Il materialismo dialettico è la concezione del mondo del partito
marxista-leninista.Si chiama materialismo dialettico perché il suo modo di
considerare i fenomeni della natura, il suo metodo per investigare e per
conoscere i fenomeni della natura è dialettico, mentre la sua interpretazione,
la sua concezione di questi fenomeni, la sua teoria, è materialistica. Il
materialismo storico estende i princìpi del materialismo dialettico allo studio
della vita sociale, li applica ai fenomeni della vita sociale, allo studio della
società, allo studio della storia della società.
Definendo il loro metodo dialettico Marx ed Engels si riferiscono di solito a
Hegel, come al filosofo che ha fissato i tratti fondamentali della dialettica.
Questo però non vuol dire che la dialettica di Marx e di Engels sia identica a
quella di Hegel. In realtà Marx ed Engels hanno preso dalla dialettica di Hegel
solo il suo "nucleo razionale", gettando via la corteccia idealistica hegeliana
e sviluppando la dialettica, per imprimerle un carattere scientifico moderno.
"Il mio metodo dialettico — dice Marx — non solo differisce dal metodo hegeliano
nella base, ma ne è diametralmente l'opposto. Per Hegel il processo del
pensiero, che egli trasforma perfino, sotto il nome di Idea, in un soggetto
indipendente, è il demiurgo (il creatore) della realtà, la quale è solo la
manifestazione estrinseca dell'Idea. Per me, al contrario, l'elemento ideale non
è che l'elemento materiale, trasportato e trasposto nel cervello dell'uomo".
Definendo il loro materialismo Marx ed Engels si riferiscono di solito a
Feuerbach, come al filosofo che ha ristabilito nei suoi diritti il
materialismo. Questo però non vuol dire che il materialismo di Marx e di Engels
sia identico a quello di Feuerbach. Marx ed Engels, in realtà, hanno preso dal
materialismo di Feuerbach solo il "nucleo essenziale", sviluppandolo in una
teoria filosofica scientifica del materialismo e respingendone le
sovrapposizioni idealistiche ed etico-religiose. È noto che Feuerbach, pur
essendo fondamentalmente materialista, insorgeva contro il termine
materialismo. Engels ha dichiarato più di una volta che Feuerbach "malgrado la
'base' [materialistica], non si è ancora liberato dai vecchi impacci
idealistici", che "il vero idealismo di Feuerbach salta agli occhi non appena si
arriva alla sua filosofia della religione e alla sua etica".
Dialettica deriva dalla parola greca dialego, che significa conversare,
polemizzare. Per dialettica si intendeva, nell'antichità, l'arte di raggiungere
la verità, scoprendo le contraddizioni racchiuse nel ragionamento
dell'avversario e superandole. Alcuni filosofi dell'antichità ritenevano che la
scoperta delle contraddizioni nel pensiero e il cozzo delle opposte opinioni
fossero il mezzo migliore per scoprire la verità.
Questo modo dialettico di pensare, esteso in seguito ai fenomeni della natura, è
diventato il metodo dialettico di conoscenza della natura, metodo secondo il
quale i fenomeni della natura sono perpetuamente in moto e in trasformazione e
lo sviluppo della natura è il risultato dello sviluppo delle contraddizioni
nella natura, il risultato dell'azione reciproca delle forze opposte nella
natura. Nella sua essenza, la dialettica è diametralmente l'opposto della
metafisica.
Il metodo dialettico marxista è caratterizzato dai seguenti tratti essenziali:
a) Contrariamente alla metafisica, la dialettica considera la natura non come un
ammasso casuale di oggetti, di fenomeni, staccati gli uni dagli altri, isolali e
indipendenti gli uni dagli altri, ma come un tutto coerente unico, nel quale gli
oggetti, i fenomeni sono organicamente collegati tra loro, dipendono l'uno
dall'altro e si condizionano reciprocamente. Perciò il metodo dialettico ritiene
che nessun fenomeno della natura può essere capito se preso a sè, isolatamente,
senza legami coi fenomeni che lo circondano, poiché qualsiasi fenomeno, in
qualsiasi campo della natura, può diventare un assurdo se lo si considera al di
fuori delle condizioni che lo circondano, distaccato da esse; e, al contrario,
qualsiasi fenomeno può essere compreso e spiegato se lo si considera nei suoi
legami inscindibili coi fenomeni che lo circondano, condizionalo dai fenomeni
che lo circondano.
b) Contrariamente alla metafisica, la dialettica considera la natura non come
uno stato di riposo e di immobilità, di stagnazione e di immutabilità, ma come
uno stato di movimento e di cambiamento perpetui, di rinnovamento e sviluppo
incessanti, dove sempre qualche cosa nasce e si sviluppa, qualche cosa si
disgrega e scompare.
Perciò il metodo dialettico esige che i fenomeni vengano considerati non solo
dal punto di vista dei loro mutui legami e del loro condizionamento reciproco,
ma anche dal punto di vista del loro movimento, del loro cambiamento e del loro
sviluppo, dal punto di vista del loro sorgere e del loro sparire.
Per il metodo dialettico è soprattutto importante non già ciò che, a un dato
momento, sembra stabile ma già comincia a deperire, bensì ciò che nasce e si
sviluppa, anche se nel momento dato sembra instabile poiché per il metodo
dialettico solo ciò che nasce e si sviluppa è invincibile. "La natura intera —
dice Engels — dalle sue particelle infime ai corpi più grandi, dal granellino di
sabbia fino al sole, dal protista [cellula vivente primitiva] fino all'uomo, si
uova in un processo eterno di nascita e di distruzione, in un flusso
incessante, in perpetuo movimento e cambiamento". Perciò, dice Engels, la
dialettica "considera le cose e il loro riflesso mentale principalmente nelle
loro relazioni reciproche, nel loro concatenamento, nel loro movimento, nel loro
sorgere e sparire".
c) Contrariamente alla metafisica, la dialettica considera il processo di
sviluppo non come un semplice processo di crescenza, nel quale i cambiamenti
quantitativi non portano a cambiamenti qualitativi, ma come uno sviluppo che
passa da cambiamenti quantitativi insignificanti e latenti a cambiamenti aperti
e radicali, a cambiamenti qualitativi, uno sviluppo nel quale i cambiamenti
qualitativi non si producono gradualmente ma rapidamente, all'improvviso, a
salti da uno stato all'altro, e non si producono a caso ma secondo leggi
oggettive, come risultato dell'accumulazione d'impercettibile e graduali
cambiamenti quantitativi.
Perciò il metodo dialettico ritiene che il processo di sviluppo deve essere
compreso non come un movimento circolare, non come una semplici' ripetizione di
ciò che è già avvenuto, ma come un movimento progressivo, ascendente, come il
passaggio dal vecchio stato qualitativo a un nuovo stato qualitativo, come uno
sviluppo dal semplice al complesso, dall'inferiore al superiore. "La natura —
dice Engels — è la pietra di paragone della dialettica, e le scienze naturali
moderne forniscono per questa prova materiali straordinariamente ricchi, che
aumentano di giorno in giorno; esse hanno così dimostrato che nella natura, in
ultima istanza, tutto si compie in modo dialettico e non metafisico, che essa
non si muove in un circolo eternamente identico che si ripeta perpetuamente, ma
vive una storia reale. A questo proposito occorre innanzitutto ricordare Darwin,
che ha inferto un durissimo colpo alla concezione metafisica della natura,
dimostrando che l'intero mondo organico come esiste oggi, le piante e gli
animali, e quindi anche l'uomo, è il prodotto di un processo di sviluppo che
dura da milioni di anni".
Caratterizzando lo sviluppo dialettico come il passaggio dai cambiamenti
quantitativi a quelli qualitativi, Engels dice:
"in fisica... ogni mutamento è un passaggio dalla quantità alla qualità, la
conseguenza di un mutamento quantitativo della quantità del movimento di
qualsiasi forma, insita nel corpo o a lui trasmessa. Così, per esempio, la
temperatura dell'acqua non ha da principio nessuna importanza per il suo stato
liquido; ma, aumentando o diminuendo la temperatura dell'acqua, giunge il
momento in cui il suo stato di coesione si modifica e l'acqua si trasforma, nel
primo caso in vapore, nel secondo caso in ghiaccio... Così è necessario un
minimo determinato di forza della corrente elettrica perché un filo di platino
diventi luminoso; così ogni metallo ha la sua temperatura di fusione; così ogni
liquido, a una data pressione, ha il suo punto determinato di congelamento e di
ebollizione, nella misura in cui i nostri mezzi ci permettono di ottenere le
temperature necessarie; così, infine, vi è per ogni gas un punto critico in cui,
mediante una pressione e un raffreddamento adeguati, lo si può far passare allo
stato liquido... Le cosiddette costanti della fisica [i punti di passaggio da
uno stato all'altro] non sono, nella maggior parte dei casi, che punti nodali
dove, in un corpo dato, l'aumento o la diminuzione di movimento (cambiamento
quantitativo) provoca un cambiamento qualitativo del suo stato, e dove quindi la
quantità si trasforma in qualità".
E
a proposito della chimica Engels prosegue:
"La chimica si può definire la scienza dei cambiamenti qualitativi dei corpi che
si producono sotto l'influenza di cambiamenti quantitativi nei componenti dei
corpi. Hegel stesso già lo sapeva... Si prenda l'ossigeno: se in una molecola si
uniscono tre atomi invece di due, come ordinariamente, si ottiene l'ozono, un
corpo che si distingue nettamente dall'ossigeno ordinario per il suo odore e
per le sue reazioni. Che dire poi delle diverse combinazioni dell'ossigeno con
l'azoto o con lo zolfo, ognuna delle quali forma un corpo qualitativamente
differente da tutti gli altri corpi?".
Infine, criticando Duhring, che copre Hegel di invettive pur appropriandosi
sotto mano della sua nota tesi, secondo la quale il passaggio dal regno del
mondo insensibile a quello della sensazione, dal regno del mondo inorganico a
quello della vita organica, è un salto a un nuovo stato, Engels dice:
"È questa la linea nodale hegeliana dei rapporti di misura, in
cui un aumento o una diminuzione
puramente quantitativa provoca, in punti nodali determinati, un salto
qualitativo, come per esempio nel caso del riscaldamento o del raffreddamento
dell'acqua, nel quale i punti di ebollizione e di congelamento rappresentano i
nodi dove si compie — a una pressione normale — il salto verso un nuovo stato di
aggregazione, e dove, di conseguenza, la quantità si trasforma in qualità".
d) Contrariamente alla metafisica, la dialettica parte dal principio che gli
oggetti e i fenomeni della natura implicano contraddizioni interne, poiché hanno
tutti un lato negativo e un lato positivo, un passato e un avvenire, elementi
che deperiscono ed elementi che si sviluppano, e che la lotta tra questi
opposti, tra il vecchio e il nuovo, tra ciò che muore e ciò che nasce, tra ciò
che deperisce e ciò che si sviluppa, è l'intimo contenuto del processo di
sviluppo, il contenuto intimo della trasformazione dei cambiamenti quantitativi
in cambiamenti qualitativi.
Perciò il metodo dialettico ritiene che il processo di sviluppo dall'inferiore
al superiore si operi non già attraverso un'armonica evoluzione dei fenomeni,
bensì attraverso il manifestarsi delle contraddizioni inerenti agli oggetti, ai
fenomeni, attraverso una "lotta" delle tendenze opposte che agiscono sulla base
di queste contraddizioni.
"La dialettica nel senso proprio della parola — dice Lenin — è lo studio delle
contraddizioni nell'essenza stessa delle cose".
E
più avanti:
"Lo sviluppo è la 'lotta degli opposti".
Tali, in breve, i tratti fondamentali del metodo dialettico marxista. Non è
difficile comprendere di quale immensa importanza sia l'estensione dei princìpi
del metodo dialettico allo studio della vita sociale, allo studio della storia
della società, di quale immensa importanza sia l'applicazione di questi
princìpi alla storia della società, all'attività pratica del partito del
proletariato. Se è vero che non vi sono al mondo fenomeni isolati, se tutti i
fenomeni sono collegati tra loro e si condizionano a vicenda, è chiaro che ogni
regime sociale e ogni movimento sociale, nella storia, devono essere giudicati
non dal punto di vista della "giustizia eterna" o di qualsiasi altra idea
preconcetta, come fanno non di rado gli storici, ma dal punto di vista delle
condizioni che hanno generato quel regime e quel movimento sociale, e con le
quali essi sono legati.
Il regime schiavistico, nelle condizioni attuali, sarebbe un nonsenso, sarebbe
un'assurdità contro natura. Il regime schiavistico, invece, nelle condizioni del
regime della comunità primitiva in decomposizione, è un fenomeno perfettamente
comprensibile e logico, poiché significa un passo in avanti rispetto al regime
della comunità primitiva.
Rivendicare la repubblica democratico-borghese sotto lo zarismo e nella società
borghese, per esempio nella Russia del 1905, era cosa del tutto comprensibile,
giusta, rivoluzionaria, perché la repubblica borghese significava allora un
passo in avanti. Ma rivendicare la repubblica democratico-borghese nelle nostre
attuali condizioni, nell'URSS, non avrebbe senso, sarebbe controrivoluzionario,
perché la repubblica borghese è un passo indietro rispetto alla Repubblica
sovietica. Tutto dipende dalle condizioni, dal luogo e dal tempo. È chiaro che,
senza questo metodo storico nello studio dei fenomeni sociali, non è possibile
che la scienza storica esista e si sviluppi; poiché solo un tale metodo
impedisce alla scienza storica dì diventare un caos di contingenze e un cumulo
dei più assurdi errori.
Proseguiamo. Se è vero che il mondo è in perpetuo movimento e sviluppo, se è
vero che la scomparsa di ciò che è vecchio e la nascita di ciò che è nuovo sono
una legge dello sviluppo, è chiaro che non esistono più regimi sociali
"immutabili", né "principi eterni" di proprietà privata e di sfruttamento, né
"idee eterne" di sottomissione dei contadini ai proprietari fondiari e degli
operai ai capitalisti.
Vuol dire che il regime capitalista può essere sostituito dal regime
socialista, nello stesso modo che il regime capitalista ha sostituito, a suo
tempo, il regime feudale.
Vuol dire che è necessario fondare la propria azione non già sugli strati
sociali che non si sviluppano più, ancorché rappresentino in un momento dato la
forza predominante, bensì sugli strati che si sviluppano e che hanno davanti a
sé l'avvenire, anche se per il momento non rappresentano la forza predominante.
Nel decennio 1880-1890, al tempo della lotta dei marxisti contro i populisti, il
proletariato era in Russia una piccola minoranza rispetto alla massa dei
contadini, i quali formavano la stragrande maggioranza della popolazione. Ma il
proletariato in quanto classe si sviluppava, mentre i contadini, in quanto
classe si disgregavano. Ed è proprio perché il proletariato si stava sviluppando
come classe che i marxisti fondarono la loro azione su di esso. E non si sono
sbagliati perché, com'è noto, il proletariato, pur essendo allora una forza
poco importante è divenuto in seguito una forza storica e politica di
prim'ordine.
Vuol dire che, per non sbagliarsi in politica, è necessario guardare avanti e
non indietro.
Proseguiamo. Se è vero che il passaggio dai cambiamenti
quantitativi lenti a bruschi e rapidi cambiamenti qualitativi è una legge dello
sviluppo, è chiaro che i rivolgimenti rivoluzionari compiuti dalle classi
oppresse rappresentano un fenomeno assolutamente naturale e inevitabile.
Vuol dire che il passaggio dal capitalismo al socialismo e la liberazione della
classe operaia dal giogo capitalistico non possono realizzarsi per mezzo di
cambiamenti lenti, a mezzo di riforme, ma solo mediante un cambiamento
qualitativo del regime capitalista, mediante la rivoluzione.
Vuol dire che, per non sbagliarsi in politica, è necessario essere un
rivoluzionario e non un riformista.
Proseguiamo. Se è vero che lo sviluppo si compie attraverso il manifestarsi
delle contraddizioni interne, attraverso il conflitto delle forze opposte sulla
base di queste contraddizioni, conflitto destinato a superarle, è chiaro che la
lotta di classe del proletariato è un fenomeno assolutamente naturale e
inevitabile.
Vuol dire che non bisogna dissimulare le contraddizioni del regime capitalista,
ma denunciarle e metterle in evidenza, che non bisogna soffocare la lotta di
classe, ma condurla fino in fondo.
Vuol dire che, per non sbagliarsi in politica, è necessario condurre una
politica proletaria intransigente di classe, e non una politica riformista di
armonia tra gli interessi del proletariato e gli interessi della borghesia, e
non una politica di conciliazione, di "integrazione" del capitalismo nel
socialismo. Così si presenta il metodo dialettico marxista nella sua
applicazione alla vita sociale, alla storia della società.
A
sua volta il materialismo filosofico marxista è, per la sua essenza, esattamente
l'opposto dell'idealismo filosofico.
Il materialismo filosofico marxista è caratterizzato dai seguenti tratti
essenziali:
a) Contrariamente all'idealismo, che considera il mondo come l'incarnazione
dell' "idea assoluta", dello "spirito universale", della "coscienza", il
materialismo filosofico di Marx parte dal principio che il mondo è, per sua
natura, materiale; che i molteplici fenomeni del mondo rappresentano diversi
aspetti della materia in movimento; che i mutui legami e il condizionamento
reciproco dei fenomeni accertati col metodo dialettico costituiscono le leggi
necessarie dello sviluppo della materia in movimento; che il mondo si sviluppa
secondo le leggi del movimento della materia e non ha bisogno di nessuno
"spirito universale".
"La concezione materialistica del mondo — dice Engels — significa semplicemente
la comprensione della natura, quale essa è, senza alcuna aggiunta estranea".
Riferendosi alla concezione materialistica esposta dal filosofo antico Eraclito,
secondo il quale "il mondo è un tutto unico, che non fu creato da alcun dio né
da alcun uomo, ma fu, è e sarà una fiamma eternamente vivente, che si avviva e
si ammorza secondo leggi determinate", Lenin dice che è un'"eccellente
esposizione dei princìpi del materialismo dialettico".
b) Contrariamente all'idealismo, il quale asserisce che solo la nostra coscienza
ha un'esistenza reale, mentre il mondo materiale, l'essere, la natura esistono
solo nella nostra coscienza, nelle nostre sensazioni, rappresentazioni,
concetti, il materialismo filosofico marxista parte dal principio che la
materia, la natura, l'essere, è una realtà oggettiva, esistente al di fuori e
indipendentemente dalla coscienza; che la materia è il dato primo, perché è la
fonte delle sensazioni, delle rappresentazioni, della coscienza, mentre la
coscienza è il dato secondario, è un dato derivato, perché è il riflesso della
materia, il riflesso dell'essere; che il pensiero è un prodotto della materia,
che ha raggiunto nel suo sviluppo un alto grado di perfezione, che cioè è il
prodotto del cervello, e il cervello è l'organo del pensiero; che non si può
dunque separare il pensiero dalla materia se non si vuol cadere in un errore
grossolano.
"Il problema supremo di tutta la filosofia — dice Engels — è quello del rapporto
del pensiero coll'essere, dello spirito colla natura... I filosofi si sono
divisi in due grandi campi secondo il modo in cui rispondevano a tale quesito. I
filosofi che affermavano la priorità dello spirito rispetto alla natura...
formavano il campo dell'idealismo. Quelli che affermavano la priorità della
natura appartenevano alle diverse scuole del materialismo". E più oltre:
"... Il mondo materiale, percepibile dai sensi e a cui noi stessi apparteniamo,
è il solo mondo reale... La nostra coscienza e il nostro pensiero, per quanto
appaiano soprasensibili, sono il prodotto di un organo materiale, corporeo, il
cervello... La materia non è un prodotto dello spirito, ma lo spirito stesso
non è altro che il più alto prodotto della materia". Riferendosi al problema
della materia e del pensiero, Marx dice:
"Non si può separare il pensiero dalla materia pensante.Questa materia è il
substrato di tutti i cambiamenti che si operano".
Definendo il materialismo filosofico marxista, Lenin così si esprime:
"Il materialismo ammette in generale l'esistenza dell'essere reale oggettivo
(la materia), indipendente dalla coscienza, dalle sensazioni, dall'esperienza...
La coscienza... è solo il riflesso dell'essere, nel migliore dei casi un
riflesso approssimativamente esatto (adeguato, di una precisione ideale)". E
ancora:
"La materia è ciò che, agendo sui nostri organi dei sensi, produce le
sensazioni; la materia è una realtà oggettiva che ci è data nelle sensazioni...
La materia, la natura, l'essere, il fisico è il dato primo, mentre lo spirito,
la coscienza, la sensazione, lo psichico è il dato secondario ". "Il quadro del
mondo è il quadro che mostra come la materia si muova e come 'la materia pensi".
"Il cervello è l'organo del pensiero".
c) Contrariamente all'idealismo, che contesta la possibilità di conoscere il
mondo e le sue leggi, non crede alla validità delle nostre conoscenze, non
riconosce la verità oggettiva e considera il mondo pieno di "cose in sé" le
quali non potranno mai essere conosciute dalla scienza, il materialismo
filosofico marxista parte dal principio che il mondo e le sue leggi sono
perfettamente conoscibili, che la nostra conoscenza delle leggi della natura,
verificata dall'esperienza, dalla pratica, è una conoscenza valida, che ha il
valore di una verità oggettiva; che al mondo non esistono cose inconoscibili ma
solo cose ancora ignote, che saranno scoperte e conosciute grazie alla scienza e
alla pratica.
Criticando la tesi di Kant e degli altri idealisti, per i quali il mondo e le
"cose in sé" sarebbero inconoscibili e difendendo la nota tesi materialistica
circa la validità delle nostre conoscenze, Engels scrive:
"La confutazione più decisiva di questa ubbia filosofica, come del resto di
tutte le altre, è data dalla pratica, particolarmente dall'esperimento e
dall'industria. Se possiamo dimostrare che la nostra comprensione di un dato
fenomeno naturale è giusta, creandolo noi stessi, producendolo dalle sue
condizioni e, quel che più conta, facendolo servire ai nostri finì,
l'inafferrabile 'cosa in sé' di Kant è finita. Le sostanze chimiche che si
formano negli organismi animali e vegetali restarono 'cose in sé' fino a che la
chimica organica non si mise a prepararle l'una dopo l'altra; quando ciò
avvenne, la 'cosa in sé' si trasformò in una cosa per noi, come per esempio
l'alizarina, materia colorante della garanza, che non ricaviamo più dalle radici
della garanza coltivata nei campi, ma molto più a buon mercato e in modo più
semplice dal catrame di carbone. Il sistema solare di Copernico fu per tre
secoli un'ipotesi su cui vi era da scommettere cento, mille, diecimila contro
uno ma pur sempre un'ipotesi. Quando però Leverrier, con i dati ottenuti grazie
a quel sistema, non solo dimostrò che doveva esistere un altro pianeta ignoto
fino a quel tempo, ma calcolò pure in modo esatto il posto occupato da quel
pianeta nello spazio celeste, e quando in seguito Galle lo scoprì, il sistema
copernicano era provato".
Accusando di fideismo Bogdanov, Bazarov, Iusckevic e altri seguaci di Mach, e
difendendo la nota tesi materialistica circa la validità delle nostre conoscenze
scientifiche delle leggi della natura e circa la verità oggettiva delle leggi
della scienza, Lenin dice:
"Il fideismo contemporaneo non ripudia in nessun modo la scienza; ne respinge
soltanto le 'pretese eccessive' e cioè la pretesa di scoprire la verità
oggettiva. Se esiste una verità oggettiva (come pensano i materialisti), se le
scienze della natura, riflettendo il mondo esterno nell'esperienza umana, sono
le sole capaci di darci la verità oggettiva, ogni fideismo deve essere respinto
in modo assoluto".
Tali, in breve, i tratti caratteristici del materialismo filosofico marxista. È
facile comprendere di quale immensa importanza sia la estensione dei princìpi
del materialismo filosofico allo studio della vita sociale, allo studio della
storia della società, di quale enorme importanza sia l'applicazione di questi
princìpi alla storia della società, all'attività pratica del partito del
proletariato.
Se è vero che i legami reciproci tra i fenomeni della natura e il loro
reciproco condizionamento rappresentano leggi necessarie dello sviluppo della
natura, ne deriva che i legami e il condizionamento reciproco tra i fenomeni
della vita sociale rappresentano essi pure non delle contingenze, ma delle leggi
necessarie dello sviluppo sociale.
Vuol dire che la vita sociale, la storia della società, cessa di essere un
cumulo di "contingenze", giacché la storia della società si presenta come uno
sviluppo della società secondo leggi determinate, e lo studio della storia
della società diventa una scienza.
Vuol dire che l'attività pratica del partito del proletariato deve fondarsi non
già sui lodevoli desideri di "individualità eccezionali", né sulle esigenze
della "ragione", della "morale universale", ecc., bensì sulle leggi dello
sviluppo della società, sullo studio di queste leggi.
Proseguiamo. Se è vero che il mondo è conoscibile e se è vero che la nostra
conoscenza delle leggi dello sviluppo della natura è una conoscenza valida, che
ha il valore di una verità oggettiva, ne deriva che la vita sociale e lo
sviluppo della società sono pure conoscibili, e che i dati della scienza sulle
leggi dello sviluppo della società sono dati validi, che hanno il valore di
verità oggettive.
Vuol dire che la scienza della storia della società, nonostante tutta la
complessità dei fenomeni della vita sociale, può diventare una scienza
altrettanto esatta quanto, ad esempio, la biologia, capace di utilizzare le
leggi di sviluppo della società per servirsene nella pratica.
Vuol dire che, nella sua attività pratica, il partito del proletariato deve
richiamarsi, anziché a motivi fortuiti, alle leggi di sviluppo della società e
alle conclusioni pratiche che derivano da queste leggi.
Vuol dire che il socialismo, da sogno che era d'un migliore avvenire del genere
umano, diventa una scienza.
Vuol dire che il legame tra la scienza e l'attività pratica, il legame della
teoria con la pratica, la loro unità deve diventare la stella che guida la
rotta del partito del proletariato.
Proseguiamo. Se è vero che la natura, l'essere, il mondo materiale è il dato
primo, e la coscienza, il pensiero è il dato secondario, derivato; se è vero che
il mondo materiale rappresenta una realtà oggettiva che esiste
indipendentemente dalla coscienza degli uomini, e la coscienza è il riflesso di
questa realtà oggettiva; ne deriva che la vita materiale della società, il suo
essere, è pure il dato primo, mentre la sua vita spirituale è il dato
secondario, derivato, che la vita materiale della società è una realtà
oggettiva, la quale esiste indipendentemente dalla volontà degli uomini, mentre
la vita spirituale della società è un riflesso di questa realtà oggettiva, un
riflesso dell'essere.
Vuol dire che la fonte della formazione della vita spirituale della società, la
fonte dell'origine delle idee sociali, delle teorie sociali, delle concezioni
politiche, delle istituzioni politiche, si deve ricercare non già nelle idee,
teorie, concezioni, istituzioni politiche stesse, bensì nelle condizioni della
vita materiale della società, nell'essere sociale, di cui queste idee, teorie,
concezioni, ecc. sono il riflesso.
Vuol dire che, se nei differenti periodi della storia della società si osservano
diverse idee sociali, teorie, concezioni, istituzioni politiche, se, sotto il
regime schiavistico, incontriamo determinate idee sociali, teorie, concezioni e
istituzioni politiche, mentre, sotto il feudalesimo, ne incontriamo altre, e
altre ancora sotto il regime capitalistico, ciò si spiega non già con la
"natura", né con le "proprietà" di tali idee, concezioni, istituzioni
politiche, ma con le differenti condizioni della vita materiale della società,
nei differenti periodi dello sviluppo sociale.
Qual'è l'essere sociale, quali sono le condizioni della vita materiale della
società, tali sono le idee, le teorie, le concezioni politiche, le istituzioni
politiche della società. A questo proposito Marx dice:
"Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è al
contrario il loro essere sociale che determina la loro coscienza".
Vuol dire che, per non sbagliarsi in politica e non abbandonarsi a vuote
fantasticherie, il partito del proletariato deve fondare la sua azione non
sugli astratti "princìpi della ragione umana", ma sulle condizioni concrete
della vita materiale della società, forza decisiva dello sviluppo sociale; non
sui lodevoli desideri dei "grandi uomini", ma sulle esigenze reali dello
sviluppo della vita materiale della società.
Il fallimento degli utopisti e, tra di essi, dei populisti, degli anarchici, dei
socialisti-rivoluzionari si spiega, fra l'altro, col fatto che essi non
riconobbero la funzione primordiale che nello sviluppo della società hanno le
condizioni della sua vita materiale e, caduti nell'idealismo, basarono la loro
attività pratica non già sulle esigenze dello sviluppo della vita materiale
della società, ma, indipendentemente da esse e contro di esse, su "piani ideali"
e "progetti universali", staccati dalla vita reale della società. La forza e la
vitalità del marxismo-leninismo stanno nel fatto che esso fonda la sua azione
pratica proprio sulle esigenze dello sviluppo della vita materiale della
società, non staccandosi mai dalla vita reale della società. Dalle parole di
Marx non deriva però che le idee e le teorie sociali, le concezioni e le
istituzioni politiche non abbiano alcuna importanza nella vita della società,
che non esercitino a loro volta un'influenza sull'essere sociale, sullo
sviluppo delle condizioni materiali della vita della società. Abbiamo parlato
fin qui soltanto dell'origine delle idee e teorie sociali, delle concezioni e
istituzioni politiche, del loro sorgere, abbiamo detto che la vita spirituale
della società è il riflesso delle condizioni della sua vita materiale. Ma in
quanto alla importanza delle idee e teorie sociali, delle concezioni e
istituzioni politiche, in quanto alla loro funzione nella storia, il
materialismo storico è ben lontano dal negarle, anzi, sottolinea la funzione e
l'importanza considerevoli che esse hanno nella vita e nella storia della
società.
Le idee e le teorie sociali possono essere di vario tipo. Vi sono idee e teorie
vecchie, che hanno fatto il loro tempo e servono gli interessi delle forze
sociali in declino. La loro funzione sta nel fatto che esse frenano lo sviluppo
della società, il suo progresso. Vi sono idee e teorie nuove, d'avanguardia, che
servono gli interessi delle forze d'avanguardia della società. La loro funzione
sta nel fatto che esse agevolano lo sviluppo della società, il suo progresso;
esse acquistano inoltre tanto maggiore importanza, quanto più riflettono
fedelmente le esigenze dello sviluppo della vita materiale della società. Le
idee e le teorie sociali nuove sorgono solo quando lo sviluppo della vita
materiale della società pone di fronte alla società compiti nuovi. Ma, sorte che
siano, diventano una forza estremamente importante, che agevola l'adempimento
dei nuovi compiti posti dallo sviluppo della vita materiale della società, che
agevola il progresso della società. Ed è proprio allora che si rivela la
grandissima importanza della funzione organizzatrice, mobilizzatrice e
trasformatrice delle nuove idee, delle nuove teorie, delle nuove concezioni,
delle nuove istituzioni politiche. Certo, se Idee e teorie sociali nuove
sorgono, ciò avviene appunto perché esse sono necessarie alla società, perché
senza la loro azione organizzatrice, mobilizzatrice e trasformatrice, è
impossibile la soluzione dei problemi urgenti posti dallo sviluppo della vita
materiale della società. Suscitate dai nuovi compiti posti dallo sviluppo della
vita materiale della società, le idee e le teorie sociali nuove si aprono il
cammino, diventano patrimonio delle masse popolari, le mobilitano, le
organizzano contro le forze morenti della società, e facilitano in tal modo
l'abbattimento di queste forze, che intralciano lo sviluppo della vita materiale
della società.
Così avviene che le idee e le teorie sociali, le istituzioni politiche suscitate
dai compiti urgenti posti dallo sviluppo della vita materiale della società,
dallo sviluppo dell'essere sociale, agiscano a loro volta sull'essere sociale,
sulla vita materiale della società, creando le condizioni necessarie per
condurre a termine la soluzione dei compiti urgenti posti dalla vita materiale
della società e per rendere possibile il suo sviluppo ulteriore. È a questo
proposito che Marx dice: "La teoria diventa una forza materiale non appena
conquista le masse". Vuol dire che per poter agire sulle condizioni della vita
materiale della società e affrettare il loro sviluppo, accelerare il loro
miglioramento, il partito del proletariato si deve appoggiare su una teoria
sociale, su un'idea sociale che esprima in modo giusto le esigenze dello
sviluppo della vita materiale della società e sia capace, perciò, di mettere in
movimento le grandi masse popolari, capace di mobilitarle e di organizzarle nel
grande esercito del partito del proletariato pronto a spezzare le forze
reazionarie e ad aprire la strada alle forze d'avanguardia della società. Il
fallimento degli "economicisti" e dei menscevichi si spiega, fra l'altro, col
fatto che essi non riconobbero la funzione mobilitante, organizzatrice e
trasformatrice della teoria d'avanguardia, delle idee d'avanguardia e, caduti
nel materialismo volgare, ridussero la funzione di questi fattori quasi a nulla,
condannando di conseguenza il partito alla passività, alla stagnazione. La forza
e la vitalità del marxismo-leninismo stanno nel fatto che esso si appoggia su
una teoria d'avanguardia che esprime in modo giusto le esigenze dello sviluppo
della vita materiale della società, che esso eleva la teoria all'alto livello
che le spetta, e considera suo compito utilizzarne al massimo la forza
mobilitante, organizzatrice e trasformatrice. Così il materialismo storico
risolve la questione dei rapporti tra l'essere sociale e la coscienza sociale,
tra le condizioni di sviluppo della vita materiale e lo sviluppo della vita
spirituale della società.
IL MATERIALISMO
STORICO
Rimane da chiarire una questione: che cosa si deve intendere, dal punto di vista
del materialismo storico, per "condizioni della vita materiale della società"
determinanti, in ultima analisi, la fisionomia della società, le sue idee,
concezioni, istituzioni politiche, ecc.? Che cosa sono dunque le "condizioni
della vita materiale della società"? Quali ne sono le caratteristiche?
Senza dubbio, il concetto di "condizioni della vita materiale della società"
comprende innanzitutto la natura che circonda la società: l'ambiente
geografico, che è una delle condizioni necessarie e permanenti della vita
materiale della società e che, evidentemente, influisce sullo sviluppo della
società. Quale funzione ha l'ambiente geografico nello sviluppo della società?
Non è l'ambiente geografico la forza principale che determina la fisionomia
della società, il carattere del regime sociale degli uomini, il passaggio da un
regime all'altro?
Il materialismo storico risponde negativamente a questa domanda. L'ambiente
geografico è, incontestabilmente, una delle condizioni permanenti e necessarie
dello sviluppo della società e naturalmente influisce su questo sviluppo,
accelerandone o rallentandone il corso. Ma la sua influenza non è un'influenza
determinante, perché i cambiamenti e lo sviluppo della società sono di gran
lunga più rapidi che i cambiamenti e lo sviluppo dell'ambiente geografico. In
tremila anni sono potuti tramontare l'uno dopo l'altro, in Europa, tre
ordinamenti sociali differenti: la comunità primitiva, il regime schiavistico,
il regime feudale; e nell'Europa orientale, sul territorio dell'URSS, sono
tramontati perfino quattro ordinamenti sociali. Ebbene nello stesso periodo le
condizioni geografiche dell'Europa o non sono cambiate per niente, o sono
cambiate così poco che la geografia non ne parla neppure. Ciò si comprende
agevolmente. Affinché cambiamenti di una certa importanza si verifichino
nell'ambiente geografico sono necessari milioni di anni, mentre per i mutamenti,
sia pure i più importanti, del regime sociale degli uomini bastano soltanto
alcune centinaia o un paio di migliaia di anni.
Ma da questo consegue che l'ambiente geografico non può essere la causa
principale, la causa determinante dello sviluppo sociale, poiché ciò che rimane
quasi immutato durante decine di migliaia di anni non può essere la causa
principale dello sviluppo di ciò che è soggetto a cambiamenti radicali nel corso
di alcune centinaia di anni.
Senza dubbio, poi, anche l'aumento e la densità della popolazione devono essere
compresi nel concetto di "condizioni della vita materiale della società", perché
gli uomini sono un elemento indispensabile delle condizioni della vita
materiale della società, e senza la presenza di un certo numero di uomini non
può esservi nessuna vita materiale della società. Non è l'aumento della
popolazione la forza principale che determina il carattere del regime sociale
degli uomini?
Il materialismo storico risponde negativamente anche a questa domanda. Certo,
l'aumento della popolazione influisce sullo sviluppo della società, lo agevola o
lo rallenta, ma non può esserne la forza principale, e la sua influenza sullo
sviluppo sociale non può essere l'influenza determinante, perché l'aumento della
popolazione, di per se stesso, non ci dà la chiave per spiegare le ragioni per
cui a un determinato ordinamento sociale succede proprio quel nuovo ordinamento
e non un altro, le ragioni per cui alla comunità primitiva succede proprio il
regime schiavistico, al regime schiavistico il regime feudale, al regime feudale
il regime borghese e non un altro qualunque.
Se l'aumento della popolazione fosse la forza determinante dello sviluppo
sociale, una maggior densità di popolazione dovrebbe necessariamente generare un
tipo di regime sociale rispettivamente superiore. Ma in realtà le cose non
stanno così. La popolazione in Cina è quattro volte più densa che negli Stati
Uniti d'America, eppure gli Stati Uniti d'America si trovano a un livello di
sviluppo sociale più elevato della Cina, poiché qui continua a dominare un
regime semifeudale, mentre gli Stati Uniti d'America hanno già raggiunto da
molto tempo il più alto stadio di sviluppo del capitalismo. La popolazione nel
Belgio è 19 volte più densa che negli Stati Uniti d'America e 26 volte più che
nell'URSS, eppure gli Stati Uniti d'America sono a un livello di sviluppo
sociale più elevato del Belgio e, rispetto all'URSS, il Belgio è in ritardo di
un'intera epoca storica perché vi domina il regime capitalista, mentre l'URSS ha
già posto fine al capitalismo e instaurato il regime socialista. Ma da questo
consegue che l'aumento della popolazione non è e non può essere la forza
principale nello sviluppo della società, la forza che determina il carattere
del regime sociale, la fisionomia della società.
a) Ma allora, qual è dunque, nel sistema delle condizioni della vita materiale
della società, la forza principale che determina la fisionomia della società, il
carattere del regime sociale, lo sviluppo della società da un regime all'altro?
Il materialismo storico considera che questa forza è il modo con cui si
ottengono i mezzi di sussistenza necessari alla vita degli uomini, il modo di
produzione dei beni materiali — alimenti, indumenti, scarpe, abitazioni,
combustibili, strumenti di produzione, ecc. — necessari perché la società possa
vivere e svilupparsi.
Per vivere bisogna disporre di alimenti, indumenti, scarpe, abitazioni,
combustibili, ecc.: per avere questi beni materiali è necessario produrli; e
per produrli è necessario avere gli strumenti di produzione coll'aiuto dei quali
gli uomini producono gli alimenti, gli indumenti, le scarpe, le abitazioni, il
combustibile, ecc.; è necessario saper produrre questi strumenti, è necessario
sapersene servire.
Gli strumenti di produzione con l'aiuto dei quali si producono i beni materiali,
gli uomini che mettono in movimento questi strumenti di produzione e producono i
beni materiali, grazie a una certa esperienza della produzione e a delle
abitudini di lavoro: ecco gli elementi che, presi tutti insieme, costituiscono
le forze produttive della società.
Ma le forze produttive non costituiscono che uno degli aspetti della
produzione, uno degli aspetti del modo di produzione, l'aspetto che esprime
l'atteggiamento degli uomini verso gli oggetti e le forze della natura, di cui
essi si servono per produrre i beni materiali. L'altro aspetto della
produzione, l'altro aspetto del modo di produzione, è costituito dai rapporti
reciproci degli uomini nel processo della produzione, dai rapporti di produzione
tra gli uomini. Gli uomini lottano contro la natura e sfruttano la natura per la
produzione dei beni materiali non isolatamente gli uni dagli altri, non come
unità staccate le une dalle altre, ma in comune, a gruppi, in società. Perciò la
produzione è sempre, in qualunque condizione, una produzione sociale. Nella
produzione dei beni materiali gli uomini stabiliscono tra loro questi o quei
rapporti reciproci all'interno della produzione, stabiliscono questi o quei
rapporti di produzione. Questi rapporti possono essere rapporti di
collaborazione e di aiuto reciproco tra uomini liberi da ogni sfruttamento,
possono essere rapporti di dominio e di sottomissione, possono essere, infine,
rapporti di transizione da una forma di rapporti di produzione a un'altra.
Qualunque sia però il loro carattere, i rapporti di produzione costituiscono —
sempre e in tutti i regimi — un elemento altrettanto indispensabile della
produzione quanto le forze produttive della società.
"Nella produzione — dice Marx — gli uomini non agiscono soltanto sulla natura,
ma anche gli uni sugli altri. Essi producono soltanto in quanto collaborano in
un determinato modo e scambiano reciprocamente le proprie attività. Per
produrre, essi entrano gli uni con gli altri in determinati legami e rapporti, e
la loro azione sulla natura, la produzione, ha luogo soltanto nel quadro di
questi legami e rapporti sociali".
Dunque la produzione, il modo di produzione, abbraccia tanto le forze
produttive della società quanto i rapporti di produzione fra gli uomini, ed
incarna così la loro unione nel processo di produzione dei beni materiali.
b) La prima particolarità della produzione consiste nel fatto che essa non
rimane mai per un lungo periodo a un punto determinato, ma è in continuo
mutamento e sviluppo; inoltre i cambiamenti del modo di produzione provocano
inevitabilmente cambiamenti di tutto il regime sociale, delle idee sociali,
delle concezioni e delle istituzioni politiche, provocano una trasformazione di
tutto il sistema sociale e politico. Nei diversi gradi dello sviluppo sociale
gli uomini si servono di differenti modi di produzione, ossia per parlare più
semplicemente, gli uomini hanno un diverso modo di vita. Nella comunità
primitiva esiste un determinato modo di produzione; sotto la schiavitù ne
esiste un altro; sotto il feudalesimo un terzo, e via di seguito. In rapporto
con questi cambiamenti anche il regime sociale degli uomini, la loro vita
spirituale, le loro concezioni, le loro istituzioni politiche sono diversi.
Quale è il modo di produzione della società, tale sostanzialmente è la società
stessa, tali le sue idee e teorie, le sue concezioni e istituzioni politiche.
Ossia, più semplicemente: quale è il modo di vita degli uomini, tale è il loro
modo di pensare.
Questo vuol dire che la storia dello sviluppo della società è, innanzitutto,
storia dello sviluppo della produzione, storia dei modi di produzione che si
susseguono nel corso dei secoli, storia dello sviluppo delle forze produttive e
dei rapporti di produzione tra gli uomini.
Vuol dire che la storia dello sviluppo sociale è, nello stesso tempo, storia dei
produttori stessi dei beni materiali, storia delle masse lavoratrici che sono le
forze fondamentali del processo di produzione e producono i beni materiali
necessari all'esistenza della società.
Vuol dire che la scienza storica, se vuol essere una vera scienza, non può più
ridurre la storia dello sviluppo sociale alle gesta dei re e dei condottieri,
alle gesta dei "conquistatori" e degli "assoggettatori" di Stati, ma deve
innanzitutto essere storia dei produttori dei beni materiali, storia delle masse
lavoratrici, storia dei popoli.
Vuol dire che la chiave per lo studio delle leggi della storia della società
bisogna cercarla non nel cervello degli uomini, e neppure nelle concezioni e
nelle idee della società, ma nel modo di produzione praticato dalla società in
ogni periodo storico determinato, nell'economia della società.
Vuol dire che il compito primordiale della scienza storica è quello di studiare
e scoprire le leggi della produzione le leggi secondo le quali si sviluppano le
forze produttive e i rapporti di produzione, le leggi dello sviluppo economico
della società.
Vuol dire che il partito del proletariato, se vuol essere un vero partito, deve
possedere innanzitutto la conoscenza delle leggi dello sviluppo della
produzione, la conoscenza delle leggi dello sviluppo economico della società.
