ARCHIVIO STAMPA |
TRATTAMENTO FATTO ALLA SICILIA IN OTTANTA ANNI di UNITÀ ITALIANA
di Antonio Canepa – da “La Sicilia ai Siciliani!” (1944, firmato con lo pseudonimo di “Mario Turri”)
La Sicilia non si era
mossa, nel 1860. O, se si mosse, dove si mosse, non fu certo nel senso unitario
voluto dai piemontesi. Fu per proclamare una Sicilia indipendente, repubblicana,
nella quale la povera gente potesse vivere in pace senza essere sfruttata da
nessuno.
Ma questi movimenti non potevano piacere. E così, prima ancora che terminasse il
1860, Bixio, mandato da Garibaldi, dovette correre a Bronte e in molti altri
paesi, con truppe non siciliane, per domare la vera, autentica rivoluzione
siciliana che incominciava.
A Bronte fece fucilare cinque persone. Altrove, di più. Impose taglie e multe
alla popolazione, che cercò di atterrire in tutti i modi. “Missione maledetta
(confessò più tardi lo stesso Bixio) alla quale un uomo della mia natura non
dovrebbe mai essere mandato!”.
Poi gli italiani scesero in Sicilia. Luogotenenti, Commissari civili, stati
d’assedio e altre misure eccezionali imperversarono in Sicilia a partire
dall’unificazione.
Il primo stato d’assedio fu proclamato in Sicilia nel 1862; ed esso, come disse
Crispi, lasciò terribili tracce.
Nell’anno seguente, si ebbe di fatto il secondo stato d’assedio con la missione
del generale Govone il quale apertamente violò le leggi dello Stato.
Sotto il generale Govone, per combattere i renitenti alla leva, i Comuni
siciliani venivano cinti da cordoni militari o presi addirittura d’assalto;
senza mandato di cattura venivano arrestati sindaci e consiglieri comunali;
venivano presi ostaggi, comprese le donne incinte, una delle quali (Benedetta
Rini, di Alcamo), quasi al termine della gravidanza, morì in carcere dopo
quattro giorni di convulsioni. Fu persino applicata la pena dell’acqua!
E quanti innocenti furono martoriati! Un disgraziato operaio, Antonio Cappello,
sordomuto dalla nascita, venne sottoposto alla tortura nell’Ospedale Militare di
Palermo, come se fingesse d’esser muto e sordo per sottrarsi al servizio
militare: sul suo cadavere si poterono contare 154 bruciature fatte col ferro
rovente!
Tutti questi sono fatti. Fatti documentati. Basta sfogliare il libro di Zingali:
“ Liberalismo e fascismo nel Mezzogiorno d’Italia”, volume primo, da pagina 232
in poi: ci troverete questo ed altro! E non è un separatista che scrive, badate,
ma un fascista il quale è stato persino segretario federale!
Nel 1866 la pazienza finì. Il popolo di Palermo si ribellò come un solo uomo.
“Una masnada di ladroni ha governato per sei dolorosissimi anni la patria
nostra. Una masnada di uomini feroci l’ha insanguinata”: così incominciava il
proclama rivoluzionario del 1866.
Nella città e nella provincia di Palermo, la rivoluzione assunse, dal 16 al 22
settembre, proporzioni tali, da costringere il governo ad inviarvi
sollecitamente, con la qualità di Regio Commissario, il generale Raffaele
Cadorna, alla testa di due divisioni di fanteria, un reggimento di cavalleria ed
una brigata di artiglieria.
E vinsero loro, i ladri e gli assassini del popolo. Fucilarono senza processo
migliaia di cittadini. Mentre invece gli insorti siciliani, che avevano preso
prigionieri duemila soldati, non avevano ad essi toccato un capello.
“Repressa la rivolta e ristabilito l’ordine, le cose continuarono come prima.
Non una legge fu votata, non un provvedimento fu preso per portare qualche
rimedio ai mali esistenti, che andavano continuamente aggravandosi”. Sapete chi
scrive queste parole? Non un separatista; ma dei bravi fascisti, unitari,
Libertini e Paladino, a pagina 752 della loro “ Storia di Sicilia” pubblicata
appena dieci anni fa.
Nel 1875 le cose continuavano a peggiorare. Il governo italiano propose misure
eccezionali di polizia contro la Sicilia. I deputati siciliani insorsero.
