingua tedesca il famoso libro di A. Rossi sui Fasci Siciliani. Il che fa comprendere, anche a chi non vuole, che la battaglia contro la mafia e la sua ideologia, ancora oggi egemone, non può essere condotta solo a livello giudiziario e di polizia, ma soprattutto a livello politico di massa e culturale. Così come avevano compreso Falcone e Borsellino e tutti gli intellettuali più avanzati della Sicilia, da Sciascia a Consolo. Il sicilianismo, così come il maschilismo, l’omofobia, il razzismo, l'ideologia della mafia, esprimono una <<cultura>> e vanno quindi combattuti, sì a livello politico, ma anche ed in particolare a livello culturale, operando nel popolo una rivoluzione intellettuale e morale, di tipo radicale.
La deriva cui siamo pervenuti è tale che oggi, come leggo in internet, un ex dirigente politico siciliano di area socialista, anche con pregresse responsabilità primarie di direzione sindacale, invece di porsi il difficile problema politico e culturale di come riunificare le masse sfruttate del nord con quelle ancor più sfruttate del sud in una comune lotta anticapitalistica, si adagia in una posizione subalterna di critica antiunitaria, alla Lombardo.
L. F.
A quanti citano sempre il risultato elettorale in Sicilia del 2001, il famoso 61 a 0!
Ilaria Sabbatini