Vuol dire che, per non sbagliarsi in politica, il partito del proletariato,
tanto nello stabilire il suo programma quanto nella sua attività pratica, deve
ispirarsi innanzitutto alle leggi dello sviluppo della produzione, alle leggi
dello sviluppo economico della società.
c) La seconda particolarità della produzione consiste nel fatto che i suoi
cambiamenti e il suo sviluppo cominciano sempre con quelli delle forze
produttive e, innanzitutto, col cambiamento e con lo sviluppo degli strumenti
di produzione. Le forze produttive sono, di conseguenza, l'elemento più mobile e
più rivoluzionario della produzione. Dapprima si modificano e si sviluppano le
forze produttive della società e poi, in dipendenza da tali cambiamenti e
conformemente ad essi si modificano i rapporti di produzione tra gli uomini, i
loro rapporti economici. Questo non vuol dire tuttavia che i rapporti di
produzione non influiscano sullo sviluppo delle forze produttive e che queste
ultime non dipendano dai primi. Sviluppandosi in dipendenza dallo sviluppo delle
forze produttive, i rapporti di produzione agiscono a loro volta sullo sviluppo
delle forze produttive, al carattere delle forze produttive, i rapporti di
produzione agiscono a loro volta sullo sviluppo delle forze produttive,
affrettandolo o rallentandolo. È necessario inoltre osservare che i rapporti di
produzione non possono troppo a lungo rimanere addietro allo sviluppo delle
forze produttive e trovarsi in contraddizione con tale sviluppo, perché le forze
produttive possono svilupparsi pienamente solo nel caso in cui i rapporti di
produzione corrispondano al carattere, allo stato delle forze produttive e ne
permettano il libero sviluppo. Perciò, qualunque sia il ritardo dei rapporti di
produzione sullo sviluppo delle forze produttive, i rapporti di produzione
devono presto o tardi finire col corrispondere, ed è ciò che essi fanno
effettivamente, al livello di sviluppo delle forze produttive, al carattere
delle forze produttive. Qualora ciò non avvenisse, l'unità delle forze
produttive e dei rapporti di produzione, nel sistema della produzione, verrebbe
radicalmente scossa, si verificherebbe una rottura nell'insieme della
produzione, una crisi della produzione, una distruzione di forze produttive.
Un esempio di disaccordo tra i rapporti di produzione e il carattere delle forze
produttive, un esempio di conflitto tra di essi ci è offerto dalle crisi
economiche nei paesi capitalistici, dove la proprietà privata capitalistica dei
mezzi di produzione è in flagrante disaccordo col carattere sociale del
processo di produzione, col carattere delle forze produttive. Risultato di
questo disaccordo sono le crisi economiche che portano a una distruzione di
forze produttive; anzi, questo stesso disaccordo è la base economica della
rivoluzione sociale, destinata a distruggere i rapporti attuali di produzione e
a crearne di nuovi, conformi al carattere delle forze produttive. Viceversa
l'economia nazionale socialista dell'URSS, dove la proprietà sociale dei mezzi
di produzione è in perfetto accordo con il carattere sociale del processo di
produzione e dove perciò non esistono crisi economiche né si distruggono forze
produttive, è un esempio di perfetto accordo tra i rapporti di produzione e il
carattere delle forze produttive. Le forze produttive, quindi, non sono
solamente l'elemento più mobile e più rivoluzionario della produzione, ma sono
anche l'elemento che determina lo sviluppo della produzione.
Quali sono le forze produttive, tali devono essere i rapporti di produzione. Se
lo stato delle forze produttive indica con quali strumenti di produzione gli
uomini producono i beni materiali che sono loro necessari, lo stato dei rapporti
di produzione indica a sua volta in possesso di chi si trovano i mezzi di
produzione (terre, foreste, acque, sottosuolo, materie prime, strumenti di
lavoro, edifici destinati alla produzione, mezzi di trasporto e di
comunicazione, ecc.), indica a disposizione di chi si trovano i mezzi di
produzione: se a disposizione di tutta la società oppure se a disposizione di
singoli individui, di gruppi, di classi che li utilizzano per lo sfruttamento
di altri individui, gruppi o classi.
Ecco il quadro schematico dello sviluppo delle forze produttive, dai tempi più
remoti ai nostri giorni: passaggio dai grossolani utensili di pietra all'arco e
alle frecce e, quindi passaggio dal modo di vita fondato sulla caccia
all'addomesticamento e allevamento primitivo del bestiame; passaggio dagli
utensili di pietra a quelli metallici (ascia di ferro, aratro col vomero di
ferro, ecc. ) e, quindi, passaggio alla coltivazione delle piante e
all'agricoltura; nuovo perfezionamento degli utensili metallici per la
lavorazione dei materiali, passaggio alla forgia a mantice, alla produzione
delle terre cotte e, quindi, sviluppo dei mestieri, separazione dei mestieri
dall'agricoltura, sviluppo di una produzione artigiana indipendente e poi di una
produzione manifatturiera; passaggio dagli strumenti della produzione artigiana
alle macchine, e trasformazione della produzione artigiana manifatturiera in
industria meccanizzata; passaggio al sistema delle macchine e sorgere della
grande industria meccanizzata moderna: tale è il quadro generale, ben lungi
dall'essere completo, dello sviluppo delle forze produttive della società
durante la storia dell'umanità. È inoltre comprensibile che lo sviluppo e il
perfezionamento degli strumenti di produzione sono stati realizzati da uomini
aventi legami con la produzione, e non indipendentemente dagli uomini. Quindi,
nello stesso tempo in cui sono cambiati e si sono sviluppati gli strumenti di
produzione, sono cambiati e si sono sviluppati anche gli uomini, elemento
essenziale delle forze produttive; sono cambiate e si sono sviluppate la loro
esperienza produttiva, le loro abitudini di lavoro, la loro capacità di
adoperare gli strumenti di produzione.
In accordo con questi cambiamenti e con questo sviluppo delle forze produttive
della società sono cambiati e si sono sviluppati, nel corso della storia, i
rapporti di produzione tra gli uomini, i loro rapporti economici. La storia
conosce cinque tipi fondamentali di rapporti di produzione: la comunità
primitiva, la schiavitù, il regime feudale, il regime capitalista e il regime
socialista.
Nel regime della comunità primitiva la proprietà sociale dei mezzi di
produzione costituisce la base dei rapporti di produzione. Ciò corrisponde,
essenzialmente, al carattere delle forze produttive in questo periodo. Gli
utensili di pietra, e l'arco e le frecce apparsi più tardi, escludevano la
possibilità di lottare isolatamente contro le forze della natura e contro le
bestie feroci. Per raccogliere i frutti nelle foreste, per pescare, per
costruire un'abitazione qualsiasi, gli uomini debbono lavorare in comune se non
vogliono morire di fame, o essere preda delle bestie feroci, o cadere in mano
alle comunità vicine. Il lavoro collettivo conduce alla proprietà collettiva,
sia dei mezzi di produzione che dei prodotti. Non si ha ancora nozione della
proprietà privata dei mezzi di produzione, salvo la proprietà personale di
alcuni strumenti di produzione, che sono in pari tempo armi di difesa contro gli
animali feroci. Non esistono ne sfruttamento né classi. Sotto il regime della
schiavitù la base dei rapporti di produzione è costituita dalla proprietà del
padrone di schiavi sui mezzi di produzione e anche sul produttore, sullo
schiavo, che egli può vendere, comprare, uccidere come bestiame. Tali rapporti
di produzione corrispondono essenzialmente allo stato delle forze produttive in
questo periodo. Invece degli utensili di pietra gli uomini dispongono ora di
strumenti di metallo; invece di un'economia misera e primitiva, fondata sulla
caccia e che ignora tanto l'allevamento del bestiame quanto la coltivazione
della terra, sorgono l'allevamento del bestiame, l'agricoltura, i mestieri, la
divisione del lavoro tra questi diversi rami di produzione; diventa possibile lo
scambio dei prodotti tra individui e gruppi diversi; diventa possibile
l'accumulazione di ricchezza nelle mani di pochi, l'accumulazione reale dei
mezzi di produzione nelle mani di una minoranza; diventa possibile la
sottomissione della maggioranza alla minoranza e la trasformazione dei membri
della maggioranza in schiavi. Non esiste già più il lavoro comune e libero di
tutti i membri della società nel processo della produzione, ma domina il lavoro
forzato degli schiavi, sfruttati da padroni che non lavorano. Non esiste quindi
più una proprietà comune né dei mezzi di produzione né dei prodotti. Essa è
sostituita dalla proprietà privata. Il padrone di schiavi è il primo e
principale proprietario, il proprietario assoluto.
Ricchi e poveri, sfruttatori e sfruttati, uomini che hanno tutti i diritti e
uomini che non ne hanno nessuno, un'aspra lotta di classe tra gli uni e gli
altri: tale è il quadro del regime schiavistico.
Sotto il regime feudale la base dei rapporti di produzione è costituita dalla
proprietà del signore feudale sui mezzi di produzione e dalla sua proprietà
limitata sul produttore, sul servo, che il feudatario non può più uccidere, ma
può vendere e comprare. Accanto alla proprietà feudale esiste la proprietà
individuale del contadino e dell'artigiano sugli strumenti di produzione e
sulla loro economia privata, basata sul lavoro personale. Tali rapporti di
produzione corrispondono essenzialmente allo stato delle forze produttive in
questo periodo. L'ulteriore perfezionamento della fusione e della lavorazione
del ferro, la diffusione generale dell'aratro di ferro e del telaio, lo sviluppo
ulteriore dell'agricoltura, dell'orticoltura, dell'industria vinicola, della
fabbricazione dei grassi, il sorgere delle manifatture accanto alle botteghe
degli artigiani: tali sono i tratti caratteristici dello stato delle forze
produttive.
Le nuove forze produttive esigono che il lavoratore abbia una certa iniziativa
nella produzione, che sia propenso e interessato al lavoro. Per questa ragione
il padrone feudale rinuncia allo schiavo che non ha nessun interesse al lavoro
e non ha nessuna iniziativa, e preferisce aver a che fare con un servo che
possiede un'azienda propria, i propri strumenti di produzione e ha qualche
interesse per il lavoro, interesse indispensabile perché il servo coltivi la
terra e paghi al feudatario, sul proprio raccolto, un tributo in natura.
La proprietà privata in questo periodo continua a svilupparsi. Lo sfruttamento
è quasi altrettanto duro che in regime schiavistico; si è solo appena mitigato.
La lotta di classe tra sfruttatori e sfruttati è la caratteristica fondamentale
del regime feudale.
Sotto il regime capitalistico la base dei rapporti di produzione è costituita
dalla proprietà capitalistica sui mezzi di produzione, mentre la proprietà sui
produttori, sugli operai salariati non esiste più: il capitalista non può né
ucciderli né venderli, perché essi sono liberi dalla dipendenza personale, ma
sono privi dei mezzi di produzione e, per non morire di fame, sono costretti a
vendere la loro forza-lavoro al capitalista, a sottomettersi al giogo dello
sfruttamento. Accanto alla proprietà capitalistica dei mezzi di produzione
esiste, ed è nei primi tempi largamente diffusa, la proprietà privata del
contadino e dell'artigiano — emancipatisi dalla servitù della gleba — sui mezzi
di produzione: proprietà che si fonda sul lavoro personale. Le botteghe degli
artigiani e le manifatture vengono sostituite da immense fabbriche e officine,
fornite di macchine. I domini dei nobili, già coltivati con gli strumenti
primitivi dei contadini, vengono sostituiti da grandi aziende capitalistiche,
gestite con i criteri della scienza agronomica e munite di macchine agricole.
Le nuove forze produttive esigono che i lavoratori siano più progrediti e più
intelligenti dei servi ignoranti e arretrati, che siano capaci di capire la
macchina e di maneggiarla nel modo dovuto.
Per questo i capitalisti preferiscono aver a che fare con operai salariati,
liberi dai vincoli servili e abbastanza progrediti per maneggiare le macchine
nel modo dovuto. Ma avendo sviluppato le forze produttive in proporzioni
gigantesche, il capitalismo è caduto in un groviglio di contraddizioni
insolubili. Producendo quantità sempre maggiori di merci e diminuendone i
prezzi, il capitalismo accentua la concorrenza, rovina la massa dei piccoli e
medi proprietari privati, li converte in proletari e diminuisce la loro
capacità d'acquisto, in conseguenza di che lo smercio dei prodotti diventa
impossibile. Allargando la produzione e raggruppando in immense fabbriche e
officine milioni di operai, il capitalismo imprime al processo della produzione
un carattere sociale e mina, per questo fatto stesso, la propria base, poiché il
carattere sociale del processo della produzione esige la proprietà sociale dei
mezzi di produzione, mentre la proprietà dei mezzi di produzione rimane una
proprietà privata, capitalistica, incompatibile col carattere sociale del
processo della produzione.
Queste contraddizioni inconciliabili tra il carattere delle forze produttive e i
rapporti di produzione si manifestano nelle crisi periodiche di
sovrapproduzione, quando i capitalisti, non trovando compratori solvibili a
causa della rovina delle masse, di cui essi stessi sono i responsabili, sono
costretti a bruciare le derrate, a distruggere le merci, ad arrestare la
produzione, a distruggere le forze produttive, mentre milioni di uomini sono
costretti alla disoccupazione e alla fame, non perché manchino le merci ma
perché ne sono state prodotte troppe.
Ciò significa che i rapporti capitalistici di produzione hanno cessato di
corrispondere allo stato delle forze produttive della società e sono entrati
con esse in contraddizione insanabile.
Ciò significa che il capitalismo è gravido di una rivoluzione, chiamata a
sostituire l'attuale proprietà capitalistica dei mezzi di produzione con la
proprietà socialista.
Ciò significa che un'acutissima lotta di classe tra sfruttati e sfruttatori è il
tratto caratteristico essenziale del regime capitalista. Nel regime socialista,
che, per il momento, esiste solo nell'URSS, la proprietà sociale dei mezzi di
produzione costituisce la base dei rapporti di produzione. Qui non esistono più
né sfruttatori né sfruttati. I prodotti vengono ripartiti secondo il lavoro
compiuto e secondo il principio: "Chi non lavora non mangia". I rapporti tra gli
uomini nel processo della produzione sono rapporti di collaborazione fraterna e
di mutuo aiuto socialista tra lavoratori liberi dallo sfruttamento. Qui i
rapporti di produzione corrispondono perfettamente allo stato delle forze
produttive, perché il carattere sociale del processo della produzione è
rafforzato dalla proprietà sociale sui mezzi di produzione.
Perciò la produzione socialista nell'URSS ignora le crisi periodiche di
sovrapproduzione e tutte le assurdità che le accompagnano. Perciò le forze
produttive si sviluppano nell'URSS con un ritmo accelerato, dato che i rapporti
di produzione che gli sono conformi gli offrono tutte le possibilità di
sviluppo.
Tale è il quadro dello sviluppo dei rapporti di produzione tra gli uomini, nel
corso della storia dell'umanità.
Tale è la dipendenza dello sviluppo dei rapporti di produzione dallo sviluppo
delle forze produttive della società, e innanzitutto dallo sviluppo degli
strumenti della produzione, dipendenza in virtù della quale i cambiamenti e lo
sviluppo delle forze produttive conducono, presto o tardi, a un cambiamento e a
uno sviluppo corrispondenti dei rapporti di produzione.
"L'impiego e la creazione dei mezzi di lavoro (gli strumenti di produzione) —
dice Marx — benché si trovino in germe presso qualche specie animale,
caratterizzano eminentemente il processo del lavoro umano. È perciò che
Franklin definisce l'uomo a toolmaking animal, un animale fabbricatore di
strumenti. Gli avanzi degli antichi mezzi di lavoro hanno, per lo studio delle
forme economiche delle società scomparse, la stessa importanza che la struttura
delle ossa fossili ha per la cognizione degli organismi delle specie animali
estinte. Le epoche economiche si distinguono non per ciò che vi si produce, ma
per il modo in cui si produce... I mezzi di lavoro non danno soltanto la misura
del grado dello sviluppo della forza di lavoro umana, ma sono l'indice dei
rapporti sociali in cui si lavora". E più oltre:
"I rapporti sociali sono intimamente legati alle forze produttive. Acquistando
nuove forze produttive gli uomini cambiano il loro modo di produzione, e
cambiando il modo di produzione, il modo di guadagnarsi la vita, essi cambiano
tutti i loro rapporti sociali. Il mulino a braccia vi darà la società diretta
dal signore [feudale], il mulino a vapore, la società diretta dal capitalista
industriale".
"Vi è un movimento continuo di aumento delle forze produttive, di distruzione
dei rapporti sociali, di formazione delle idee; immobile è solo l'astrazione
del movimento".
Engels, caratterizzando il materialismo storico definito nel Manifesto del
Partito comunista, dice:
"La produzione economica e la struttura sociale che necessariamente ne deriva
formano, in qualunque epoca storica, la base della storia politica e
intellettuale dell'epoca stessa... Conforme a ciò, dopo il dissolversi della
primitiva proprietà comune del suolo, tutta la storia è stata una storia di
lotte di classe, di lotte tra le classi sfruttate e le classi sfruttatrici, tra
classi dominate e classi dominanti, nelle varie tappe dello sviluppo sociale...
Questa lotta ha ora raggiunto un grado in cui la classe sfruttata e oppressa (il
proletariato ) non può liberarsi dalla classe che la sfrutta e la opprime (la
borghesia) senza liberare anche ad un tempo, e per sempre, tutta la società
dallo sfruttamento, dall'oppressione e dalla lotta di classe..."
d) La terza particolarità della produzione sta in ciò, che il sorgere delle
nuove forze produttive e dei rapporti di produzione corrispondenti non avviene
al di fuori del vecchio regime, dopo la sua scomparsa, ma nel seno stesso del
vecchio regime; non è il risultato di un'azione premeditata e cosciente degli
uomini, ma avviene spontaneamente, indipendentemente dalla coscienza e dalla
volontà degli uomini. Esso avviene spontaneamente, indipendentemente dalla
coscienza e dalla volontà degli uomini per le seguenti due ragioni.
In primo luogo perché gli uomini non sono liberi nella scelta di questo o quel
modo di produzione, perché ogni nuova generazione, al suo ingresso nella vita,
trova forze produttive e rapporti di produzione già pronti, come risultato del
lavoro delle generazioni precedenti, e quindi ogni nuova generazione è
obbligata, in un primo tempo, ad accettare tutto ciò che trova già pronto nel
dominio della produzione e ad adattarvisi, per avere la possibilità di produrre
beni materiali.
In secondo luogo perché gli uomini, perfezionando questo o quello strumento di
produzione, questo o quell'elemento delle forze produttive, non hanno la
coscienza e la comprensione, né riflettono ai risultati sociali a cui quei
perfezionamenti debbono portare; pensano semplicemente ai loro interessi
quotidiani, a rendere più facile il loro lavoro e ad ottenere un vantaggio
immediato e tangibile.
Quando alcuni membri della comunità primitiva cominciarono a poco a poco, e come
a tastoni, a passare dagli utensili di pietra agli utensili di ferro, certamente
ignoravano e non concepivano i risultati sociali cui avrebbe portato
quell'innovazione; essi non avevano la comprensione né la coscienza del fatto
che il passaggio a strumenti di metallo significava una rivoluzione nella
produzione, che tale passaggio doveva portare, infine, al regime schiavistico.
Essi volevano semplicemente rendere più facile il loro lavoro e ottenere un
vantaggio immediato e sensibile; la loro attività cosciente si limitava al
quadro ristretto di questo vantaggio personale, quotidiano.
Quando, durante il regime feudale, la giovane borghesia europea cominciò a
costruire accanto alle piccole botteghe degli artigiani grandi manifatture,
facendo in tal modo progredire le forze produttive della società, essa
certamente non sapeva e non concepiva le conseguenze sociali cui avrebbe
portato quell'innovazione; essa non aveva la comprensione né la coscienza del
fatto che quella "piccola" innovazione doveva portare a un raggruppamento di
forze sociali, il quale doveva concludersi con la rivoluzione contro il potere
monarchico di cui essa tanto apprezzava la benignità, e contro la nobiltà nelle
cui file sognavano spesso di entrare i suoi rappresentanti migliori. Essa voleva
semplicemente ridurre il costo di produzione delle merci, gettare una maggior
quantità di merci sui mercati dell'Asia e dell'America, solo allora scoperta, e
trarne maggiori profitti; la sua attività cosciente si limitava al quadro
ristretto di questa pratica quotidiana.
Quando i capitalisti russi insieme con i capitalisti stranieri cominciarono
attivamente a introdurre in Russia la grande industria meccanizzata moderna,
senza toccare lo zarismo e gettando i contadini in pasto ai grandi proprietari
fondiari, essi certo non sapevano e non concepivano le conseguenze sociali cui
avrebbe portato quel poderoso aumento delle forze produttive; essi non avevano
la comprensione né la coscienza del fatto che quel grande balzo delle forze
produttive della società doveva portare a un raggruppamento di forze sociali che
avrebbe permesso al proletariato di unire a sé i contadini e di far trionfare la
rivoluzione socialista. Essi volevano semplicemente allargare al massimo grado
la produzione industriale, impadronirsi del mercato interno immenso,
monopolizzare la produzione e trarre dall'economia nazionale i maggiori
profitti possibili; la loro attività cosciente non superava la cerchia dei loro
interessi quotidiani, puramente pratici. A questo proposito Marx dice:
"Nella produzione sociale della loro esistenza [ossia nella produzione dei beni
materiali necessari alla vita degli uomini], gli uomini entrano in rapporti
determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di
produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze
produttive materiali".
Ciò non vuol dire tuttavia che i cambiamenti nei rapporti di produzione e il
passaggio dai vecchi rapporti di produzione ai nuovi avvengano pacificamente,
senza conflitti, senza scosse. Al contrario, un tale passaggio avviene di solito
mediante l'abbattimento rivoluzionario dei vecchi rapporti di produzione e
l'instaurazione di rapporti nuovi. Fino a un certo momento lo sviluppo delle
forze produttive e i cambiamenti nel campo dei rapporti di produzione si
effettuano spontaneamente, indipendentemente dalla volontà degli uomini. Ma
questo solo fino a un certo momento, fino al momento in cui le forze produttive,
precedentemente sorte e sviluppatesi, siano sufficientemente mature.
Quando le nuove forze produttive sono giunte a maturazione, i rapporti di
produzione esistenti e le classi dominanti che li personificano si trasformano
in una barriera "insormontabile", che può essere tolta di mezzo solo
dall'attività cosciente delle nuove classi, dall'azione violenta di queste
classi, dalla rivoluzione. Appare allora in modo chiarissimo la funzione immensa
delle nuove idee sociali, delle nuove istituzioni politiche, del nuovo potere
politico, chiamati a sopprimere con la forza i vecchi rapporti di produzione.
Sulla base del conflitto tra le nuove forze produttive e i vecchi rapporti di
produzione, sulla base delle nuove esigenze economiche della società, sorgono
nuove idee sociali; queste nuove idee organizzano e mobilitano le masse; le
masse si uniscono in un nuovo esercito politico, creano un nuovo potere
rivoluzionario e se ne servono per sopprimere con la forza il vecchio ordine nel
campo dei rapporti di produzione, e per instaurarvi l'ordine nuovo. Il processo
spontaneo di sviluppo cede il posto all'attività cosciente degli uomini lo
sviluppo pacifico a un rivolgimento violento, l'evoluzione alla rivoluzione.
"...Il proletariato — dice Marx — nella lotta contro la borghesia si
costituisce necessariamente in classe... per mezzo della rivoluzione trasforma
se stesso in classe dominante e, come tale, distrugge violentemente i vecchi
rapporti di produzione...". E più avanti:
"Il proletariato si servirà della sua supremazia politica per strappare alla
borghesia, a poco a poco, tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti
di produzione nelle mani dello Stato, vale a dire del proletariato stesso
organizzato come classe dominante, e per aumentare con la massima rapidità
possibile il totale delle forze produttive".
"La violenza è la levatrice di ogni vecchia società gravida di una società
nuova".
Ecco come la sostanza del materialismo storico è stata genialmente esposta da
Marx nel 1859, nella storica prefazione alla sua celebre opera Per la critica
dell'economia politica:
"Nella produzione sociale della loro esistenza gli uomini entrano in rapporti
determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di
produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro
forze produttive materiali. L'insieme di questi rapporti di produzione
costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla
quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale
corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione
della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e
spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro
essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro
coscienza. A un dato punto del loro sviluppo le forze produttive materiali della
società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè
con i rapporti di proprietà (il che è l'equivalente giuridico di tale
espressione) dentro i quali dette forze per l'innanzi s'erano mosse. Questi
rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro
catene. E allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento
della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca
sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti è indispensabile
distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche
della produzione — che può essere constatato con la precisione delle scienze
naturali — e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o
filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire
questo conflitto e di combatterlo. Come non si può giudicare un uomo dall'idea
che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di
sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare
questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto
esistente tra le forze produttive della società e i rapporti di produzione. Una
formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze
produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non
subentrano mai prima che siano maturate in seno alla vecchia società le
condizioni materiali della loro esistenza. Ecco perché l'umanità non si propone
se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso,
si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della
sua soluzione esistono già, o almeno sono in formazione".
Ecco ciò che insegna il materialismo marxista applicato alla vita sociale, alla
storia della società. Tali sono i tratti fondamentali del materialismo
dialettico e storico. Joseph Stalin
(Questa è un'opera poco conosciuta e
tradotta del grande maestro del proletariato internazionale: "Il marxismo e la
linguistica". Anch'essa, come: "Problemi economici del socialismo nell'Urss" (che abbiamo
concluso di pubblicare sul numero scorso) è tra le ultime opere scritte da
Stalin, precisamente tra il 20 giugno e il 28 luglio 1950, e anch'essa
interviene nei grandi e fecondi dibattiti avviati in quegli anni in Urss su due
grandi temi come la linguistica e l'economia. Chi taccia Stalin di aver unicamente represso gli oppositori negando ogni
critica riceve dalle parole di Stalin un'evidente smentita di metodo e di
contenuto. Di metodo, per come Stalin riesce a sottrarre questo tema altrimenti
relegato a un dibattito tra una ristretta cerchia di esperti e di addetti ai
lavori e, pur confermando di non considerarsi un linguista di professione, lo
porta al grande pubblico sulle pagine del più diffuso quotidiano nazionale, la
"Pravda". Riuscireste a immaginare una procedura analoga nelle "democraticissime"
repubbliche occidentali? E di contenuto, laddove con decisione ricorda che
"nessuna scienza può svilupparsi e fiorire senza lotta delle opinioni, senza
libertà di critica", ed esorta, come farà Mao alla vigilia della Grande
Rivoluzione Culturale Proletaria, a bombardare il quartier generale borghese,
che in questo caso individua nella scuola di matrice idealista capeggiata dal
celebre linguista Marr, ovvero in quel "ristretto gruppo di dirigenti
infallibili che, essendosi assicurato contro ogni possibile critica, si è messo
ad agire arbitrariamente e scandalosamente". Che cos'è quella che invoca Stalin se non la lotta ideologica attiva, la
lotta di classe nella sovrastruttura sovietica? Abbiamo un'ulteriore
testimonianza di quanto Stalin facesse leva sulla lotta tra le due linee per
difendere il socialismo e impedire la restaurazione del capitalismo in Urss. Non possiamo in questa breve introduzione anche solo elencare tutti gli
innumerevoli contributi che Stalin dà sul tema: dalla riaffermazione della
definizione di Marx che "La lingua è la realtà immediata del pensiero" alla
individuazione dei segni distintivi caratteristici di una lingua; dal posto
occupato dalla lingua all'influenza delle classi sulla lingua; dalla distinzione
tra lingua, dialetti e "gerghi," alla differenza tra lingua e cultura, anzi le
due culture, quella borghese e quella proletaria; dal ruolo della semantica e
della grammatica, alla difesa del marxismo che è nemico di ogni dogmatismo. Siamo certi che per molti nostri lettori si tratterà di un'autentica
scoperta e ci auguriamo che sapranno far tesoro in particolare della tesi
marxista-leninista che "le idee, le concezioni, i costumi, i principi morali, la
religione e le opinioni politiche dei borghesi e dei proletari sono direttamente
antitetici". Concludiamo queste brevissime note introduttive ricordando la
penetrante e splendida definizione che Stalin dà del marxismo: "Il marxismo è la
scienza delle leggi di sviluppo della natura e della società, la scienza della
rivoluzione delle masse oppresse e sfruttate, la scienza della vittoria del
socialismo in tutti i Paesi, la scienza dell'edificazione della società
comunista". Viva Stalin, il suo pensiero e la sua opera.)
Si è rivolto a me un gruppo di giovani
compagni, chiedendomi di esprimere sulla stampa la mia opinione a proposito
delle questioni relative alla scienza del linguaggio, particolarmente in
riferimento al marxismo nella linguistica. Non sono un glottologo, e non posso,
naturalmente, soddisfare completamente questi compagni. Ma, per quanto riguarda
il marxismo nella linguistica, come nelle altre scienze sociali, questo è un
tema con il quale ho un legame diretto. Ho quindi acconsentito a rispondere a
una serie di domande rivoltemi da questi compagni.
Domanda: E' vero che il linguaggio è una sovrastruttura in rapporto alla base?
Risposta: No, non è vero.
La base è la struttura economica della società in un determinato stadio del suo
sviluppo. La sovrastruttura consiste nelle opinioni politiche, giuridiche,
religiose, artistiche e filosofiche della società, nonché nelle corrispondenti
istituzioni politiche, giuridiche e d'altro genere.
Ogni base ha una propria sovrastruttura, ad essa corrispondente. La base del
sistema feudale ha la propria sovrastruttura, le proprie opinioni politiche,
giuridiche, ecc. e le relative istituzioni; ha la propria sovrastruttura la base
capitalistica, così come la base socialista. Se la base cambia e viene
liquidata, allora, dopo di essa cambia e viene liquidata anche la sua
sovrastruttura; se una nuova base sorge, allora, dopo di essa sorge una
sovrastruttura ad essa corrispondente.
Per questo aspetto, la lingua differisce radicalmente dalla sovrastruttura.
Prendiamo, come esempio, la società russa e la lingua russa. Nel corso degli
ultimi trent'anni è stata liquidata in Russia la vecchia base capitalistica e
una base nuova, socialista, è stata costruita. Parallelamente, è stata liquidata
la sovrastruttura della base capitalistica e creata una nuova struttura
corrispondente alla base socialista. Le vecchie istituzioni politiche,
giuridiche, ecc., sono quindi state soppiantate da istituzioni nuove,
socialiste. Ma ciò nonostante, la lingua russa è rimasta fondamentalmente quella
che era prima della Rivoluzione di Ottobre.
Che cosa è mutato nella lingua russa in questo periodo? In una certa misura, è
mutato il lessico della lingua russa, nel senso che è stato arricchito da un
cospicuo numero di nuove parole ed espressioni, scaturite in relazione con il
sorgere della nuova produzione socialista, con l'apparire del nuovo Stato, della
nuova cultura socialista, di un nuovo costume, di una nuova morale e, infine, in
relazione con lo sviluppo della tecnica e della scienza; è mutato il significato
di molte parole ed espressioni, che hanno preso un nuovo significato; è
scomparso dal vocabolario un certo numero di parole antiquate. Ma per quanto
riguarda il patrimonio lessicale fondamentale e la struttura grammaticale della
lingua russa, che costituiscono il fondamento del linguaggio, essi, dopo la
liquidazione della base capitalistica, lungi dall'essere stati liquidati e
soppiantati da un nuovo patrimonio lessicale fondamentale e da una nuova
struttura grammaticale del linguaggio, sono stati conservati nella loro
integrità e non hanno subìto alcun serio mutamento: sono stati conservati
precisamente come fondamento della moderna lingua russa.
Inoltre, la sovrastruttura è un prodotto della base; ma ciò non significa che
essa rifletta semplicemente la base, che essa sia passiva, neutrale,
indifferente alla sorte della sua base, alla sorte delle classi, al carattere
del sistema. Al contrario non appena sorge, essa diviene una forza
eccezionalmente attiva, che aiuta energicamente la sua base ad assumere una
forma e a consolidarsi facendo quanto è in suo potere per aiutare il nuovo
sistema a distruggere e liquidare la vecchia base e le vecchie classi.
Né potrebbe essere altrimenti. La sovrastruttura viene dalla base creata
precisamente perché possa servirla, perché possa attivamente aiutarla ad
assumere una forma e a consolidarsi, perché possa attivamente contribuire alla
liquidazione della base antica, decrepita, assieme alla sua vecchia
sovrastruttura. Basta che la sovrastruttura rinunci alla sua funzione
ausiliaria, basta che la sovrastruttura passi da una posizione di attiva difesa
della sua base a un atteggiamento di indifferenza verso di essa, a un
atteggiamento eguale verso tutte le classi, perché essa perda il suo valore e
cessi di essere una sovrastruttura.
Per questo aspetto, la lingua differisce radicalmente dalla sovrastruttura. La
lingua non è il prodotto di questa o quella base, di una base vecchia o nuova,
entro una determinata società, ma dell'intiero corso della storia della società
e della storia delle basi per secoli e secoli. Essa è stata creata non da una
classe, ma da tutta la società, da tutte le classi della società, dagli sforzi
di centinaia di generazioni. Essa è stata creata per soddisfare le necessità non
di una sola classe, ma di tutta la società, di tutte le classi della società.
Precisamente per questo è stata creata come un unico linguaggio per la società,
comune a tutti i membri di essa, come linguaggio comune di tutto il popolo. Di
conseguenza, la funzione ausiliare del linguaggio, come mezzo di comunicazione
tra gli uomini, consiste non nel servire una classe a danno di altre classi, ma
nel servire egualmente tutta la società, tutte le classi della società. Ciò
difatti spiega il motivo per cui la lingua può egualmente servire sia l'antico,
decrepito sistema, sia il sistema nuovo, nascente, l'antica base come la nuova,
gli sfruttatori come gli sfruttati.
Non è un segreto per nessuno che la lingua russa serviva il capitalismo e la
cultura borghese russa prima della Rivoluzione d'Ottobre, altrettanto bene
quanto essa serve ora il sistema e la cultura socialista della società russa.
Lo stesso va detto per l'ucraino, il bielorusso, l'uzbeko, il kazako, il
georgiano, l'armeno, l'estone, il lettone, il lituano, il moldavo, il tartaro,
l'azerbaigiano, il basckiro, il turkmeno e le altre lingue delle nazioni
sovietiche, le quali servivano l'antico sistema borghese di queste nazioni
altrettanto bene quanto servono il sistema nuovo, socialista.
Né potrebbe essere altrimenti. La lingua esiste, la lingua è stata creata
precisamente allo scopo di servire la società nel suo complesso, come mezzo di
comunicazione tra gli uomini, allo scopo di essere comune ai membri della
società e di essere l'unico linguaggio della società, servendo egualmente ai
membri della società, indipendentemente dalla loro posizione di classe. Basta
che una lingua si allontani da questa posizione di essere comune a tutto il
popolo, basta che una lingua si ponga nella posizione di preferire e appoggiare
un qualsiasi gruppo sociale a danno di altri gruppi sociali della società,
perché essa perda la sua qualità, cessi di essere un mezzo di comunicazione tra
gli uomini in società e si trasformi nel gergo di un gruppo sociale, degeneri e
sia condannata a scomparire.
Per questo aspetto la lingua, mentre differisce in linea di principio dalla
sovrastruttura, non differisce dagli strumenti di produzione, dalle macchine,
diciamo, che possono egualmente servire il sistema capitalista e quello
socialista.
Inoltre la sovrastruttura è il prodotto di un'epoca, durante la quale esiste e
opera una determinata base economica. La sovrastruttura pertanto non vive a
lungo; essa viene liquidata e scompare con la liquidazione e la scomparsa di
quella determinata base.
La lingua, al contrario, è il prodotto di una serie di epoche, nel corso delle
quali essa prende forma, si arricchisce, si sviluppa, si perfeziona. La lingua,
pertanto, dura incommensurabilmente più a lungo di qualsiasi base o di qualsiasi
sovrastruttura. In questo modo si spiega il motivo per cui la creazione e la
liquidazione non soltanto di una base e della sua sovrastruttura, ma di varie
basi e delle loro corrispondenti sovrastrutture, non portano, nella storia, alla
liquidazione di una determinata lingua, alla liquidazione della sua struttura e
al sorgere di una nuova lingua, con un nuovo patrimonio lessicale e un nuovo
sistema grammaticale.
Sono passati più di cento anni dalla morte di Pusckin. In questo periodo sono
stati liquidati in Russia il sistema feudale e il sistema capitalistico e un
terzo sistema, quello socialista, è sorto. Pertanto, sono state liquidate due
basi con le loro sovrastrutture e una base nuova socialista è sorta, con la sua
nuova sovrastruttura. Eppure, se prendiamo come esempio la lingua russa, essa
non ha, in questo lungo periodo di tempo, subìto alcuna rottura, e la lingua
russa moderna differisce assai poco nella sua struttura dalla lingua di Pusckin.
Cos'è cambiato nella lingua russa in questo periodo? In questo periodo il
lessico russo si è considerevolmente arricchito; moltissime parole antiquate
sono state eliminate dal patrimonio lessicale; il significato di molte parole è
mutato; la struttura grammaticale è migliorata. Ma per quanto riguarda la
struttura della lingua di Pusckin, con il suo sistema grammaticale e con il suo
patrimonio lessicale fondamentale, essa è stata conservata in tutta la sua
essenza come base del russo moderno.
E ciò è del tutto comprensibile. Difatti, è veramente necessario che dopo ogni
rivoluzione, la struttura esistente della lingua, il suo sistema grammaticale,
il suo patrimonio lessicale fondamentale siano distrutti e sostituiti da altri,
come si verifica di consueto per la sovrastruttura? Che bisogno vi è che
"acqua", "terra", "montagna", "foresta", "pesce", "uomo", "camminare", "fare",
"produrre", "commerciare", ecc. non vengano più chiamati acqua, terra, montagna,
ecc. ma in altro modo? Che bisogno vi è che il mutamento delle parole nella
lingua e il loro collocamento nelle proposizioni non avvengano più secondo la
grammatica esistente, ma secondo una grammatica completamente diversa? Di quale
utilità sarebbe per la rivoluzione un simile rivolgimento nella lingua? La
storia generalmente non compie nulla di sostanziale senza che vi sia una
particolare necessità. Quale può essere, ci si chiede, la necessità di un simile
rivolgimento linguistico, quando è dimostrato che la lingua esistente e la sua
struttura sono fondamentalmente del tutto adeguate alla necessità del nuovo
sistema? L'antica sovrastruttura può e deve essere distrutta e sostituita da una
nuova nel corso di alcuni anni, allo scopo di dare libero campo allo sviluppo
delle forze produttive della società; ma come si può distruggere una lingua
esistente e costruire invece di essa una lingua nuova nel corso di alcuni anni,
senza provocare l'anarchia nella vita sociale e senza creare una minaccia di
collasso della società? Chi se non un Don Chisciotte potrebbe porsi un simile
compito?
Infine, esiste un'altra differenza radicale tra la sovrastruttura e la lingua.
La sovrastruttura non è direttamente connessa con la produzione, con l'attività
produttiva dell'uomo. Essa è connessa con la produzione solo indirettamente,
attraverso l'economia, attraverso la base. La sovrastruttura, pertanto, non
riflette i mutamenti nello sviluppo delle forze produttive né immediatamente né
direttamente, ma soltanto dopo i mutamenti della base, attraverso la rifrazione
dei mutamenti della produzione nei mutamenti della base. Ciò significa che la
sfera d'azione della sovrastruttura è limitata e ristretta.
La lingua, al contrario, è connessa con l'attività produttiva dell'uomo
direttamente e non soltanto con l'attività produttiva, ma con tutte le altre
attività dell'uomo, in tutte le sfere del suo lavoro, dalla produzione alla
base, dalla base alla sovrastruttura. Per questo la lingua riflette i mutamenti
della produzione immediatamente e direttamente, senza aspettare i cambiamenti
della base. E' per questo motivo che la sfera d'azione della lingua, che
abbraccia tutte le sfere di attività dell'uomo, è assai più vasta e multiforme
della sfera d'azione della sovrastruttura. Anzi, essa è praticamente illimitata.
Ciò spiega innanzitutto il motivo per cui la lingua, o meglio il suo patrimonio
lessicale, è in uno stato quasi continuo di mutamento. Il costante sviluppo
dell'industria e dell'agricoltura, del commercio e dei trasporti, della tecnica
e della scienza, esige che la lingua arricchisca il suo lessico di nuove parole
ed espressioni, che sono necessarie per il loro lavoro. E la lingua, riflettendo
direttamente queste necessità, arricchisce il suo lessico di nuove parole e
perfeziona la sua struttura grammaticale.
Pertanto:
a) un marxista non può considerare la lingua come una sovrastruttura della base;
b) confondere il linguaggio con la sovrastruttura è un grave errore.
Domanda: E' vero che la lingua ha sempre avuto e ha un carattere di classe, che
non esiste una lingua comune e unica per tutta la società, non di classe, uguale
per tutto il popolo?
Risposta: No, non è vero.
Non è difficile comprendere che in una società dove non vi siano classi, non si
può nemmeno parlare di una lingua di classe. La comunità primitiva del clan non
conosceva le classi, e di conseguenza non poteva esservi in esso una lingua di
classe; la lingua era allora comune, unica per l'intiera collettività.
L'obiezione che per classe si deve intendere qualsiasi collettività umana,
compresa la comunità primitiva, non è una obiezione, ma un giuoco di parole che
non vale la pena di confutare.
Per quanto riguarda lo sviluppo successivo, dalle lingue del clan alle lingue
della tribù, dalle lingue della tribù alle lingue di una nazionalità - e dalle
lingue di una nazionalità alle lingue nazionali, - dappertutto e in tutti gli
stadi di sviluppo la lingua, come mezzo di comunicazione tra gli uomini nella
società, è stata sempre comune e unica per la società, servendo in modo eguale i
membri della società indipendentemente dalla loro posizione sociale.
Non mi riferisco qui agli imperi del periodo schiavistico e del periodo
medioevale, agli imperi di Ciro e di Alessandro il Grande, diciamo, o agli
imperi di Cesare e di Carlo Magno, che non avevano una base economica propria ed
erano transitorie e instabili associazioni militari e amministrative. Questi
imperi non soltanto non avevano ma non potevano avere una lingua unica per
l'impero, compresa da tutti i membri dell'impero. Essi erano conglomerati di
tribù e di nazionalità, ciascuna delle quali viveva una propria vita e aveva una
propria lingua. Di conseguenza, non è di questi imperi e di altri analoghi che
intendo parlare, ma delle tribù e delle nazionalità facenti parte di un impero
che avesse una propria base economica e una lingua propria, formatasi da tempo.
La storia ci dice che le lingue di queste tribù e di queste nazionalità non
erano lingue di classe ma lingue comuni a tutto il popolo, comuni alle tribù e
alle nazionalità e comprese da esse.
Naturalmente accanto ad esse vi erano i dialetti e i vernacoli, ma essi erano
dominati dall'unica e comune lingua della tribù o della nazionalità e ad essa
subordinati.
Più tardi, con il sorgere del capitalismo, con la liquidazione dello
sminuzzamento feudale e con la formazione del mercato nazionale, le nazionalità
si svilupparono in nazioni e le lingue delle nazionalità in lingue nazionali. La
storia ci dice che le lingue nazionali non sono lingue di classe ma lingue di
tutto il popolo, comuni ai membri della nazione e uniche per la nazione.