Ascoltate quel che disse Paolo Paternostro:
“Voi parlate delle condizioni eccezionali in cui si trova la Sicilia, del
malcontento che vi regna. Ma, domando io, voi che cosa avete fatto per la
Sicilia? Cosa ha fatto il governo? Nulla. O tutto il contrario di quel che
doveva.
Se voi date un’occhiata a tutti i servizi della Sicilia, a tutte le
amministrazioni, voi troverete che dappertutto, e sempre, il governo si è
condotto male.
Sceglierò qualche esempio.
Sapete voi come è stata trattata la magistratura in Sicilia?
Quando ci sono stati i pretori che non hanno voluto secondare gli ordini
dell’autorità politica, sono stati minacciati, talvolta traslocati.
E dei nostri impiegati (altro esempio) che cosa ne avete fatto? Ve lo dirò in
due parole.
Quando voi spedite in Sicilia qualcuno, voi fate supporre che lo mandate per
castigo, come se lo mandate in esilio, e gli dite: – Andate laggiù, andate in
Sicilia; poi, se vi comporterete bene, se sarete zelante, allora provvederemo.
Questi signori vanno laggiù coll’idea di trovarsi in mezzo a gente che non valga
la pena di dover rispettare come tutto il resto d’Italia; e fanno dello zelo
eccessivo; e diventano spesso agenti provocatori; ed accrescono il malcontento.
E dei nostri impiegati di laggiù, degli impiegati siciliani, che cosa ne avete
fatto? dei piccoli impiegati, soprattutto?
Perché a un vostro prefetto è saltato in capo di fare un rapporto più o meno
insolente e offensivo per la Sicilia, voi credete sul serio che molti disordini
si debbano alla così detta mafia, che si sarebbe infiltrata tra gli impiegati, e
... botte da orbo, traslocazioni, sbalzando gente con uno stipendio di fame in
lontani paesi, senza neanche indennità di viaggio, spostando e rovinando tutti i
loro interessi.
Che ne avete fatto delle nostre ferrovie? E delle nostre strade obbligatorie? E
dei beni dei Gesuiti e dei Liguorini, che erano destinati alla pubblica
istruzione?
Nelle nostre amministrazioni non c’è che il disordine, il caos. E le popolazioni
si abituano a pensare e a dire: – Ma questo non è un governo; le imposte se le
fanno pagare; il fiscalismo ci perseguita sotto tutte le forme, ci assedia e ci
tortura; ma quando si tratta di amministrare, amministrazione non ce n’è.
Che cosa si fa? Si
ricorre a mezzi eccezionali di polizia, si ricorre al governo militare, invece
di migliorare economicamente il paese!”.
Ecco quel che gridò in Parlamento il deputato siciliano Paolo Paternostro. Le
sue parole sembrano scritte oggi. E tutti noi siciliani, oggi, potremmo gridarle
al governo fascista. Ma del governo fascista parleremo tra poco.
Dopo Paternostro parlò, nello stesso senso, Colonna di Cesarò. Poi Diego Tajani.
Quest’uomo, patriota, esule e volontario delle guerre d’indipendenza, era stato
dopo il 1860 Procuratore Generale alla Corte d’Appello di Palermo. E poiché era
un uomo onesto e senza paura, aveva sentito il dovere di spiccare mandato di
cattura contro il questore di Palermo, e di mettere sotto processo il prefetto
di Palermo, colpevoli ambedue di abominevoli abusi. Il governo, naturalmente, si
era messo contro di lui. Egli aveva dato subito le dimissioni chiudendosi in uno
sdegnoso silenzio.
Eletto deputato, fu più tardi per due volte Ministro di Grazia e Giustizia.
Orbene, quando vide che la Sicilia veniva nuovamente provocata e calunniata,
Diego Tajani non seppe più tacere.
Per due giorni, innanzi al Parlamento esterrefatto, espose l’una dopo l’altra
tutte le ingiustizie, le canagliate, le infamie di cui il governo italiano si
era macchiato: stupenda requisitoria che tutti i siciliani dovrebbero imparare a
memoria!
Concluse con questo avvertimento solenne: Ricordatevi che la Sicilia è un’isola,
e le isole si considerano come qualcosa di distaccato, di autonomo!
Parole sprecate! La legge contro la Sicilia fu approvata. E nuove violenze si
abbatterono sulla nostra disgraziata patria.