Si è detto sopra che la lingua, come mezzo di comunicazione tra gli uomini nella
società, serve egualmente tutte le classi della società e per questo mostra una
specie di indifferenza rispetto alle classi. Ma gli uomini, i singoli gruppi
sociali, le classi sono lungi dall'essere indifferenti alla lingua. Essi si
sforzano di utilizzare la lingua nei propri interessi, di imporle il proprio
lessico particolare, i propri termini, le proprie espressioni particolari. Si
distinguono in questo specialmente gli strati superiori delle classi abbienti,
che sono separati dal popolo e lo detestano: l'aristocrazia nobiliare e l'alta
borghesia. Si formano così i dialetti "di classe", i gerghi, le "lingue" da
salotto. Nella letteratura non di rado questi dialetti e gerghi vengono non
giustamente qualificati come lingue: "lingua nobiliare", "lingua borghese",
contrapponendoli alla "lingua proletaria", alla "lingua contadina". Per questo
motivo, per quanto possa sembrare strano, taluni dei nostri compagni sono giunti
alla conclusione che la lingua nazionale sia una finzione e che in realtà
esistano solo lingue di classe.
Credo non vi sia nulla di più errato di questa conclusione. Possono questi
dialetti e gerghi essere considerati lingue? Certamente no. Non lo possono,
innanzi tutto, perché questi dialetti e gerghi non hanno una loro struttura
grammaticale e un patrimonio lessicale fondamentale: essi li prendono dalla
lingua nazionale. Non lo possono, in secondo luogo, perché questi dialetti e
gerghi hanno una sfera di applicazione ristretta ai membri dello strato più
elevato di una determinata classe e sono del tutto inadatti come mezzo di
comunicazione per gli uomini, per la società nel suo complesso. Che cosa vi è
allora in essi? Vi è una raccolta di parole specifiche, che riflettono i gusti
particolari dell'aristocrazia o dell'alta borghesia; vi è un certo numero di
espressioni e di frasi che si distinguono per la ricercatezza e la preziosità, e
sono privi delle espressioni e costruzioni "grossolane" della lingua nazionale;
vi è, infine, un certo numero di parole straniere. Ma tutto l'essenziale, cioè
la grandissima maggioranza delle parole e del sistema grammaticale, è preso
dalla lingua comune, nazionale. I dialetti e i gerghi sono pertanto
ramificazioni della comune lingua nazionale, non possiedono una indipendenza
linguistica di qualsiasi genere e sono destinati alla stagnazione. Chiunque
creda che i dialetti e i gerghi possano svilupparsi come lingua indipendente,
che essi siano capaci di eliminare e soppiantare la lingua nazionale, ha perso
ogni senso della prospettiva storica e abbandonato la posizione marxista.
Si fa riferimento a Marx e si cita un brano del suo articolo Sankt Max in cui si
dice che i borghesi hanno "una loro lingua", che questa lingua "è il prodotto
della borghesia", che essa è permeata di uno spirito di mercantilismo, di compra
e vendita. Taluni compagni citano questo passo per provare che Marx credesse nel
"carattere di classe" della lingua e negasse l'esistenza di una unica lingua
nazionale. Se questi compagni avessero considerato la cosa obiettivamente,
avrebbero dovuto citare anche un altro passo dello stesso articolo Sankt Max, in
cui Marx, accennando alla questione del modo di formazione di una sola lingua
nazionale, parla del "concentramento dei dialetti in una unica lingua nazionale,
quale risultato del concentramento economico e politico".
Marx, di conseguenza, riconosceva la necessità di una unica lingua nazionale,
come forma superiore a cui i dialetti, quale forma inferiore, sono subordinati.
Che cosa può essere allora la lingua borghese che, secondo le parole di Marx, è
un "prodotto della borghesia"? Marx la considerava forse una lingua alla stessa
stregua di una lingua nazionale, con la propria specifica struttura linguistica?
Poteva egli considerarla in tal modo? Naturalmente no! Marx intendeva soltanto
dire che i borghesi avevano inquinato la comune lingua nazionale con il loro
lessico da mercanti, che i borghesi in altre parole hanno il loro gergo da
mercanti.
E' pertanto evidente che questi compagni hanno travisato Marx. E lo hanno
travisato perché hanno citato Marx non da marxisti ma da dogmatici, senza
approfondire l'essenza della questione.
Si fa riferimento a Engels e si citano da Le condizioni della classe operaia in
Inghilterra, le parole di Engels in cui egli dice che "... la classe operaia
inglese con il passare del tempo è diventata un popolo completamente diverso
dalla borghesia inglese", che "gli operai parlano un altro dialetto, hanno altre
idee e concezioni, altri costumi e princìpi morali, un'altra religione e
un'altra politica che la borghesia". Taluni compagni traggono da questo passo la
conclusione che Engels negasse la necessità di una lingua comune, nazionale, che
egli credesse, di conseguenza, nel "carattere di classe" della lingua. In
realtà, Engels parla qui di un dialetto, non di una lingua, comprendendo
perfettamente che, essendo un derivato della lingua nazionale, il dialetto non
può sostituirsi ad essa. Ma questi compagni, evidentemente, non considerano con
simpatia l'esistenza di una differenza tra lingua e dialetto.
E' ovvio che la citazione è inappropriata, perché Engels parla qui non di
"lingue di classe", ma soprattutto di idee, concezioni, costumi, princìpi
morali, sentimenti religiosi e opinioni politiche di classe. E' verissimo che le
idee, le concezioni, i costumi, i princìpi morali, la religione e le opinioni
politiche dei borghesi e dei proletari sono direttamente antitetici. Ma che
c'entra qui la lingua nazionale o il "carattere di classe" della lingua? Forse
che l'esistenza delle contraddizioni di classe nella società può servire come
argomento a favore del "carattere di classe" della lingua o contro la necessità
di una unica lingua nazionale? Il marxismo dice che la lingua comune è uno dei
segni distintivi più importanti di una nazione, pur sapendo benissimo che in
seno alla nazione vi sono contraddizioni di classe. Riconoscono i compagni di
cui si è parlato questa tesi marxista?
Si fa riferimento a Lafargue e si dice che nel suo opuscolo La lingua e la
rivoluzione egli riconosca il "carattere di classe" della lingua e neghi la
necessità di una lingua comune nazionale. Ciò non è vero. Lafargue
effettivamente parla di "lingua della nobiltà" o "lingua della aristocrazia" e
di "gerghi" dei vari strati della società. Ma questi compagni dimenticano che
Lafargue, non interessandosi della questione della differenza tra lingua e gergo
e chiamando i dialetti ora "parlata artificiale", ora "gergo", dice in
definitiva nel suo opuscolo che "la parlata artificiale dell'aristocrazia deriva
dalla lingua comune a tutto il popolo, in cui parlavano il borghese e
l'artigiano, la città e la campagna".
Di conseguenza, Lafargue riconosce l'esistenza e la necessità della comune
lingua nazionale e comprende pienamente che la "lingua aristocratica" e gli
altri dialetti e gerghi sono subordinati e dipendono dalla comune lingua
nazionale.
Ne deriva che il riferimento a Lafargue non coglie nel segno.
Si fa riferimento al fatto che una volta in Inghilterra i lord feudali parlarono
"per secoli" in francese mentre il popolo inglese parlava l'inglese, ciò che
costituirebbe un argomento a favore del "carattere di classe" della lingua e
contro la necessità di una comune lingua nazionale. Ma questo non è un
argomento, è piuttosto una arguzia. Innanzi tutto non tutti i lord feudali
parlavano allora francese, ma soltanto un piccolo strato più elevato di baroni
feudali inglesi, alla corte e nelle contee. In secondo luogo, essi non parlavano
una "lingua di classe", ma la comune normale lingua nazionale francese. In terzo
luogo, sappiamo che questo trastullarsi con la lingua francese è scomparso in
seguito senza lasciare tracce, cedendo il passo alla comune lingua nazionale
inglese. Questi compagni pensano forse che i feudali inglesi abbiano "per
secoli" comunicato con il popolo inglese per tramite di interpreti, che non
usassero la lingua inglese, che non vi fosse allora una comune lingua nazionale
inglese e che la lingua francese in Inghilterra fosse allora una cosa più seria
di una lingua da salotto usata solo dall'alta aristocrazia? Come si può negare
l'esistenza e la necessità di una comune lingua nazionale sulla base di
"argomenti" allegri come questi?
Anche gli aristocratici russi un tempo si trastullavano con la lingua francese
alla corte dello zar e nei salotti. Essi si inorgoglivano del fatto che,
parlando russo, inciampavano nel francese, che sapevano parlare russo solo con
accento francese. Significa ciò che non vi fosse allora in Russia una comune
lingua nazionale russa, che la comune lingua nazionale fosse una finzione e la
"lingua di classe" una realtà?
I nostri compagni commettono qui almeno due errori.
Il primo errore sta nel fatto che essi confondono la lingua con la
sovrastruttura. Essi pensano che, avendo la sovrastruttura un carattere di
classe, anche la lingua deve essere una lingua di classe e non una comune lingua
nazionale. Ma ho già detto che la lingua e la sovrastruttura sono due nozioni
differenti e che un marxista non può confonderle.
Il secondo errore sta nel fatto che essi considerano la contrapposizione di
interessi della borghesia e del proletariato, la loro aspra lotta di classe,
come una scissione della società, una rottura di qualsiasi legame tra le classi
ostili. Essi credono che, essendosi scissa la società e non esistendo più una
società unica ma solo delle classi, per questo non sia nemmeno necessaria una
lingua unica della società, non sia necessaria una lingua nazionale. Se la
società si è scissa, e non esiste più una lingua nazionale, cosa rimane?
Rimangono le classi e le "lingue di classe". Naturalmente, ogni "lingua di
classe" avrà la sua grammatica "di classe", una grammatica "proletaria", una
grammatica "borghese". E' vero che queste grammatiche di fatto non esistono, ma
ciò non turba questi compagni: essi credono che simili grammatiche finiranno per
apparire.
Vi furono un tempo dei "marxisti", nel nostro Paese, i quali asserivano che le
ferrovie rimasteci dopo la Rivoluzione d'Ottobre erano ferrovie borghesi, che
sarebbe stato sconveniente per noi marxisti utilizzarle, che avrebbero dovuto
essere divelte e che occorreva costruire delle ferrovie nuove, "proletarie". Per
questo essi furono soprannominati "trogloditi"...
E' evidente che una tale visione primitiva e anarchica della società, delle
classi, della lingua, non ha nulla in comune con il marxismo. Ma essa
indubbiamente esiste e continua a prevalere nelle menti di taluni nostri
compagni confusionari.
Naturalmente non è vero che, essendoci una aspra lotta di classe, la società si
sia scissa in classi, le quali non siano più economicamente legate l'una
all'altra nella società. Al contrario. Fino a che esisterà il capitalismo, i
borghesi e i proletari saranno legati assieme da tutti i fili dell'economia,
come parti di una unica società capitalistica. Il borghese non può vivere e
arricchirsi se non ha a sua disposizione gli operai salariati; i proletari non
possono continuare la loro esistenza, se non si assoggettano al salario dei
capitalisti. La fine di qualsiasi legame economico tra di loro significherebbe
la fine di qualsiasi produzione, e la fine di qualsiasi produzione porterebbe
alla rovina della società, alla rovina delle classi stesse. Naturalmente nessuna
classe vuole distruggere se stessa. Per questo, per quanto aspra possa essere la
lotta di classe, essa non può portare alla scissione della società. Solo la
ignoranza del marxismo e una totale incomprensione della natura della lingua
possono aver suggerito ad alcuni nostri compagni la favola della scissione della
società, delle lingue "di classe" e delle grammatiche "di classe".
Si fa pure riferimento a Lenin e si ricorda che egli aveva riconosciuto
l'esistenza di due culture sotto il capitalismo, l'una borghese e l'altra
proletaria, e che la parola d'ordine della cultura nazionale sotto il
capitalismo è una parola d'ordine nazionalista. Tutto questo è vero e Lenin ha
assolutamente ragione. Ma che c'entra il "carattere di classe" della lingua?
Quando questi compagni si riferiscono a ciò che Lenin disse sulle due culture
sotto il capitalismo, è evidente che vogliono suggerire al lettore che
l'esistenza di due culture, borghese e proletaria, in una società, significhi
che vi debbano essere anche due lingue, in quanto la lingua sarebbe legata alla
cultura; che Lenin neghi quindi l'esistenza di una comune lingua nazionale; che
Lenin sia per la lingua "di classe". L'errore di questi compagni sta nel fatto
che essi identificano e confondono la lingua con la cultura. Ma la cultura e la
lingua sono due cose diverse. La cultura può essere borghese o socialista,
mentre la lingua, come mezzo di comunicazione, è sempre una comune lingua
nazionale e può servire sia la cultura borghese che quella socialista. Non è un
fatto che le lingue russa, ucraina, uzbeka, oggi servono la cultura socialista
di queste nazioni, proprio come servivano le loro culture borghesi prima della
Rivoluzione d'Ottobre? Questo vuol dire che si sbagliano profondamente questi
compagni, affermando che l'esistenza di due differenti culture porti alla
formazione di due lingue diverse e alla negazione della necessità di una lingua
unica.
Quando parlava di due culture, Lenin partiva precisamente dal principio che
l'esistenza di due culture non può portare alla negazione di una lingua comune e
alla formazione di due lingue, che la lingua deve essere una sola. Quando gli
esponenti del Bund accusarono Lenin di negare la necessità di una lingua
nazionale e di considerare la cultura come "non nazionale", Lenin, come è noto,
protestò risolutamente e dichiarò che egli combatteva contro la cultura borghese
e non contro la lingua nazionale, la cui necessità egli considerava
indiscutibile. E' strano che alcuni dei nostri compagni abbiano seguito le orme
degli esponenti del Bund.
Per quanto riguarda il linguaggio unico, la cui necessità Lenin negherebbe,
basta rivolgere l'attenzione alle seguenti parole di Lenin:
"La lingua è il mezzo più importante di comunicazione umana; l'unità della
lingua e il suo sviluppo senza ostacoli è una delle condizioni più importanti
per un commercio realmente libero e vasto, adeguato al capitalismo moderno, per
un libero e vasto raggruppamento della popolazione in classi".
Ne deriva che i nostri egregi compagni hanno travisato le opinioni di Lenin.
Si fa infine riferimento a Stalin. Si cita il passo di Stalin, in cui si dice
che "la borghesia e i suoi partiti nazionalisti erano e rimangono in tale
periodo la principale forza dirigente di queste nazioni". Ciò è verissimo. La
borghesia e il suo partito nazionalista realmente dirigono la cultura borghese,
così come il proletariato e il suo partito internazionalista dirigono la cultura
proletaria. Ma che c'entra qui il "carattere di classe" della lingua? Non sanno
forse questi compagni che la lingua nazionale è una forma della cultura
nazionale, che la lingua nazionale può servire sia la cultura borghese che
quella socialista? Non conoscono dunque i nostri compagni la nota formula dei
marxisti che le attuali culture russa, ucraina, bielorussa, ecc. sono socialiste
nel contenuto e nazionali nella forma, ossia nella lingua? Sono essi d'accordo
con questa formula marxista?
Qui l'errore dei nostri compagni sta nel fatto che essi non vedono la differenza
tra cultura e lingua, non comprendono che la cultura muta di contenuto ad ogni
nuovo periodo di sviluppo della società, mentre la lingua rimane
fondamentalmente la stessa lingua per la durata di alcuni periodi, servendo la
nuova come la vecchia cultura.
Pertanto:
la lingua come mezzo di comunicazione è sempre stata e rimane unica per una
società e comune a tutti i suoi membri;
l'esistenza di dialetti e di gerghi non nega ma conferma l'esistenza di una
lingua comune a tutto il popolo, della quale essi sono le ramificazioni e alla
quale sono subordinati;
la formula del "carattere di classe" della lingua è una formula errata e non
marxista.
Domanda: Quali sono i tratti caratteristici della lingua?
Risposta: la lingua è uno di quei fenomeni sociali che operano per tutta la
durata di una società. Essa nasce e si sviluppa con il nascere e lo svilupparsi
della società. Essa muore col morire della società. Senza società non c'è
lingua. Perciò la lingua e le sue leggi di sviluppo possono essere comprese solo
se vengono studiate in inscindibile connessione con la storia della società, con
la storia del popolo a cui appartiene la lingua studiata e che è creatore e
depositario di questa lingua.
La lingua è un mezzo, uno strumento con l'aiuto del quale gli uomini comunicano
gli uni con gli altri, scambiano i pensieri e giungono a comprendersi
reciprocamente. Essendo direttamente connessa con il pensiero, la lingua
registra e cristallizza in parole, e in parole coordinate in proposizioni, i
risultati del pensiero e i successi del lavoro di ricerca dell'uomo, rendendo
così possibile lo scambio delle idee nella società umana.
Lo scambio delle idee è una necessità costante e vitale, perché senza di esso è
impossibile coordinare le azioni degli uomini nella lotta contro le forze della
natura, nella lotta per la produzione dei beni materiali indispensabili; è
impossibile ottenere successi nell'attività produttiva della società e,
pertanto, è impossibile l'esistenza stessa della produzione sociale. Di
conseguenza, senza una lingua compresa dalla società e comune a tutti i suoi
membri, la società cessa la produzione e cessa di esistere come società. In
questo senso la lingua, strumento di comunicazione, è in pari tempo strumento di
lotta e di sviluppo della società.
Come è noto, tutte le parole di una lingua messe assieme ne formano il
cosiddetto patrimonio lessicale. La cosa principale nel patrimonio lessicale di
una lingua è la sua parte fondamentale, che comprende anche, come suo nocciolo,
tutti i vocabili radicali. Esso è molto meno esteso del patrimonio lessicale
della lingua, ma vive molto a lungo nel corso del secoli, e dà alla lingua una
base per la formazione di nuove parole. Il patrimonio lessicale riflette lo
stato della lingua: quanto più ricco e vario è il patrimonio lessicale tanto più
ricca e sviluppata è la lingua.
Tuttavia, di per se stesso, il patrimonio lessicale non costituisce ancora la
lingua: esso è piuttosto il materiale di costruzione della lingua. Così come nel
lavoro edile i materiali di costruzione non costituiscono l'edificio, sebbene
quest'ultimo non possa essere costruito senza di essi, così pure il patrimonio
lessicale non costituisce la lingua stessa, sebbene nessuna lingua sia
concepibile senza di esso. Ma il patrimonio lessicale di una lingua assume
un'estrema importanza quando è messo a disposizione della grammatica, che fissa
le regole della modificazione delle parole e l'ordinamento delle parole nelle
proposizioni, dando così alla lingua un carattere ordinato e significativo. La
grammatica (morfologia, sintassi) è la raccolta delle regole che governano la
modificazione dei vocaboli e il loro coordinamento nelle proposizioni. E'
pertanto grazie alla grammatica che la lingua acquista la possibilità di
rivestire i pensieri dell'uomo di un tegumento linguistico materiale.
Il tratto caratteristico della grammatica sta nel fatto che essa dà le regole
della modificazione delle parole, non riferendosi a parole concrete, ma a parole
in generale, senza alcuna concretezza; essa dà pure le regole per la formazione
delle proposizioni, non riferendosi ad alcuna proposizione concreta, per esempio
a un soggetto concreto, a un predicato concreto, ecc., ma, in generale, a tutte
le proposizioni, indipendentemente dalla forma concreta dell'una o dell'altra.
Pertanto, facendo astrazione dal particolare e dal concreto, così nelle parole,
come nelle proposizioni, la grammatica prende ciò che è generale, ciò che sta
alla base della modificazione delle parole e del loro coordinamento in
proposizioni, traendone regole e leggi grammaticali. La grammatica è il
risultato di un lungo lavoro di astrazione del pensiero umano, è un indice degli
immani progressi del pensiero.
Sotto questo aspetto, la grammatica ricorda la geometria, la quale fissa le
proprie leggi facendo astrazione dagli oggetti concreti, considerando gli
oggetti come corpi privi di ogni concretezza e definendo le relazioni tra di
essi non come relazioni concrete tra oggetti concreti, ma come relazioni di
corpi in generale, privi di ogni concretezza.
A differenza della sovrastruttura, che è connessa alla produzione non
direttamente ma pel tramite dell'economia, la lingua è direttamente connessa
all'attività produttiva dell'uomo, come pure a ogni altra attività in tutte le
sfere del suo lavoro, senza eccezione. Perciò il patrimonio lessicale della
lingua, essendo il più sensibile ai mutamenti, si trova in condizioni di
mutamento quasi ininterrotto e, diversamente dalla sovrastruttura, la lingua non
deve aspettare che la base sia liquidata: essa apporta cambiamenti al suo
patrimonio lessicale prima che la base sia liquidata e prescindendo dalla
consistenza della base.
Tuttavia il patrimonio lessicale di una lingua non cambia come la
sovrastruttura, abolendo il vecchio e costruendo qualcosa di nuovo, ma
arricchendo il vocabolario esistente con nuove parole, sorte in relazione con i
cambiamenti del sistema sociale, con lo sviluppo della produzione, con lo
sviluppo dell'agricoltura, della scienza, ecc. E sebbene un certo numero di
parole antiquate scompaiano abitualmente dal patrimonio lessicale della lingua,
un numero molto più grande di nuove parole vengono ad aggiungersi ad esso.
Quanto alla parte fondamentale di questo patrimonio, essa essenzialmente si
conserva e viene utilizzata come base per il patrimonio lessicale della lingua.
E la cosa è comprensibile. Non v'è necessità di distruggere la parte
fondamentale del patrimonio lessicale, se essa può venire efficacemente usata
per la durata di vari periodi storici; senza dire che, essendo impossibile
creare un nuovo patrimonio lessicale fondamentale entro un breve periodo di
tempo, la distruzione del patrimonio lessicale fondamentale accumulato nel corso
dei secoli provocherebbe la paralisi della lingua, la completa interruzione
delle comunicazioni tra gli uomini.
La struttura grammaticale di una lingua cambia ancora più lentamente del suo
patrimonio lessicale fondamentale. Elaborata nel corso delle epoche e divenuta
carne e sangue della lingua, la struttura grammaticale muta ancor più lentamente
del patrimonio lessicale fondamentale. Essa naturalmente subisce dei cambiamenti
con l'andar del tempo, si perfeziona, migliora, precisa le sue regole e si
arricchisce di regole nuove; ma le fondamenta della struttura grammaticale
durano per lunghissimo tempo poiché, come insegna la storia, possono utilmente
servire alla società per la durata delle varie epoche.
Così la struttura grammaticale della lingua e il suo patrimonio lessicale
fondamentale ne costituiscono il fondamento e l'essenza specifica.
La storia registra la grande stabilità delle lingue e la loro enorme capacità di
resistenza alla assimilazione forzata. Alcuni storici, invece di spiegare questo
fenomeno, si limitano a meravigliarsene. Ma non c'è qui nessuna ragione di
meraviglia. La stabilità di una lingua si spiega con la stabilità della sua
struttura grammaticale e del suo patrimonio lessicale fondamentale. Per
centinaia di anni gli assimilatori turchi si sforzarono di mutilare, frantumare
e distruggere le lingue dei popoli balcanici. Durante questo periodo il
vocabolario delle lingue balcaniche subì notevoli mutamenti; molte parole ed
espressioni turche furono assorbite; vi furono "convergenze" e "divergenze", ma
le lingue balcaniche si mantennero salde e sopravvissero. Perché? Perché la
struttura grammaticale e il patrimonio lessicale fondamentale di queste lingue
si erano in complesso conservati.
Da tutto ciò deriva che non si può considerare una lingua, e la sua struttura,
come prodotto di una sola epoca. La struttura della lingua, la sua struttura
grammaticale e il suo patrimonio lessicale fondamentale sono il prodotto di
parecchie epoche.
E' presumibile che i rudimenti della lingua moderna si siano formati in una
remota antichità, prima dell'era della schiavitù. Era quella una lingua non
complessa, con un patrimonio lessicale molto esiguo, ma con una sua struttura
grammaticale, sia pure primitiva.
Il successivo sviluppo della produzione, l'apparire delle classi, l'apparire
della scrittura, il nascere dello Stato, che aveva bisogno di una più o meno
regolare corrispondenza, l'invenzione della stampa, lo sviluppo della
letteratura, tutto ciò portò grandi cambiamenti nello sviluppo della lingua.
Frattanto le tribù e le nazionalità si frazionarono e si sparpagliarono, si
mescolarono e si incrociarono; e successivamente apparvero le lingue e gli Stati
nazionali, avvennero rivolgimenti rivoluzionari e i vecchi regimi sociali furono
soppiantati dai nuovi. Tutto ciò portò cambiamenti ancora maggiori nella lingua
e nel suo sviluppo.
Sarebbe tuttavia un profondo errore pensare che lo sviluppo della lingua sia
avvenuto nello stesso modo che lo sviluppo della sovrastruttura: distruggendo
ciò che esisteva e costruendo qualcosa di nuovo. In realtà lo sviluppo della
lingua non è avvenuto per mezzo della distruzione della lingua esistente e la
creazione di una lingua nuova, ma per mezzo dell'espansione e del
perfezionamento degli elementi fondamentali della lingua esistente. Cosicché il
passaggio di una lingua da una qualità ad un'altra non è avvenuto per mezzo di
un'esplosione, per mezzo della distruzione in un sol colpo dell'antico e della
creazione del nuovo, ma per mezzo di un graduale e prolungato accumularsi degli
elementi della nuova qualità, della nuova struttura della lingua e attraverso la
graduale scomparsa degli elementi della vecchia qualità.
Si dice che la teoria dello sviluppo per stadi delle lingue è una teoria
marxista, poiché essa riconosce la necessità delle improvvise esplosioni come
condizioni per il passaggio di una lingua da una vecchia a una nuova qualità.
Ciò è naturalmente falso, perché è difficile trovare qualcosa di marxista in
questa teoria. Se la teoria degli stadi ammette realmente le esplosioni
improvvise nella storia dello sviluppo delle lingue, tanto peggio per essa. Il
marxismo non ammette le esplosioni improvvise nello sviluppo delle lingue, la
morte improvvisa di una lingua esistente e l'improvvisa comparsa di una lingua
nuova. Lafargue sbagliava quando parlava di una "improvvisa rivoluzione
linguistica avvenuta tra il 1789 e il 1794" in Francia (vedi l'opuscolo di
Lafargue La lingua e la rivoluzione). Nessuna rivoluzione linguistica, e tanto
meno improvvisa, avvenne allora in Francia. Certo in quel periodo il patrimonio
lessicale della lingua francese venne arricchito di parole ed espressioni nuove,
un certo numero di parole antiquate scomparvero e il significato di certe parole
mutò, e questo fu tutto. Ma i cambiamenti di questo genere non decidono affatto
del destino di una lingua. La cosa principale di una lingua è la sua struttura
grammaticale e il suo patrimonio lessicale fondamentale. Ma la struttura
grammaticale e il patrimonio lessicale fondamentale della lingua francese non
solo non scomparvero nel periodo della Rivoluzione francese, ma si conservarono
senza cambiamenti sostanziali e non solo si conservarono, ma continuano a vivere
anche oggi nella moderna lingua francese. E non parlo neppure del fatto che per
la liquidazione di una lingua esistente e per la formazione di una nuova lingua
nazionale ("una improvvisa rivoluzione linguistica"!) un periodo di cinque o sei
anni è breve fino al ridicolo. Occorrono secoli, per questo.
Il marxismo ritiene che il passaggio di una lingua da una vecchia a una nuova
qualità non avviene per mezzo di un'esplosione, per mezzo della distruzione
della lingua esistente e della creazione di una nuova lingua, ma per mezzo della
graduale accumulazione degli elementi della nuova qualità, e conseguentemente,
per mezzo della graduale scomparsa degli elementi della vecchia qualità.
Bisogna dire, in generale, per questi compagni che hanno una infatuazione per le
esplosioni, che la legge di transizione da una vecchia a una nuova qualità per
mezzo di un'esplosione non soltanto è inapplicabile alla storia dello sviluppo
della lingua, ma non è sempre applicabile neppure agli altri fenomeni sociali,
siano essi di ordine strutturale o sovrastrutturale. Essa è obbligatoria per una
società divisa in classi ostili; ma non è affatto obbligatoria per una società
dove non esistono classi ostili. In un periodo di otto - dieci anni noi abbiamo
effettuato, nell'agricoltura del nostro Paese, un passaggio dall'ordinamento
borghese contadino individuale all'ordinamento socialista, colcosiano. E' stata
una rivoluzione che ha eliminato il vecchio ordinamento economico borghese nelle
campagne e ha creato il nuovo ordinamento socialista. Tuttavia questo
rivolgimento non è avvenuto per mezzo di una esplosione, vale a dire per mezzo
del rovesciamento del potere esistente e della creazione di un nuovo potere, ma
per mezzo di un passaggio graduale dal vecchio ordinamento agricolo borghese a
un nuovo ordinamento. E si è riusciti a far questo perché questa è stata una
rivoluzione dall'alto, perché il rivolgimento è stato compiuto per iniziativa
del potere esistente, con l'appoggio delle masse fondamentali dei contadini.
Si dice che numerosi esempi d'incrocio delle lingue avvenuti nella storia danno
motivo di supporre che, quando avviene l'incrocio, si forma una nuova lingua,
per mezzo di un'esplosione, per mezzo di un subitaneo passaggio da una vecchia a
una nuova qualità. Ciò è assolutamente falso.
L'incrocio delle lingue non può essere considerato come un unico atto, un colpo
decisivo, che dà i suoi risultati in pochi anni. L'incrocio delle lingue è un
lungo processo, che continua per centinaia di anni. Non si può quindi parlare in
tali casi di nessuna esplosione.
Ancora. Sarebbe assolutamente sbagliato pensare che come risultato
dell'incrocio, diciamo, di due lingue, si ottenga una nuova, terza lingua, che
non assomigli a nessuna delle due lingue incrociatesi e differisca
qualitativamente da ciascuna delle due. Difatti, una delle lingue esce
solitamente vittoriosa dall'incrocio, conserva la sua struttura grammaticale,
conserva il suo patrimonio lessicale fondamentale e continua a svilupparsi
secondo le leggi interne del suo sviluppo, mentre l'altra lingua perde
gradatamente la sua qualità e gradatamente si estingue.
Di conseguenza, l'incrocio non produce una nuova terza lingua; ma conserva una
delle lingue, conserva la sua struttura grammaticale e il suo patrimonio
lessicale fondamentale e le dà la possibilità di svilupparsi secondo le leggi
interne del suo sviluppo.
E' vero. con ciò si produce un certo arricchimento del patrimonio lessicale
della lingua vincitrice a spese della lingua vinta, ma ciò non l'indebolisce,
anzi, al contrario, la rafforza.
Così è avvenuto, ad esempio, per la lingua russa, con la quale, nel corso dello
sviluppo storico, si incrociarono le lingue di molti altri popoli, e che è
sempre uscita vittoriosa.
Naturalmente, il patrimonio lessicale della lingua russa è stato arricchito, nel
corso di tale processo, dal patrimonio lessicale delle altre lingue, però ciò
non solo non ha indebolito, anzi, al contrario, ha arricchito e rafforzato la
lingua russa.
Per quanto riguarda l'originalità nazionale della lingua russa, essa non ne ha
avuto il benché minimo danno, poiché la lingua russa, conservando la sua
struttura grammaticale e il suo patrimonio lessicale fondamentale, ha continuato
a progredire e a perfezionarsi secondo le leggi interne del suo sviluppo.
E' fuori dubbio che la teoria dell'incrocio non può dare nulla di serio alla
linguistica. Se è vero che il principale compito della linguistica è lo studio
delle leggi interne dello sviluppo della lingua, bisogna riconoscere che la
teoria dell'incrocio, non solo non assolve questo compito, ma non se lo pone
neppure: essa semplicemente non lo avverte o non lo comprende.
Domanda: Ha fatto bene la Pravda ad aprire una libera discussione sui problemi
della linguistica?
Risposta: Sì, ha fatto bene.
In questo senso verranno risolti problemi della linguistica, sarà chiaro alla
fine della discussione. Ma si può dire fin d'ora che la discussione è stata
molto proficua.
La discussione ha rivelato, in primo luogo, che negli organismi linguistici, sia
al centro che nelle repubbliche, dominava un regime non adatto alla scienza e
agli uomini di scienza. La minima critica alla situazione esistente nella
linguistica sovietica, finanche i più timidi tentativi di criticare la
cosiddetta "nuova dottrina" della lingua erano perseguitati e stroncati dai
circoli linguistici dirigenti. Per aver avuto un atteggiamento critico verso
l'eredità di N. Ia. Marr o per la più piccola disapprovazione della dottrina di
N. Ia. Marr, valenti studiosi e ricercatori nel campo della linguistica sono
stati allontanati dal loro posto o retrocessi. Gli studiosi di linguistica sono
stati chiamati a posti di responsabilità non per riconoscimento del loro lavoro,
ma per la incondizionata accettazione della dottrina di N. Ia. Marr.
Si riconosce generalmente che nessuna scienza può svilupparsi e fiorire senza
lotta delle opinioni, senza libertà di critica. Ma questa norma riconosciuta da
tutti è stata ignorata e calpestata nel modo più sfacciato. Si è costituito un
ristretto gruppo di dirigenti infallibili, che, essendosi assicurato contro ogni
possibile critica, si è messo ad agire arbitrariamente e scandalosamente.
Un esempio: il cosiddetto Corso di Bakù (lezioni tenute da N. Ia. Marr a Bakù),
che l'autore stesso aveva ripudiato vietandone la ristampa, è stato tuttavia
ripubblicato per ordine di questa casta dirigente (il compagno Mestcianinov li
chiama discepoli di N. Ia. Marr) e incluso senza riserve nella lista dei manuali
raccomandati agli studenti. Ciò significa che si sono ingannati gli studenti
ripresentando loro come un ottimo manuale un Corso ripudiato dall'autore. Se non
fossi convinto della integrità del compagno Mestcianinov e degli altri studiosi
di linguistica, direi che una condotta simile equivale a un sabotaggio.
Come è potuto accadere questo? Ciò è accaduto perché il regime alla Arakceiev
istaurato nella linguistica coltiva l'irresponsabilità e incoraggia simili
scandali.
La discussione è stata molto utile innanzitutto perché ha portato questo regime
alla Arakceiev alla luce del giorno e l'ha stritolato.
Ma l'utilità della discussione non si riduce a questo. Essa non ha soltanto
demolito il vecchio regime nella linguistica, ma anche rivelato l'incredibile
confusione di idee sulle più importanti questioni della linguistica, che domina
nei circoli dirigenti di questo ramo della scienza. Prima dell'inizio della
discussione, essi tacevano e nascondevano la disgraziata situazione esistente
nella linguistica. Ma, dopo l'inizio della discussione, era ormai impossibile
tacere ed essi sono stati costretti a pronunciarsi sulle colonne dei giornali. E
allora? E' risultato che nelle dottrine di N. Ia. Marr vi sono molte deficienze,
errori, problemi non precisati e tesi non elaborate a fondo. Perché, ci si
chiede, i "discepoli" di N. Ia. Marr hanno cominciato a parlare di questo
soltanto ora, dopo l'inizio della discussione? Perché non si sono preoccupati di
farlo prima? Perché non ne hanno parlato a tempo debito, apertamente e
onestamente, come si conviene a scienziati?
Avendo ammesso "alcuni" errori di N. Ia. Marr i suoi "discepoli" pensano a
quanto pare che la linguistica sovietica possa svilupparsi soltanto sulla base
della teoria di N. Ia. Marr "rettificata", perché considerano questa teoria come
marxista. Ma no, liberateci dal "marxismo" di N. Ia. Marr! N. Ia. Marr avrebbe
infatti voluto essere e si è sforzato di essere una marxista, ma non riuscì a
diventarlo. Egli non fu altro che un semplificatore e un volgarizzatore del
marxismo, come gli esponenti del "Proletcult" o del "RAPP".
N. Ia. Marr introdusse nella linguistica la formula sbagliata, non marxista
della lingua come sovrastruttura; cadde nella confusione e portò la confusione
nella linguistica. Sulla base di una formula sbagliata non è possibile
sviluppare la linguistica sovietica.
N. Ia. Marr introdusse nella linguistica l'altra formula, anch'essa sbagliata e
non marxista, del "carattere di classe" della lingua; cadde nella confusione e
portò la confusione nella linguistica. Sulla base di una formula sbagliata, in
contrasto con tutto il corso della storia dei popoli e delle lingue, non è
possibile sviluppare la linguistica sovietica.
N. Ia. Marr introdusse nella linguistica un tono presuntuoso, borioso e
arrogante, estraneo al marxismo, che ha portato a una grossolana e superficiale
negazione di quanto era stato fatto nella linguistica prima di N. Ia. Marr.
N. Ia. Marr diffama a gran voce il metodo storico comparativo, chiamandolo
"idealistico". Eppure bisogna dire che, malgrado le sue serie deficienze, il
metodo storico comparativo è tuttavia migliore dell'analisi, effettivamente
idealistica, con i "quattro elementi" di N. Ia. Marr, perché il primo stimola al
lavoro, allo studio delle lingue, mentre l'altra incita soltanto all'ozio e a
strologare sui fondi di caffè con l'aiuto dei famosi quattro elementi.
N. Ia. Marr tratta altezzosamente ogni tentativo di studiare i gruppi (le
famiglie) linguistici come manifestazione della teoria della "prelingua". Eppure
non si può negare, per esempio, che l'affinità linguistica delle nazioni slave è
fuori discussione, e che uno studio dell'affinità linguistica di queste nazioni
potrebbe essere di grande utilità per la linguistica, nello studio delle leggi
di sviluppo della lingua. La teoria della "prelingua" non ha naturalmente nulla
a che fare con la questione.
Ascoltando N. Ia. Marr e specialmente i suoi "discepoli", si potrebbe pensare
che prima di N. Ia. Marr non esistesse nessuna linguistica, che la linguistica
sia incominciata con la "nuova teoria" di N. Ia. Marr. Marx ed Engels erano
molto più modesti: essi ritenevano che il loro materialismo dialettico fosse un
prodotto dello sviluppo delle scienze, compresa la filosofia, nei periodi
precedenti.
Così la discussione è stata utile anche perché ha messo in luce le lacune
ideologiche della linguistica sovietica.
Credo che quanto prima la nostra linguistica si sbarazzerà degli errori di N. Ia.
Marr, tanto più presto sarà possibile farla uscire dalla crisi che attraversa
attualmente.
Eliminazione del regime alla Arakceiev nella linguistica, ripudio degli errori
di N. Ia. Marr e penetrazione del marxismo della linguistica: tale è, a mio
parere, la via per la quale si potrebbe risanare la linguistica sovietica.
A proposito di alcune questioni di linguistica
Compagna Krasceninnikova, rispondo alle vostre domande.
Prima domanda: Il vostro articolo dimostra in modo convincente che la lingua non
è né base né sovrastruttura. Sarebbe giusto considerare la lingua come un
fenomeno peculiare sia della base che della sovrastruttura, o sarebbe più esatto
ritenere la lingua un fenomeno intermedio?
Risposta: Naturalmente, è peculiare alla lingua come fenomeno sociale, ciò che è
inerente a tutti i fenomeni sociali, compresa la base e la sovrastruttura, e
precisamente: essa serve la società nello stesso modo come servono la società
tutti gli altri fenomeni sociali, compresa la base e la sovrastruttura. Ma ciò,
in sostanza, esaurisce quanto è comune e inerente a tutti i fenomeni sociali.
Dopo di che, incominciano tra i fenomeni sociali serie distinzioni.
Sta di fatto che i fenomeni sociali hanno, oltre a quanto è comune, proprie
peculiarità specifiche, che li distinguono gli uni dagli altri e che sono di
grande importanza per la scienza. Le peculiarità specifiche della base
consistono nel fatto che questa serve economicamente la società. Le peculiarità
specifiche della sovrastruttura consistono nel fatto che questa serve la società
per mezzo delle idee politiche, giuridiche, estetiche e di altro genere e crea
per la società le corrispondenti istituzioni politiche, giuridiche e d'altro
tipo. In che cosa consistono allora le peculiarità specifiche della lingua, che
la distinguono dagli altri fenomeni sociali? Esse consistono nel fatto che la
lingua serve la società come mezzo di comunicazione tra gli individui, come
mezzo di scambio delle idee nella società, come mezzo che dà agli individui la
possibilità di comprendersi reciprocamente e di organizzare un comune lavoro in
tutte le sfere dell'attività umana, nella sfera della produzione come in quella
delle relazioni economiche, nella sfera della politica come in quella della
cultura, nella vita sociale e d'ogni giorno. Queste peculiarità appartengono
solo alla lingua, la lingua costituisce l'oggetto di studio di una scienza
indipendente, la linguistica. Se non vi fossero queste peculiarità della lingua,
la linguistica perderebbe il suo diritto a una esistenza indipendente.
In breve: la lingua non può essere classificata né tra le basi né tra le
sovrastrutture.
Essa non può neppure essere classificata tra i fenomeni "intermedi" tra le basi
e la sovrastruttura, in quanto tali fenomeni "intermedi" non esistono.
Ma forse la lingua potrebbe essere classificata tra le forze produttive della
società, tra gli strumenti della produzione, per esempio? Effettivamente, tra la
lingua e gli strumenti della produzione esiste una certa analogia: gli strumenti
della produzione, al pari della lingua, manifestano una specie di indifferenza
verso le classi e possono servire egualmente le differenti classi della società,
sia vecchie che nuove. Questa circostanza dà motivo di classificare la lingua
tra gli strumenti della produzione? No, non dà questo motivo.
Una volta, N. Ia. Marr, costatando che la sua formula: "la lingua è una
sovrastruttura rispetto alla base", incontrava obiezioni, decise di
"riaggiustare" la sua teoria e annunciò che "la lingua è uno strumento della
produzione". Aveva ragione N. Ia. Marr di classificare la lingua tra gli
strumenti della produzione? No, egli certamente aveva torto.
Sta di fatto che la rassomiglianza tra la lingua e gli strumenti della
produzione si riduce a quella analogia di cui ho parlato prima. Ma, d'altra
parte, esiste una differenza radicale tra la lingua e gli strumenti della
produzione. Questa differenza sta nel fatto che, mentre gli strumenti della
produzione producono beni materiali, la lingua non produce nulla, o "produce"
soltanto parole. Per essere più esatti, gli individui che posseggono strumenti
di produzione possono produrre beni materiali, ma quelle stesse persone che, pur
disponendo della lingua, non hanno strumenti di produzione, non possono produrre
beni materiali. Non è difficile comprendere che se la lingua fosse capace di
produrre beni materiali, i chiacchieroni sarebbero le persone più ricche della
terra.
Seconda domanda: Marx ed Engels definiscono la lingua "realtà immediata del
pensiero", come "coscienza pratica... reale". "Le idee - dice Marx - non
esistono separatamente dalla lingua". In quale misura, secondo la vostra
opinione, la linguistica si dovrebbe occupare dell'aspetto semantico della
lingua, della semantica, della semasiologia storica e stilistica, oppure il
soggetto della linguistica dovrebbe essere soltanto la forma?
Risposta: La semantica (semasiologia) è una delle parti importanti della
linguistica. La semantica delle parole e delle espressioni ha una grande
importanza nello studio della lingua. Pertanto, alla semantica (semasiologia)
deve essere riservato nella linguistica il posto che le conviene.
Tuttavia, trattando i problemi della semantica e utilizzando i suoi dati, non si
deve in alcun modo sopravvalutarne la importanza, né tanto meno si deve abusare
di essa. Penso a taluni linguisti che, indulgendo eccessivamente alla semantica,
trascurano la lingua come "realtà immediata del pensiero" inseparabilmente
connessa col processo del pensiero, separano il processo del pensiero dalla
lingua, e sostengono che la lingua stia diventando una sopravvivenza e che sia
possibile farne a meno.
Fate attenzione alle seguenti parole di N. Ia. Marr: "La lingua esiste solo in
quanto si esprime con i suoni; l'azione del pensare avviene anche senza che ci
sia la espressione... La lingua (lingua parlata) ha già cominciato a cedere le
sue funzioni alle ultime invenzioni, che stanno conquistando senza riserve lo
spazio, mentre il processo del pensiero si sta elevando sempre di più al di
sopra delle sue accumulazioni nel passato inutilizzate e delle sue nuove
acquisizioni, spodestando e sostituendo la lingua. La lingua futura sarà il
processo del pensiero sviluppatesi in una tecnica libera da materia naturale.
Nessuna lingua, neppure la lingua parlata, benché connessa con un processo
naturale, riuscirà a resisterle".
(Vedi Opere scelte di N. Ia. Marr).
Se cerchiamo di tradurre questi giuochi di prestigio della teoria "magico-lavorativa"
in un semplice linguaggio umano, si può trarre la conclusione che:
a) N. Ia. Marr separa il processo del pensiero dalla lingua;
b) N. Ia. Marr ritiene che la comunicazione tra gli uomini possa realizzarsi
anche senza la lingua, con l'aiuto dello stesso processo del pensiero, libero
dalla "materia naturale" della lingua, libero dalle "norme della natura";
c) separando il processo del pensiero dalla lingua e avendolo "liberato" dalla
"materia naturale" della lingua, N. Ia. Marr affonda nel pantano dell'idealismo.
Si dice che i pensieri sorgano nella mente dell'uomo prima che essi vengano
espressi nel discorso, che sorgano senza il linguaggio materiale, senza un
rivestimento linguistico, in una forma, per così dire, nuda. Ma ciò è
assolutamente sbagliato. Qualsiasi pensiero sorga nella mente dell'uomo, esso
può sorgere ed esistere solo sulla base del materiale linguistico, sulla base
della terminologia e delle frasi del linguaggio. Pensieri nudi, liberi dal
materiale linguistico, liberi dalla "materia naturale" della lingua non
esistono. "La lingua è la realtà immediata del pensiero" (Marx). La realtà del
pensiero si manifesta nella lingua. Solo gli idealisti possono parlare di un
processo del pensiero non connesso alla "materia naturale" della lingua, di un
processo del pensiero senza lingua.
In breve: una sopravvalutazione della semantica e l'abuso di essa hanno portato
N. Ia. Marr all'idealismo.
Di conseguenza, se la semantica (semasiologia) viene salvaguardata dalle
esagerazioni e dagli abusi, simili a quelli a cui indulgono N. Ia. Marr e alcuni
suoi "discepoli", essa può dare alla linguistica un grande aiuto.
Terza domanda: Voi dite, del tutto giustamente, che i borghesi e i proletari
hanno idee, rappresentazioni, costumi e princìpi morali diametralmente opposti.
Il carattere di classe di queti fenomeni ha certamente avuto una influenza
sull'aspetto semantico della lingua (e, a volte, anche sulla sua forma - il
vocabolario - come giustamente viene rilevato nel vostro articolo). Analizzando
il materiale linguistico concreto, e innanzitutto, il suo aspetto semantico,
possiamo parlare dell'essenza classista dei concetti che esso esprime,
particolarmente nei casi in cui si tratta dell'espressione linguistica non
soltanto del pensiero dell'uomo ma anche del suo atteggiamento verso la realtà,
dove la sua appartenenza a una classe si manifesta in modo particolarmente
chiaro?
Risposta: In breve, voi volete sapere se le classi influenzino la lingua, se
esse portino nella lingua le loro parole ed espressioni specifiche, se vi siano
casi in cui gli uomini attribuiscono un significato differente, a seconda della
classe a cui appartengono, alle stesse parole ed espressioni?
Sì, le classi influenzano la lingua, portano nella lingua le loro parole ed
espressioni specifiche e, a volte, comprendono in modo diverso le stesse parole
ed espressioni. Questo è indubbio.
Da ciò tuttavia, non deriva che le parole e le espressioni specifiche, e del
pari la differenza nella semantica, possano avere seria importanza per lo
sviluppo di una singola lingua comune a tutto il popolo, che esse siano capaci
di attenuarne il significato o di mutarne il carattere.
Innanzitutto, queste parole ed espressioni specifiche, come pure i casi di
differenza nella semantica, sono così pochi nella lingua, da costituire
difficilmente l'uno per cento dell'intiero materiale linguistico. Di
conseguenza, tutta la rimanente e prevalente massa di parole e di espressioni,
come pure la loro semantica, sono comuni a tutte le classi della società.
In secondo luogo, le parole e le espressioni specifiche che hanno una parvenza
di classe sono usate nel discorso non secondo le regole di una specie di
grammatica "di classe", che non esiste nella realtà, ma secondo le regole della
grammatica della lingua esistente, comune a tutto il popolo.
Di conseguenza, la presenza di parole ed espressioni specifiche e le differenze
nella semantica della lingua non confutano, ma al contrario, confermano la
esistenza e la necessità di una sola lingua, comune a tutto il popolo.
Quarta domanda: Nel vostro articolo voi definite giustamente Marr come un
travisatore del marxismo. Significa ciò che i linguisti, compresi noi della
giovane generazione, debbano trascurare tutta l'eredità linguistica di Marr,
che, nondimeno, conta molte apprezzabili opere di ricerca linguistica (i
compagni Cikobava, Sangeiev ed altri ne hanno scritto nel corso della
discussione)? Possiamo noi, pur criticando Marr, trarre dalle sue opere ciò che
è utile ed apprezzabile?
Risposta: Certamente, le opere di N. Ia. Marr non consistono soltanto di errori.
N. Ia. Marr commise i più grossolani errori quando egli introdusse nella
linguistica elementi del marxismo in una forma travisata, quando cercò di creare
una teoria autonoma della lingua. Ma N. Ia. Marr ha scritto talune opere
apprezzabili e di talento, nelle quali, dimenticando le sue pretese teoriche,
con coscienza, e, si deve dire, con capacità, studia singole lingue. In tali
opere si possono trovare non poche cose apprezzabili e istruttive. E' chiaro che
quanto vi è di apprezzabile e istruttivo deve essere preso da N. Ia. Marr e
utilizzato.
Quinta domanda: Molti linguisti considerano il formalismo come una delle
principali ragioni della stagnazione della linguistica sovietica. Gradiremmo
conoscere la vostra opinione per sapere in che cosa consiste il formalismo nella
linguistica e come debba essere superato.
Risposta: N. Ia. Marr e i suoi "discepoli" accusano di "formalismo" tutti i
linguisti che non accettano la "nuova teoria" di N. Ia. Marr. Ciò, naturalmente,
è poco serio e insensato.
N. Ia. Marr considerava la grammatica una vuota "formalità" e formalisti coloro
i quali considerano il sistema grammaticale come fondamento della lingua. Ciò è
del tutto ridicolo.
Ritengo che il "formalismo" sia stato inventato dagli autori della "nuova
teoria" per facilitare la lotta contro i loro avversari nella linguistica.
Il motivo della stagnazione nella linguistica sovietica non è il "formalismo"
inventato da N. Ia. Marr e dai suoi "discepoli", ma il regime alla Arakceiev e
le deficienze teoriche nella linguistica. Il regime alla Arakceiev è stato
istaurato dai "discepoli" di N. Ia. Marr. Il pasticcio teorico è stato portato
nella linguistica da N. Ia. Marr e dai suoi scolari più vicini. Per uscire dalla
stagnazione l'uno e l'altro vanno eliminati. L'eliminazione di queste piaghe
sanerà la linguistica sovietica, la condurrà su una larga strada e le permetterà
di occupare il primo posto nella linguistica del mondo.
29 giugno 1950
Risposta ai compagni
Al compagno Sangeiev
Caro compagno Sangeiev,
rispondo alla vostra lettera con molto ritardo, perché solo ieri essa mi è stata
trasmessa dall'apparato del Comitato centrale.
Non v'è dubbio, voi interpretate giustamente la mia posizione sulla questione
dei dialetti.
I "dialetti di classe", che sarebbe più esatto chiamare gerghi, servono non le
masse del popolo, ma un ristretto gruppo sociale superiore. Inoltre, essi non
hanno un proprio sistema grammaticale e un patrimonio lessicale fondamentale.
Perciò non possono in alcun modo svilupparsi in lingue indipendenti.
I dialetti locali ("territoriali"), invece, servono le masse del popolo e hanno
un proprio sistema grammaticale e un proprio patrimonio lessicale fondamentale.
Perciò taluni dialetti locali, nel processo di formazione delle nazioni, possono
essere la base delle lingue nazionali e svilupparsi in lingue nazionali
indipendenti. Così è avvenuto, per esempio, col dialetto di Kursk-Orel
("parlata" di Kursk-Orel) della lingua russa, che è stato la base della lingua
nazionale russa. Altrettanto può dirsi per il dialetto di Poltava-Kiev della
lingua ucraina, che è stato la base della lingua nazionale ucraina. Per quanto
riguarda gli altri dialetti di queste lingue, essi perdono la loro originalità,
confluiscono in queste lingue e scompaiono in esse.
Si verificano pure dei processi inversi, quando la lingua unica di una
nazionalità, non ancora divenuta nazione a causa dell'assenza delle condizioni
economiche necessarie per tale sviluppo, scompare in seguito alla
disintegrazione dello Stato di quella nazionalità, mentre i dialetti locali, non
ancora arrivati a fondersi nella lingua unica, si ravvivano e costituiscono il
punto di partenza per la formazione di lingue indipendenti, separate. E'
possibile che sia stato proprio questo il caso, per esempio, della lingua unica
mongola.
11 luglio 1950
Ai compagni Bielkin e Furer
Ho ricevuto le vostre lettere.
Il vostro errore consiste nel fatto che avete confuso due cose differenti e
sostituito l'oggetto che avevo esaminato nella mia risposta alla compagna
Krasceninnikova con un altro oggetto.
1. - Io critico in questa risposta N. Ia. Marr, il quale, parlando della lingua
(parlata) e del pensiero, separa la lingua dal pensiero e cade quindi
nell'idealismo. Di conseguenza, si parla nella mia risposta delle persone
normali, che posseggono una lingua. Io affermo quindi che i pensieri possono
sorgere in queste persone solo sulla base del materiale linguistico; che
pensieri nudi, senza legame con il materiale linguistico, non esistono nelle
persone che posseggono una lingua.
Invece di accettare o respingere questa affermazione, voi venite a parlare delle
persone anormali, senza lingua, dei sordomuti, che non hanno lingua e i cui
pensieri, naturalmente, non possono sorgere sulla base di un materiale
linguistico. Come vedete, questo è un tema del tutto differente, al quale non ho
accennato e non potevo accennare, poiché la linguistica si occupa degli uomini
normali, che posseggono una lingua, e non degli anormali, dei sordomuti che non
hanno lingua.
Voi avete sostituito all'oggetto in discussione un altro oggetto, che non era in
discussione.
2. - Dalla lettera del compagno Bielkin si vede che egli pone sullo stesso
livello la "lingua delle parole" (lingua parlata) e la "lingua dei gesti" (la
lingua "manuale" secondo N. Ia. Marr). Egli pensa, evidentemente, che la lingua
dei gesti e la lingua parlata siano equivalenti: che una volta la società umana
non aveva lingua parlata; che la lingua "manuale" era allora usata in luogo
della lingua parlata, la quale sarebbe comparsa più tardi.
Ma se il compagno Bielkin pensa realmente una cosa simile, egli compie un grave
errore. La lingua parlata o lingua delle parole è sempre stata la sola lingua
della società umana, capace di servire come mezzo di comunicazione effettivo tra
gli uomini. La storia non conosce una sola società umana, sia essa stata la più
arretrata, che non abbia avuto la sua lingua parlata. L'etnografia non conosce
nessuna piccola nazionalità arretrata, sia pure altrettanto primitiva o ancora
più primitiva, per così dire, degli australiani o degli indigeni della Terra del
Fuoco nel secolo scorso, che non abbia avuto la sua lingua parlata. La lingua
parlata è stata, nella storia dell'umanità, una delle forze che hanno aiutato
gli esseri umani a emergere dal mondo animale, a unirsi in società, a sviluppare
il loro pensiero, a organizzare la produzione sociale, a condurre con successo
la lotta contro le forze della natura e a conseguire il progresso che abbiamo
attualmente.
Per questo aspetto, l'importanza della cosiddetta lingua dei gesti, in
considerazione della sua estrema povertà e limitatezza, è trascurabile. Essa, in
sostanza, non è una lingua e nemmeno un surrogato di lingua, capace, in un modo
o nell'altro, di sostituire la lingua parlata, bensì uno strumento ausiliare,
con mezzi estremamente limitati, usati a volte dall'uomo per sottolineare taluni
momenti del suo discorso. La lingua dei gesti non può nemmeno essere posta sullo
stesso livello della lingua parlata, così come non si può porre sullo stesso
livello una primitiva zappa di legno e un moderno trattore con un aratro a
cinque vomeri o una seminatrice.
3. - Evidentemente, voi vi interessate innanzitutto dei sordomuti e, solo dopo,
dei problemi della linguistica. Probabilmente, è stata questa circostanza che vi
ha spinto a rivolgermi varie domande. Bene, se voi insistete, non ho nulla in
contrario a soddisfare il vostro desiderio. Come si pone la questione dei
sordomuti? Lavora in essi il pensiero, sorgono in essi dei pensieri? Sì, in essi
il pensiero lavora, i pensieri in essi sorgono. E' chiaro che, nella misura in
cui i sordomuti sono privati della lingua, i loro pensieri non possono sorgere
sulla base di un materiale linguistico. Non significa ciò che i pensieri dei
sordomuti sono pensieri nudi, non collegati con le "norme della natura"
(espressione di N. Ia. Marr)? No, non lo significa affatto. I pensieri dei
sordomuti sorgono e possono esistere solo sulla base di quelle immagini,
percezioni, rappresentazioni, che essi si formano, rispetto agli oggetti del
mondo esterno, nel corso della vita e nelle relazioni tra di loro, grazie ai
sensi della vista, del tatto, del gusto e dell'odorato. Al di fuori di queste
immagini, percezioni e rappresentazioni, il pensiero è vuoto, privo di qualsiasi
contenuto, ossia non esiste.
22 luglio 1950
Al compagno Kholopov
Ho ricevuto la vostra lettera.
Vi rispondo con un certo ritardo perché sovraccarico di lavoro.
La vostra lettera procede, implicitamente, da due premesse: dalla premessa che
sia ammissibile citare le opere di un autore staccandole dal periodo storico a
cui si riferisce la citazione e, in secondo luogo, dalla premessa che questa o
quella conclusione o formula del marxismo, a cui si sia giunti avendo studiato
uno dei periodi dello sviluppo storico, siano giuste per tutti i periodi di
sviluppo e quindi debbano rimanere immutabili.
Debbo dire che entrambe queste premesse sono profondamente errate.
Ecco alcuni esempi:
1. - Nel quarto decennio del secolo scorso, quando non esisteva ancora il
capitalismo monopolistico, quando il capitalismo si sviluppava in modo più o
meno regolare secondo una linea ascendente, estendendosi a nuovi territori non
ancora da esso conquistati, e la legge dell'ineguale sviluppo non poteva ancora
operare con tutta la sua forza, Marx ed Engels giunsero alla conclusione che la
rivoluzione socialista non poteva vincere in un Paese soltanto, che essa poteva
vincere solo in seguito a una azione generale in tutti o nella maggior parte dei
Paesi civili. Questa conclusione divenne allora norma direttiva per tutti i
marxisti.
Tuttavia, all'inizio del XX secolo, specialmente nel periodo della prima guerra
mondiale, quando si rivelò evidente per tutti che il capitalismo
premonopolistico si era chiaramente trasformato in capitalismo monopolistico,
quando il capitalismo in ascesa era divenuto capitalismo morente, quando la
guerra mise in luce le debolezze insanabili del fronte mondiale
dell'imperialismo, mentre la legge dell'ineguale sviluppo determinava la
maturazione della rivoluzione proletaria nei differenti Paesi in epoche diverse,
Lenin, partendo dalla dottrina marxista, giunse alla conclusione che, nelle
nuove condizioni di sviluppo, la rivoluzione socialista poteva benissimo vincere
in un singolo determinato Paese, che la simultanea vittoria della rivoluzione
socialista in tutti i Pesi o nella maggior parte dei Pesi civili era impossibile
in considerazione dell'ineguale maturazione della rivoluzione in questi Paesi,
che l'antica formula di Marx ed Engels non corrispondeva più alle nuove
condizioni storiche.
Come si vede, abbiamo qui due differenti conclusioni circa la questione della
vittoria del socialismo, le quali non soltanto si contraddicono, ma addirittura
si escludono l'una con l'altra.
Taluni dogmatici e talmudisti che, senza penetrare la sostanza della questione,
citano formalmente, senza tener conto delle condizioni storiche, potrebbero dire
che una di queste conclusioni, in quanto assolutamente sbagliata, deve essere
respinta, mentre l'altra, inquanto assolutamente giusta, deve essere estesa a
tutti i periodi di sviluppo. Ma i marxisti non possono non sapere che i
dogmatici e i talmudisti si sbagliano; non possono non sapere che entrambe
queste conclusioni sono giuste, ma non in senso assoluto, bensì ciascuna per la
sua epoca: la conclusione di Marx ed Engels, per il periodo del capitalismo
premonopolistico, e la conclusione di Lenin, per il periodo del capitalismo
monopolistico.
2. - Engels nel suo Antidühring ha detto che, dopo la vittoria della rivoluzione
socialista, lo Stato deve scomparire. Su questa base, dopo la vittoria
socialista nel nostro Paese, i dogmatici e i talmudisti del nostro partito
cominciarono a chiedere che il partito prendesse delle misure per la più
sollecita scomparsa del nostro Stato, per la dissoluzione degli organi dello
Stato, per rinunziare all'esercito regolare.
Tuttavia, i marxisti sovietici, sulla base dello studio della situazione
mondiale nei nostri tempi, sono giunti alla conclusione che, fino a che dura
l'accerchiamento capitalistico, quando la vittoria della rivoluzione socialista
ha avuto luogo in un solo Paese, mentre in tutti gli altri Paesi domina il
capitalismo, il Paese della rivoluzione vittoriosa non deve indebolire, ma
invece rafforzare in ogni modo il suo Stato, gli organi dello Stato, gli organi
della vigilanza, l'esercito, a meno che questo paese non voglia essere travolto
dall'accerchiamento capitalistico. I marxisti russi sono giunti alla conclusione
che la formula di Engels considerava la vittoria del socialismo in tutti i
Paesi, o nella maggior parte di essi, che essa è inapplicabile nel caso in cui
il socialismo si affermi in un solo Paese, preso singolarmente, mentre in tutti
gli altri Paesi domina il capitalismo.
Come si vece, abbiamo qui due diverse formule circa la questione della sorge di
uno Stato socialista, che si escludono l'una con l'altra.
I dogmatici e i talmudisti possono dire che questa circostanza crea una
situazione intollerabile, che una di queste formule deve essere respinta come
assolutamente erronea, mentre l'altra, in quanto assolutamente giusta, deve
essere applicata a tutti i periodi di sviluppo dello Stato socialista. I
marxisti, tuttavia, non possono non sapere che i dogmatici e i talmudisti si
sbagliano, perché entrambe queste formule sono giuste, ma non in senso assoluto,
bensì ciascuna per la sua epoca; la formula dei marxisti sovietici, per il
periodo della vittoria del socialismo in uno o più Paesi, e la formula di Engels,
per il periodo in cui la successiva vittoria del socialismo in singoli Paesi
condurrà alla vittoria del socialismo nella maggioranza dei Paesi, e quando
verranno così a crearsi le condizioni necessarie per l'applicazione della
formula di Engels.
Il numero di questi esempi potrebbe essere aumentato.
Lo stesso si deve dire per le due diverse formule circa la questione della
lingua, prese da diverse opere di Stlain e citate dal compagno Kholopov nella
sua lettera.
Il compagno Kholopov si riferisce allo scritto di Stalin A proposito del
marxismo nella linguistica, in cui si trae la conclusione che, in seguito
all'incrocio, diciamo, di due lingue, una di esse emerge di solito vittoriosa,
mentre l'altra si estingue, e che, di conseguenza, l'incrocio non produce una
nuova, terza lingua, ma conserva una delle due lingue. Egli si riferisce poi a
un'altra conclusione, presa dal rapporto di Stalin al XVI Congresso del Partito
comunista (b) dell'Urss, secondo la quale, nel periodo della vittoria del
socialismo su scala mondiale, quando il socialismo sarà consolidato e sarà
entrato nel costume degli uomini, le lingue nazionali dovranno inevitabilmente
fondersi in una lingua comune, che, naturalmente, non sarà né la grande-russa,
né la tedesca, ma qualcosa di nuovo. Paragonando queste due formule e costatando
che esse, lungi dal coincidere, si escludono a vicenda, il compagno Kholopov si
dà alla disperazione. "Dal vostro articolo - egli scrive nella sua lettera - ho
compreso che una nuova lingua non può mai risultare dall'incrocio di più lingue,
mentre prima di questo articolo ero fermamente convinto, d'accordo con il vostro
discorso al XIV Congresso del Partito comunista (b) dell'Urss, che sotto il
comunismo le lingue si fonderanno in una lingua comune".
E' evidente che il compagno Kholopov, avendo scoperto una contraddizione tra
queste due formule, è profondamente persuaso che la contraddizione debba venire
eliminata; considera necessario disfarsi di una delle formule in quanto
sbagliata, e attenersi all'altra, che sarebbe giusta per tutti i tempi e per
tutti i Paesi. Ma a quale delle due formule precisamente restare attaccato, egli
non lo sa. Sorge così una specie di situazione senza via di uscita. Il compagno
Kholopov non sospetta nemmeno che ambedue le formule possano essere giuste,
ciascuna per la sua epoca.
Così accade sempre ai dogmatici e ai talmudisti, i quali, senza penetrare nella
sostanza della questione e citando formalmente, senza tener conto delle
condizioni storiche alle quali le citazioni si riferiscono, si vengono
invariabilmente a trovare in una situazione senza via d'uscita.
Eppure, se guardate alla sostanza delle cose, non v'è alcun motivo per una
situazione senza via d'uscita. Il fatto è che l'opuscolo di Stalin A proposito
del marxismo nella linguistica e il rapporto di Stalin al XVI Congresso del
partito si riferiscono a due epoche completamente differenti, motivo per cui
anche le formule differiscono.
La formula usata da Stalin nel suo opuscolo, nella parte in cui tratta
dell'incrocio delle lingue, si riferisce all'epoca che precede la vittoria del
socialismo su scala mondiale, quando le classi sfruttatrici sono la forza
dominante nel mondo, quando l'oppressione nazionale e coloniale è ancora in
vita, quando l'isolamento nazionale e la reciproca sfiducia tra le nazioni sono
irrigidite dalle differenze di Stato; quando non vi è ancora eguaglianza
nazionale, quando l'incrocio delle lingue procede nella forma di lotta per il
dominio di una delle lingue, quando non vi sono ancora le condizioni per una
pacifica e amichevole cooperazione tra le nazioni e tra le lingue, quando
all'ordine del giorno non è la cooperazione e il reciproco arricchimento delle
lingue, ma l'assimilazione di alcune lingue e la vittoria di altre. Si capisce
che in queste condizioni vi possono essere soltanto lingue vincitrici e lingue
vinte. Sono precisamente queste le condizioni a cui si riferisce la formula di
Stalin, quando egli dichiara che l'incrocio, diciamo, di due lingue dà come
risultato non la formazione di una nuova lingua, ma la vittoria dell'una e la
sconfitta dell'altra.
Per quanto riguarda l'altra formula di Stalin, tratta dal discorso al XVI
Congresso del partito, nella parte concernente la fusione delle lingue in una
sola lingua comune, s'intende parlare, in tal caso, di una altra epoca, e
precisamente dell'epoca successiva alla vittoria del socialismo su scala
mondiale, quando l'imperialismo mondiale non esiste più, le classi sfruttatrici
saranno state abbattute, l'oppressione nazionale e coloniale liquidata,
l'isolamento nazionale e la reciproca sfiducia delle nazioni sostituite dalla
reciproca fiducia e dal ravvicinamento delle nazioni stesse, la eguaglianza
nazionale realizzata, la politica di soppressione e assimilazione delle lingue
scomparsa, la cooperazione delle nazioni organizzata, e le lingue nazionali
avranno la possibilità di arricchirsi liberamente a vicenda cooperando tra di
loro. Si capisce che, in queste condizioni, non si può parlare di soppressione e
di sconfitta di talune lingue e di vittoria di altre lingue. Allora non vi
saranno due lingue, l'una delle quali venga ad essere sconfitta e l'altra a
emergere vittoriosa dalla lotta, ma centinaia di lingue nazionali, dalle quali,
in seguito alla prolungata collaborazione economica, politica e culturale delle
nazioni, emergeranno dapprima le più ricche lingue comuni di zona, e a loro
volta le lingue di zona si fonderanno successivamente in una comune lingua
internazionale, che, naturalmente, non sarà né la tedesca, né la russa, né
l'inglese, ma sarà una nuova lingua, la quale avrà assorbito i migliori elementi
delle lingue nazionali e di zona.
Di conseguenza, le due diverse formule corrispondono a due diverse epoche di
sviluppo della società e precisamente per il motivo che corrispondono ad esse,
entrambe le formule sono giuste, ciascuna per la sua epoca.
Esigere che queste formule non si contraddicano l'una con l'altra, che non si
escludano a vicenda, è altrettanto assurdo quanto sarebbe assurdo esigere che
l'epoca del dominio del capitalismo non sia in contraddizione con l'epoca del
dominio del socialismo, che il socialismo e il capitalismo non si escludano a
vicenda.
I dogmatici e i talmudisti considerano il marxismo, le singole conclusioni e
formule del marxismo, come una collezione di dogmi i quali non cambiano "mai",
nonostante i cambiamenti nelle condizioni di sviluppo della società. Essi
pensano che, se avranno imparato a memoria queste conclusioni e formule e
cominceranno a citarle per diritto e per traverso, saranno capaci di risolvere
qualsiasi problema, calcolando che le conclusioni e le formule imparate a
memoria si adattino a tutte le epoche e a tutti i Paesi, a tutti i casi della
vita. Ma in questo modo possono pensare solo coloro che vedono la lettera, ma
non vedono la sostanza del marxismo, che imparano meccanicamente i testi delle
conclusioni e delle formule del marxismo, ma non ne comprendono il contenuto.
Il marxismo è la scienza delle leggi di sviluppo della natura e della società,
la scienza della rivoluzione delle masse oppresse e sfruttate, la scienza della
vittoria del socialismo in tutti i Paesi, la scienza dell'edificazione della
società comunista. Il marxismo, come scienza, non può restare immobile, ma si
sviluppa e si perfeziona. Nel suo sviluppo il marxismo non può non arricchirsi
di nuove esperienze, di nuove conoscenze, e pertanto le sue singole formule e
conclusioni non possono no mutare nel corso del tempo, non possono non essere
sostituite da nuove formule e conclusioni, corrispondenti ai nuovi compiti
storici. Il marxismo non conosce conclusioni o formule immutabili obbligatorie
per tutte le epoche e per tutti i periodi. Il marxismo è nemico di qualsiasi
dogmatismo.
Lenin ha sempre affermato
che il marxismo non è un sistema dogmatico di proposizioni rigide: al contrario,
il marxismo, nella sua riflessione teorica, segue il mutamento dei rapporti
reali e ne ricava conseguenze mirate alla prassi. La dialettica è quella forma
di teoria che descrive, nella varietà dei suoi elementi e momenti, la
connessione dell’insieme, che muta nel tempo, quale fondamento del loro
svolgimento regolare. Il materialismo dialettico, per i suoi presupposti
ontologici generali, è necessario per produrre interpretazioni nuove della
realtà. Ogni teoria, infatti, è l’interpretazione di uno stato di fatto
descritto (1).
I due scritti tardi di
Stalin, compresi tra il 1950 e il 1952, ("Il marxismo e i problemi della
linguistica" - "Problemi economici del socialismo nell’URSS") vanno
esaminati appunto in questa prospettiva: dalla riflessione contemporanea su uno
stato di fatto reale, quegli scritti elaborano una nuova situazione, sia
economico-sociale che ideologica e storico-scientifica. Poichè poco dopo morì,
Stalin non ebbe la possibilità di tradurre nella prassi il suo pensiero e così
gli scritti in questione risultano essere, per così dire, il suo testamento
teorico.
Nella critica
controrivoluzionaria di Kruscev contro Stalin e nel periodo di stagnazione che
ne derivò (2), le sollecitazioni che venivano da quegli scritti furono rimosse e
restarono prive di conseguenze nello svogimento della teoria marxista. Tuttavia
sono del parere che in quegli scritti vi sia un patrimonio teorico non smentito,
che vale la pena di riattivare. In questa occasione mi limiterò alle iniziative
scientifiche e ideologiche che, circa i problemi riguardanti il marxismo,
rimandano alla scienza linguistica (3).
Mi sembra che le
proposizioni di Stalin si muovano in uno spazio definito da tre punti:
in primo luogo, la precisazione della descrizione strutturale del rapporto tra
essere e coscienza - dunque un’espressione dell’ontologia marxista;
in secondo luogo, la critica distruttiva di certe proposizioni scolastiche,
dominanti nella linguistica e proprie della Scuola di Marr; il rilancio della
discussione circa i fenomeni, vale a dire un segnale nel senso della ripresa
della ricerca scientifica in materie controverse;
in terzo luogo la messa alla berlina dell’atteggiamento burocratico, di cui è
affetto ogni sistema di comando, nonchè l’impulso ad imprimere una svolta
organizzativa sia all’attività di partito che a quella statuale.
In relazione a questi tre
aspetti, accetto come giustificata la supposizione che fosse intenzione di
Stalin, dopo la vittoria nella Grande Guerra patriottica e dopo la
stabilizzazione realizzatasi nei primi anni post-bellici, di guidare l’Unione
Sovietica a una nuova fase di costruzione del socialismo. La morte di Stalin
fece cadere nel dimenticatoio questo processo, che certo solo pochi avevano
intuito.
In seguito al XX Congresso
del PCUS, le opere di Stalin furono gravate da un tacito tabù, che contribuì
allo scadimento teorico delle scienze sociali sovietiche rilevanti dal punto di
vista ideologico.
Ma passiamo ora ad
esaminare nei particolari questi aspetti della discussione sul marxismo e le
questioni relative alla linguistica.
Il modello fondamentale
dei rapporti dell’essere con la coscienza è rappresentato nella filosofia
marxista mediante lo schema della base e della sovrastruttura.
La proposizione
fondamentale "l'essere determina la coscienza" è spiegata dal materialismo
storico nel senso che i rapporti economici (ovvero i rapporti di produzione in
cui l’uomo realizza il proprio "scambio organico con la natura", cioè la
riproduzione della sua vita come individuo e come specie) costituiscono la base,
la cui determinatezza formale produce le forme sovrastrutturali che le sono
adeguate - l’ordinamento giuridico, i contenuti della visione del mondo, l’arte,
la morale, la religione, ecc. - in quanto rispecchiamenti ideali, i quali a loro
volta possono obiettivarsi in istituti e processi materiali (per esempio opere
d’arte o, rispettivamente, ricerca scientifica, gare sportive, ecc.). Attraverso
questa mediazione si realizza anche un effetto di ritorno della sovrastruttura
sulla base: infatti la sovrastruttura è condizionata dalla base, cambia con essa
e in dipendenza da essa nei diversi stadi storici (4).
Per la fondazione di una
teoria dell’ideologia questo schema è sufficiente e tollera di differenziarsi in
misura sufficiente a poter pensare la molteplicità dei fenomeni storici (5).
In connessione con la
crescente importanza della scienza come forza produttiva, doveva divenir
problema il fatto che i contenuti e le forme di coscienza - ad esempio le
conoscenze naturali, le relazioni matematiche, i presupposti logici del pensiero
- che nascono nel contesto delle attività sovrastrutturali, pur risultando
spesso contaminate da rappresentazioni ideologiche, conservano tuttavia il loro
valoro, indipendentemente dai mutamenti della base.
Il rapporto tra verità
assoluta, relativa e ideologia in molti casi non deve essere determinato
mediante confini univoci. Lo status ontologico di un principio logico - come ad
esempio quello di identità - , di una regolarità matematica - ad esempio quella
della somma degli angoli di un triangolo -, o di una costante naturale, deve
ricevere in un sistema materialistico una sua spiegazione: per tutti questi
problemi, lo schema del rapporto base / sovrastruttura non può bastare ad una
elaborata filosofia del materialismo dialettico.
In relazione a questi
problemi che si erano andati accumulando, un passo decisivo nello sviluppo
teorico del marxismo fu compiuto da Stalin quando - in relazione a un caso
paradigmatico - egli mise in questione la linearità dello schema del rapporto
base / sovrastruttura.
In effetti, la lingua
offre di primo acchito l’immagine di una variabilità storica e di una dipendenza
dalle circostanze sociali. I vocabolari esibiscono mutamenti di significato, che
stanno a indicare variazioni nei processi di lavoro, innovazioni tecniche o
modificazioni sociali. Per esempio in tedesco il senso della parola rete, da
rete da pesca si allarga a network di flussi interattivi di informazioni,
mediante un precedente passaggio a rete telefonica; o ancora il termine Frau,
dall’originario significato di domina passa a quello di femmina, ovvero persona
di sesso femminile.
Vi sono gerghi, legati a
specifici ambienti o professioni, ovvero linguaggi speciali. Vi sono modi di
parlare strettamente legati a brevi momenti temporali e destinati a morire con
essi. C’è la lingua colta accanto alla lingua parlata e ai dialetti regionali.
In breve, abbiamo molteplici fenomeni linguistici che possiamo contare tra i
fenomeni sovrastrutturali e che si lasciano mettere in relazione con specifici
sviluppi dei rapporti di produzione: è questa la base fenomenica delle
concezioni linguistiche della Scuola di Marr, ovvero la concezione secondo cui
la lingua va studiata in quanto manifestazione della sovrastruttura.
Per tutto ciò è assai
significativo dal punto di vista teorico che, proprio nel caso della lingua
Stalin abbia rimarcato l’insufficienza dello schema base / sovrastruttura. Egli
afferma in modo lapidario: "Ogni base ha la propria sovrastruttura, a essa
corrispondente [...] Se la base si modifica e se viene messa da parte, allora si
modifica anche la sua sovrastruttura e così nasce anche una sovrastruttura
corrispondente alla nuova base. Sotto questo rispetto, la lingua si differenzia
nella sostanza dalla sovrastruttura" (6). Per esemplificare ciò, Stalin ricorre
alla lingua russa.
"In una parte determinata
del suo vocabolario, la lingua russa si è modificata e lo ha fatto nel senso di
arricchirsi di una accertabile quantità di nuove parole ed espressioni, che sono
nate in relazione all’avvento della nuova produzione socialista, alla nascita
del nuovo Stato, della nuova cultura socialista, della nuova vita sociale, della
nuova morale e, infine, in connessione con lo sviluppo della tecnica e della
scienza. Si è modificato il senso di una serie di parole ed espressioni le quali
hanno acquistato un nuovo significato; un certo numero di vecchie parole è
scomparso dal vocabolario. Tuttavia, per quanto riguarda il fondamentale
patrimonio terminologico e la costruzione grammaticale della lingua russa, che
rappresentano insieme la parte sostanziale di una lingua, non solo con
l’accantonamento della base capitalistica non sono stati anch’essi messi da
parte nè sostituiti da nuove strutture grammaticali o da un nuovo patrimonio
terminologico, ma, ben al contrario, si sono mantenuti sani e salvi, nè hanno
sperimentato qualche altra rilevante forma di mutamento" (7).
Stalin fissa quattro
caratteristiche che differenziano la lingua dalla sovrastruttura:
- costanza del patrimonio terminologico fondamentale e della fondamentale
struttura grammaticale, che va al di là dei limiti della base economica;
- origine della lingua non da una base bensì dall’intero procedere storico di
una comunità linguistica;
- funzione di una lingua quale strumento di comprensione, al di là delle
distinzioni di classe;
- legame immediato della lingua con la produzione.
Da ciò si ricava che, con
il linguaggio, non solo ci troviamo di fronte a un ambito che si differenzia
dalla base e dalla sovrastruttura, ma anche che questo ambito - dal punto di
vista logico e ontico - va presupposto al costituirsi di una formazione storica
determinata e al suo svolgersi.
"Lo scambio di pensieri è
una necessità di vita costante e di innegabile importanza, poichè in sua assenza
[...] non sarebbe possibile la persistenza della produzione sociale. Senza una
lingua che sia comprensibile alla società e a ognuno dei suoi membri,
crollerebbe la produzione e la società cesserebbe di esistere in quanto tale
[...] La lingua appartiene a quei fenomeni sociali che sono operanti fin tanto
che persiste la società" (8).
Lo schema base /
sovrastruttura è un modello strutturale delle relazioni sociali. In accordo con
Marx, Engels e Lenin, Stalin dimostra che la metafora spaziale non può essere
intesa nel senso di una relazione unidirezionale tra i livelli, del tipo della
relazione causa / effetto, in quanto essa include, in realtà, anche una
relazione di reciproca influenza (9).
"La sovrastruttura è
creata dalla base, ma in nessun modo questo significa che si limiti
semplicemente a rispecchiare quest’ultima [...] Al contrario, una volta venuta
al mondo, la sovrastruttura diviene una forza attiva, nel senso che contribuisce
attivamente a che la base assuma la sua specifica forma e si consolidi [...]
D’altronde, non potrebbe essere altrimenti. La sovrastruttura è prodotta dalla
base affinchè le serva, perchè l’aiuti attivamente, perchè ne assuma la forma e
la consolidi e attivamente contribuisca a combattere la sopravvivenza della
vecchia base e della sua sovrastruttura" (10).
In questa semplicità, con
la quale viene sostenuta l’attiva reazione della sovrastruttura sulla base,
sembra nascondersi una banalità. Ma chi conosce i controversi dibattiti circa il
ruolo della sovrastruttura, dovrà riconoscere che nelle proposizioni staliniane
è enucleata la quintessenza dello schema, contro tutti gli sbandamenti della
discussione. Canonico è ciò che si comprende da sè. Ma la tesi di Stalin va
oltre.
"In breve, la lingua non
può essere accolta nè entro la base nè entro la sovrastruttura; nè può essere
considerata una categoria intermedia tra base e sovrastruttura, per il semplice
motivo che tale categoria non esiste" (11).
Dunque nè base, nè
sovrastruttura e neppure categoria intermedia - ciò non può significare altro se
non che vi è un reale il quale non è adeguatamente messo a fuoco da una metafora
che nasce dall’architettura. La lingua come strumento di scambio va vista in
analogia con gli strumenti di produzione. In quanto presupposto della produzione
sociale, la lingua come un tutto è una forza produttiva (mentale), che consente
di volgere la scienza in forza produttiva e di funzionare come medio dei
fenomeni strutturali, in quanto portatrice di pensieri ("realtà del pensiero").
Intrecciata a ogni altro
ambito dell’essere sociale, la lingua è una costruzione ideale nella quale si
rappresentano rapporti materiali e, d’altronde è essa stessa un rapporto
materiale, perchè processo di costituzione dell’universale-reale (12).
Nella descrizione
funzionale della lingua, ogni realtà, che Hegel chiamava spirito obiettivo, vien
colta come "rapporto materiale" e il materialismo meccanicistico dall’inizio non
le riconose un’attività materiale (attività oggettiva): In relazione alla lingua
si mostra una essenziale condizione costitutiva della dialettica.
A questo punto s’impone
stabilire un legame indiretto con la critica di Gramsci a Bucharin.
La parte dell’undicesimo
Quaderno dal carcere dedicata al "Saggio popolare" costituisce una requisitoria,
penetrante e per molti aspetti riuscita, contro il meccanicismo causalistico; ma
nello stesso tempo rappresenta un’orazione a favore della dialettica in quanto
forma dela processualità storica reale.
La questione che,
centralmente, Gramsci pone è la seguente: "Come nasce il movimento storico sulla
base della struttura?" (13).
E’ appunto in questo senso
che Stalin sottrae la vita della lingua al rapporto meccanico base /
sovrastruttura e sottopone il rigido schema alla dinamica del movimento storico
(senza, con ciò, diminuire in nulla la funzione esplicativa dello schema, in
relazione alla costruzione dell’edificio sociale).
Gramsci critica Bucharin
sottolineando come al "Saggio popolare" manchi "una trattazione qualsiasi della
dialettica" (14).
Il marxismo esibisce una
filosofia "in quanto supera (e superando ne include in sè gli elementi vitali)
sia l’idealismo che il materialismo tradizionali, espressioni della vecchia
società" (15). Al contrario, Bucharin si pose in continuità col vecchio
materialismo metafisico.
A me sembra che gli
enunciati di Stalin, nello scritto sul "marxismo in linguistica", si collochino
nel contesto dell’elaborazione di una concezione filosofica
dialettico-materialistica, la quale ha gli altri suoi punti nodali nel leniniano
"prospetto della Scienza della logica di Hegel" e nella gramsciana "Introduzione
alla filosofia" (16).
Ciò è sufficiente, ma
un’adeguata concezione della dialettica, che non la tratti come un caso
particolare della logica, bensì piuttosto come principio costitutivo di una
visione del mondo, secondo la giusta e chiara concezione gramsciana, è
l’equivalente teorico di un corretto agire politico; e in questo senso dobbiamo
intendere anche le riflessioni di Stalin sulla dialettica, giusta le Questioni
del leninismo.
Malgrado il significato
ideologico dei problemi linguistici, ci si potrebbe meravigliare del fatto
cheStalin metta in gioco la sua autorità a proposito di un argomento tanto
periferico da un punto di vista politico. D’altronde lo stesso Stalin dimostra
di non avere affatto l’intenzione di entrare nel dominio della linguistica, per
il quale certamente non aveva competenze; piuttosto, ciò che a Stalin
interessava erano certe questioni fondamentali del marxismo.
"Io non sono uno studioso
di linguistica e naturalmente non posso soddisfare pienamente i compagni.
Invece, per quanto riguarda il marxismo nella linguistica e anche in altre
scienze sociali, sono direttamente chiamato in causa". (17).
Con ciò fa evidente
riferimento alla sistematica filosofica, che abbraccia più che un solo ambito.
Tuttavia, mediante questa osservazione non appare pienamente chiarito il perchè
delo spettacolare intervento del capo del partito in una discussione
scientifica.
Le proposizioni di Stalin,
in realtà, non rimandano solo alla sistematica ontologica, ma rappresentano
anche una critica diretta alla pratica della ricerca scientifica in URSS e,
così, riguardano anche temi dell’organizzazione sociale.
Per comprendere
l’intenzione che sta dietro l’intervento nella discussione linguistica, va
tenuta presente anche l’opera successiva Problemi economici del socialismo.
Si può facilmente
convenire che il problema posto a Stalin era stato concordato con lui (come
d’altra parte accade, quando si tratta di interviste a personalità che occupano
posti di responsabilità). La domanda intorno all’adeguatezza della discussione -
controversa - sulla Pravda, dà a Stalin l’opportunità di spiegarsi con indubbia
nettezza: "Prima di tutto la discussione ha reso del tutto chiaro che negli
organi linguistici, al Centro e nelle Repubbliche, domina un regime che non va
bene nè per la scienza nè per gli scienziati. Anche la più lieve critica allo
stato di cose esistente nella linguistica sovietica, anche il più timido
tentativo di una critica al cosiddetto "nuovo sapere" in ambito linguistico,
risultano impedite e perseguitate dagli ambienti dirigenti in ambito
linguistico. Per un atteggiamento critico nei confronti dell’eredità di N. J.
Marr, per la più lieve disapprovazione nei confronti della dottrina di N. J.
Marr, hanno perso il loro posto in ambito linguistico ricercatori competenti,
oppure sono stati retrocessi a incarichi meno importanti. I linguisti vengono
chiamati a posti di responsabilità non per la loro competenza, ma sulla base del
pieno riconoscimento dela dottrina di N. J. Marr. E’ universalmente noto che
nessuna scienza può svilupparsi e giungere a buoni risultati senza scontro fra
opinioni e senza libertà di critica (sott. mia H.H.H.). Ma questa regola
universalmente riconosciuta è stata sfrontatamente ignorata e calpestata. Si è
costituito un gruppo chiuso di personalità dirigenti infallibili che, dopo
essersi messi al sicuro da ogni possibile critica , hanno cominciato
arbitrariamente ad amministrare, provocando però disordini" (18).