La Sicilia è stata sempre considerata come terra nemica, terra conquistata, da
conservare con la forza. Per questo motivo, nel 1875, si tenevano in Sicilia
ventitré battaglioni di fanteria e bersaglieri; due squadroni di cavalleria;
quattro plotoni di bersaglieri montati; 3.130 carabinieri e numerose altre forze
sussidiarie, fra le quali principalmente guardie di pubblica sicurezza e guardie
a cavallo!
Si giunse così ai Fasci siciliani dei lavoratori, fondati e diretti da Giuseppe
De Felice. Che cosa voleva la Sicilia nel 1893 – 94? Quel che ha sempre voluto:
giustizia e libertà.
Il governo presieduto da Giolitti, riversò nell’isola una moltitudine di
soldati, i quali non fecero che accrescere il malumore nel popolo.
L’inevitabile accadde: sul principio del 1893, uno scontro ebbe luogo a
Caltavuturo tra la folla e la truppa. La truppa osò sparare sui pacifici
paesani, un gran numero dei quali rimasero uccisi.
Promise Giolitti di far aprire un’inchiesta contro i militari che avevano fatto
fuoco; ma non mantenne. Al contrario, durante l’intero anno, lasciò che la
polizia e l’esercito si abbandonassero a tutti gli eccessi: nelle giornate di
dicembre, che furono particolarmente accanite, più di 200 siciliani vennero
uccisi, mentre la forza pubblica ebbe un solo morto.
Vedendosi assassinati, i siciliani insorsero dappertutto.
Ruppero fili telegrafici; incendiarono municipi, preture, esattorie, uffici del
registro e del catasto, agenzie delle imposte, archivi notarili, casotti
daziari; liberarono i carcerati; tentarono di disarmare carabinieri e soldati.
A questo punto, il Re concepì la mostruosa idea di affidare a un siciliano la
repressione del movimento siciliano. Crispi accettò la parte di Caino.
Proclamò lo stato d’assedio; e nominò commissario straordinario con pieni poteri
il generale Morra Di Lavriano, che pochi giorni prima aveva mandato a Palermo
come prefetto.
Venne richiamata alle armi la classe del 1869; e più di 40.000 uomini vennero
sbarcati in Sicilia. I capi del movimento furono gettati in carcere: e primo fra
tutti De Felice che, essendo deputato, non poteva neppure essere arrestato senza
l’autorizzazione della Camera. I Fasci siciliani dei lavoratori (che erano ormai
166 con 300.000 associati) furono sciolti e le loro sedi occupate militarmente.
Proibiti gli assembramenti e le riunioni. Istituita la censura.
Per più di sette mesi la Sicilia fu sottoposta alla legge marziale. Gli arresti
si facevano senza bisogno di prove. E le condanne venivano appioppate, il più
delle volte, senza che gli accusati potessero neppure difendersi.
Le accuse, del tutto immaginarie. “Avere cooperato alla emancipazione materiale
e morale dei lavoratori” era un reato severamente represso!
Nel giugno 1894, più di 1800 siciliani erano stati già condannati al domicilio
coatto. Molti, a pene più gravi. De Felice a 18 anni di carcere, Bosco, Barbato
e Verro a 12 anni.
Alla Camera dei Deputati, Felice Cavallotti dichiarò che il governo aveva
violato le leggi e lo stesso Statuto. Poi prese la parola Matteo Renato
Imbriani:
“Voi (disse rivolto a Crispi) avete stracciato ad una ad una tutte le pagine
dello Statuto. Avete fatto scempio di tutte le nostre libertà…
Ci sono molti che dicono: – I Borboni bombardavano. – Ma bombardavano quando una
città era in piena ribellione. Ma i Borboni non hanno mai fatto tirare sopra
folle inermi ed affamate…”.
La Sicilia elesse deputati De Felice, Bosco e Barbato, che languivano in
carcere. L’elezione, si capisce, venne annullata.
Così continuarono le cose, male sempre, fino alla guerra. Dal 1915 al 1918 anche
e soprattutto in Sicilia i contadini e gli artigiani, i professionisti e gli
studenti vennero strappati dalle loro case e mandati al macello.
Ma quando la guerra finì, chiedemmo la resa dei conti. E l’avremmo ottenuta, per
Dio! se questo miserabile governo fascista non avesse rinnovato un sistema di
poliziesca tirannide sopprimendo le ultime libertà e raddoppiando le nostre
catene.
ANTONIO CANEPA (MARIO TURRI)
fonte http://www.psi2000.it/Sicilianismo/siciliamaltrattata.asp