Citare integralmente
questo passo era necessario per rendersi conto di quale fosse l’impulso che
Stalin cercava di dare alla vita pubblica. Le situazioni da lui giudicate
tutt’altro che in ordine, non erano certo specificità di una determinata
disciplina scientifica, piuttosto si erano diffuse in ogni ambito della società
in seguito al processo di burocratizzazione dell’attività dello Stato e del
Partito. Nel corso della costruzione dell’economia socialista, che si andava
completando in modo centralizzato e sotto la pressione del tempo, verosimilmente
un tale processo di burocratizzazione era in una certa misura inevitabile. Il
fatto che esattamente questo processo assumesse dimensioni ipertrofiche era da
ascriversi alle condizioni particolari in cui la costruzione del socialismo
avveniva in URSS - i problemi legati a ciò certamente non potevano essere
discussi in questo testo, tuttavia abbisognavano di un’analisi (19).
La durezza con cui Stalin
si espresse sta a significare che aveva compreso l’urgenza del problema e che
giudicava venuto il tempo di intervenire a modificare la situazione. La stessa
scelta che Stalin fece delle parole sta a dire che non si trattava solo dello
scontro tra scuole scientifiche. Stalin parlò di sistema-Araktsceev (20).
Araktsceev fu un uomo di Stato russo reazionario al tempo della Santa Alleanza,
il quale - analogamente a Metternich ma in modo ancor più duro - costruì un
regime militare e di polizia dispotico senza alcuna remora. Si vede bene che
sarebbe stato del tutto sproporzionato usare simbolicamente il nome di
Araktsceev se la questione si fosse limitata ai rapporti tra istituzioni
universitarie.
Per dar conto, con una
parola, del tono provocatorio quasi esacerbato e del paradosso, osserviamo ciò:
Stalin dette il segnale a favore di un processo di cambiamento sociale che, se
volessimo ricorrere al gergo giornalistico promosso dal XX Congresso, potremmo
denominare destalinizzazione - termine, peraltro, falso e deviante.
L’intervento su strutture
organizzative e personali consolidate, nonostante il pericolo di scosse profonde
dell’ancora debole società sovietica del dopoguerra, era tuttavia qualcosa di
auspicabile per spianare il passaggio a un’altra fase della costruzione del
socialismo. La discussione in un ambito scientifico, marginale dal punto di
vista politico-sociale, poteva dare un segnale di inizio per preparare, con cura
e consapevolezza, un cambiamento nei rapporti e dare spazio a nuove concezioni
nel lavoro collettivo.
Sono consapevole che la
prima obiezione è che con le fonti date non poteva esser fatto nulla che avesse
un’effettiva valenza dimostrativa. Le maggiori ipotesi storiche hanno appunto
questo status congiunturale. Ma il testo su marxismo e linguistica va visto in
relazione alla Costituzione del 1936 e con ciò acquista plausibilità l’ipotesi
che dopo le tensioni del periodo della guerra, le forme imposte dal periodo
eccezionale dovessero essere abbandonate e che si ricercasse l’inizio di un
terreno caratterizzato da minore conflittualità sociale (21). Una tale
interpretazione autorizza una spiegazione differenziata del periodo, più di
quanto non avvenga con l’usuale pubblicistica, che tutto tratteggia in bianco o
nero, dunque con rigide opposizioni.
Per concludere, dobbiamo
ancora stabilire il parallelo tra questo scritto e quello, di due anni
successivo, sui problemi economici dell’URSS. Naturalmente, non mi interessa
fare un confronto col contenuto economico-politico, perché sarebbe un’indagine
del tutto particolare. Tuttavia vi sono segni chiaramente riconoscibili che
opera un nuovo stile nelle controversie pubbliche e nella maturazione dei
giudizi. Il tema in primo piano è la redazione di un manuale di economia
politica: ciò che si esprime nelle tesi dello scritto sono le concezioni e le
strategie economiche e socio-politiche. Ma ora il problema non è più rompere
forme istituzionalmente irrigidite della stagnazione per potersi guadagnare il
premio del giudizio critico (22). Piuttosto, ora, si tratta di formulare un
progetto, teoreticamente più corretto e limpido concettualmente, per la pratica
di costruzione del socialismo.
Il tono polemico, che
nello scritto sulla linguistica a volte fa capolino, manca totalmente nella
trattazione economica. D’altra parte Stalin dice espressamente: "Alcuni
compagni, nel corso della discussione, hanno con troppo zelo analizzato
criticamente il progetto del libro e mosso rimproveri agli autori per le loro
mancanze e i loro errori, decretando così il fallimento del progetto.
Naturalmente è vero che nel manuale esistono errori e lacune - ma questo capita
per ogni grossa opera" (23):
Solo rispondendo a
Jaroscenko, Stalin si mostra ironico e violento, rimproverandogli duramente di
aver riproposto alcuni errori buchariniani. (Chi, con l’occhio rivolto al
successivo sviluppo storico, legge questo Stalin, può intravedere nella ripulsa
di Jaroscenko un anticipo della critica a Kruscev). La constatazione delle
contraddizioni tra forze produttive e rapporti di produzione anche nel
socialismo implica l’apertura verso la cancellazione delle differenze - e nella
discussione vi è anche un’aperta critica a Stalin. Ma questi osserva
espressamente: "Io penso che per la correzione del progetto di manuale, era
necessario costituire una commissione numericamente non grande, della quale
facessero parte non solo l’estensore del manuale e i suoi sostenitori, in
maniera tale da avere essi la sicura maggioranza nelle discussioni, ma anche
loro avversari che fossero critici aspri del progetto" (24).
Una società diretta dalla
conoscenza che il socialismo scientifico consente, non nasce d’un colpo. Essa
presuppone uomini che amplino e approfondiscano costantemente il loro orizzonte
culturale, per potere avere interessi generali e prendere nelle loro mani la
storia. Questa sarebbe, sì, democrazia autentica e per la prima volta effettiva.
In proposito citiamo ancora Stalin.
"E’ necessario pervenire a
una crescita cultrurale della società capace di assicurare uno sviluppo
multilaterale delle sue capacitià fisiche e mentali; crescita mediante cui i
membri della società abbiano la possibilità di ottenere una formazione in grado
di trasformarli in attivi coattori dello sviluppo sociale [...] Si potrebbe
pensare che non è possibile raggiungere una simile crescita culturale dei membri
della società senza seri cambiamenti nell’attuale condizione del lavoro. A
questo scopo è infatti prima di tutto necessario ridurre la giornata lavorativa
fino a sei ore e, in seguito, fino a cinque. Ciò è necessario per dare a ogni
membro della società sufficiente tempo libero per costruirsi una cultura
multilaterale. Per questo scopo è infine necessario introdurre, come
obbligatoria, una educazione universale politecnica, in maniera che ogni membro
della società abbia effettivamente la possibilità di scegliersi liberamente il
lavoro e che neppure un attimo della sua vita sia dedicato a un lavoro pur che
sia. Inoltre, a ciò è necessario, anche, migliorare profondamente il regime
degli alloggi e aumentare almeno del doppio, se non di più, i salari di
lavoratori e impiegati: lo scopo è accrescere la capacità d’acquisto di beni
necessari alle masse anche attraverso una diminuzione dei prezzi. Queste sono le
condizioni fondamentali per operare il passaggio al comunismo" (25).
Con l’occhio rivolto a una
società socialista sviluppata, da cui possa generarsi il comunismo, termina
l’opera teorica di Stalin. Non dobbiamo lasciar disperdere questa eredità,
esattamente se vogliamo onorare quanti sono caduti nella lotta per questo
obiettivo.
Hans Heinz Holz
Note
(1) Su questo, cfr. le
notazioni programmatiche di A. Hüllinghorst, in TOPOS 22 "Lenin" [in corso di
pubblicazione]. (2) V.
K. Gossweiler, Die Taubenfuss-Chronik oder Die Chruschtschowiade, Monaco 2002. (3) Josef W. Stalin,
Werke, vol. XV, Dortmund 1979: "Il marxismo e i problemi della linguistica", pp.
163ss. - "Problemi economici del socialismo nell'URSS", pp. 292 ss.. Per gli
echi internazionali di questi scritti, è importante notare l'immediata e
spontanea reazione positiva dei linguisti; riguardo alla Germania, va rimarcata
la reazione positiva di Werner Krauss, insigne studioso della civiltà romana, la
cui competenza di merito, chiarezza filosofica e sensibilità politica, certo
sono fuori discussione. Cfr. Werner Krauss, Das wissenschaftliche Werk, Berlino
1984. Cfr. anche H.H.Holz, Werner Krauss' sprachphilosophische
Standortbestimmung, in Hermann Hofer, Thilo Karger, Christa Riehn (editori),
Werner Krauss, Tübingen e Basilea 2003, p. 143 ss.
(4) Sui rapporti tra base e sovrastruttura, cfr. Kuusinen et alii, Principi
elementari del marxismo, Roma, 1969 vol. 2, pp. 18ss.; A. Sceptulin, La
filosofia marxista-leninista, Mosca 1977, pp. 271 ss.; Friedrich Tomberg, Basis
und Uberbau, Darmstadt e Neuwied 1974; Istituto per le scienze sociali presso il
CC della SED, Grundlagen des historischen Materialismus, Berlino 1976; Autori
vari, Marxistisch-leninistische Philosophie, Berlino e Francoforte sul Meno
1979, pp. 446 ss.
(5) Sul tema di una teoria dell'ideologia, cfr. A. Mazzone, Questioni di teoria
dell'ideologia, Messina 1981; Autori vari, Erkenntnis und Wahrheit, Berlino
1983; TOPOS 17, "Ideologie", Napoli 2001. (6)
Stalins Werke, Band 15: 165.
(7) Op. cit. p. 165s.
(8) Op. cit. p. 186. (9) Cfr. ad esempio,
nel'ambito della filosofia borghese, il modello dei livelli quale appare in Der
Aufbau der realen Welt, Berlino 1940 di N. Hartman; ma anche dello stesso autore
Neue Wege der Ontologie, Stoccarda 1947.
(10) Stalin op. cit. p. 166.
(11) Stalin op. cit. p. 203.
(12) H. H. Holz, Lingua e mondo, Francoforte sul Meno 1953 pp. 30ss.
(13) A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Torino 1977 p.1422.
(14) Gramsci, op. cit., p. 1424. (15)
Gramsci, op. cit., p. 1425
(16) Su Lenin cfr. H. H. Holz, Einheit und Widerspruch, vol. 3, Stoccarda 1997,
pp. 361 ss. Per Stalin, cfr. H. H. Holz, "Stalin als Theoretiker des Leninismus",
in Streitbarer Materialismus 22, maggio 1998, pp. 21 ss. (17) Stalin, op. cit.,
p. 164.
(18) Stalin, op. cit., p. 197.
(19) Su questo cfr. H. H. Holz, Sconfitta e futuro del socialismo, Milano 1994.
(20) Stalin, op. cit., p.198.
(21) Sulla Costituzione sovietica del 1936 cfr. il mio contributo al Convegno
dell'Associazione Culturale Marchigiana (31 maggio 2001).
(22) Concludendosi il dibattito,Stalin attenuò la critica a Marr e dette prova
del proprio rispetto nei confronti del grande ricercatore (cfr. Stalin, op. cit.
p. 209). Inoltre Stalin attribuì la responsabilità della stagnazione al
regime-Araktsceev, nominandolo per la seconda volta (cfr. Stalin, op. cit. p.
210). (23)
Stalin, op. cit., p. 337.
(24) Stalin, op. cit., p. 338.
(25) Stalin, op. cit., p. 359.
"La chiave del secolo". Così si è espresso, in modo sorprendente
e inaspettato, Pintor sul "Manifesto", organo dell’antistalinismo
militante: ma nel momento in cui si accavallavano le denegazioni e i
rinnegamenti, come quello dell’ineffabile Veltroni circa il suo mai
essere stato comunista, all’onesto Pintor si deve essere rivoltato
lo stomaco ed egli ha gettato sul piatto una verità che si è voluta
cancellare. L’articolo di Pintor è stato come una stella cadente che
nessuno ha ripreso, nemmeno per contestarlo, forse perchè
incontestabile, ma al tempo stesso imbarazzante: vi si ricorda con
elevate parole che nel periodo tempestoso della seconda guerra
mondiale, e prima e dopo, fu forse Stalin l’unico ad avere le idee
chiare, al punto da suggerire a Pintor, con la parafrasi dei versi
manzoniani del "5 maggio" su Napoleone, che Dio impresse sul
dirigente sovietico in quel momento storico la più forte orma di sé.
La riappropriazione della nostra storia
La ripresa del cammino dei comunisti sino alla ricostruzione di
un autentico partito comunista passa inevitabilmente per la
riappropriazione della propria storia e per l’analisi rigorosa e
senza pregiudizi, se non quelli che ci vengono dai fatti (che
notoriamente hanno la testa dura, mi pare dicesse Lenin), di quanto
è avvenuto nel secolo che è ancora in corso e che termina a fine
2000. In breve, anzi brevissimo, svolgeremo alcune considerazioni,
chiedendo perdono per dimenticanze ed omissioni e magari per la non
eccessiva presa in considerazione di tutti gli elementi critici, che
costituiscono oggetto di esercizio continuo da parte dei nemici ed
in particolare dei revisionisti.
A partire dall’ottobre del 1917 e per decenni abbiamo assistito
al rovesciamento del potere capitalistico in tanta parte del mondo,
all’edificazione, o all’inizio di essa, di società basate su
rapporti strutturali opposti, comunque diversi dal capitalismo
privato, che hanno costituito la base per altre rivoluzioni e, negli
stessi paesi dell’imperialismo, per un freno e un limite del potere
capitalistico verso l’esterno e, all’interno, nei confronti dei
lavoratori. Ciò rappresenta un fatto gigantesco nella storia
dell’umanità che nessuna miseria revisionistica, nessun opportunismo
di partiti istituzionali che si nominano comunisti, nessuna
distorsione o addirittura cancellazione della storia possono neppure
scalfire. Il miserevole tentativo, tra l’altro di livello basso,
anzi penoso, del giornale di RC "Liberazione" nel suo supplemento su
"Chi ha ucciso la rivoluzione?", che ha incontrato la protesta e il
rigetto di tanti compagni di RC stessa, ci porta al centro del
problema.
E questo centro ha un nome preciso: Josip Vissarionovic Stalin,
l’uomo d’acciaio’ il dirigente della vittoria del socialismo, della
disfatta del nazifascismo, dell’estensione rivoluzionaria di un
potere politico di comunisti su almeno un terzo del pianeta, del
rafforzamento della posizione dei comunisti ovunque. Veramente
allora lo spettro del comunismo, non più spettro ma realtà, ha fatto
tremare papi e capi del sistema capitalistico. La demonizzazione di
Stalin, la damnatio memoriae sino alla sparizione delle opere, è
stato il regalo più generoso offerto, dall’interno del campo
socialista, alla borghesia imperialistica, che comprese subito la
portata dei processi aperti dal revisionismo kruscioviano. L’allora
segretario di stato agli esteri americano, John Foster Dulles, dopo
il XX Congresso del PCUS si aprì alla speranza: "La campagna contro
Stalin ed il relativo programma di liberalizzazione hanno provocato
una reazione a catena che a lungo termine non potrà venire
arrestata". Ha avuto ragione lui, e quindi prima di lui aveva avuto
ragione Stalin.
Cancellare Stalin per cancellare Lenin
Cancellato Stalin, è stata la volta di Lenin, ossequiato a parole
dai revisionisti per venire stravolto, e poi picconato dai
liquidatori: la controrivoluzione del 1991 in URSS se l’è presa
essenzialmente con le statue di Lenin e dei suoi più vicini
collaboratori. Gli opportunisti di oggi, a cominciare dalla
dirigenza di RC, sono in realtà antileninisti: se rendono a fior di
labbra omaggio al rivoluzionario, non solo falsificano i caratteri
fondamentali della sua opera, presentandola come un modello che
sarebbe stato deformato e tradito da Stalin, che ne è stato invece
il realizzatore, ma sostanzialmente la svalutano: una presa di
potere senza base popolare, una sorta di putsch, attuato senza
sapere che farsene del potere, come si è azzardato a dire il
segretario Bertinotti; una fiammata senza seguito, sbagliata
in quanto non iscritta in una rivoluzione mondiale (secondo la nota
tesi di Trotzky, riecheggiata oggi dallo stesso Bertinotti che
propone di illuderci con una rivoluzione mondiale: una tesi che
avrebbe comportato all’epoca, a fronte del fallimento delle
rivoluzioni in occidente, l’abbandono dell’impresa rivoluzionaria,
al quale Stalin si oppose con fermezza assoluta: "Dovremmo lasciar
cadere l’Unione Sovietica nella palude di una repubblica borghese?",
disse il grande dirigente e costruttore; una tesi che oggi vuol dire
la non solidarietà, il non appoggio ai punti reali di resistenza
all’imperialismo).All’epoca, un’impresa neppur da
tentarsi, o comunque da liquidarsi subito: di qui la proposta
risibile, antistorica, idealistica del "ritorno a Marx" (e ci si
scorda sempre di Engels!), per ricominciare tutto da capo. (…)
Forse è a quel punto più coerente chi piccona anche Marx.
In realtà, quel che si impone oggi è un "ritorno a Stalin"’ pur
tenendosi presente che l’opera pratica e teorica di questo si
riferisce essenzialmente alla fase di edificazione e difesa del
socialismo dopo la presa del potere, per di più in un paese
(all’inizio) solo e, ancora, non annoverabile fra quelli
capitalistici avanzati e comunque in una condizione di
accerchiamento.
E’ un ritorno indispensabile anzitutto per leggere correttamente
la storia del Novecento: ce lo ha rammentato Pintor. Chi
cancella Stalin crea un enorme buco nero che non permette di
comprendere tutto quel che è avvenuto e di cui in parte
abbiamo fatto cenno, dalla vittoria sul nazifascismo
(che ha fra l’altro smentito la falsa profezia borghese e
trotzkista del crollo del castello di carte e del
manifestarsi di un’assenza di legami della dirigenza e del Partito
sovietici con le masse popolari), alla trasformazione,
incisiva, radicale, solida dei rapporti strutturali della società
(in cui, secondo la previsione corretta di un integrale
antistaliniano come Isaac Deutscher, è impossibile, pur in caso di
controrivoluzione, restaurare "normali" rapporti capitalistici),
alle rivoluzioni successive - incluse quelle,
secondo una corretta valutazione dei comunisti cinesi,
realizzate nei paesi dell’Europa orientale -, con la
costituzione di una comunità di stati socialisti e fino alla
rivoluzione cubana e oltre e alla stessa decolonizzazione,
con il conseguimento di un nuovo equilibrio di forze nei confronti
del campo imperialista: eventi epocali realizzati in una certa
misura anche dopo Stalin, ma inequivocabilmente e indissolubilmente
sulla scia della spinta propulsiva dell’Ottobre di Lenin e
dell’edificazione socialista di Stalin. Rimarrebbero oscuri tanti
altri problemi e fenomeni, ad alcuni dei quali si farà via via
cenno.
Tutto questo è stato invece ben compreso dai grandi dirigenti che
si rifiutarono di accedere al corso revisionistico di Krusciov, da
Mao Tze Tung a Hoxha a Kim II Sung, i quali - anch’essi del resto
ovviamente discutibili in singoli punti della loro opera - nel
complesso, pur dove hanno indicato qualche elemento di critica o di
dissenso, non sempre poi esatto o completamente informato, nei
confronti di Stalin hanno riconosciuto in lui il carattere di "fermo
rivoluzionario proletario" e di punto discriminante di ciò che è
autenticamente comunista rispetto a ciò che non lo è. Lo intendono
oggi dirigenti e studiosi, in occidente (cito solo il belga Ludo
Martens) e ad est (in Germania il compagno Gossweiler, in Russia in
un modo o nell’altro tutti i dirigenti comunisti, in modo fermo e
integrale Nina Andreeva, Victor Anpilov, ma lo stesso Zuganov e
altri, e persino il non comunista presidente Putin ha dovuto rendere
omaggio a Stalin, in Jugoslavia Kitanovic ed altri, nella Corea
popolare qualche anno fa l’attuale dirigente Kim Jong II, a Cuba
Fidel Castro che in un’intervista riconobbe che dopo Gorbaciov ormai
si imponeva una differente valutazione di Stalin, e in modo toccante
Honecker che, dopo la caduta e poco prima di morire, nel suo ultimo
libro, "Der Sturz", riconobbe che era stata erronea la condanna di
Stalin). E lo sanno le masse sovietiche, che issano a
centinaia i ritratti di Stalin nelle manifestazioni comuniste e
fioriscono sempre la sua tomba sotto le mura del Cremlino.
L'odio profondo della borghesia
L’odio della borghesia per Stalin ha inaugurato con lui, in modo
parossistico e perdurante, il sistema indecente delle
criminalizzazioni di dirigenti stranieri che ad essa si oppongono.
Perché Stalin ha in realtà una colpa imperdonabile. Lenin è
in qualche modo riducibile ad un’icona romantica, l’autore
di una rivoluzione contro un mondo ingiusto - questo sono disposti a
riconoscerlo in molti -, ingiusto ma nella sostanza immodificabile,
dunque di una rivoluzione destinata a non durare, come la Comune di
Parigi: e pur se egli gettò le prime fondamenta di una nuova società
e vinse le prime battaglie, sulla base anche di una ineguagliabile
opera teorica, è stato facile, per la sua morte prematura, fra
l’altro avvenuta nel corso di quella sosta o rallentamento, tale
considerata dallo stesso Lenin, sulla via del socialismo che fu la
NEP, predicare che con lui la rivoluzione finì, dunque non dette
nascita a nulla di nuovo e di stabile: il suo successore ne sarebbe
stato il becchino ed avrebbe posto subito i germi della sconfitta,
ma comunque l’avrebbe trasformata immediatamente in qualcosa di
diverso (e di perverso) rispetto al progetto rivoluzionario. La
sconfitta, in realtà, si è realizzata in modo definitivo dopo 70
anni e, quel che più conta, dopo decenni di vittorie e successi e
trasformazioni reali. Anche se i più accorti ed onesti fra
gli avversari riconosconoche pure Lenin, se fosse
vissuto ancora, non avrebbe potuto nell’essenziale agire
diversamente da Stalin, salvo chiudere la serranda della rivoluzione,
e in realtà gettò le premesse dell’opera di questo e dove necessario
non fu meno "spietato" e rigoroso - e di qui dunque la sua
successiva criminalizzazione da parte di liquidatori e altri nemici
-, l’odio per Stalin è più radicale ed incommensurabile,
in quanto egli fu il grande, inesorabile, non pieghevole
realizzatore, estensore e difensore di una durevole realtà
socialista (chiamiamola come vogliamo, comunque anticapitalistica)
nella carne della storia e non nel cielo delle idee.
Ecco dunque che non tanto il pur importante ripristino
della verità storica esige la piena rivalutazione (scientifica, non
apologetica) di Stalin, bensì la necessità di ridare senso alla
vicenda del XX secolo, ad un cammino effettivo e incancellabile dei
comunisti che appartiene a tutti noi, ad una considerazione
che non ci privi delle radici per proporre nuovi cominciamenti
secondo improbabili e non credibili processi e modelli "migliori" di
quelli storicamente realizzati (altro evidentemente sarà il far
tesoro delle esperienze che hanno avuto corso nel secolo) e ci
ricolleghi al tempo stesso alle esperienze socialiste o
anticapitalistiche che vivono ancora e alla stessa lotta dei popoli
ove si è verificato il c.d. crollo, avviandoci all’intelligenza
delle vere, e non idealistiche, ragioni di questo: una lotta, per
quei popoli, che inevitabilmente si lega all’esperienza vissuta del
socialismo reale e pertanto, a partire dalla Russia, al nome di
Stalin. E solo ciò consente oggi di collocarsi nel campo
dell’antimperialismo, senza le reticenze e gli opportunismi che
hanno inficiato le posizioni della sinistra c.d. antagonistica (si
pensi all’atteggiamento nei confronti della Jugoslavia e di
Milosevic).
E’ del tutto evidente che l’opera di Stalin può essere intesa se
non la valutiamo secondo gli schemi astratti, che spesso non ci si
accorge quanto siano subalterni all’ideologia borghese dominante,
propri degli opportunisti e dei trotzkisti, e dunque se si riconosce
che venne allora aperto un percorso drammatico in un contesto di
vera e propria guerra generale interna ed esterna (costante: non
solo quella militare scatenata nel 1941).
"Errori ed orrori?"
Non si tratta di negare i gravissimi costi che questa situazione,
anche in termini umani, dolorosamente impose: pur se sono benemeriti
gli studi che si vanno facendo per ridimensionare in termini
quantitativi tali costi, gonfiati a dismisura dai vari "libri neri",
non è la conta dei morti che può dare una risposta appagante: che va
cercata invece nello spregiudicato esame dell’immane massacro umano
e sociale perpetrato da sempre e ancor oggi dal capitalismo al fine
di tener sottomessa la maggior parte dell’umanità alle proprie
esigenze di profitto, laddove i mali rimproverati a Stalin e
al suo gruppo furono nel complesso misure aspre che portarono al
risveglio e all’inizio dell’emancipazione di masse immense non solo
in Russia, ma in tutto il mondo. Si trattò di una
navigazione a vista, senza esempi precedenti, e sterile è la caccia
agli "errori" (quali i parametri e i paradigmi?) e agli "orrori" (si
pensi piuttosto a quelli del capitalismo, senza cadere
nell’infantilismo per cui, predicandosi il socialismo come superiore
al capitalismo, esso dovrebbe presentarsi ed agire in forme
angelicate ed offrendo l’altra guancia). Ciò è ovviamente cosa
diversa da una seria critica storica che rilevi eventuali eccessi,
ma tenga sempre presente la foresta prima del singolo albero, e
dalla considerazione per cui certi rigori complessivamente
inevitabili ebbero senza dubbio successivamente un peso negativo.
Va dunque tenuto presente che l’opera di Stalin avvenne
secondo le condizioni possibili in un paese, certo immenso, ma
arretrato anche nella situazione culturale delle masse e sottoposto
a un duro accerchiamento capitalistico.
Chiusura della NEP (che certo anche per Lenin non sarebbe stata
eterna), industrializzazione accelerata e collettivizzazione delle
campagne con vasto coinvolgimento di masse, inesorabile e
inevitabile - come allora riconobbero anche molti avversari -
operazione di ferrea unità del Partito, pur con i mezzi di un
Terrore rivoluzionario in cui certo non mancarono eccessi e vittime
anche innocenti (qualunque guerra ne ha), ma che impedì fra l’altro
la formazione di quinte colonne nel conflitto armato internazionale
che Stalin sapeva, e che effettivamente fu, imminente: tutto ciò
costituì barriera insormontabile per evitare ed estirpare in radice
la controrivoluzione e vincere la guerra, schiacciando il mostro
nazifascista (e l’enorme abilità tattica di Stalin, pur nella
fermezza dei principi e degli obiettivi finali, venne dimostrata dal
Patto Molotov-Ribbentrop, che sollevò tanto scandalo fra le
anime belle, ma impedì che l’Unione Sovietica si trovasse sola
contro quel mostro, come le potenze imperialistiche occidentali
avrebbero auspicato)
Se non vogliamo sempre, secondo la moda buonista di oggi, rendere
omaggio solo agli sconfitti (alcuni dei quali grandi e generosi, e
totalmente nostri, da Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht a Gramsci, a
Lumumba, a Che Guevara, allo stesso Allende) e arrivare alla
conclusione che le rivoluzioni (magari mondiali...), per chi ancora
ne parla, possono essere solo pacifiche ed incruente e non devono
far centro sulla presa del potere e comunque dopo di questa devono
presentarsi conciliatorie e misericordiose, è necessario che
ci rendiamo conto come la vera rivoluzione si realizza dopo la
(ineludibile) presa del potere con la trasformazione radicale dei
rapporti sociali attraverso la soppressione della proprietà privata
capitalistica dei mezzi di produzione (e oggi anche di
comunicazione) e che tutto ciò va attuato e difeso con volontà
ferrea e inesorabile. Che occorre, dunque, anche "sporcarsi le
mani". Questo è uno dei lasciti fondamentali di Stalin.
La lotta di classe nel socialismo
Prosecuzione della lotta di classe nel socialismo
con passaggi rivoluzionari successivi sino al comunismo, attraverso
un ferreo partito basato sul centralismo democratico nelle
condizioni storiche possibili, esercizio attraverso il Partito della
dittatura del proletariato sino alla fase superiore (con il massimo
possibile coinvolgimento di massa: si rimprovera a Stalin, e questo
va verificato, che negli ultimi anni tale coinvolgimento sarebbe
stato ridotto); partito del proletariato e dei lavoratori,
non "di tutto il popolo", con forte controllo e anche repressione
della burocrazia e sulle tendenze borghesi sempre
risorgenti; rifiuto di una concezione tecnocratica dello sviluppo
verso il comunismo, basato esclusivamente sull’espansione delle
forze produttive e la loro razionalizzazione, dovendosi invece con
la prosecuzione della lotta di classe modificare i rapporti di
produzione e dunque con la sottolineatura della necessità di
affermare una tendenza, che non escludeva temperamenti provvisori,
persino piccoli passi indietro per poi riprendere il cammino, verso
la soppressione della circolazione mercantile e l’unificazione della
proprietà in proprietà di tutto il popolo per arrivare alla
generalizzazione della pianificazione (questi elementi vanno
tenuti presenti nella valutazione delle situazioni di paesi che,
data l’arretratezza di partenza e l’attuale situazione di predominio
imperialistico nel mondo, introducono elementi di mercato nel
socialismo, considerati necessari all’espansione delle forze
produttive, ma che richiedono un fermo controllo del Partito, una
battaglia ideologica costante, con la consapevolezza della sempre
possibile risorgenza di forze borghesi antisocialiste e
controrivoluzionarie); elevazione delle condizioni
materiali e culturali dei lavoratori (mirabile è la Costituzione
staliniana del 1936, che non si limita a proclamare
astratti diritti, ma li sostanzia con l’indicazione delle relative
basi economiche nella proprietà socialista); sul piano
internazionale coesistenza pacifica nel senso dello sforzo di
evitare la guerra ma sempre mirando all’avanzamento del socialismo e
alla lotta contro l’imperialismo (esemplare fu la guerra di Corea) e
non nel senso della competizione economica e della tendenziale
conciliazione e compromesso con l’imperialismo stesso;
affermazione del doppio mercato mondiale e non di un unico mercato
con due sistemi; per i paesi capitalistici, svalutazione delle vie
parlamentari, utilizzabili solo tatticamente: ecco alcuni caposaldi
della posizione di Stalin, del gruppo dirigente attorno a lui, del
Partito.
La fermezza contro l'imperialismo
Valga ancora qualche esempio. La posizione di Stalin
rispetto al problema della bomba atomica, di cui egli dotò l’Unione
Sovietica, anticipa quella di Mao ed è ben contraria a quella di
Krusciov e di Togliatti. Non per sottovalutare il pericolo, ma per
affrontarlo correttamente senza cedere al ricatto, Stalin
non considerava "la bomba atomica una forza così seria quale alcuni
uomini politici sono propensi a crederla. Le bombe atomiche hanno lo
scopo di spaventare gli uomini dai nervi deboli, ma non possono
decidere le sorti della guerra, dato che per questo le bombe
atomiche sono assolutamente insufficienti. Certo il monopolio del
possesso della bomba atomica crea una minaccia, ma contro questo
fatto esistono per lo meno due rimedi: a) il monopolio del possesso
della bomba atomica non può durare a lungo; b) l’impiego della bomba
atomica può essere interdetto" (va posto in rilievo che Stalin
rifiutò comunque la prospettiva di una indiscriminata corsa al
riarmo, sottolineando che questa avrebbe impedito lo sviluppo
economico e sociale della società sovietica, anche qui mostrando una
lungimiranza che mancò ai suoi successori revisionisti). E
vale la pena citare ancora il nostro grande filosofo Ludovico
Geymonat che valutò la politica staliniana in quell’epoca in questi
termini: "La minaccia di utilizzare la bomba atomica fu in realtà
una minaccia enorme e ci volle tutta la durezza del governo
sovietico per non cedere a questa minaccia... questo fu uno dei
punti caratterizzanti della posizione di Stalin, che non si piegò
mai di fronte alla minaccia del bombardamento atomico dell’Unione
Sovietica e continuò pertanto a trattare con gli Stati Uniti da pari
a pari. Questo è un carattere della politica staliniana che
non può essere assolutamente dimenticato poiché in quel momento si
poteva pensare che la guerra era finita con la vittoria assoluta
degli Stati Uniti e quindi l’Unione Sovietica non avrebbe altro da
fare che arrendersi... non ho mai avuto la tentazione di
giustificare l’atteggiamento di resa senza condizioni (da molti
cortesemente suggerito all’Unione Sovietica)... per la verità questo
atteggiamento non è scomparso improvvisamente proprio perchè per
vincerlo fu necessario che anche l’Unione Sovietica fosse in grado
di produrre armi altamente sofisticate (atomiche incluse) pari a
quelle americane". Giustamente Geymonat sottolinea
l’autentico eroismo di questa posizione e dobbiamo confrontarlo con
i cedimenti di Krusciov e la capitolazione di Gorbaciov, che tanto
piace agli attuali opportunisti.
La fermezza di Stalin nella lotta contro l’imperialismo
scaturisce non solo dalla sua irremovibile fede nel socialismo, ma
dalla convinzione che la lotta mortale con l’imperialismo è
tutt’altro che vinta. Anche qui Stalin anticipa Mao e si pone
all’opposto dello stolto ottimismo di maniera di Krusciov, secondo
il quale nel giro di uno o due decenni si sarebbe avuto il passaggio
al comunismo.In diversi scritti Stalin
manifesta l’idea che il socialismo può anche soccombere: per chi gli
rimprovera insufficiente attenzione alle contraddizioni della
società anche socialista e inadeguata applicazione della dialettica,
ritengo opportuno citare una sua lettera poco nota del 12 febbraio
1938 (quindi successiva al discorso sulla Costituzione del 1936, che
di quelle inadeguatezze sarebbe stato espressione), diretta a un
militante di base, Ivan Ivanov, nella quale sostiene che se
all’interno la vittoria sulla borghesia può considerarsi compiuta,
permane la minaccia derivante dalla compresenza prevalente di Stati
capitalistici, i quali creano il pericolo di un intervento
e di una restaurazione, ciò che lo porta ad affermare che "la
vittoria del socialismo nel nostro paese non è ancora definitiva" e
che occorre "rafforzare e consolidare i legami proletari
internazionali della classe operaia dell’URSS con la classe operaia
dei paesi borghesi". Stalin qui si ricollega al pensiero di Lenin ed
anche al proprio "Questioni del leninismo": "Un tentativo un
po’ serio di restaurazione può aver luogo solo con il serio appoggio
dal di fuori, solo con l’appoggio del capitale internazionale". E’
ciò a cui abbiamo assistito nell’episodio della liquidazione
gorbacioviana. Ma va richiamato anche quanto Stalin
ammoniva nel suo ultimo scritto importante, "Problemi economici del
socialismo nell’URSS" del 1952, sulla possibilità che le
contraddizioni della società socialista, di per se non più
antagonistiche, potessero diventare tali a seguito di scelte
politiche sbagliate. Anche questo è quanto avvenuto da Krusciov sino
alla liquidazione di Gorbaciov.
La questione nazionale
Un altro tratto della concezione staliniana va qui da ultimo
sottolineato, come del resto risulta dalle ultime citazioni. Stalin
è stato probabilmente il maggior teorico della questione nazionale e
del problema dell’autodeterminazione dei popoli. E’ mia opinione che
egli abbia superato la concezione un po’ astratta di Lenin - forse
congrua con i compiti della rivoluzione iniziale nel quadro di una
guerra interimperialistica - ponendo in forte intreccio dialettico
l’internazionalismo con la difesa dei caratteri nazionali dei popoli
e con la loro indipendenza. Nell’epoca della c.d. globalizzazione,
cioè di una sottofase particolarmente velenosa dell’imperialismo, il
suo appello al XIX Congresso del 1952 risulta quantomai attuale,
quando sostiene che la bandiera dell’indipendenza nazionale e delle
libertà democratiche - che io riferisco soprattutto alla sovranità
popolare - è stata lasciata cadere nel fango dalla borghesia e deve
essere ripresa dai comunisti. Anche qui, una concezione ben
differente da quella trotzkista oggi dominante nei gruppi dirigenti
anche di RC..
Il rovesciamento radicale operato dal XX Congresso
Da quanto detto finora si comprende come il XX Congresso e gli
altri successivi di Krusciov abbiano rappresentato un rovesciamento
radicale. Il revisionismo moderno andò al potere. Non travolse la
possente costruzione di Stalin (la funzione positiva dell’Unione
Sovietica, pur tra contraddizioni e divisioni ed arretramenti, sulla
scena internazionale permase e lo stesso vale per la tutela dei
lavoratori, pur se in graduale degrado e impoverimento ideologico),
ma cessò la vigilanza rivoluzionaria, elementi borghesi e tendenze
di stesso segno si riaffacciarono, vennero introdotte riforme
economiche in senso opposto a quanto indicato da Stalin alla sua
ultima opera. Se errata ed eccessiva è la tesi del
socialimperialismo, non vi è dubbio che si affermò in Unione
Sovietica e negli altri paesi socialisti, tranne le eccezioni
antirevisionistiche per allora, un mutamento regressivo di classe.
Certo le cause della vittoria del revisionismo moderno
vanno meglio esplorate, ma può dirsi che l’egemonia e la
direzione furono prese dalla piccola borghesia, terreno eminente, da
sempre, delle tendenze revisionistiche del marxismo-leninismo. E la
radice materiale di queste va riscontrata nella circolazione
mercantile, in quella piccola circolazione mercantile in cui Stalin
aveva da sempre indicato il pericolo di base di una restaurazione, e
nell’eccessivo, crescente peso attribuito agli incentivi materiali
fuori da una lotta ideologica, nonché nelle forme di ripristino di
ricerca del profitto aziendale, nei trattamenti privilegiati dei
dirigenti di azienda e della burocrazia, nelle modifiche economiche
di relativa liberalizzazione che in qualche modo andavano verso
forme autogestionarie (precursore era stato Tito in Jugoslavia). Il
tutto condito, come accennato, dall’abbassamento della guardia,
dall’assenza di battaglia ideologica e culturale.
Colpisce come in quasi tutti i partiti comunisti, anche in
occidente, la piccola borghesia sia assurta al ruolo dirigente. Essa
era stata nel complesso il referente, soprattutto nella componente
contadina, delle posizioni di destra di Bukharin (di cui sono stati
rivitalizzatori Krusciov e compari e in definitiva, in modo estremo,
il liquidatore Gorbaciov) e, non sorprenda, anche delle posizioni
trotzkiste oggi prevalenti, come detto, anche in RC. L’odio
della piccola borghesia per Stalin, il quale non ha concesso spazi
alle illusioni conciliatoristiche tipiche di quella classe e ha
invece avuto come proprio orizzonte sempre le esigenze dei proletari
e della classe operaia, è dunque un odio parossistico, estremo. Ce
lo ricordano e spiegano talune pagine molto belle di Franco Molfese.
La piccola borghesia ha dunque plaudito alla condanna,
criminale e catastrofica per le conseguenze nel movimento comunista
internazionale, di Stalin da parte di Krusciov; ha considerato
troppo timide e parziali le infauste misure di destalinizzazione
inaugurate da questo; ha reso e rende ancora omaggio al rinnegato e
traditore Gorbaciov, che nel 1999 ha dichiarato apertamente
all’Università americana di Ankara come il fine della propria vita
fosse stato l’annientamento del comunismo. La concezione
generale che viene così portata avanti è quella per cui la storia
sovietica sarebbe un tutto unitario e indifferenziato, con
l’attribuzione a Stalin dei fenomeni degenerativi che sono invece da
ricondursi alla frattura del 1956: se taluni elementi possono essere
sorti prima, la politica di Stalin li aveva tenuti sempre sotto
controllo. Forse, quel che è mancato è stata la predisposizione di
anticorpi per impedire la degenerazione successiva del Partito.
In realtà, è proprio la liquidazione del potere sovietico
operata ignominiosamente da Gorbaciov, il quale ha omaggiato persino
il papa e i capi dell’imperialismo, che ha aperto gli occhi a molti
e costituito spinta formidabile per una comprensione imparziale
dell’opera formidabile di Stalin, non apologetica, come detto, ma
partecipe delle esigenze oggettive che lo hanno mosso e dei rigorosi
principi e al tempo stesso delle necessità tattiche entro i quali
egli ha agito.
O Gorbaciov o Stalin: nel mondo dell’imperialismo, sia pure in
condizioni in parte nuove ma nell’essenza immutate, la scelta è fra
il cedimento e l’azione rigorosa e intransigente dei comunisti,
capaci di muoversi tatticamente, ma saldi nell’obiettivo
rivoluzionario e nella indisponibile difesa delle conquiste del
socialismo, ove realizzate.
www.resistenze.org - materiali resistenti in linea -
iper-classici - 29-10-11 - n. 383 da Lenin, Opere Scelte, vol. 1, Edizioni in
lingue estere, Mosca, 1947, pag 46-48 trascrizione a cura del Centro di Cultura
e Documentazione Popolare per il 94° anniversario della Rivoluzione d'ottobre
Stalin
Discorso pronunciato alla rivista militare il 7
novembre 1941 sulla piazza Rossa a Mosca
Compagni soldati rossi e marinai rossi, comandanti e
dirigenti politi operai e operaie, colcosiani e colcosiane, lavoratori
intellettuali, fratelli e sorelle nelle retrovie del nostro nemico,
temporaneamente caduti sotto il giogo dei briganti tedeschi, nostri valorosi
partigiani e partigiane che distruggete le retrovie degli invasori tedeschi!
A nome del Governo sovietico e del nostro partito
bolscevico vi saluto e mi felicito con voi per il ventiquattresimo anniversario
della Grande rivoluzione socialista d'Ottobre.
Compagni, oggi dobbiamo celebrare il ventiquattresimo
anniversario della Rivoluzione d'Ottobre in condizioni difficili. La perfida
aggressione dei briganti tedeschi e la guerra impostaci hanno creato una
minaccia per il nostro paese. Abbiamo temporaneamente perduto una serie di
regioni; il nemico si trova alle porte di Leningrado e di Mosca. Il nemico
calcolava che sin dal primo urto il nostro esercito sarebbe stato disperso e il
nostro paese sarebbe stato messo in ginocchio. Ma il nemico ha grossolanamene
sbagliato i suoi calcoli. Malgrado gli insuccessi temporanei, il nostro esercito
e la nostra marina respingono eroicamente gli attacchi del nemico su tutto il
fronte e gli infliggono gravi perdite; e il nostro paese, tutto il nostro paese,
si è organizzato in un unico campo di combattimento, per sconfiggere, assieme al
nostro esercito ed alla nostra marina, gli invasori tedeschi.
Vi furono giorni in cui il nostro paese si trovò in una
situazione ancor più grave. Ricordate il 1918, anno in cui celebrammo il primo
anniversario della Rivoluzione d'Ottobre. I tre quarti del nostro paese si
trovavano allora nelle mani degli invasori stranieri. L'Ucraina, il Caucaso,
l'Asia Centrale, gli Urali, la Siberia, l'Estremo Oriente furono temporaneamente
persi. Non avevamo alleati, non avevamo l'Esercito rosso, - se ne iniziava
appena la formazione, - mancava il grano, mancavano gli armamenti, mancavano gli
equipaggiamenti. 14 Stati assalirono allora il nostro paese. Ma non cademmo nel
pessimismo, non ci perdemmo d'animo. Nel fuoco della guerra formammo allora
l'Esercito rosso e trasformammo il nostro paese in un campo trincerato. Lo
spirito del grande Lenin ci animava allora alla guerra contro gli invasori.
Ebbene? Infliggemmo una disfatta agli invasori, ci facemmo restituire tutti i
territori perduti e riportammo la vittoria.
La situazione attuale del nostro paese è
incomparabilmente migliore di 23 anni fa. Il nostro paese ora è molto più ricco
di industrie, di derrate alimentari e di materie prime di 23 anni fa. Abbiamo
ora degli alleati che formano, insieme a noi, un fronte unico contro i
conquistatori tedeschi. Abbiamo ora la simpatia e l'appoggio di tutti i popoli
d'Europa caduti sotto il giogo della tirannide hitleriana. Ora disponiamo di un
magnifico esercito e di una magnifica marina che difendono col loro petto la
libertà e l'indipendenza della nostra Patria. Ora non abbiamo una mancanza seria
nè di prodotti alimentari, nè di armamenti, nè di equipaggiamenti. Tutto il
nostro paese, tutti i popoli del nostro paese appoggiano il nostro esercito, la
nostra flotta e li aiutano a sconfiggere le orde conquistatrici dei fascisti
tedeschi. Le nostre riserve umane sono inesauribili. Lo spirito del grande Lenin
e la sua vittoriosa bandiera ci animano oggi, come 23 anni fa, alla guerra per
la difesa della Patria.
Si può forse dubitare che possiamo e dobbiamo vincere
gli invasori tedeschi?
Il nemico non è così forte come lo dipingono alcuni
intellettualucci spaventati. Il diavolo non è così terribile come lo si dipinge.
Chi può negare che il nostro Esercito rosso ha più volte messo in fuga
disordinata le vantate truppe tedesche in preda al panico? Se si giudica non
dalle fanfaronate dei propagandisti tedeschi, ma dalla vera situazione della
Germania, sarà facile comprendere che gli invasori fascisti tedeschi sono
davanti ad una catastrofe. In Germania oggi regnano la fame e la miseria. In
quattro mesi di guerra la Germania ha perduto 4 milioni e mezzo di soldati. La
Germania si dissangua, le sue riserve umane si esauriscono. Lo spirito di
indignazione invade non solo i popoli d'Europa, caduti sotto il giogo degi
invasori tedeschi, ma lo stesso popolo tedesco che non vede la fine della
guerra. Gli invasori tedeschi tendono le ultime forze. Non vi è dubbio che la
Germania non può sostenere a lungo una tale tensione. Ancora alcuni mesi, ancora
mezz'anno, forse un annetto e la Germania hitleriana dovrà crollare sotto il
peso dei suoi misfatti.
Compagni soldati rossi e marinai rossi, comandanti e
dirigenti politici, partigiani e partigiane!
Stalin,
un nemico del culto della personalità
Testo apparso in
"Gegen Die Stömung", organizzazione per la costruzione di un Partito
comunista rivoluzionario tedesco, luglio/agosto 1996, in francese maggio
1998
http://membres.lycos.fr/edipro/page18.htm
Sin dal famoso e
controverso "discorso segreto" di Kruscev al XX congresso del PC
dell’Unione Sovietica nel 1956, un rimprovero assai noto mosso a Stalin è che
egli avrebbe iniziato e imposto al partito un "culto della
personalità" votato a lui stesso.
Non si può certo
negare che circolassero in Unione Sovietica idealizzazioni e lodi a Stalin
ridicolmente esagerate, come pure valutazioni troppo grandi e formali dei suoi
meriti e della sua persona, che non di rado sfioravano la retorica.
Tuttavia Stalin
era nemico di ogni forma di culto della personalità, e combattè sempre con
insistenza l'idealizzazione di singoli individui.
« Lenin ci
insegna che possono essere grandi dirigenti bolscevichi solo coloro che sanno
sia insegnare agli operai e ai contadini, sia imparare da loro » (Stalin,
"Domande sul leninismo", 1939, da noi tradotto a partire
dall’edizione tedesca).
Egli ha parlato
in modo molto autocritico del proprio lavoro e dei propri errori (vedi Opere di
Stalin, Tomo I, la
Prefazione dell'autore), combattendo esagerazioni e
adulazioni.
Così, in una
lettera del 16 febbraio 1938 indizzata alle edizioni "Djestisdat"
(Edizioni del libro per bambini) accanto al Komsol, Stalin, interpellato in
proposito, si oppose alla pubblicazione di un libro dedicato alla sua persona.
Ecco il testo della lettera:
« Mi oppongo
energicamente alla pubblicazione del "Racconto sull'infanzia di
Stalin". Questo libro contiene innumerevoli affermazioni che non
corrispondono ai fatti, deformazioni, esagerazioni e lodi immeritate. Gli
autori finiscono per confondere i lettori, sono bugiardi (seppur, forse, in
buona fede) e adulatori. So che queste considerazioni risulteranno dolorose per
loro, ma un fatto resta un fatto. E non è questo il punto il più importante. Il
punto il più importante è che il libro tende ad instillare nella coscienza dei
bambini sovietici (e degli uomini in generale) il culto della personalità, il
culto del dirigente, il culto degli eroi che non sbagliano mai. Ciò è
pericoloso e nocivo. La teoria degli "eroi" e della "massa"
non è una teoria bolscevica, ma una teoria dei socialdemocratici. Gli eroi
danno risalto al popolo, lo trasformano da una massa in un popolo - affermano i
socialdemocratici. È il popolo a dare risalto agli eroi – rispondono i
bolscevichi ai socialdemocratici. Ogni libro di questo tipo aiuterà il lavoro
dei socialdemocratici, e danneggerà l'insieme del nostro lavoro bolscevico. »
(La lettera di Stalin, pubblicata nel 1953 nel "Voprosy istorij"
(Domande della storia) N°11, è citata e tradotta da noi sulla base di
J.W.Stalin, Werke, Erganzungsband 1929-1952, Berlino)
Stalin
disapprovava comportamenti e atteggiamenti di sottomissione nei confronti della
sua persona (così come nei confronti di ogni uomo) considerandoli cosa inutile,
retorica intellettuale e non comunista. « Lei parla della sua
"devozione" alla mia persona. Forse queste parole le sono sfuggite per
caso. Forse. Se non è così, allora le consiglio di sradicare il principio
stesso della "devozione" nei confronti delle persone, perché ciò non
ha nulla a che vedere con il pensiero bolscevico». (Stalin, Lettera al compagno
Schatunowski, 1930, tradotto da noi sulla base di Werke, Band 13, p. 17)
Anni dopo,
nel 1946, egli scriverà al colonnello dell’Armata Rossa professor dr. Rasin,
che aveva lodato con esaltazione l’operato di Stalin nel respingere gli
attacchi della Wermacht nazista all'Unione Sovietica: « Persino l’orecchio è
ferito per le lodi a Stalin, è semplicemente penoso leggerle. » (Stalin,
risposta, 23 Febbraio 1946, pubblicata nel "Neue Welt", quaderno 7,
aprile 1947, p.23-25, tradotto da noi sulla base di Werke, Band 15, p.58)
www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 11-02-10 - n. 306
Intervento di
Adriana Chiaia alla presentazione di:
Kurt Gossweiler, Contro il revisionismo, Zambon editore, 2009
alla Fiera “Più libri/Più liberi” di Roma
Un documento
storico, ricco di insegnamenti
Vorrei parlarvi
della genesi, della motivazione iniziale che ha ispirato questa pubblicazione.
E cioè dell’esigenza di trovarvi delle risposte a quegli interrogativi che
possono riassumersi nella domanda di “come è potuto accadere?”.
Mi spiego.
Appartengo alla generazione dei militanti dell’allora Partito comunista
italiano, maturata teoricamente, politicamente e nella pratica quotidiana nel
riflesso delle ripercussioni della cesura nel movimento comunista segnata dal
XX Congresso del PCUS ed in particolare dal rapporto “segreto” di Chruščëv
che, con la demolizione della figura e dell’opera di Stalin, sotto il pretesto
della lotta al culto della personalità, mise in discussione la teoria
marxista-leninista e la sua prassi nella costruzione del socialismo e con esse
i fondamenti dell’unità del movimento comunista internazionale, con devastanti
conseguenze nei partiti comunisti al potere nei paesi socialisti e nei partiti
comunisti dei paesi capitalisti (in particolare del PCI, di cui allora facevo
parte).
Dallo studio dei
documenti, in particolare le tesi contrapposte sulle principali questioni
teorici del PCUS da un lato e del PCC dall’altro, pubblicate nel 1964 dalla
Casa editrice Einaudi nel libro Coesistenza e rivoluzione, a cura di Paolo
Calzini e Enrica Collotti Pischel, nonché dai documenti del Partito del Lavoro
d’Albania, risultava chiaramente quali settori del movimento comunista
internazionale si opponevano al “nuovo corso” e quali vi si adeguavano o
addirittura nelle tesi chruščëviane trovavano conferma e incoraggiamento
alla loro linea revisionista (come affermato all’VIII Congresso del PCI).
L’interrogativo
– e certamente non solo mio – cui mi riferivo all’inizio del mio intervento era
(e da qui la ricerca di una risposta negli scritti di Gossweiler): come era
stato possibile che migliaia di militanti comunisti di provata adesione teorica
al marxismo-leninismo e di altrettanto provata pratica rivoluzionaria,
organizzati nei partiti comunisti, formati nelle file della IC, non si fossero
sollevati e uniti in un nuovo movimento rivoluzionario per impedire un simile
corso che avrebbe portato lentamente, ma inesorabilmente (con “passo di
colomba” intitola Gossweiler i suoi Diari) ai risultati catastrofici che oggi i
nostri nemici sbandierano e molti compagni lamentano (ovviamente con diverse
interpretazioni)?
Più che nei
Saggi, scritti in epoca posteriore con la scientificità e la visione
complessiva e ponderata dello storico, nei suoi Diari ho trovato la risposta.
Pur rendendosi
conto quasi dall’inizio, subito dopo la morte di Stalin (con il 1953 inizia la Cronaca) del ruolo
controrivoluzionario di Chruščëv e del gruppo dirigente revisionista,
tanto da avanzare perfino tesi complottistiche, Gossweiler, nell’esame degli
avvenimenti, nel commentare le notizie riportate dalle fonti di cui disponeva
(se ci sarà tempo, qui o in altra occasione, potremo commentare la loro
relativa ristrettezza, come ammesso dallo stesso Gossweiler) passa da momenti
di forte accusa, di invettiva e di sconforto, a momenti di illusione e
soverchia fiducia nel ruolo del gruppo degli oppositori interni alla nuova
direzione del PCUS (la parte sana del partito, Molotov e altri) e nutre la
speranza che questa opposizione possa prevalere, riaffermare la teoria e la
prassi derivante dai principi del marxismo-leninismo e far riprendere la
costruzione del socialismo iniziata da Lenin e portata avanti vittoriosamente
da Stalin.
All’adesione al
revisionismo dei Tito, dei Gomułka, degli Imre Nägy, che egli denuncia con
la pubblicazione e il commento di importanti documenti e interventi che vanno
tutti nella direzione dello smantellamento delle strutture economiche e
politiche del socialismo, egli contrappone le posizioni del Partito comunista
cinese e, tra gli oppositori iscrive Togliatti e Thorez. (E qui ci sarebbe da
aprire una parentesi, che non vi è il tempo di sviluppare, sull’errore di
prospettiva che genera il giudizio unilaterale su Togliatti da parte di
Gossweiler, che isola l’aspetto del prestigioso dirigente della IC e ignora il
suo ruolo come capo del “partito nuovo” e convinto sostenitore della via
italiana al socialismo, in conformità con le tesi revisioniste del XXII
Congresso del PCUS).
Gossweiler
gioisce della caduta di Chruščëv per poi rendersi conto della continuità
della strategia revisionista nella dirigenza del PCUS. Amare sono le sue
autocritiche, sincero il riconoscimento dei suoi “pii desideri”, fino al punto
da interrogarsi, nelle sue “Considerazioni conclusive” sulla validità della
pubblicazione dei suoi Diari. Noi affermiamo con convinzione la loro utilità ed
il loro valore di prezioso documento storico.
I Diari di
Gossweiler danno conto infatti del perché, a bloccare la (in)arrestabile
discesa sul piano inclinato del revisionismo, non si siano riunite nel
movimento comunista nel suo complesso (eccezion fatta, come già detto, per il
Partito comunista cinese) le condizioni per la ripresa della teoria marxista,
che si erano verificate, dopo il fallimento della II Internazionale e il
tradimento dei suoi capi, con il riaffermarsi della teoria autenticamente
marxista ad opera di Lenin e della teoria e della prassi rivoluzionarie nel
Partito bolscevico e nei partiti dalla Prima Internazionale comunista.
La risposta alla
domanda iniziale di “come sia potuto accadere” discende inoltre da un altro
importante insegnamento che si ricava dagli avvenimenti del periodo storico
trattato nell’opera di Gossweiler. Riguarda la fase della costruzione del
socialismo nelle Repubbliche popolari dell’Europa dell’Est.
La rivoluzione
non è un pranzo di gala, come avvertiva Mao Zedong, ma nemmeno la costruzione
del socialismo – il periodo di transizione dal capitalismo al comunismo – lo è.
È il periodo in
cui la nuova società deve liberarsi dalle scorie della vecchia, il periodo in
cui i nuovi germogli del comunismo, come li chiamava Lenin, si fanno
faticosamente strada tra la sterpaglia del passato che vorrebbe soffocarli. Se
la rivoluzione abolisce i vecchi rapporti economici e sociali, bisogna ancora
lottare non solo perché non si ristabiliscano, ma anche per affrancarsi dalla
loro ideologia, dal modo di pensare delle classi sconfitte, dalle abitudini,
dalle credenze religiose, dalle superstizioni, dai pregiudizi inveterati.
Secondo la
concezione dialettica dell’unità degli opposti, nel periodo di transizione si
ha l’unità del vecchio con il nuovo, la soluzione della contraddizione si ha
quando uno degli opposti prevale sull’altro. La costruzione del socialismo
avanza se il nuovo prevale sul vecchio, arretra se il vecchio prevale sul
nuovo.
Il cammino
impervio della nuova società socialista, non si svolge in un asettico
laboratorio in cui, scientificamente, si sperimenta, si controllano i
risultati, si correggono gli errori. Avviene invece nel fuoco della lotta di
classe in cui deve fare i conti, oltre che con i tentativi di sovversione e i
sabotaggi delle vecchie classi capitaliste spodestate, con l’aggressione
esterna del sistema capitalista mondiale che vede messa in gioco la propria
esistenza dal pericolo dell’“infezione”, dell’estendersi dell’esempio alle
popolazioni sfruttate ed oppresse di tutto il mondo.
La grande
vittoria sul nazi-fascismo, a conclusione della Seconda guerra mondiale, in
parte preponderante ascrivibile alla ferma e saggia guida del Partito comunista
(b) con alla testa Stalin, all’eroismo dell’Armata Rossa, all’unità intorno al
Partito dell’intero popolo sovietico, alla sua resistenza e al suo sacrificio,
non fece cessare l’aggressività del mondo imperialista contro l’URSS ed il
campo socialista. Alla guerra fredda si accompagnavano nuovi progetti di
distruzione nucleare contro l’URSS, pianificati dal governo degli Stati Uniti e
dal Pentagono.
Le dimensioni
raggiunte dal campo socialista che, con la vittoria della rivoluzione cinese e
la nascita delle democrazie popolari in Europa dell’Est, si estendeva alla
terza parte dell’umanità, non dissuasero i tentativi di aggressione, economica,
politica, ideologica che l’imperialismo metteva in campo, ma anzi li
intensificarono. Essi variavano dall’aperto incitamento alla sovversione
interna degli Stati socialisti mediante il sostegno in termini di denaro e armi
alle ex classi dominanti, a modalità e tattiche più subdole e camuffate: dalla
corruzione e dall’incitamento al boicottaggio degli appartenenti ai vecchi
apparati amministrativi e burocratici statali, all’istigazione alle ribellioni
“popolari” causate dallo scontento per determinati errori e determinate misure
dei governi socialisti e dei partiti comunisti al potere, all’incoraggiamento
all’opposizione degli intellettuali e degli artisti che temevano di veder
limitarsi la loro libertà di espressione.
Citiamo alcune
delle iniziative, messe in campo, negli anni Cinquanta, al fine di “liberare” i
paesi al di là della “cortina di ferro” e aprirsi quindi la strada per
attaccare l’Unione Sovietica.
Il 2 ottobre
1950 Le Monde scrive: “Un credito di 100 milioni di dollari è previsto nel
disegno di legge americano relativo all’aiuto militare ed economico all’estero,
allo scopo di permettere la costituzione di corpi speciali di rifugiati dei
paesi all’Est della cortina di ferro. Queste unità, precisavano le informazioni
di Washington, saranno integrate a delle divisioni americane e inserite
nell’esercito atlantico.”[i]
“Nel 1950 i
servizi della guerra psicologica dell’esercito americano, per decisione del
loro governo, lanciano il progetto Radio Free Europe. Da un dispaccio della
Reuter, del 25 ottobre 1950: “Il generale Lucius D. Clay, già comandante della
zona americana, ha annunciato che il servizio che è posto sotto la sua
direzione, sta costruendo delle potenti emittenti per sostenere la propaganda
diretta verso i paesi dietro la cortina di ferro. Il personale sarà reclutato
tra coloro che sono recentemente fuggiti dai paesi dell’Est europeo, ai quali
questa propaganda è destinata […].”[ii]
A partire dal
1950, gli Stati Uniti si impegnano in una politica detta di “liberazione delle
nazioni imprigionate”, della quale James Burnham, fino al 1940 braccio destro di
Trockij, si fa l’avvocato. È l’epoca in cui Burnham e quasi tutto
l’establishment americano attendono con una impaziente passione, la guerra,
meglio, la Terza
guerra mondiale… È in questo contesto globale che Burnham situa l’attività
americana in Ungheria e nell’Europa dell’Est.[iii]
Un avvenimento
inatteso e di enorme importanza era tuttavia intervenuto a mutare le condizioni
dello scontro tra il mondo imperialista e quello socialista. Dopo la morte di
Stalin, il PCUS era diretto dalla corrente revisionista capeggiata da
Chruščëv. In questa nuova situazione, e specialmente in seguito alla
svolta del XX Congresso del PCUS, la politica dei paesi imperialisti, ed in
prima fila degli Stati Uniti, pur restando aggressiva nei confronti del campo
socialista, adotta nuovi accorgimenti tattici.
Nel 1954 “il
Consiglio di sicurezza nazionale USA nelle sue sedute segrete approva l’idea
che non si possa poggiarsi su una ‘politica di liberazione’ frontale. Faremmo
meglio, viene affermato, se spingessimo i dirigenti locali dagli Stati
est-europei a staccarsi gradualmente dai loro padroni del Cremino” (Kurt Hagen
al 30° plenum, citato in Sonntag, n. 3/4, 1957).[iv]
D’altra parte i
partiti comunisti che avevano preso il potere nelle Repubbliche popolari
dell’Est europeo si erano formati a partire dai quadri comunisti, temprati
nelle galere fasciste e nella lotta clandestina ed educati ideologicamente in
base ai principi marxisti-leninisti. I Bierut, i Rákosi, rientrati nei loro
paesi, vi avevano guidato la lotta clandestina e organizzato i Fronti
antifascisti della Resistenza e avevano fondato i partiti comunisti ispirandosi
alla teoria e alla prassi marxiste-leniniste. Dopo la vittoria sul nazismo
avevano cominciato ad edificare il socialismo, sulla base dell’economia
centralizzata e pianificata e della collettivizzazione dell’agricoltura.
Tuttavia, le
circostanze e la situazione politica avevano portato alla fusione dei partiti
comunisti con i partiti socialisti o con l’ala sinistra della socialdemocrazia.
Questi partiti unificati includevano quindi, accanto ai quadri comunisti,
membri, anche sinceramente antifascisti, ma non altrettanto preparati e dotati
di coscienza di classe e spesso oscillanti davanti alle difficoltà. La loro compagine
era dunque ben lontana dalla ferrea unità e disciplina che stavano alla base
della funzione di guida del Partito bolscevico ed essi erano privi della sua
lunga esperienza di lotta rivoluzionaria, politica e ideologica condotta fino
alla vittoria della rivoluzione d’Ottobre, dell’esperienza di lotta politica ed
ideologica nel consolidamento della dittatura del proletariato e nelle diverse
fasi della costruzione del socialismo. Essi agivano in una situazione generale
profondamente cambiata e dirigevano un proletariato e in primo luogo una classe
operaia e una intellighenzia completamente differenti da quelli della Russia
del 1917 e degli anni successivi fino alla fine della Seconda guerra mondiale.
Lenin aveva
tratto dalla sua esperienza questi insegnamenti universali: “Se sono presenti
nelle proprie file dei riformisti, dei menscevichi, non si saprà far trionfare
la rivoluzione proletaria e non si saprà salvaguardarla. In Russia molte volte
si sono presentate situazioni difficili nelle quali il regime sovietico sarebbe
stato certamente rovesciato, se i menscevichi, i riformisti, i democratici
piccolo-borghesi fossero rimasti nel nostro Partito. In momenti simili non è
solo un’assoluta necessità escludere dal Partito i menscevichi, i riformisti, i
turatiani [Lenin si riferisce a Filippo Turati, socialista riformista italiano,
ndr], può anche essere utile escludere degli eccellenti comunisti, suscettibili
di esitare ed esitanti nel senso dell’unità con i riformisti, allontanarli da
tutti i posti importanti. Alla vigilia della rivoluzione e nei momenti della
lotta più accanita per la vittoria, le minime esitazioni all’interno del
Partito possono perdere tutto, strappare il potere dalle mani del
proletariato.”[v]
Tutti questi
elementi, esterni ed interni, stanno alla base dei tentativi di golpe
controrivoluzionari che si verificarono nel 1953 nella Repubblica popolare
tedesca, e nel 1956 in
Polonia e in Ungheria, e del modo in cui i partiti comunisti al potere seppero
affrontarli, contrastandoli decisamente (come nella Repubblica popolare
tedesca) o facendo concessioni che avrebbero cambiato profondamente la natura
socialista della società (come in Polonia e in Ungheria).
I movimenti
controrivoluzionari sono rappresentati nella pubblicistica borghese e revisionista,
e purtroppo anche nella quasi totalità dei manuali di storia in uso nelle
scuole, come “insurrezioni popolari” contro i “regimi totalitari”, represse nel
sangue dai rispettivi governi con l’appoggio dei carri armati sovietici. Nei
Diari di Gossweiler questi tentativi controrivoluzionari sono affrontati,
ricercandone le cause esterne, senza nascondere le responsabilità dei governi e
dei partiti comunisti di quei paesi e soprattutto di quella del PCUS che, come
già detto, era diretto, dopo la morte di Stalin, dalla corrente revisionista
capeggiata da Chruščëv. Altrettanto si è cercato di fare nelle “Note
storiche”, a cura della redazione.
Non era quindi
dai paesi socialisti dell’Europa orientale, non era dai partiti alla loro guida
che poteva sollevarsi una nuova ondata rivoluzionaria che arrestasse il corso
revisionista di quello che era stato il partito di Lenin e di Stalin e
impedisse quella che Gossweiler chiama la catastrofe finale.
[i] Citato in
Ludo Martens, L’URSS et la contre-révolution de velours, Editions EPO,
Bruxelles, 1991, pp.100, 101.
[ii] Ibidem, p.101.
[iii] Ibidem, p.101.
[iv] Gossweiler, Diari, Principio di gennaio, p. 304.
[v] Lenin, “I discorsi ipocriti sulla libertà”, citato in: Stalin, Le questioni
del leninismo; Principi del leninismo. Edizioni Tirana, 1970, p.111.
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Il superamentodell’antistalinismo nota di G.F.
17.5.2014
Un
importante presupposto per la ricostituzione del movimento comunista come
movimento unitario marxista-leninista
Riporto di seguito per i compagni alcuni brani fignificativi del libro
di Kurt Gossweiler, Contro il revisionismo, Zambon Editore,2009, pagg
101-115 su cui vi invito a riflettere
In primis due perle rare: vergognose smentite di Chruscev e Gorbacev
Novembre 40°
anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, discorso di Chruscev
Da un discorso di Kruscev
del 6 Novembre 1957: il partito "ha combattuto e continuerà a
combattere contro tutti coloro che diffamano Stalin e che sotto la
bandiera della critica al culto della personalità rappresentano in modo
distorto l'intero periodo storico dell'attività del nostro partito,
durante il quale J.V.Stalin è stato al vertice del Comitato centrale.
Marxista e leninista fedele e rivoluzionario irremovibile, a Stalin spetta
un posto onorevole nella storia. Il nostro partito e il popolo sovietico
celebreranno Stalin e gli riconosceranno gli onori che merita"
E ancora:
“Alcuni 'critici'
definiscono i funzionari, che sono rimasti fedeli al leninismo, che senza
risparmiare le proprie forze hanno combattuto e combattono per gli
interessi del popolo e per la causa del socialismo, come stalinisti,
attribuendo al termine una valenza negativa. In questo modo intendono
umiliare e compromettere i funzionari dei partiti comunisti e operai
devoti alla causa del marxismo-leninismo e ai principi
dell'internazionalismo proletario. Critici del genere sono dei
calunniatori patentati o uomini che sono scivolati verso le marce
posizioni del revisionismo e che con il loro vociferare sullo stalinismo
tentano di camuffare il distacco dai principi marxisti-leninisti”.
(Kurt
Gossweiller Contro il revisionismo, Zambon Editore pag.370-1)
Estratto di una
intervista rilasciata da Michail Gorbacev il 4 febbraio 1986 al giornale
del Pcf L'Humanieté:
"Domanda: in
diverse cerchie occidentali ci si chiede spesso se l'URSSabbia
accantonato i retaggi dello stalinismo. Gorbačëv , a una domanda
sullo "stalinismo" in Unione Sovietica nel quadro di
un’intervista del 4 febbraio 1986 all’“Humanitè” Risposta: “Lo stalinismo è un
concetto inventato dagli avversari del comunismoe che viene
comprensivamente abusato per infangare insieme l’Unione Sovietica e
il socialismo”.
(Nessuno quindi può dire che Gorbačëv non sapesse che cosa stesse
facendo con la sua campagna contro Stalin!).
(Kurt Gossweiller Contro il revisionismo, Zambon Editore
pag.115)
========alcuneosservazioni con
riguardo ai processi di Mosca.==============
Cominciamo da
alcuni estratti dal libro di J.A.Davies,uscito nel 1943 aZurigo:
"Ambasciatore degli Usa a Mosca. Rapporti autentici econfidenziali
sull’Unione Sovietica fino all’ottobre 1941".(*)
Davies ha
seguito, come ogni diplomatico che lo avesse desiderato, i processi di Mosca
quale testimone oculare (di professione egliera giurista).
Il 17 marzo 1938 Davies ha trasmesso in un
dispaccio aWashington le proprie impressioni sul processo contro Bucharin
ed altri. Iltelegramma è del seguente tenore (estratto): "Malgrado le
mieprevenzioni..., dopo aver osservato giorno per giorno i testimoni ed il
loroatteggiamento, in forza dell’evidenza che automaticamente me ne
derivava, misono formato la convinzione, con riguardo agli imputati
politici, che un numerosufficiente dei reati contro le leggi sovietiche
elencati negli atti di accusarisultasse provato e sottratto ad ogni dubbio
ragionevole, sì da giustificarela pronuncia di colpevolezza per alto
tradimento e la condanna alle sanzionipreviste dalla legge penale sovietica.
L’opinione di tutti i diplomatici chehanno presenziato con maggiore
regolarità alle udienze è stata in generale cheil processo abbia posto
allo scoperto il dato di un’accanita opposizione politicae di un complotto
estremamente serio, e tutto ciò a permesso ai diplomatici diintendere
molti dei fatti, sino ad allora incomprensibili, svoltisi in
UnioneSovietica nei passati mesi"[3].
Davies già nel
1937 aveva seguito il processo contro Radek ealtri, e ne aveva fatto rapporto,
il 17 febbraio 1937, al segretario di Statoamericano. In questa relazione egli
tra l’altro scrisse:
"Una considerazione
oggettiva... (tuttavia) mi hacostretto, per quanto riluttante, a concludere che
lo Stato avevaeffettivamente provato la propria accusa (almeno per quanto
riguardaval’esistenza tra i dirigenti politici di un esteso complotto e di
intrighiocculti contro il governo sovietico ogni possibile dubbio è stato
eliminato,come pure circa il fatto che i reati indicati in base alle leggi
vigentinell’atto d’accusa erano stati commessi e pertanto risultavano
punibili). Hoparlato con molti, anzi con quasi tutti, i membri del corpo
diplomatico localee, salvo forse una sola eccezione, tutti sono stati del
parere che le udienzeavevano dimostrato inconfutabilmente l’esistenza di un
piano politico segreto edi un complotto mirante all’eliminazione del governo"[4].
L’11 marzo 1937
Davies ebbe ad iscrivere, come nota didiario, il seguente episodio emblematico;
"Un altro diplomatico ieri haformulato in mia presenza una considerazione
assai illuminante. Parlavamo delprocesso ed egli si è espresso nel senso di non
nutrire alcun dubbio circa lacolpevolezza degli accusati: e che tutti noi che presenziavamo
alle udienze nefossimo convinti… che il mondo esterno invece sembrasse
ritenere, in base airesoconti del processo, che questo fosse una semplice messa
in scena (egli haparlato di "operazione di facciata")…, che egli da
un lato sapeva chetutto ciò non fosse vero, ma che dall’altro era forse un bene
che il mondoesterno la pensasse in quel modo"[5].
Davies riferisce
anche dei numerosi arresti e di averparlato delle "purghe", il 4
luglio 1937, con il Ministro degliesteri Litvinov. Egli scrive circa le
considerazioni di quest’ultimo:"Litvinov... ha spiegato che queste purghe
erano necessarie per conseguirela certezza di aver eliminato ogni possibile
tradimento connessoall’eventualità di una collaborazione [dei nemici interni: n.d.r.] conBerlino o Tōkyō.
Un giorno il mondo avrebbe compreso che queste azioni eranostate necessarie per
proteggere il governo dall’incombente tradimento. Anzi,l’Unione Sovietica in
verità stava rendendo un servizio a tutto il mondo, datoche, proteggendo se
stessa dalla minaccia del dominio mondiale dei nazisti e diHitler, essa si
sarebbe posta come un potente baluardo contro la minaccianazionalsocialista. Un
giorno il mondo avrebbe capito quale uomo di imponentegrandezza fosse Stalin"[6].
Molto istruttiva
è anche la descrizione che Davies fece delsuo colloquio con Stalin in una
lettera del 9 giugno 1938 alla figlia. Egli erarestato molto colpito dalla
personalità di Stalin, e infatti scrisse:" seti riuscirà di raffigurarti
una personalità che in tutto è l’esatto contrariodi ciò che il nemico più
accanito di Stalin sarebbe capace di inventarsi,allora avrai un’immagine di
quest’uomo.
………………
Nel 1941, dopo l’aggressione dei fascisti
all’UnioneSovietica, Davies riassume le proprie osservazioni
nell’affermazione che iprocessi per alto tradimento " l’avevano fatta
finita con la quintacolonna di Hitler in Russia"[8].
Già nel 1936 si
era celebrato il processo contro Zinov’ev edaltri. Aveva avuto occasione di
seguirlo da vicino il noto avvocato dellaCorona britannica D.N. Pritt. Delle
proprie impressioni egli riferì nel suo librodi ricordi "From Right to
Left", pubblicato a Londra nel 1965:
"Ho avuto
l’impressione... che in generale il processofosse tenuto in modo corretto e che
gli accusati fossero colpevoli...L’impressione di tutti i giornalisti, con i
quali ho potuto parlare, è stataanch’essa che il processo fosse corretto e gli
accusati colpevoli; e certamenteogni osservatore straniero, e ce ne erano molti
e in maggioranza diplomatici,pensavano la stessa cosa… Da uno di essi ho
sentito dire: È chiaro che sono colpevoli,ma noi, per ragioni di propaganda, lo
dobbiamo negare”[9].
Da tutto ciò
scaturisce evidente che, secondo il competentegiudizio di esperti di diritto
borghesi del calibro di Davies e Pritt, gliimputati dei processi di Mosca degli
anni 1936, 1937 e 1938 erano staticondannati a giusto titolo, dal momento che
risultavano provati i reati di cuiessi erano stati accusati.
…………….. Bertolt Brecht…………………….
A questo
proposito vogliamo ancora ricordare le riflessioniche all’epoca espresse su
quei tormentosi processi Bertolt Brecht. Riguardoalle idee degli accusati egli
scrisse: “Le idee sbagliate li hanno ridottiall’estremo isolamento e indotti al
reato comune. Tutta la marmagliadell’interno e dell’estero, tutti i parassiti,
i delinquenti professionali etutte le spie si sono annidati presso di loro. Con
tutta questa canaglia essiavevano in comune gli obbiettivi. Sono convinto che
questa è la verità e sonoconvinto che questa verità dovrà per forza risuonare
plausibile, persino inEuropa occidentale, a lettori non amichevoli
……………………………………….
Se assumiamo come ipotesi che Davies e
Pritt (e Brecht)avessero ragione nei loro giudizi sui processi di
Mosca, allora scaturisce dinecessità la domanda: coloro che, come
Chruščёv e Gorbačëv , hanno in epochesuccessive dichiarato
che i condannati dei processi erano state delle vittimeinnocenti, non
l’hanno per caso fatto in quanto simpatizzavano con essi oaddirittura
erano stati [nel caso di Chruščёv: n.d.r.] segreticomplici loro e perché intendevano portare
a compimento la loro opera inprecedenza fallita?
E se poi,
attraverso un esame più approfondito della loro(di Chruščёv,
Gorbačëv e simili) attività politica, arrivassimo a costatare chequanto
avevano confessato gli imputati dei processi di Mosca in relazione aipropri
progetti e obiettivi e ai metodi impiegati per raggiungerli fosse daintendersi
come il copione per la loro (di Chruščёv e soprattutto di
Gorbačëv )azione, ciò porterebbe di conseguenza ad una duplice
conclusione: primo: che iprocessi di Mosca possono fornire la chiave per la
chiarificazione e laspiegazione di ciò che fin dal XX Congresso del PCUS ha
spinto l’UnioneSovietica e gli altri paesi socialisti, nonché il movimento
comunista, adeviare dalla retta via; secondo: che l’azione dei Chruščёv
e dei Gorbačëv e ilrisultato di tale azione portano a concludere che con i
processi di Mosca nonsi è trattato per nulla della messa in scena di processi
spettacolo, ma che permezzo di essi sono stati smascherati e sventati complotti
dello stesso generedi quelli che in definitiva Gorbačëv ha potuto condurre
all’esito sin daquell’epoca pianificato: con la differenza che oramai nessun
processo di Moscalo ha più fermato.
Se aver dipinto Stalin come un despota
sanguinario ed il“suo” regime alla stregua di un inferno sulla terra è
servito a paralizzare laresistenza nei confronti della controrivoluzione
di Chruščёv e di Gorbačëv , larappresentazione di uno Stalin falsificatore dei principî di
Lenin ha perobiettivi il disarmo teorico ed ideologico del
movimento comunista e di tutti isocialisti!
da Kurt
Gossweiler, Contro il revisionismo, Zambon Editore, 2009, pagg 101-114
Il
superamento dell’antistalinismo
Un importante
presupposto per la ricostituzione del movimento comunista come movimento
unitario marxista-leninista[1]
Per i marxisti
non costituisce certo una sorpresa che la fine dell’Unione Sovietica e degli
Stati socialisti europei abbia provocato il ritorno della guerra in Europa e
l’inizio di un’offensiva generalizzata del capitale contro la classe operaia e
tutto il mondo del lavoro.
Una simile
brutale offensiva del capitale può essere battuta solo con una comune e
unitaria difesa da parte di tutti coloro che ne vengono colpiti. Non fosse
altro che per questo, apparirebbe evidente la necessità del ripristino di un
movimento comunista unitario, per non parlare poi del compito di por fine al
dominio dell’imperialismo.
Sfortunatamente però il movimento comunista è ben lontano dall’essere un
movimento unitario.
In proposito,
così almeno mi pare, l’ostacolo principale che si erge contro la realizzazione
dell’unità dei comunisti non sta tanto nelle divergenze d’opinione sui compiti
del presente quanto piuttosto nel contrasto di idee relativo alla variazione
della natura e dalla politica dei paesi socialisti, e in primo luogo
dell’Unione Sovietica, nel passato.
Secondo alcuni,
l’Unione Sovietica e gli altri Stati socialisti, esclusa l’Albania, a partire
dal XX Congresso avrebbero perduto completamente la qualità di paesi socialisti
e si sarebbero trasformati in paesi a capitalismo di stato: costoro considerano
chiunque non condivida questa opinione come un revisionista, con cui non
sarebbe possibile avere nulla in comune.
Altri invece
ravvisano in Stalin, secondo quanto è stato ad essi propinato fin dal XX
Congresso e con crescente ossessività dal tempo di Gorbačëv , il corruttore
del socialismo e pertanto dichiarano di non poter avere nulla a che fare con
gli "stalinisti".
Quest’ultima
posizione è quella su cui si attesta la maggior parte delle organizzazioni che
dopo la disgregazione dei partiti comunisti si sono riformate dalle loro
rovine, e per essere precisi, non solo quelle che ora si professano apertamente
come partiti socialdemocratici, ma persino il maggior numero di quelle che si
qualificano come partiti comunisti, e financo la PDS (tedesca), che naviga tra le due posizioni
che abbiamo individuato.
L’antistalinismo
è nei fatti oggi il principale ostacolo all’unificazione dei comunisti, così
come ieri è stato il fattore principale della distruzione dei partiti comunisti
e degli Stati socialisti.
Per convalidare un’affermazione del genere, mi limito a citare due testimoni di
primo piano, che stanno certo al disopra di ogni sospetto di
"stalinismo".
Il primo è l’ex
ministro degli esteri americano John Foster Dulles, il secondo non altri che
Gorbačëv .
Dulles, dopo il
XX Congresso del PCUS, così si espresse con animo speranzoso: "La campagna
contro Stalin ed il relativo programma di liberalizzazione hanno provocato una
reazione a catena che a lungo termine non potrà venir arrestata"[2].
Gorbačëv ha
colto nel segno quando, a una domanda sullo "stalinismo" in Unione
Sovietica nel quadro di un’intervista del 4 febbraio 1986 all’“Humanitè”
(quotidiano del PC francese), ha così caratterizzato l’antistalinismo, e
involontariamente anche il nucleo di fondo della propria opera: “Stalinismo è
un concetto inventato dai nemici del comunismo e che sinteticamente viene usato
per infangare insieme sia l’Unione Sovietica che il socialismo”. (Nessuno
quindi può dire che Gorbačëv non sapesse che cosa stesse facendo con la
sua campagna contro Stalin!).
L’elemento di
gran lunga più efficace nell’antistalinismo è costituito dalla rappresentazione
di Stalin come un despota assetato di potere, un sanguinario assassino di
milioni di innocenti.
Su questo molto ci sarebbe da dire. Qui, in breve, soltanto le seguenti
osservazioni:
Primo. Per
quanto se ne possa restare profondamente rammaricati, fatto è che mai nella
storia una classe oppressa si è liberata dal giogo dell’oppressione senza che
la sua lotta rivoluzionaria di liberazione e il rigetto dei tentativi
controrivoluzionari di restaurazione siano costati la vita anche di molti
innocenti.
Secondo. In ogni
epoca la controrivoluzione si è servita di questo dato di fatto per marchiare
davanti agli occhi delle masse i rivoluzionari come criminali abominevoli,
omicidi e assetati di sangue: ad esempio Thomas Münzer, Cromwell, Robespierre,
Lenin, Liebknecht, la
Luxemburg, ecc.
Terzo. Solo un
cieco pregiudizio riesce a far annebbiare o negare il nesso causale che esiste
tra la presa del potere, in Germania, da parte del fascismo tedesco con il
riarmo e l’incoraggiamento alla sua espansione verso est benevolmente favoriti
dalla potenze occidentali vincitrici e, in URSS, i processi di Mosca e le
misure repressive contro gli stranieri, compresi gli immigrati stranieri.
Bertolt Brecht ha lumeggiato molto bene questo nesso quando ha scritto:"I
processi sono un atto di preparazione alla guerra." Detto in forma ancora
più precisa: essi furono una risposta alla preparazione imperialfascista
dell’aggressione contro l’Unione Sovietica.
Senza la
certezza che prima o poi sarebbe stata scatenata contro l’Unione Sovietica
l’aggressione fascista, non ci sarebbero stati i processi di Mosca né le
"epurazioni" draconiane, che furono posti in essere al fine di
evitare che si formasse nel paese una quinta colonna.
Quarto. Soltanto
persone politicamente cieche o molto ingenue hanno potuto non accorgersi che i
Chruščёv ed i Gorbačëv con le loro accuse contro Stalin non sono
stati guidati da sentimenti di ripulsa nei confronti di ingiustizie e azioni
disumane. Se invece così fosse stato, essi avrebbero posto sotto accusa
l’imperialismo e i suoi esponenti, almeno con quell’accanimento che hanno
dimostrato nei confronti di Stalin. Ma è accaduto il contrario: il tratto più
rilevante della loro politica è stato quello di guadagnarsi la fiducia
dell’imperialismo, nonostante i suoi crimini sanguinosi contro l’umanità!
Quinto. In
stridente contrasto con tale atteggiamento sta il fatto che perfino il
rappresentante diplomatico della principale potenza imperialistica,
l’ambasciatore USA Joseph A. Davies, dà di Stalin una valutazione lusinghiera,
ma che questa ed altre espressioni positive di uguale segno sull’URSS, dovute a
testimonianze dell’epoca, siano state cancellate nell’Unione Sovietica stessa a
partire dal XX Congresso.
E dunque, prima
di tutto, alcune osservazioni con riguardo ai processi di Mosca.
Cominciamo da
alcuni estratti dal libro di J.A.Davies, uscito nel 1943 a Zurigo:
"Ambasciatore degli Usa a Mosca. Rapporti autentici e confidenziali
sull’Unione Sovietica fino all’ottobre 1941".
Davies ha
seguito, come ogni diplomatico che lo avesse desiderato, i processi di Mosca
quale testimone oculare (di professione egli era giurista).
Il 17 marzo 1938
Davies ha trasmesso in un dispaccio a Washington le proprie impressioni sul
processo contro Bucharin ed altri. Il telegramma è del seguente tenore
(estratto): "Malgrado le mie prevenzioni..., dopo aver osservato giorno
per giorno i testimoni ed il loro atteggiamento, in forza dell’evidenza che
automaticamente me ne derivava, mi sono formato la convinzione, con riguardo
agli imputati politici, che un numero sufficiente dei reati contro le leggi
sovietiche elencati negli atti di accusa risultasse provato e sottratto ad ogni
dubbio ragionevole, sì da giustificare la pronuncia di colpevolezza per alto
tradimento e la condanna alle sanzioni previste dalla legge penale sovietica.
L’opinione di tutti i diplomatici che hanno presenziato con maggiore regolarità
alle udienze è stata in generale che il processo abbia posto allo scoperto il
dato di un’accanita opposizione politica e di un complotto estremamente serio,
e tutto ciò a permesso ai diplomatici di intendere molti dei fatti, sino ad
allora incomprensibili, svoltisi in Unione Sovietica nei passati mesi"[3].
Davies già nel
1937 aveva seguito il processo contro Radek e altri, e ne aveva fatto rapporto,
il 17 febbraio 1937, al segretario di Stato americano. In questa relazione egli
tra l’altro scrisse:
"Una
considerazione oggettiva... (tuttavia) mi ha costretto, per quanto riluttante,
a concludere che lo Stato aveva effettivamente provato la propria accusa
(almeno per quanto riguardava l’esistenza tra i dirigenti politici di un esteso
complotto e di intrighi occulti contro il governo sovietico ogni possibile
dubbio è stato eliminato, come pure circa il fatto che i reati indicati in base
alle leggi vigenti nell’atto d’accusa erano stati commessi e pertanto
risultavano punibili). Ho parlato con molti, anzi con quasi tutti, i membri del
corpo diplomatico locale e, salvo forse una sola eccezione, tutti sono stati
del parere che le udienze avevano dimostrato inconfutabilmente l’esistenza di
un piano politico segreto e di un complotto mirante all’eliminazione del
governo"[4].
L’11 marzo 1937
Davies ebbe ad iscrivere, come nota di diario, il seguente episodio
emblematico; "Un altro diplomatico ieri ha formulato in mia presenza una
considerazione assai illuminante. Parlavamo del processo ed egli si è espresso
nel senso di non nutrire alcun dubbio circa la colpevolezza degli accusati: e
che tutti noi che presenziavamo alle udienze ne fossimo convinti… che il mondo
esterno invece sembrasse ritenere, in base ai resoconti del processo, che
questo fosse una semplice messa in scena (egli ha parlato di "operazione
di facciata")…, che egli da un lato sapeva che tutto ciò non fosse vero,
ma che dall’altro era forse un bene che il mondo esterno la pensasse in quel
modo"[5].
Davies riferisce
anche dei numerosi arresti e di aver parlato delle "purghe", il 4
luglio 1937, con il Ministro degli esteri Litvinov. Egli scrive circa le
considerazioni di quest’ultimo: "Litvinov... ha spiegato che queste purghe
erano necessarie per conseguire la certezza di aver eliminato ogni possibile
tradimento connesso all’eventualità di una collaborazione [dei nemici interni:
n.d.r.] con Berlino o Tōkyō. Un giorno il mondo avrebbe compreso che
queste azioni erano state necessarie per proteggere il governo dall’incombente
tradimento. Anzi, l’Unione Sovietica in verità stava rendendo un servizio a
tutto il mondo, dato che, proteggendo se stessa dalla minaccia del dominio
mondiale dei nazisti e di Hitler, essa si sarebbe posta come un potente
baluardo contro la minaccia nazionalsocialista. Un giorno il mondo avrebbe
capito quale uomo di imponente grandezza fosse Stalin"[6].
Molto istruttiva
è anche la descrizione che Davies fece del suo colloquio con Stalin in una
lettera del 9 giugno 1938 alla figlia. Egli era restato molto colpito dalla
personalità di Stalin, e infatti scrisse:" se ti riuscirà di raffigurarti
una personalità che in tutto è l’esatto contrario di ciò che il nemico più
accanito di Stalin sarebbe capace di inventarsi, allora avrai un’immagine di
quest’uomo.
Le condizioni,
che io so qui prevalenti, e questa personalità sono divaricate al punto da
formare due poli opposti. La spiegazione naturalmente sta nel fatto che gli
uomini sono pronti a fare per la loro religione o per una ‘causa’ ciò che al di
fuori di essa non farebbero mai"[7].
Nel 1941, dopo
l’aggressione dei fascisti all’Unione Sovietica, Davies riassume le proprie
osservazioni nell’affermazione che i processi per alto tradimento "
l’avevano fatta finita con la quinta colonna di Hitler in Russia"[8].
Già nel 1936 si
era celebrato il processo contro Zinov’ev ed altri. Aveva avuto occasione di
seguirlo da vicino il noto avvocato della Corona britannica D.N. Pritt. Delle
proprie impressioni egli riferì nel suo libro di ricordi "From Right to
Left", pubblicato a Londra nel 1965:
"Ho avuto
l’impressione... che in generale il processo fosse tenuto in modo corretto e
che gli accusati fossero colpevoli... L’impressione di tutti i giornalisti, con
i quali ho potuto parlare, è stata anch’essa che il processo fosse corretto e
gli accusati colpevoli; e certamente ogni osservatore straniero, e ce ne erano
molti e in maggioranza diplomatici, pensavano la stessa cosa… Da uno di essi ho
sentito dire: È chiaro che sono colpevoli, ma noi, per ragioni di propaganda,
lo dobbiamo negare”[9].
Da tutto ciò
scaturisce evidente che, secondo il competente giudizio di esperti di diritto
borghesi del calibro di Davies e Pritt, gli imputati dei processi di Mosca
degli anni 1936, 1937 e 1938 erano stati condannati a giusto titolo, dal momento
che risultavano provati i reati di cui essi erano stati accusati.
A questo
proposito vogliamo ancora ricordare le riflessioni che all’epoca espresse su
quei tormentosi processi Bertolt Brecht. Riguardo alle idee degli accusati egli
scrisse: “Le idee sbagliate li hanno ridotti all’estremo isolamento e indotti
al reato comune. Tutta la marmaglia dell’interno e dell’estero, tutti i
parassiti, i delinquenti professionali e tutte le spie si sono annidati presso
di loro. Con tutta questa canaglia essi avevano in comune gli obbiettivi. Sono
convinto che questa è la verità e sono convinto che questa verità dovrà per
forza risuonare plausibile, persino in Europa occidentale, a lettori non
amichevoli… Il politico, che può giungere al potere solo attraverso la sconfitta,
parteggia per la sconfitta. Colui che vuol essere ‘il salvatore’, provoca la
situazione nella quale egli possa riuscire a salvare: dunque, una situazione
negativa… Inizialmente Trotckij aveva considerato la caduta dello Stato degli
operai in seguito ad una guerra come un pericolo, ma poi la guerra sempre più
si era fatta per lui il presupposto della propria azione pratica. Se vi sarà la
guerra, la affrettata costruzione [del socialismo: n.d.r.] crollerà, l’apparato
si isolerà dalle masse, verso l’esterno si dovranno cedere l’Ucraina, la Siberia orientale e così
via, all’interno si dovranno fare concessioni, tornare a forme capitalistiche e
si dovranno rafforzare o lasciar rafforzare i kulaki: ma tutto ciò sarà ad un
tempo il presupposto di una nuova azione, del ritorno di Trotckij.
I centri
antistalinisti smascherati non hanno la forza morale di appellarsi al
proletariato, più ancora che per la vigliaccheria di questa gente, perché essa
non possiede alcuna base organizzativa tra le masse, non ha nulla da offrire e
non fornisce prospettive per le forze produttive del paese. Di questa gente si
può altrettanto bene credere che confessi troppe cose o invece troppo
poche”[10].
Se assumiamo
come ipotesi che Davies e Pritt (e Brecht) avessero ragione nei loro giudizi
sui processi di Mosca, allora scaturisce di necessità la domanda: coloro che,
come Chruščёv e Gorbačëv , hanno in epoche successive
dichiarato che i condannati dei processi erano state delle vittime innocenti,
non l’hanno per caso fatto in quanto simpatizzavano con essi o addirittura
erano stati [nel caso di Chruščёv: n.d.r.] segreti complici loro e
perché intendevano portare a compimento la loro opera in precedenza fallita?
E se poi,
attraverso un esame più approfondito della loro (di Chruščёv, Gorbačëv
e simili) attività politica, arrivassimo a costatare che quanto avevano
confessato gli imputati dei processi di Mosca in relazione ai propri progetti e
obiettivi e ai metodi impiegati per raggiungerli fosse da intendersi come il
copione per la loro (di Chruščёv e soprattutto di Gorbačëv )
azione, ciò porterebbe di conseguenza ad una duplice conclusione: primo: che i
processi di Mosca possono fornire la chiave per la chiarificazione e la
spiegazione di ciò che fin dal XX Congresso del PCUS ha spinto l’Unione
Sovietica e gli altri paesi socialisti, nonché il movimento comunista, a
deviare dalla retta via; secondo: che l’azione dei Chruščёv e dei
Gorbačëv e il risultato di tale azione portano a concludere che con i
processi di Mosca non si è trattato per nulla della messa in scena di processi
spettacolo, ma che per mezzo di essi sono stati smascherati e sventati
complotti dello stesso genere di quelli che in definitiva Gorbačëv ha
potuto condurre all’esito sin da quell’epoca pianificato: con la differenza che
oramai nessun processo di Mosca lo ha più fermato.
Se aver dipinto
Stalin come un despota sanguinario ed il “suo” regime alla stregua di un
inferno sulla terra è servito a paralizzare la resistenza nei confronti della
controrivoluzione di Chruščёv e di Gorbačëv , la
rappresentazione di uno Stalin falsificatore dei principî di Lenin ha per
obiettivi il disarmo teorico ed ideologico del movimento comunista e di tutti i
socialisti. La maggior parte delle munizioni di questo tipo proviene dall’arsenale
del trotzkismo. Per sostenere quest’affermazione porterò solo alcuni esempi:
1.La questione
della vittoria del socialismo in un solo paese
Il crollo dei
paesi socialisti europei e soprattutto dell’Unione Sovietica viene sbandierato
come la “prova” della giustezza della tesi di Trotckij sull’impossibilità della
costruzione del socialismo in un solo paese. In proposito, però, di solito si
tace che è stato proprio Lenin il primo a formulare, nel 1915, la tesi della
possibilità del socialismo in un solo paese. Come è noto, in un articolo
intitolato “Gli Stati uniti d’Europa[11], Lenin asserì: “L’ineguaglianza dello
sviluppo economico e politico è una legge assoluta del capitalismo. Da ciò
consegue che la vittoria del socialismo è possibile inizialmente in pochi paesi
o addirittura in un singolo paese”. Trotckij, già da anni uno degli antagonisti
più accaniti di Lenin, immediatamente lo contraddisse, sostenendo che era
illusorio credere “che, ad esempio, una Russia rivoluzionaria potesse
affermarsi di fronte ad un’Europa conservatrice”[12].
Stalin, che
secondo quanto affermano gli odierni Trotzkisti sarebbe stato l’inventore della
tesi della possibilità di costruire il socialismo in un solo paese, in realtà
ha difeso quella tesi di Lenin contro Trotckij: “Che cosa significa la
possibilità di una vittoria del socialismo in un solo paese? Significa la
possibilità di superare le contraddizioni tra proletariato e contadini sulla
base delle forze interne del nostro paese, la possibilità che il proletariato
prenda il potere e si serva di questo potere per conseguire nel nostro paese la
compiuta società socialista, appoggiandosi sulla simpatia e sul sostegno dei
proletari degli altri paesi, ma senza una precedente vittoria della rivoluzione
proletaria in altri paesi.
Che cosa
significa l’impossibilità della piena e definitiva vittoria del socialismo in
un solo paese senza la vittoria della rivoluzione in altri paesi? Significa
l’impossibilità di una piena garanzia contro l’intervento e di conseguenza
anche contro la restaurazione dell’ordine borghese, qualora la rivoluzione non
abbia vinto in almeno una serie di paesi”[13].
Ma Stalin non ha
solo difeso la tesi di Lenin: con la costruzione del socialismo e
l’affermazione del potere sovietico di fronte agli aggressori fascisti, sotto
la sua guida, il PCUS ha dato la prova della giustezza della tesi di Lenin.
Trotckij, al
contrario, tutte le volte che ha profetizzato il crollo del potere sovietico, è
stato contraddetto dalla storia, e ciò si è verificato anche a più riprese in
uno stesso anno. Una delle sue ultime profezie di questo tenore, resa pubblica
il 23 giugno 1939, suonava così: “Il regime politico non sopravviverà ad una
guerra”[14].
Con tutta
evidenza, è il desiderio che ha generato questa profezia.
Ciò traspariva
così chiaramente da tutte le esternazioni di Trotckij di quegli anni, da
indurre lo scrittore borghese tedesco Lion Feuchtwanger a trarre questa
conclusione: “Ma in che cosa dunque è consistito l’obiettivo principale di
Trotckij durante tutti gli anni dell’esilio e quale può essere ancora oggi?
Ritornare nel paese per ritornare al potere, costi quel che costi.” Perfino al
prezzo della collaborazione con i fascisti: “Se Alcibiade è passato ai
persiani, perché Trotckij non potrebbe passare ai fascisti?”[15]. Anche
Feuchtwannger è stato testimone diretto di uno dei processi di Mosca, e
precisamente del secondo, quello contro Radek, Pjatakov e altri, nel gennaio
1937.
2. Stalin e la NEP
Uno dei
rimproveri di Gorbačëv a Stalin è stato che nei suoi ultimi lavori Lenin
avrebbe, attraverso l’elaborazione della “Nuova Politica Economica”, indicato
una diversa via per la costruzione della nuova società socialista, che invece
Stalin avrebbe abbandonato. Questo rimprovero viene utilizzato dagli
antistalinisti di ogni risma, i quali affermano che Stalin avrebbe sostituito
la concezione leniniana della NEP con un “corso monopolistico di Stato”,
portando in tal modo alla rovina il socialismo. Per Lenin il nucleo della Nuova
Politica Economica era rappresentato dal rafforzamento dell’unità politica
della classe operaia e del suo Stato con l’ampia classe dei contadini per la
via dell’unità economica con l’economia contadina. “Se battiamo il capitalismo
e instauriamo l’unità con l’economia contadina, allora saremo una forza
assolutamente invincibile”; asserì Lenin nel 1922 all’XI Congresso del
PCR(R)[16]. Stalin concepiva la
NEP esattamente nella stessa maniera e la portò avanti dopo
la morte di Lenin: “La NEP
è la politica della dittatura del proletariato, la quale mira al superamento
degli elementi capitalistici e alla costruzione dell’economia socialista
mediante l’utilizzazione del mercato, attraverso il mercato, e non attraverso
uno scambio diretto dei prodotti senza mercato, escludendo il mercato. Possono
i paesi capitalistici, almeno i più sviluppati di essi, fare a meno della NEP
nel passaggio dal capitalismo al socialismo? Penso che non lo possano. In
maggior o minor grado la
Nuova Politica Economica con i suoi rapporti di mercato è
assolutamente indispensabile ad ogni paese capitalistico nel periodo della
dittatura del proletariato.
Da noi ci sono
compagni che contestano questa tesi. Che significa tuttavia contestare questa
tesi?
Significa, per
prima cosa: assumere che noi, immediatamente dopo la presa del potere da parte
del proletariato, disporremmo già di apparati di distribuzione e
approvvigionamento bell’e pronti al cento per cento per realizzare lo scambio
tra città e campagna, tra industria e piccola produzione, che rendano possibile
l’attuazione di uno scambio diretto dei prodotti senza mercato, senza smercio,
senza economia monetaria. È sufficiente porre una questione del genere per
capire quanto sia assurda una simile ipotesi.
Ciò significa,
in secondo luogo: assumere che la rivoluzione proletaria dopo la presa del
potere da parte del proletariato debba incamminarsi sulla via dell’esproprio
della media e della piccola borghesia e debba caricarsi del fardello enorme di
procurar e lavoro ai milioni di nuovi disoccupati così creati artificialmente e
di occuparsi del loro sostentamento. Basta porsi questa domanda per capire
quanto sarebbe insensata e folle una tale politica da parte della dittatura del
proletariato”[17].
Perché una
citazione tanto estesa su un tema così poco attuale?
Primo, perché
siamo convinti che questo tema, la politica economica per la costruzione del
socialismo, sia stato tolto dall’ordine del giorno in Europa soltanto
temporaneamente (e altrove per nulla affatto).
Secondo, perché
è necessario ricordare che esiste un enorme patrimonio di cognizione teoriche e
di esperienze pratiche relative a una costruzione del socialismo effettuata con
successo, che però è stato messo all’indice con la taccia di “stalinismo” dai
successori revisionisti di Lenin e Stalin, affinché cadesse nel dimenticatoio.
Infine, terzo, perché nella sinistra anticapitalistica si sta diffondendo
un’ideologia pseudo-di-sinistra, il cui promotore più noto è Robert Kurz:
secondo costui la radice di tutto il male non è il capitalismo, bensì la
produzione delle merci, invece di passare al diretto scambio dei prodotti. Di
fronte a simili tesi le sopraccitate argomentazioni sono senz’altro di grande
attualità
Come mai il revisionismo è riuscito a distruggere i risultati di decenni di costruzione
del socialismo?
Ovviamente vi
sono molte ragioni. Una di grandissimo peso è, secondo me, la seguente: per
molto tempo il revisionismo si è mimetizzato tenacemente come antirevisionismo,
come difesa del leninismo contro la asserita falsificazione di questo da parte
di Stalin. Soltanto dopo aver praticamente completato la sua opera di
distruzione, Gorbačëv si è tolto la maschera di comunista, di leninista,
confessando pubblicamente di essere un simpatizzante della socialdemocrazia,
dunque un anticomunista e un antileninista.
Ma l’antistalinismo fin dal principîo è stato per sua intrinseca natura
antileninismo, antimarxismo e anticomunismo.
Ancora oggi
tuttavia molti, perfino nel campo comunista, non riconoscono ciò, perché
soggiacciono tuttora all’influenza di decenni di propaganda di odio contro
Stalin da parte dei Segretari generali anticomunisti del PCUS a partire dal XX
Congresso: costoro hanno equiparato Stalin a Hitler, proprio quello Stalin, il
quale, come aveva predetto Ernst Thälmann, ha spezzato a Hitler l’osso del
collo!
Dobbiamo aver chiaro che, nella lotta contro l’antistalinismo, solo in
apparenza si tratta della persona di Stalin, nella sostanza si tratta invece
dell’esistenza stessa del movimento comunista: restiamo, come Marx e Engels,
Lenin e Stalin, fermamente ancorati alla realtà della lotta alla classe oppure
ci spostiamo, al pari degli antistalinisti Chruščёv, Gorbačëv e
dei loro simili, sul terreno della riconciliazione con l’imperialismo?
Qui sta la questione, dalla cui risposta dipende il destino del movimento
comunista. E poiché il problema può trovare una soluzione giusta solo se viene
espulso il veleno revisionista in tutte le sue forme e manifestazioni, il
movimento comunista deve vincere nelle proprie file anche l’antistalinismo.
[1] [p. 233-245
del Volume. La traduzione di questo capitolo è di Ingrid Sattel Bernardini:
n.d.r.]. Conferenza tenuta il 1° maggio 1994 in un incontro internazionale a Bruxelles,
convocato dal Partito del Lavoro del Belgio. Il titolo originario suonava:
„L’antistalinismo – l’ostacolo principale contro l’unità di tutte le forze
Questo aureo saggio della giornalista
statunitense Anna Louise Strong costituisce - come scrive la Prof.ssa Adriana
Chiaia nell'Introduzione - una lettura utile, anzi necessaria, "per conoscere in
"presa diretta" [...] la realtà quotidiana, le contraddizioni, i problemi, le
finalità di quella straordinaria avventura che è stata la costruzione del
socialismo in Unione Sovietica. Una rivoluzione epocale che ha trasformato,
nel breve spazio di quarant'anni, un'economia arretrata, basata principalmente
su un'agricoltura arcaica, in un'economia tecnologicamente avanzata, sia
nell'industria e nelle infrastrutture, sia nell'agricoltura, e che ha elevato il
livello civile e culturale di una popolazione semi-analfabeta a traguardi mai
raggiunti prima di allora dalle masse popolari nel loro complesso".
Anna Louise Strong riconosce che il Maresciallo Stalin "portò la Russia ad
essere una grande potenza, il primo Stato socialista del mondo". Nel 1929,
egli "cominciò a costruire il socialismo in un solo paese, un paese agricolo,
arretrato, circondato da un mondo di nemici.
Quando cominciò, la Russia era contadina e analfabeta; quando finì, essa era
diventata la seconda potenza industriale del mondo. Egli fece questo lavoro per
due volte, una prima volta avanti l'invasione di Hitler, e poi di nuovo sulle
rovine della guerra. Questo resta a suo credito per sempre: lui è stato
l'ingegnere di quel lavoro". Soltanto "la spaventosa marcia che egli impose
all'U.R.S.S. dal 1928 in avanti poteva costruire uno Stato socialista in quel
paese. Guardando indietro, si può vedere come tutti gli altri dirigenti, Trotzky,
Zinoviev, Kamenev, Bukharin, portassero alla distruzione.
Nessuno di loro possedeva, [...] come Stalin aveva, la conoscenza profonda
delle necessità del popolo, il coraggio e la volontà necessaria". Il primo
piano quinquennale, ricorda la Strong, venne portato a termine "in un tempo
minore del previsto: quattro anni e tre mesi dall'ottobre 1928 al dicembre 1932.
Il numero degli operai impiegati nell'industria era passato da 11 a 22 milioni;
anche la produzione era raddoppiata". "Prima - affermò, nel gennaio 1933, il
Maresciallo Stalin nel suo rapporto al Comitato Centrale - non avevamo
un'industria siderurgica. Ora l'abbiamo. Non eravamo in grado di costruire
trattori. Ora lo siamo. Non avevamo un'industria automobolistica. Ora l'abbiamo.
Non producevamo macchine utensili. Ora le produciamo".
"La realizzazione del piano - spiega l'Autrice - era stata resa possibile solo
dallo spostamento di intere popolazioni, e quindi a scapito della produzione
agricola; ma mai nella storia s'era verificato un simile progresso in così
breve spazio di tempo. Il popolo sovietico era convinto che, se il ritmo fosse
stato meno veloce, non solo la costruzione del socialismo sarebbe stata
ritardata, ma la sua stessa esistenza come nazione sarebbe stata in pericolo.
Nel 1933, il Giappone già saggiava le frontiere sovietiche dalla parte della
Manciuria, e i nazisti tedeschi proclamavano le loro pretese sull'Ucraina.
Il popolo sovietico era convinto di poter fronteggiare l'invasione su ambedue le
frontiere solo grazie alla rapida ascesa della sua potenza economica".
Si parla spesso del sistema delle fattorie collettive come di "una costrizione
voluta da Stalin, arrivando a dire che egli fece morir di fame deliberatamente
milioni di contadini per far sì che tutti entrassero nelle fattorie collettive".
Tutto ciò, osserva l'Autrice, "è semplicemente falso. Io viaggiai lungamente per
le campagne sovietiche in tutto quel periodo, e ho visto coi miei occhi come si
svolsero le cose. Certamente, Stalin appoggiò la trasformazione e le fece da
guida.
Ma la tendenza alla collettivizzazione si sviluppò tanto più rapidamente di
quel che Stalin aveva calcolato, che ben presto non ci furono abbastanza
macchine per le nuove fattorie, né quadri amministrativi e tecnici in numero
sufficiente. Le pie speranze in cui si consolava la vecchia inefficienza
contadina, unite all'ondata di panico promossa dai kulak, che determinò un
massacro in massa del bestiame, e a due annate successive di siccità, portarono
alle gravi difficoltà alimentari del 1932. Due anni dopo le pretese costrizioni
di Stalin, Mosca fece superare il passo al paese con un razionamento rigidissimo
introdotto su scala nazionale".
Riguardo alla stagione dei grandi processi del 1936-1938, la Strong scrive
che i più importanti "furono celebrati in una grande aula, cui ebbero accesso la
stampa, sovietica e straniera, i membri del corpo diplomatico e una folla sempre
nuova di rappresentanti delle fabbriche e degli uffici statali".
L'Autrice ebbe la possibilità di assistere personalmente "al dipanarsi
del dibattimento". Ecco la sua testimonianza: "Zinoviev e Kamenev,
antichi amici di Lenin ed eminenti teorici, dissero ai giudici, al pubblico e
al mondo che, avendo perso il potere a causa dell'ascesa di Stalin, avevano
cospirato per impadronirsene attraverso l'assassinio di parecchi dirigenti,
compreso Stalin probabilmente, ad opera di agenti i quali, se scoperti, non
avrebbero conosciuto l'identità di capi del complotto, ma sarebbero apparsi come
normali agenti della Gestapo tedesca. I capi del complotto, con la reputazione
intatta, avrebbero allora fatto appello "all'unità del Partito" per fronteggiare
la situazione d'emergenza. Uno di loro, Bakayev, designato ad assumere la carica
di capo della G.P.U., avrebbe liquidato gli assassini, seppellendo così ogni
prova contro i dirigenti".
"Questo - aggiunge la Strong - fu il racconto al cui svolgimento io assistetti,
seguendo il processo giorno per giorno. Gli imputati parlavano a voce alta e non
mostravano segni di tortura. Kamenev disse che nel 1932 era diventato ormai
chiaro che la politica di Stalin era condivisa dal popolo e che egli non poteva
più essere rovesciato con mezzi politici ma solo mediante il "terrore
individuale"".
"Eravamo guidati in questo-- egli disse-- da
unasconfinata animosità contro il gruppo dirigente e dalla sete di quel potere
cuiun giorno eravamo stati vicini". Zinovev dichiarò in tribunale di
essersiormai così abituato a dare ordini a un gran numero di persone da non
essere ingrado di sopportare una vita lontana dal comando. Gli agenti di rango
minoretestimoniarono sui legami del gruppo con la Gestapo. Uno d iloro, N. Lurye,
pretese di aver lavorato agli ordini di Franz Weitz,luogotenente personale di
Himmler. Alcuni pesci più piccoli apparentementeappresero per la prima volta in
Tribunale la fine che i capi avevano lororiservato: e ciò accrebbe il veleno col
quale li attaccarono.
"non lasciate che si proclami tanto
innociente---gridò l'imputatoReingold, scagliandosi contro il coimputato Kamenev.
---Egli si sarebbe fattostrada verso il potere scavalcando montagne di
cadaveri".
Era una storia credibile? La maggior parte della stampa fuori dell'URSS,
ladefinì una montatura. La maggior parte di coloro che sedettero
nell'aula,compresi i corrispondenti esteri, la credettero vera.
L'ambasciatore Davies, dice nel suo libro "missione a Mosca", che secondo la sua
convinzione gli imputati erano colpevoli delle accuse loro rivolte. D. N. Pritt,
eminente avvocato e membro del Parlamento britannico,aveva una convinzione
analoga. Edward C. Carter, segretario generale dell'Istituto per le Relazioni
Pacifiche, scrisse: "Il caso del Cremlino èterribilmente genuino. Ha un
senso...convince". Lo stesso atto di accusadi Kruschev contro gli eccessi di
quel periodo non fa menzione dei processipubblici, e non ne indica nessuno come
montatura...."
Pubblichiamo di seguito
un'analisi di alcuni documenti attribuiti a Lenin prima della sua
morte, notoriamente critici nei confronti di Stalin. Lo studio che
presentiamo è stato dapprima pubblicato sul giornale "Molniya",
organo del movimento di massa Trudovaya Rossiya, tradotto da Michael
Lucas e pubblicato nella raccolta di articoli <the lie of the "Lenin
Testament"> (Toronto, 1997).
Successivamente è apparso in "Revolutionary Democracy", Vol. VII,
No. 1, Aprile 2001; tale testo è stato utilizzato per la nostra
traduzione, riscontrata nelle due versioni in lingua inglese e
francese. L'articolo è introdotto da estratti della "Lettera al
Congresso", che fu esposta ai delegati del XIII Congresso tenuto nel
maggio 1924, il quale riconfermò all'unanimità Stalin - che aveva
presentato le sue dimissioni da Segretario generale - alla testa del
partito.
V. A. Sakharov solleva la
questione della paternità di tale lettera e dei relativi documenti.
Data l'importanza, non solo storica ma anche politica della
questione - da sempre utilizzata dai trozkisti per i loro attacchi
velenosi e denigratori - abbiamo ritenuto utile sottoporre questa
indagine ai nostri lettori.
Dalla "Lettera al
Congresso":
I. "Il Compagno
Stalin, divenuto Segretario Generale, ha concentrato nelle sue mani
un'autorità illimitata, e io non sono sicuro che egli sappia
servirsene sempre con sufficiente prudenza. D'altro canto, il
compagno Trotsky, come ha già dimostrato la sua lotta contro il CC
nella questione del Commissariato del Popolo per le Comunicazioni,
si distingue non solo per le sue eminenti capacità. Personalmente
egli è forse il più capace tra gli uomini nell'attuale CC, ma ha
un'eccessiva sicurezza di sé e una tendenza eccessiva a considerare
il lato puramente amministrativo del lavoro". 25 dicembre 1922
Registrato da M. V. (V. I. Lenin, Opere, Vol. 36, Mosca, 1971, pp.
594- 595).
II. "Stalin è
troppo rude, e questo difetto, del tutto tollerabile nell'ambiente e
nei rapporti tra noi comunisti, diventa intollerabile in un
Segretario generale. Perciò io suggerisco ai compagni di pensare
alla maniera di rimuovere Stalin da questo incarico e di nominare al
suo posto un altro uomo che a parte tutti gli altri aspetti, si
distingua dal compagno Stalin nel presentare solo vantaggio,
quello cioè di essere più tollerante, più leale, più cortese e più
riguardoso verso i compagni, meno capriccioso, ecc. Questa
circostanza può apparire come un dettaglio trascurabile. Ma io penso
che dal punto di vista delle misure di sicurezza contro una
scissione e dal punto di vista di quanto ho scritto sopra sui
rapporti tra Stalin e Trotsky non è un dettaglio, ovvero è un
dettaglio che può avere un'importanza decisiva". Registrato da L. F.
4 gennaio 1923 (op. cit. p. 596).
L'attualità politica e
scientifica di una lotta di principio contro qualsiasi
pseudo-creazione riguardante V. I. Lenin, sta di fronte ai movimenti
comunisti contemporanei. Questa lotta non è solamente difensiva. Il
fine non è quello di dare agli operai un'immagine di V. I. Lenin
nella sua grandezza, ma quello di salvaguardare e promuovere la
vittoria della rivoluzione comunista. Queste lettere del
cosiddetto testamento non appartengono a LeninTra i miti
che sono legati alla vita e all'opera di V. I. Lenin, il più
subdolo, raffinato e al tempo stesso il più distruttivo nelle sue
conseguenze politiche ed ideologiche è il mito del cosiddetto
"Testamento Politico" di V. I. Lenin, che raccoglie un certo
numero di documenti, conosciuti anche come "Ultimi articoli e
lettere". Il problema scientifico che ci troviamo di fronte consiste
nell'accertare che ciascuno di questi documenti sia effettivamente
opera di V. I. Lenin.
Quindi l'esame di tutti questi documenti è una questione di
verifica. Queste lettere sono dattilografate. V. I. Lenin non ha
firmato nessuno di questi documenti o lettere, ed essi non possono
essere verificati come tali. La firma sotto il testo battuto a
macchina è "AM. V." o "L.F." Queste iniziali non possono sostituire
un documento autografo o una copia firmata da Lenin.
E' un fatto che la paternità di Lenin
riguardo questi documenti, resa pubblica fin dall'inizio,
malauguratamente non è mai stata messa in dubbio. Vi è stato il
riconoscimento del fatto che essi sono stati scritti da V. I. Lenin.
Ciò è stato accettato persino dallo stesso Stalin. Questa
situazione, ovviamente, ha dato un considerevole aiuto ai
revisionisti che erano ancora nella direzione del PCUS dopo la morte
di Lenin. La storia dimostra che questi "documenti" sono diventati
parte di un "intrigo". Tuttavia, un'analisi scientifica esige che
tali documenti siano esaminati dal punto di vista storico.
Le
analisi storiche non devono essere concepite per mostrare o provare
che questo o quel documento non appartengono a V. I. Lenin.
Piuttosto l'onere della prova deve pesare nell'altro senso:
l'analisi deve provare che queste lettere appartengono
effettivamente all'insieme delle opere che ricadono sotto la
paternità di V. I. Lenin. L'autore ha studiato i documenti ed ogni
possibile archivio disponibile di tutti i materiali, ed è giunto
alla seguente conclusione. Parlando concretamente, nell'analisi del
cosiddetto "Testamento" si applica la seguente logica: voi potete
dividere i documenti in due parti:
(1) quelli in cui la paternità di
Lenin è dimostrata completamente e senza alcun problema attraverso
metodi differenti,
(2) quelli in cui la paternità di Lenin non può
essere provata tramite alcun mezzo scientifico. A questo proposito
dobbiamo dichiarare con forza che in nessuno dei testi di Lenin
inconfutabilmente riconosciuti, e nella loro forma originale, è
presente alcun pensiero o un'espressione contro Stalin.
Tuttavia, in
questa parte del controverso "Testamento" di V. I. Lenin (vale a
dire ciò che noi riteniamo non appartenere alla mano di Lenin)
avviene esattamente l'opposto: essa è piena di antistalinismo ed è
politicamente motivata a questo fine.
Il testamento In realtà, la
parte del "Testamento" di Lenin è basata sui seguenti articoli: * Le
"Pagine degli appuntamenti dal suo diario quotidiano ", * "Come
dobbiamo riorganizzare Rabkrin?", * "Meglio meno, ma meglio", *
"Sulla nostra Rivoluzione". Questi articoli sono stati resi pubblici
e pubblicati dall'inizio di gennaio fino ai primi di marzo del 1923.
Inoltre la sua dettatura della "Lettera al Congresso" è stata
effettuata tra il 26 e il 29 dicembre del 1922, e tratta della
riorganizzazione del Comitato Centrale e del livello delle ispezioni
degli operai e dei contadini e dei compiti del Gosplan. Infine, un
articolo: "Sulla Cooperazione", è datato 4- 6 gennaio 1923. Non
tutti questi documenti sono firmati da Lenin. Ma il testo, il lavoro
compiuto su di essi (o sulle loro singole fasi) sono fissati in
differenti documenti dalla segreteria di Lenin, durante l’attività
svolta su di essi. Le date sono anche fissate nei documenti del
Politburo. Tutto ciò conferma la loro autenticità. In altre parole,
e questa è un'affermazione facile da verificare, ciò significa che
quando V. I. Lenin lavorava su questi documenti, o dopo che essi
sono stati terminati, egli era sempre in grado di sorvegliare il
loro completamento. In definitiva, questi documenti concordano in
parecchi punti, e sono confermati dai documenti che V. I. Lenin ha
ricevuto dopo il loro perfezionamento da parte della segreteria.
Lenin li ha ricevuti per dare la sua approvazione finale, oppure li
ha usati come riferimento, quando la discussione era ancora in corso
all'interno del Comitato Centrale del partito. Questi documenti
interni non sono contraddittori tra loro, né mostrano degli
atteggiamenti antagonistici all'interno della direzione. In questi
documenti ci sono delle idee sviluppate, ma nessuna distinzione
principale dagli scopi di altri documenti. Infine, essi non sono in
contrasto con altre raccomandazioni fatte da V. I. Lenin. Si può
dire che c'è coerenza in seno e tra questi documenti.
Attacco contro
Stalin Il secondo gruppo di documenti - in cui "le parti che non
sono di Lenin" possono essere rintracciate nel "Testamento di
Lenin", presenta assolutamente un altro tipo di problemi. Questi
problemi possono essere riassunti come segue:
(1) Noi vediamo una
nota caratteristica, che si legge come "dettata da V. I. Lenin".
Questo accade il 24-25 dicembre 1922 e il 4 gennaio 1923. E' qui che
noi troviamo la base per un attacco contro G. V. Stalin. Stalin era
sicuramente, in effetti, il luogotenente di V. I. Lenin ed un leader
del partito.
(2) Appare qui un cosiddetto "articolo" <sulla
questione delle nazionalità o della "autonomizzazione">.
(3) Si
sostiene la presunzione che esiste una lettera politica, "dettata"
il 5-6 marzo 1923 (a Trotsky, Mdivani, Makharadze) con una
dichiarazione di solidarietà con loro.
(4) Si suppone la
lettera-articolo indirizzata a Stalin con una "minaccia di
interrompere i rapporti personali" tra Lenin e Stalin. Tutto ciò ci
mostra che Lenin stesso non era l'autore, e che non vi è alcun
testimone esterno del fatto che Lenin scrisse questa lettera!
Nondimeno il lettore può chiedere: da dove otteniamo questa
informazione su questo documento? La nostra analisi è confermata:
(1) dal cosiddetto "Diario quotidiano delle segretarie" di V. I.
Lenin;
(2) dalle persone che hanno consegnato questi documenti al
Plenum del Comitato Centrale del PCUS. Esaminiamo questi due punti
in dettaglio. "Il Diario" della Segreteria è il più rilevante e,
finora, questo documento non è mai stato messo in discussione.
Tuttavia esso non è mai stato esaminato in dettaglio dal punto di
vista scientifico e storico. In realtà era inutile fare ciò, poiché
oggi è noto ed accettato che questo "Diario" dopo il 18 dicembre
1922 non è più considerato come un documento del lavoro quotidiano
della Segreteria di Lenin. Ciò perché esso è il lavoro di nuovi
autori, allo scopo di assicurare dei cambiamenti da effettuare,
laddove possibile, su dati temi teorici e politici, da parte di
artefici che a quel tempo erano ben n a s c o s t i . Re a l i s t i
c ame nt e parlando esso è un d o c u m e n t o inventato, falso.
Giudicate voi stessi. L'inizio della malattia di Lenin, il 18-19
dicembre 1922, ha visto Lenin dover di fatto smettere di occuparsi
della fase centrale del suo lavoro. Sfortunatamente, durante questo
periodo la sua Segreteria ha praticamente cessato di funzionare, ed
i diari quotidiani non sono registrati. I progetti sono rimandati.
Ma quando questi "Diari" vengono di nuovo redatti, noi troviamo
delle "versioni" completamente nuove rispetto a ciò che si è
supposto Lenin abbia dettato. Nei "Diari" ci sono intere pagine
vuote, le annotazioni vi sono collocate solo irregolarmente. Tra le
pagine dove c'è qualche annotazione, durante questo periodo ci sono
delle pagine vuote. Ciò ha in effetti dato ai promotori del
"Testamento" l'opportunità di riempire le pagine che erano vuote.
Miracoli cronologici
Questo è confermato dai successivi periodi di
tempo o dall'analisi cronologica, che proverà a dimostrare che L. A. Fotieva (una delle segretarie che redigevano i "Diari") avrebbe
dovuto fare un'annotazione per il 28 dicembre 1922 e per i giorni
4-9-19-24 gennaio 1923. M. V. Volodicheva da parte sua promise di
riempire queste date per il 26 dicembre ed il 17 marzo. Ma questo
non è tutto, qualcos'altro "appare" nel calendario del “Diario”, o
nella Segreteria, ad opera di Fotieva e Volodicheva. Ne risulta una
buffa sequenza di date. Dopo il 30 gennaio c'è un'annotazione,
segnata il 26 gennaio, quindi di nuovo un'annotazione il 30 gennaio.
Sembra che l'annotazione del 24 non sia peggiore dell'annotazione
del 30 (non del 31, come per errore materiale è riportato nel
documento, N.d.T.). L'annotazione finale, in terza battuta, è
anch'essa del 30 gennaio 1922. Le annotazioni di febbraio sono
difettose come quelle di gennaio: il 10 febbraio, le segretarie
scrivono nel "Diario" un'annotazione sulla mattina del 7; dopo ciò
sulla mattina del 9; segue un'annotazione per la sera del 7, poi
un'annotazione per la mattina del 9 e quindi per la serata del 7. Ma
nella mattina del 9 esse spariscono per riapparire di nuovo per la
seconda volta in febbraio. La fine di questo balletto nelle
annotazioni del “Diario” sopraggiunge il 9 febbraio.
Ciò dimostra
dunque in breve che tutte queste date sono state manipolate, e che
davanti a noi non c'è il documento che questi nemici tentano di
presentarci come l'originale. Delle analisi scientifiche sugli
scritti del “Diario” quotidiano ci mostrano che, da dopo il 18
dicembre, la moglie di Stalin, N. S. Allieueva, non scriveva su
questo “Diario”, in quanto facente parte della segreteria di V. I.
Lenin, sebbene essa abbia continuato a lavorare nella Segreteria con
altre funzioni. Nel "Diario", appaiono dunque degli inserimenti,
alle pagine del 23-24 dicembre e del 17 e 30 gennaio.Questo mostra
che ci sono delle aggiunte inserite dopo che il “Diario” è stato
compilato. Tutti questi "stili ineguali" inseriti nel "Diario" si
spiegano sulla base del fatto che il lavoro su di esso non era stato
completato. Qualcosa sembra aver impedito l'ulteriore falsificazione
di questo "Diario" così come era stato deliberatamente deciso.
A
parte il "Diario" delle segretarie, esistono note scritte
quotidianamente dei dottori che si occupavano di V. I. Lenin. Tra i
"diari" delle segretarie ed i documenti scritti dai dottori,
troviamo molte differenze riguardo ai dettagli, alle date e ad altre
annotazioni. Ad esempio, le segretarie nel "Diario" mantengono il
silenzio circa il lavoro di V. I. Lenin, mentre i medici ne hanno
scritto: il 25, 29, 31 dicembre, il 1-4, 10, 13, 16-27 gennaio,
quindi il 18-20, il 25-27 febbraio, ed infine il 2 e 3 marzo. Ciò
ammonta a 20 giorni di differenza tra le annotazioni dei dottori e
la totale mancanza d'annotazioni da parte delle segretarie. Vi è
anche un esempio nella direzione opposta, allorché V.I.
Lenin non ha
lavorato con le segretarie, mentre invece le segretarie ci dicono
che avevano ricevuto delle dettature da parte di V. I. Lenin il
24-26 gennaio, e il 3,9,10,12,14 febbraio. Si tratta di una
discordanza di ulteriori otto giorni con le altre annotazioni dei
dottori. Immaginate un “diario", che è una documentazione quotidiana
degli eventi, in cui 28 giorni su 72 non coincidono o sono
completamente l'opposto (rispetto ad altre fonti, N.d.T.)!
E' molto
interessante notare cosa accadeva durante queste "date discutibili",
in cui il lavoro è stato presumibilmente svolto dalle segretarie. E'
in questo periodo che compare l'informazione sul testamento di Lenin
e la sua critica contro G. V. Stalin, rispetto alla questione della
costruzione di uno stato nazionale; evento che ha tutti gli elementi
essenziali di una "bomba" messa lì apposta per Stalin. Ne segue, che
è proprio questa informazione, "inserita" nel “Diario”, a diventare
la base presunta della tesi della paternità di Lenin di tale
"articolo", di <sulla questione delle nazionalità" o della "autonomizzazione">
e delle lettere del 5-6 marzo 1923.
Il lavoro di Trotsky La
situazione non può essere sanata dalle diverse memorie di Trotsky o
delle segretarie di V. I. Lenin, Fotieva, Volodicheva, Glyasser.
Tutte queste memorie cercano di dare autorità e credito al fatto che
questi documenti sono stati effettivamente scritti da V. I. Lenin.
Tutti costoro cercano di dimostrare "le basi storiche ed attuali" di
questi documenti. Ma il confronto tra questi stessi documenti
secondari mostra chiaramente così tante serie contraddizioni con i
documenti e gli scritti dei dottori, e discrepanze tra loro stessi,
che quanto da loro riportato non può essere accettato come
veritiero; e non può dunque aiutare a stabilire la paternità di V.
I. Lenin nei confronti di questi documenti e testi. Se la semplice
logica non basta a convincerci non ci resta che credere alle loro
parole. Ma questo può far piacere solo a chi vuol essere
imbrogliato.
La storia della pubblicazione di questi documenti e la
loro utilizzazione nelle lotte politiche non ha niente a che vedere
con quanto scritto nell'ultimo testamento, consegnato da V. I. Lenin
al partito tramite il vertice del CC del partito, il Politburo ed i
suoi compagni di lotta più vicini. In primo luogo, un tale appello
segreto non era nello spirito di V. I. Lenin, esso non appartiene al
suo metodo politico di lavoro. In secondo luogo, questi documenti
scritti non sono stati dettati in circostanze normali, poiché V. I.
Lenin ha avuto ampia opportunità di fare apertamente appello al
partito con qualunque suggerimento egli ha considerato opportuno e
necessario. Non vi era alcun "regime carcerario" ipoteticamente
instaurato da Stalin mentre V. I. Lenin era vivo. La presenza nel CC
del PCUS e nel Politburo di differenti gruppi politici, e la lotta
tra di loro, assicura la sconfitta di qualsiasi tentativo di
nascondere i documenti di Lenin. In terzo luogo, sarebbe stato
illogico rimandare qualsiasi decisione su non importa quali
questioni, dalle quali dipendeva la vita del partito o il futuro
della rivoluzione, a qualche decisione futura, ad un Congresso del
partito. Non era certo quando, dopo la presumibile scomparsa di V.
I. Lenin, si sarebbe tenuta una riunione posposta, poiché non era
tra l'altro certo quando Lenin, ammalato in modo critico, sarebbe
morto.
Tutti questi esempi dimostrano che i documenti non erano
autentici. Ma vogliamo riflettere su chi erano gli autori del
"Testamento"? Chi poteva trarre profitto da esso? Gli autori di
questa leggenda del "Testamento di Lenin" sono Trotsky, Fotieva,
Zinoviev, Bukharin. Essi "hanno inserito" questi testi nell'arena
politica assai prima della morte reale di V. I. Lenin. Essi hanno
atteso finché Lenin non fosse più capace di scrivere, dettare o
leggere i materiali, hanno redatto questi documenti come un metodo
politico di lotta contro G. V. Stalin. Trotsky, con l'aiuto di una
delle segretarie, la Fotieva, ha composto il cosiddetto "articolo",
<sulla questione delle nazionalità o della"autonomizzazione">.
Mentre hanno fatto questo, essi hanno apertamente dichiarato di non
aver ricevuto alcuna direttiva, ma di essersi basati sulla richiesta
di V. I. Lenin e di non aver saputo quando questa è stata fatta. Ma
la manovra da parte di questi elementi non ebbe successo, perché lo
stato dell'URSS fu proclamato al XII Congresso del partito. In
questo Congresso essi tentarono, basandosi sul "testo di Lenin", di
smembrare l'URSS che era stata appena adottata dal Congresso.
Malgrado i loro sforzi, questi elementi non sono stati capaci di
dissolvere l'URSS appena formata. La battaglia contro di essi è
stata condotta da G. V. Stalin. E' proprio durante questo periodo
del dibattito sull'URSS che "l'articolo" apparentemente scritto da
V. I. Lenin è stato distribuito da Trotsky ed è stato consegnato
alla Segreteria di V. I. Lenin per essere registrato nel "Diario"!
Dopo il Congresso, l'intensa lotta di Trotsky contro G. V. Stalin
entrò in una nuova fase. Alla fine del maggio 1923, Krupskaya (la
moglie di Lenin, N.d.T.) dà a Zinoviev il testo di un "materiale
dettato" del 24-25 dicembre 1922 - che costituisce una parte delle
"caratteristiche delle persone nel CC". Essa non lo consegna alla
Segreteria del CC, come avrebbe dovuto fare, non nelle mani del
Politburo, ma solamente ad uno dei suoi membri, che aspirava a
guidare il paese. Inoltre, Zinoviev era molto amareggiato ed
invidioso per la crescita di autorità e prestigio di G. V. Stalin.
Zinoviev quindi informa i membri ed i candidati membri del Politburo
ed il Presidium della Commissione Centrale di Controllo. Circa il
desiderio apparentemente espresso di V. I. Lenin riguardante questo
materiale dettato, ossia che tale lettera era per il Congresso,
Krupskaya non ne fece neppure cenno, né la consegnò in tempo utile
per il Congresso. Eppure ella disse che "questo documento dovrebbe
essere consegnato solo al Comitato Centrale". La leggenda su questa
lettera riappare frequentemente ed ha avuto serie ripercussioni.
Questa lettera nacque durante le lotte interne in seno al partito.
Due mesi più tardi Zinoviev e Bukharin informarono G. V. Stalin,
Segretario Generale del PCUS, eletto dall'ultimo Congresso,
sull'esistenza di questa "lettera" (ossia la "lettera dettata" il 4
gennaio 1923). Questo avveniva durante le manovre di Zinoviev e
Bukharin finalizzate a mettere il lavoro di G. V. Stalin sotto la
direzione di un partito che era sotto il loro controllo, assieme a
Trotsky.
Essi hanno cercato di utilizzare l'autorità di V. I. Lenin.
Queste cosiddette "lettere dettate" sono diventate il mezzo per
spogliare Stalin della sua autorità, poiché essi stessi non avevano
sufficiente autorità personale per sostituire G. V. Stalin. I nemici
interni avevano riunito le loro forze per sfidare Stalin, basandosi
solamente sulle presunte "lettere dettate" di V. I. Lenin. Il
meccanismo della falsificazione La storia di questi documenti e
della loro pubblicazione, non fornisce alcun esempio concreto circa
la paternità di V. I. Lenin di questi documenti. Anche lo stile con
il quale essi sono composti, ed altre particolarità, costituiscono
argomentazioni contro questa paternità. Il contenuto e le
"caratteristiche", come per premeditazione, si sono "offuscati" col
tempo. Offuscati, a tal punto, che gli argomenti sul loro contenuto,
costituiscono ancora oggi oggetto di discussione. Ad esempio, la
prima risposta, da parte di Tomsky, fu questa: "Nessuno qui, tra le
grandi masse, ne capirà il significato". Nel testo noi non possiamo
trovare alcuna evidenza che dimostra che esso sia stato composto e
dettato da V. I. Lenin. Eppure c'è qualche luce nelle torbide acque
di questo testo. Tra tutte le falsità e gli incomprensibili pensieri
che l'autore di questo testo ha cercato di comunicare, non si può
dubitare su quanto egli ha voluto dire: sbarazzatevi di G.V. Stalin
come Segretario Generale del Comitato Centrale. La medesima cosa si
può dire per le lettere del 5-6 marzo.
Non c'è alcuna firma di V. I.
Lenin, né c'è alcuna registrazione di questa lettera negli schedari
della Segreteria. Ciò può essere spiegato. Dobbiamo capire per quale
motivo queste "lettere" non sono state utilizzate da Trotsky,
Mdivani ed altri, al XII Congresso del partito, nella lotta contro
G. V. Stalin sulla questione della costruzione dello stato
nazionale. La lotta era feroce ed i nemici hanno cercato di
utilizzare per intero l'autorità di V. I. Lenin e i documenti. Ma
questi documenti sono stati "dati al mondo" in modo completo molto
più tardi. Trotsky cominciò ad utilizzare questi documenti solamente
nell'autunno del 1923. Queste lettere sono state rese pubbliche
solamente dopo il fallito tentativo di sbarazzarsi di Stalin come
Segretario Generale. Trotsky cercò di promuovere l'idea che vi era
un blocco di comprensione e cooperazione tra lui e V. I. Lenin
contro G. V. Stalin. L'abuso, sia politico che psicologico, andava
avanti a piena velocità. Ma Stalin resistette a questo attacco.
Nemici dell'URSS contro Lenin e Stalin La questione della presunta
lettera di Lenin a Stalin in cui egli si dice pronto a interrompere
i rapporti personali con lui richiede uno studio maggiore. Dobbiamo
precisare qui che tutta la storia delle lettere dettate e della loro
presunta consegna a G. V. Stalin è molto oscura e contraddittoria.
Lasciamo che il lettore faccia le sue considerazioni. Per questo noi
ci riferiremo al testo seguente: M. I. Ulyanova e M. V. Volodicheva
(in V. I. Lenin, Opere Complete, vol. 45, p. 486; Izvestia CC PCUS,
1989, N. 12, p.198-9). Volodicheva ha dichiarato che essa stessa ha
scritto la lettera dettata. Ma, in qualche modo, questo documento è
in due copie differenti, presenta due versioni diverse; una è stata
scritta e firmata da V. I. Lenin (e non da G. V. Stalin, come per
svista è riportato nel documento, N.d.T), (o è stata firmata da
qualcun altro?); l'altra (come fosse della Volodicheva), dall'inizio
alla fine porta dei cambiamenti che la rendono irriconoscibile.
Com'è possibile che anche questa seconda versione sia firmata?
Perché vi sono due risposte da parte di Stalin?
Perché G. V. Stalin
scriverebbe due versioni di una lettera a V. I. Lenin sulla
questione della presunta critica di Lenin contro Stalin? E perché
neppure una di queste risposte di G. V. Stalin arrivò mai nelle mani
di V. I. Lenin? Il periodo di tempo tra la risposta di Stalin (il 7
marzo) e l'inabilità fisica alle normali funzioni di V. I. Lenin (il
10 marzo), avrebbe permesso tempo sufficiente per consegnare una
risposta da un ufficio ad un altro. L'articolo sulla questione della
nazionalità è incredibile, su parecchi punti. Non solo la situazione
politica a quel tempo era completamente inattesa da V. I. Lenin; non
è possibile attribuire la russofobia a V. I. Lenin; ma è impossibile
riconoscere Lenin anche dalla stessa formulazione di questo
articolo. Un esempio: "Ho già scritto nei miei lavori circa la
questione nazionale". Ed ancora: l'autore suggerisce di attendere,
fino a quando non ci saremo impadroniti dell'apparato di governo.
Lenin non ha proposto tali problemi nel dicembre 1922. Se dobbiamo
seguire questo "ragionamento" non solo l'URSS non sarebbe esistita,
ma anche la Repubblica Sovietica Caucasica non avrebbe dovuto essere
formata.
Ma V. I. Lenin ha combattuto per ottenere la formazione di
questa Repubblica, contro Mdivani ed i suoi sostenitori. Oltre a
ciò, quindi ne consegue che persino la Repubblica Federativa
Sovietica Russa non avrebbe dovuto essere stata formata, poiché
l'apparato non era ancora "il nostro"! L'autore mischia la
realizzazione del diritto delle repubbliche-nazioni di separarsi
dall'URSS, come garantito dalla Costituzione, insieme con la
questione della qualità dell'apparato governativo dello Stato! Ma,
"l'apparato di governo" non fu, o non è, l'entità legale per
conferire questo diritto. Questa è costituita dai Deputati dei
Popoli che siedono nel Soviet Supremo dell'URSS - l'apparato di
governo è proprio il servitore e il mittente delle decisioni. Lenin
sapeva perfettamente, da chi, e dove e come questo problema veniva
deciso. Esso sarebbe deciso solo nel sistema della dittatura del
proletariato, che egli ha formato e rafforzato. L'argomentazione
offerta nelle "lettere" non è tratta dall'arsenale di V. I. Lenin.
Questa sorta di argomenti noi la troviamo solamente nelle dispute
interne dei nazional-separatisti. In conclusione, sollevare il
problema dell'"autonomia", dopo che la questione dell'URSS era stata
decisa, non era la proposta di V. I. Lenin, né ciò era consono ai
suoi principi. Ciò avrebbe significato ritornare ad una questione,
che già era stata respinta da tempo.
Alla fine del 1922, nessuno ha
nemmeno parlato di tale questione della formazione dell'URSS sulla
base dell'autonomia. Questo perché tutti si espressero contro la
questione dell'autonomia, che avrebbe significato in effetti la
liquidazione della Repubblica Socialista Federativa Sovietica della
Russia. Dov'è qui l'approccio di Lenin in tale materia? L'autore di
questo "articolo di Lenin", deve essere ricercato, fra i nemici
dell'unità delle repubbliche Sovietiche e della federazione. Lenin
non fa parte di questi elementi, di questi nemici dell'unità delle
Repubbliche Sovietiche. In questo campo c'erano tre blocchi distinti
influenzati da Mdivani, Svanidze e Rakovski. L'identità dell'autore
di questo articolo deve essere cercata in questi ambienti, ma vi
sono dei fatti che suggeriscono che il suo autore non era altri che
Trotsky. V. I. Lenin non poteva essere stato questo autore.
Sfortunatamente, non c'è ancora nessuna solida prova riguardo chi
sia il suo autore, ma i fatti puntano tutti verso Trotsky. Lenin per
Stalin, Trotsky contro L'analisi dei pensieri politici di questo
falso "testamento" dimostra che esso non rappresenta realisticamente
la lotta politica che covava allora all'interno del Comitato
Centrale del partito, nel quale Lenin ha giocato il ruolo teorico
principale.
La realtà politica è che G. V. Stalin non ha nominato se
stesso Segretario Generale. Ma era V. I. Lenin che, cercando
qualcuno che lo rimpiazzasse, all'XI Congresso del partito fece ogni
sforzo per assicurarsi che G. V. Stalin divenisse il Segretario
Generale. V. I. Lenin allora non inviò documenti, lettere o
proposte, per dire che Stalin non era in grado di diventare il
Segretario Generale. Lenin non ha mai usato tale linguaggio in
nessuno dei suoi discorsi, dei suoi consigli o dei suoi commenti. Il
"Testamento" di Lenin non rispecchia affatto ciò.
Giudicate voi
stessi. Lenin vide nella nostra rivoluzione una buona prospettiva,
mentre Trotsky si limitò a continuare a ripetere la necessità di una
rivoluzione permanente (gennaio e novembre 1922). Lenin promosse la
fusione finale del partito e del governo, mentre Trotsky fu
contrario a ciò, proponendo il suo rabberciamento. Lenin fu per la
riorganizzazione dell'Ispezione Operaia e Contadina, mentre Trotsky
fu per la sua liquidazione. Lenin fu per lo sviluppo del Gosplan
come commissione di esperti, Trotsky perché esso diventasse un piano
operativo, ecc. ecc. In questa situazione è possibile che Lenin
abbia scritto un attacco personale contro Stalin, il suo più stretto
alleato politico, ed abbia proposto che la carica più alta dovesse
andare al suo rabbioso avversario Trotsky?
Noi non possiamo affatto
adottare questo punto di vista. Una comprensione realistica del
"Testamento" di Lenin è differente. Essa dà nelle mani degli alleati
di Lenin, delle munizioni per ulteriori lotte contro Trotsky nelle
serie questioni della rivoluzione socialista. Giungiamo ad una
conclusione. Noi abbiamo una base per dichiarare che Lenin non fu
l'autore di questi articoli, lettere o altri documenti. Questo fatto
necessita di correzioni storiche in modo che gli insegnamenti di
Lenin vengano depurati da queste falsificazioni. Noi dobbiamo
comprendere il Testamento di Lenin nel contesto della vita politica
di quel tempo, delle lotte politiche condotte da V. I. Lenin nel
1921-1922 contro Trotsky. Questa lotta è stata intrapresa da Lenin
con Stalin come suo alleato leale, il quale ha promosso e seguito la
linea di lotta di Lenin, e dopo la morte di Lenin si è fatto carico
del pesante fardello di continuare la lotta contro Trotsky. La parte
inventata del "Testamento" può essere compresa soltanto in un
contesto storico molto più ampio, nel contesto della lotta
all'interno del CC del partito contro Trotsky e il suo gruppo.
All'interno di questa lotta è stata combinata una lotta contro
Stalin che fu consolidata e promossa da Zinoviev, che era
anti-leninista. Oggettivamente, l'intero piano di entrambi questi
raggruppamenti era di allontanare Stalin dalla direzione con l'aiuto
dell'autorità di V. I. Lenin e cambiare così il corso politico del
Partito Comunista Russo (B). Dobbiamo essere veramente coscienti che
la base della lotta per la direzione fu una lotta storica per la
questione principale della rivoluzione socialista. Ragioni di spazio
non ci consentono di andare oltre nel ragionamento. Possiamo
soltanto dichiarare che negli "archivi di Trotsky", dopo la
"lettera" di Lenin sulle caratteristiche di Stalin, la copia include
un emendamento redatto nella scrittura propria di Trotsky che
dichiara: "Ho pubblicato la mia copia. L. Trotsky". La
contraffazione continua I miti che sono alimentati sulla base degli
ultimi articoli e delle lettere di V. I. Lenin non sono cessati
neppure più tardi, anni dopo la morte di V. I. Lenin. In questo
contesto Krusciov e Gorbaciov hanno fatto loro proprie aggiunte ed
interpretazioni. Parti delle lettere di Lenin sono state adoperate
per soddisfare un bisogno dei nemici dei tempi attuali. Esse sono
state impiegate principalmente con un carattere antistalinista. Ad
esempio, nella lettera del 23 dicembre, c'è una frase: "Vorrei
condividere questo con Voi...". Nella pubblicazione da parte di
questi nemici contemporanei, è scritto come "con voi" attribuendo
così un significato totalmente nuovo a ciò che Lenin ha affermato.
Lenin lo ha dichiarato al Congresso del Partito, rivolgendosi ad
esso con il titolo "Voi", che merita. Questo modo di rivolgersi era
in contrasto con il "voi" che si rivolge a chiunque, in opposizione
ad una entità eletta dal popolo. Questa lettera è anche registrata
nella segreteria di Lenin come una lettera a G. V. Stalin per il
Congresso. Ciò conferma ancora di più la sua essenza, avendola
indirizzata con il "Voi". Ma Nikita Krusciov ha deciso che per lui,
sarebbe più vantaggioso lanciare la critica a Stalin. Nella frase:
<egli ha una influenza tremenda per tutte le "corti" del partito> -
la parola "corti" è stata cambiata nelle parole "codice di legge".
Questo non solo falsifica le parole di V. I. Lenin, ma lascia la
frase senza alcun significato. Quante corti possono esserci nel
partito e che tipo di corti sono? Nel lessico politico di V. I.
Lenin negli ultimi anni, le cose sono chiare. Con la parola "corti",
egli ha inteso i differenti oppositori, sempre pronti a criticare il
partito ed a cercare di cambiare il suo corso.
Tra questi "giudici
di corte", c'era in primo luogo Trotsky ed il suo gruppo. E' contro
questi "giudici" che Lenin ha combattuto una lotta aspra, così come
ha fatto anche G. V. Stalin, l'amico e l'aiutante principale di V.
I. Lenin, al quale è stata scritta questa lettera. Sono questi i
"giudici", che sono stati chiamati a tal riguardo "critici" e
"nostri Suhanoviti", a cui Lenin si riferisce nella sua dettatura
del 26 dicembre ed anche nell'articolo "Sulla nostra Rivoluzione"
(Lenin, vol. 45, p. 347, 383, 385.). La frase: "50-100 membri del CC
il nostro partito deve esigerli dalla classe operaia", è stata
cambiata con: "...il nostro partito ha il diritto". Lenin ha
dichiarato che il CC esige 50-100 nuovi membri per il Comitato
Centrale allargato, mentre i falsificatori dicono "il partito
chiede". Una tale falsificazione era necessaria, affinché la lettera
a G.V. Stalin fosse considerata come una lettera al Congresso del
partito, anziché uno scambio di idee tra Lenin e Stalin.
Nell'articolo di V. I. Lenin "Come dobbiamo riorganizzare Rabkrin?",
che è stato falsificato dai nemici, l'articolo afferma: "che nessuna
autorità, ne del Segretario Generale, ne di nessun altro membro del
CC può immischiarsi nel lavoro della Commissione Centrale di
Controllo, o ha il diritto di affidare alla Commissione di Controllo
qualsiasi questione quanto al suo lavoro..." (Lenin, Opere complete,
(in Russo), Volume 4, (sic) pag. 387). La nomina del Segretario
Generale è inserita per essere ritenuta ed usata contro G. V.
Stalin. Secondo gli archivi (come scritto sulla Pravda, 25 gennaio
1923) parole come Segretario Generale non sono state trovate da
nessuna parte. La frase che è stata impiegata era: "nessuna autorità
potrà essere impiegata...". Questa è una falsificazione aperta, che
serve a provare e dimostrare che questo è "un documento" di critica
di Lenin nei confronti di Stalin, falsificando così l'intera
comprensione del testamento. Provocazione ideologica
E' ora noto
quale significato fu attribuito all'articolo "Sulla Cooperazione"
durante il periodo della perestroika. Con questo articolo scritto da
Lenin, i revisionisti hanno cercato di eliminare qualsiasi altro
scritto di V. I. Lenin. Sotto questo slogan, essi hanno dichiarato
che era necessario rivalutare tutti gli aspetti del socialismo.
Anche non c'è assolutamente nessuna parola di questo genere in V. I.
Lenin, essi hanno cercato tuttavia di utilizzarlo, nell'ideologia
della "perestroika". Questa è una faccenda di spudorata
falsificazione. Negli scritti di Lenin non c'è una parola od
un'articolo "Sulla Cooperazione", ma c'è una prima e una seconda
"edizione" di questo articolo. Lenin, mentre lavorava su questo
articolo non era ancora soddisfatto del suo scritto, qualcosa nella
sua mente lo persuase che avrebbe potuto esporre il suo pensiero
molto più chiaramente. Ciò è confermato dalle proprie note scritte a
margine del testo, che era ben conosciuto da quei nemici, informati
del fatto che Lenin stava lavorando su questioni importanti. Lenin
scrisse nelle sue note a margine: "Nessuna variazione mi piace,
perché alcune di esse contengono forme che hanno bisogno di
un'ulteriore elaborazione da un punto di vista ideologico, ed
entrambe hanno bisogno in una certa misura di qualche correzione".
Questa nota a margine è stata datata 7 gennaio 1923. Naturalmente
questa annotazione non esprime l'intero testo. Noi dobbiamo cercare
di rappresentare che cosa rendeva Lenin insoddisfatto nella sua
elaborazione di questo importante documento. Da Bukharin a Krusciov,
fino a Gorbaciov L'articolo "Sulla Cooperazione" è il pensiero
supremo ed è finito nelle mani di Bukharin. Da Krusciov questo
"documento" è passato a Gorbaciov, e qui davanti ai nostri occhi,
c'è questa bomba ideologica, mascherata come se V. I. Lenin ne fosse
l'autore finale. Questo articolo è stato espanso ed utilizzato come
una deformazione dall'interno da parte di Krusciov, quando egli
cominciò a smembrare lo stato socialista. Ciò è stato reso possibile
in quanto questo menzognero sotterfugio ha avuto un importante
effetto politico dietro le quinte. Al tempo di Bukharin è stato
utilizzato a favore dei kulaki, per salvarli come classe. Al tempo
di Krusciov è stato usato come veicolo per criticare la tesi di
Stalin, ossia che nel periodo di accerchiamento capitalistico i
successi del socialismo saranno sempre più considerevoli, mentre i
resti delle classi sfruttatrici disperse "proveranno in tutti i modi
a loro disposizione di rovesciare lo stato socialista, essi
saboteranno sempre più lo Stato Sovietico, come ultimi mezzi per
conservare la loro posizione di classe privilegiata". La critica di
questo testo ha aiutato Krusciov ad aprire una campagna contro
Stalin. Durante la gestione di Gorbaciov esso è stato usato per
incitare la gente a non credere più alla via ideologica della
costruzione del socialismo in URSS, per giustificare il percorso non
socialista e “l’accomodamento” con il capitalismo in URSS, per
evidenziare la necessità di sbarazzarsi dell'eredità socialista del
paese, per sostenere che in un modo o nell'altro avremmo perso e che
era inutile tentare di ristabilire il socialismo, che non c'è niente
da guadagnare da esso, che non era più necessario che la nostra
storia.... Ad ogni modo, i lettori stessi sanno molto bene cosa
c'era e come era, e quello che è seguito.
Da Teoria & Prassi n. 16
Non si può parlare di ripresa del
movimento comunista senza sciogliere il nodo
dell'antistalinismo!
Gli avvenimenti storici, dal XX
congresso del '56 al crollodell'URSS, della DDR e di
altri paesi socialisti dell'est europeo ci hannomesso
sulla difensiva e i nemici del movimento comunista sono
riusciti asviluppare in profondità un'azione
anticomunista demonizzando il nome e l'operadi Stalin.
[……...............................]
Circa venti annifa, un'iniziativa analoga a quella
di
oggi,si svolse a Roma con la partecipazione di
parecchie centinaia di compagni e dicompagne. Ebbene non
mi sembra che da allora si siano fatti passi in avanti.
L'antistalinismosi è consolidato anche grazie
a Rifondazione comunista e il suo massimoteorico,
Bertinotti, che è andato in profondità nella denuncia di
quelli cheegli definisce gli errori e gli orrori del
comunismo novecentesco. E proprio inRifondazione coloro
che, per provenienza, avrebbero dovuto difendere la
storiadel movimento comunista hanno taciuto per viltà e
opportunismo.
Nel corso diquesti anni,
però, nonostante gli avvenimenti dell' 89 ci siamo
sempre piùconvinti che la questione Stalin è
strettamente connessa alla ripresa delmovimento
comunista. Non si può parlare di ripresa del movimento comunista
senza scioglierequesto nodo e porlo come discriminante
tra chi si può ritenere comunista echi invece vuole
introdurre dentro questa posizione delle ambiguità e
delleteorizzazioni che ne travisano la sostanza.
Perchè riteniamo, per un
comunista, discriminante laposizione su Stalin?
A nostro parere per due ordini
di problemi,
uno di carattere storico
e
un secondo di carattere
teorico.
Sul piano storicola grottesca
demolizione della propaganda anticomunista, di destra
come disinistra tende a negare che ilmovimento
comunista nel periodo '24-'53 abbia raggiunto i
grandi successi che conosciamo. Se l'Unione
Sovietica è rimasta,fino alla morte di Stalin, cioè per
un trentennio, un solido baluardo delmovimento comunista
ciò è dovuto al ruolo che egli ha svolto dentro il paese
ea livello internazionale.
Solo degli agenti dell'imperialismo odei cialtroni che
si fanno passare per rivoluzionari possono pensare che
l'URSSpotesse sopravvivere, dopo la morte di Lenin,
senza una guida sicura e capace.Il lavoro che Stalin ha
svolto nel trentennio a cui ci riferiamo è quello cheha
permesso la trasformazione del paese in termini
rapidissimi, la sua capacitàdi resistere contro le
minacce esterne fino alla vittoria contro la
potenzamilitare nazista e di creare le basi di una
società socialista nell'interosistema economico compresa
l'agricoltura dove l'arretratezza creava, dopo glianni
'20, una serie di grossi problemi che andavano
affrontati se ci si volevacollegare col progetto di un
nuovo modello di società che si stava edificando.E QUEST'
ULTIMA COSA ERA INDISPENSABILE DATA LA PREVALENZA
CONTADINADEL PAESE.
Non potendo negarel'evidenza,
dalla rapida industrializzazione,alla
collettivizzazionedell'agricoltura, ad un nuovo modello
di organizzazione sociale in cuilavoratori e contadini
venivano coinvolti direttamente da protagonisti,finoalla
grande vittoria sul nazismo, gli anticomunistie
gli antistalinisti mettono l'accento sul prezzo pagato
per raggiungere taliobiettivi e sul fatto che
questo ha comportato uno scontro interno alpartito
comunista e nella società sovietica.
Non è un caso che le polemiche e
le accuse allo stalinismopuntano sempre attorno
all'alternativa Bucharin che viene presentato come
coluiche avrebbe offerto agli eredi della rivoluzione
d'ottobre e ai cittadinisovietici una strada per uno
sviluppo equilibrato dell'URSS.
Affermare questo significa
non aver presente che cos'eral'URSS dopo la rivoluzione
d'ottobre e non capire le esigenze chescaturivano
dal contesto interno e internazionale per mantenere
aperta unaprospettiva comunista. La rivoluzione non è
finita il 7 novembre, ma è iniziataa partire da quella
data e non si è conclusa neppure con la fine della
guerracivile organizzata dalle forze reazionarie del
vecchio regime con l'appoggiodelle potenze imperialiste
dal momento che, vinta la reazione armata, sitrattava di
dare un futuro comunista ai risultati raggiunti senza
soluzione dicontinuità.
Alla luce di queste
considerazioni l'operato di Stalin sipresenta come
quello di un comunista che raccogliendo l'eredità
rivoluzionariadi Lenin ha sviluppato, nelle nuove
condizioni, i processi iniziati conl'ottobre. Questi
nuovi passaggi non erano e non potevano essere
passaggipacifici perchè, come si è detto, si scontravano
non solo con il ruolo attivodell'imperialismo contro
l'URSS, ma anche con le conseguenze delleaccelerazioni
dei processi interni su cui la prospettiva comunista
dovevabasarsi. L'industrializzazione del paese, la
difesa militare, la liquidazionedel retroterra di
conservazione rappresentato dalle campagne e, per
riferircialla questione del partito, gli ondeggiamenti
di un antileninista come Trotski e della destra
Zinovievista ebuchariniana sono
tuttiproblemi che il partito bolscevico sotto la
direzione di Stalin ha dovutoaffrontare e
naturalmente questo non poteva avvenire, come tutte
levere rivoluzioni insegnano senza soluzioni
drammatiche. E ovviamente questo nongarantisce dagli
errori che in un processo rivoluzionario si
possonodeterminare, ma quello che decide sul giudizio
sono le questioni essenziali.
Solo una direzione ferrea e una
capacità di individuare gliobiettivi strategici, dunque,
potevano assicurare i risultati, questo èl'essenziale.
Chi pensa, al contrario,che la rivoluzione sia un pranzo
di gala,sta fuori della comprensione dei veriprocessi
storici, prescinde da una concezione materialistica
delle forze incampo e ripropone l'opportunismo. Non
è un caso che gli sbandamenti e lasconfitta, degli
oppositori di Stalin siano, prima di tutto,
incomprensionedelle scelte che andavano operate in un
contesto rivoluzionario e spieganol'esito delle
opposizioni alla linea di Stalin e innanzitutto la loro
sconfittapolitica. I famosi processi di Moscadegli
anni '30 sono successivi a questa sconfitte e ne
marcano, poi, lasanzione drammatica quando gli sconfitti
passano dal dibattito sulle sceltepolitiche alla
cospirazione. Come,all'epoca della rivoluzione
francese con il ghigliottinamento di Danton quandosi
trattava di difendere la Francia rivoluzionaria.
Da un punto di vista
teorico è molto importante, per i comunisti,
indagare sulle scelte del periodo '24-'53. Non per
stabilire meccanici nessi tra quella fase storica e
il presente, ma per capire l'applicazione di
principi rivoluzionari in un contesto di sviluppo di
una prospettiva comunista.
[……………………………………………………….]
Come nelle favole dei buoni e
del cattivo ci si aspettavail lieto fine. Perchè non c'è
stato? In apparenza la responsabilità è del
biecodittatore che ha impedito la realizzazione del
socialismo buono. Ma più che lapolemica astratta contro
le centrali anticomuniste e trotskiste ad essecollegate
che propagano queste teorie, ci aiuta a capire l'analisi
materialistadella realtà. Essa ci dice che nel periodo
che prendiamo in considerazione,cioè il '24-53 , l'URSS
si è trovata sempre in una situazione di emergenza,anche
dopo la sconfitta della Germania e questa è una
normalità quando unarivoluzione avanza e cambia i
rapporti di forza. Questo non hanno capito icomunisti
'buoni' .
[………………………..]
Si pensi solamenteche dopo la
prova tremenda della guerra e la necessità della
ricostruzione.l'URSS si doveva misurare con l'atomica
americana, la guerra fredda contro lacosidetta cortina
di ferro, la divisione della Germania, i contraccolpi
dellarivoluzione cinese nel contesto internazionale, i
processi di trasformazionesocialista nelle democrazie
popolari dove la borghesia era storicamenteconsolidata,
si pensi alla guerra di Corea.
E LA CAPACITÀ DI STALIN È STATA
QUELLA DI CONIUGARE LA DIFESA DELLEPOSIZIONI CONQUISTATE
CON UNA VISIONE STRATEGICA DELL'ALTERNATIVA
ALCAPITALISMO E ALL'IMPERIALISMO. QUELLO CHE LA VISIONE
TROTSKISTAVOLEVA IMPEDIRE METTENDOSI A SERVIZIO
DELL'IMPERIALISMO ERA PROPRIO QUESTO.ELIMINARE LA
CONCRETEZZA DEL PROCESSO DI CAMBIAMENTO.
[…………….............................…….]
Da che cosa haorigine la
controrivoluzione? Ripetere che Kruscev ha tradito è una
tautologiaper dei marxisti. La questione è perchè
Kruscev è riuscito nel suo intento, suquali forze ha
fatto leva, qual'è la responsabilità del movimento
comunistainternazionale?
[………....................……..]
PARADOSSALMENTE È ANCORA STALIN
A DARCI LA CHIAVE INTERPRETATIVADEGLI AVVENIMENTI
SUCCESSIVI AL MARZO 1953. DIFATTI, EGLI CI HA INSEGNATO,
NELTRENTENNIO IN CUI HA DIRETTO IL MOVIMENTO COMUNISTA
CHE PER UN INTERA EPOCASTORICA LO SVILUPPO DI UN
PROCESSO RIVOLUZIONARIO NON PUÒ CHE AVERE
UNASTABILIZZAZIONE RELATIVA, PER CUI PRETENDERE CHE SI
POSSA AVERE UN SOCIALISMOREALIZZATO MENTRE È IN CORSO
UNA LOTTA MORTALE TRA DUE SISTEMI È FUORI DELLAREALTÀ E
DELLA STORIA. QUINDI LA TEORIA DI STALIN SECONDO CUI MAN
MANO CHE IL SOCIALISMOAVANZA SI ACUISCE LO SCONTRO DI
CLASSE, CON IL ROVESCIAMENTOCONTRORIVOLUZIONARIO DEL XX
CONGRESSO DEL PCUS SI È PIENAMENTE CONFERMATA.
Difatti, alla morte di Stalin
c'erano due possibilità: osi andava avanti con la
competizione inevitabile col capitalismo el'imperialismo
oppure si arrivava ad un compromesso che poneva fine
all'antagonismoinnescando processi controrivoluzionari.
La demonizzazione del tiranno, nelcaso francese di
Roberspierre, ha portato dal Termidoro all'impero. In
URSS èavvenuta la stessa cosa. Quindi a ben vedere c'è
un filo rosso che guida gliavvenimenti del periodo che
stiamo prendendo in considerazione e che indica illavoro
di analisi storica e di deduzione teorica che noi ci
auguriamo possapartire da questo convegno con la
collaborazione di tutti. Credo che un atto
diresponsabilità collettiva stavolta è assolutamente
necessario. [
[…………………………………..]
* Luciano Bronzi Segretario
dell'Associazione Stalin
per tutti gli amici comunisti taggati e non taggati!
Il Centro Culturale e le
Edizioni "La Città del Sole" mettono a disposizione
i propri strumenti di lavoro per questo impegno
comune a cui dovremo dedicare già da domani tutte le
nostre energie.
dal lavoro di Grover Furr il complotto di Ezhov (capo dell’NKVD)al
servizio della Germania
I processi di Mosca e il “Grande
Terrore” del 1937-1938: ciò che le prove mostrano.
Grover Furr 31 LUGLIO 2010
Dalla
redazione (2004/5) del mio saggio in due parti “Stalin e la lotta per la
riforma democratica” una grande messe di prove circa l’opposizione, i
processi di Mosca del 1936, 1937 e 1938, le pueghe contro i militari o ”
Tukhachevsky Affair “, e la successiva “Ezhovshchina “, spesso chiamato
” il Grande Terrore ” dopo il titolo del libro estremamente disonesto di
Robert Conquest pubblicato la prima volta nel 1968. Le nuove prove confermano le
seguenti conclusioni: * Gli imputati ai processi di Mosca
di agosto 1936, gennaio 1937 e marzo 1938, erano colpevoli di almeno
quei crimini che hanno confessato. Il “blocco dei diritti e dei
trotskisti” effettivamente esisteva. Fu pianificato l’assassinio di
Stalin, Kaganovic, Molotov e altri in un coup d’état, quello che si
chiama una “congiura di palazzo” (dvortsovyi perevorot). Il “blocco”
assassinò Kirov. * Sia il gruppo dei “Diritti” che i
trotzkisti stavano cospirando con i tedeschi e giapponesi, come fecero i
cospiratori militari. Se la “congiura di palazzo” non avesse funzionato,
speravano di arrivare al potere, mostrando fedeltà alla Germania o al
Giappone in caso di invasione. * Anche Trotsky era direttamente
coinvolto nella cospirazione con i tedeschi e giapponesi, così come un
certo numero di suoi sostenitori. * Anche Nikolai Ezhov, capo della
NKVD dal 1936 a fine 1938, cospirava con i tedeschi. Ezhov Ora abbiamo molte più prove circa il
ruolo del capo della NKVD Nikolai Ezhov di quelle che avevamo a
disposizione nel 2005. Ezhov, capo del NKVD (Commissariato del popolo
per gli affari interni), svolgeva una personale attività cospirativa
contro il governo sovietico e la leadership del partito. Ezhov era stato
reclutato dai servizi segreti tedeschi. Come il gruppo dei “Diritti” e i
trotzkisti, Ezhov ed i suoi uomini migliori dell’NKVD facevano
affidamento su un’invasione dalla Germania, dal Giappone, o da un altro
grande paese capitalista. Hanno torturato molte persone innocenti per
spingerli a confessare crimini di passibili di pena capitale in modo da
fucilarli. Sottoposero a esecuzioni sommarie un gran numero di persone
utilizzando prove falsificate o addirittura senza nessuna. Ezhov sperava che queste esecuzioni
di massa di persone innocenti avrebbe fatto schierare gran parte della
popolazione sovietica contro il governo. Questo avrebbe creato le basi
per lo scoppio di ribellioni interne contro il governo sovietico nel
caso di attacco da parte della Germania o del Giappone. Ezhov mentì a Stalin, al partito e
ai capi del governo. Le esecuzioni di massa veramente orribili del
1937-1938 di circa 680.000 persone, sono state in gran parte
ingiustificate esecuzioni di innocenti effettuate deliberatamente da
Ezhov e dai suoi uomini migliori per seminare il malcontento tra la
popolazione sovietica. Anche se Ezhov fece fucilare un
numero molto elevato di persone innocenti, è chiaro che, dalle prove ora
disponibili, vi erano anche vere e proprie cospirazioni. Il governo
russo continua a conservare ogni cosa ma purtroppo alcuni documenti
utili per questa investigazione rimangono top -secret. Non possiamo
sapere con certezza esattamente le dimensioni delle cospirazioni reali
senza tali prove. Pertanto, non sappiamo quante di queste 680.000
persone erano cospiratori reali e quanti sono stati vittime innocenti. Come ho scritto nel 2005, Stalin e
la direzione del partito cominciarono a sospettare già dall’ ottobre
1937 che la maggior parte della repressione fosse effettuata in modo
illegale. All’inizio nel 1938, quando Pavel Postiscev fu aspramente
criticato, poi rimosso dal Comitato Centrale, poi espulso dal partito,
processato e giustiziato per l’ingiustificata repressione di massa,
questi sospetti crebbero. Quando Lavrentii Beria venne
nominato come il vice di Ezhov, questi e i suoi uomini compresero che
Stalin e la direzione del partito non si fidavano più di loro. Fecero un
ultimo complotto per assassinare Stalin il 7 novembre 1938, in occasione
della celebrazione del 21 ° anniversario della Rivoluzione bolscevica.
Ma gli uomini di Ezhov furono arrestati in tempo. Ezhov venne convinto a dimettersi.
Un’intensa attività investigativa venne avviata e un enorme numero di
abusi del NKVD vennero scoperti. Un gran numero di casi di coloro che
furono giudicati o puniti a causa di Ezhov vennero rivisti. Oltre
100.000 persone vennero rilasciate dal carcere e dai campi. Molti uomini
del NKVD vennero arrestati e confessarono di aver torturato, processato
e giustiziato persone innocenti,. Molti altri membri del NKVD furono
condannati al carcere o licenziati. Sotto Beria il numero delle
esecuzioni nel 1938 e il 1940 scese a meno dell’1% del numero raggiunto
sotto il comando di Ezhov nel 1937 e 1938; e molti di quelli giustiziati
erano uomini dell’NKVD, tra cui Ezhov stesso, colpevoli di una massiccia
repressione ingiustificata e di aver sottoposto ad esecuzione persone
innocenti. Alcune delle prove più evidenti e
impressionanti pubblicate a partire dal 2005, sono le confessioni di
Ezhov e di Mikhail Frinovsky, il secondo in comando di Ezhov. Ho messo
alcuni di questi documenti su Internet sia nel loro originale russo che
in traduzione inglese. Abbiamo anche un gran numero di confessioni e gli
interrogatori, per lo più parziali, di Ezhov, in cui fa molte altre
confessioni. Questi sono stati pubblicati nel 2007 in un semi-ufficiale
account da Aleksei Pavliukov. Parziale traduzione dell’articolo
reperibile all’URL
http://msuweb.montclair.edu/~furrg/research/trials_ezhovshchina_update0710.html
http://msuweb.montclair.edu/~furrg/research/trials_ezhovshchina_update0710.html
La teoria "originale" di Trotsky
Dalla rivoluzione democratica alla rivoluzione socialista
Lenin si è convertito al Trotskismo ?
Trosky e i contadini
Il socialismo in un solo paese
Rivoluzione permanente o rivoluzione ininterrotta per tappe ?
III L'inattitudine all'analisi corretta
Brest Litovsk
Pianificazione amministrativa o economia politica
La pianificazione e la NEP
la grande svolta del 1929
L'accumulazione originaria socialista e i problemi della transizione
IV Un antiburocratismo burocratico
La questione del centralismo democratico
La critica trotskista della burocrazia
Trotsky e l'URSS
La questione di Stalin
V Degenerazione revisionista o rivoluzione culturale
La posizione trotskista
La base sociale della restaurazione capitalistica
Le nuove tesi di Ernest Mandel
Alcuni fatti che illustrano la restaurazione del capitalismo in URSS
La rivoluzione culturale
VI Stalin e Trotsky di fronte alla rivoluzione cinese
Introduzione
La cronaca : punti di riferimento
Come Isaac Deutscher scrive la storia
Trotsky e la rivoluzione cinese
Stalin ha tradito deliberatamente la rivoluzione cinese ?
Il Comintern e il PCC nel periodo dal 1928 al 1934
Trotsky e la rivoluzione cinese dopo il 1927
L'influenza delle interpretazioni trotskiste
VII La sconfitta dei comunisti greci
I comunisti greci nella Resistenza
L'intervento britannico del 1944
Dopo Varzika
La guerra civile
Le responsabilità di Stalin
VIII Conclusione : i tratti fondamentali del trotskismo
IX Le nostre critiche ad alcune organizzazioni trotskiste
La IV internazionale
I lambertisti e l'OCI
Appendice 1
Deciso fronte unito contro l'imperialismo americano
Appendice 2
La JCR nel maggio 1968
Appendice 3
L'itinerario ideologico di Ch'en Tu-hsiu
Bibliografia sommaria
INTRODUZIONE
Trotsky e i suoi epigoni hanno sempre negato l'esistenza del "trotskismo ".
Essi si dichiarano i fedeli discepoli di Lenin. Secondo loro gli
"staliniani" hanno coniato questo termine per designare una presunta teoria
propria di Trotky allo scopo di farne il bersaglio dei loro attacchi ,
diretti in realtà contro la rivoluzione in URSS e nel mondo . Trotsky ha
protestato , affermando che la sua concezione della rivoluzione permanente è
derivata da Marx e che Lenin l'ha condivisa tacitamente nelle sue Tesi
d'aprile . Certi elementi trotskisti o trotskizzanti , in particolare Isaac
Deutscher e Alfred Rosmer , hanno affermato che non v'era differenza alcuna
tra la rivoluzione permanente del loro maestro e la rivoluzione ininterrotta
per tappe di Mao.
"Non ho mai preteso e non pretendo di creare una dottrina particolare . In
teoria sono un allievo di Marx . Per quanto concerne i metodi della
rivoluzione sono passato attraverso i metodi di Lenin" (1)
Vien da pensare che la difesa del trotskismo implichi la sua sconfessione e
l'ignoranza dell'apporto teorico di Lenin . Nei dinieghi di Trotsky esiste
tuttavia un fondo di verità .
Deutscher ha insistito nel suo attaccamento al " marxismo classico" .
Dimostreremo in seguito che si tratta di un eufemismo designante un modo di
procedere dogmatico ed empirico a un tempo , in quanto l'impotenza teorica
che il dogmatismo comporta conduce coloro che ne sono afflitti a cadere
nell'empirismo . Bukharin ha detto di lui che " eccelleva (..) nel tracciare
prospettive rivoluzionarie generali " . I suoi talenti di teorico , in
effetti , finiscono qui . Contrariamente a Lenin e a Mao , egli non ha mai
saputo analizzare una situazione nella sua specificità , determinare la
contraddizione principale e la parola d'ordine principale .Dal momento che
non ha saputo individuare le leggi della rivoluzione in seno a una
formazione sociale applicando nella pratica della lotta di classe i princìpi
universali del materialismo storico , il suo contributo a questa scienza è
nullo.Le sue poche "idee" originali non sono d'altronde le sue , poiché egli
ha sopratutto volgarizzato quelle degli altri . Inoltre , non dava prova di
molto discernimento nel suo ricollegarsi ai classici , come si vedrà nel
caso della "accumulazione originaria socialista" Perfino i suoi partigiani
più accesi sono imbarazzati quando si chiede loro quali siano i concetti da
lui creati.
Per tutti questi motivi , si può parlare di trotskismo in quanto corrente
ideologica ma difficilmente come di corpo dottrinale e per nulla di " guida
per l'azione" . Le palinodie di Trotsky nei confronti della "reazione
termidoriana"illustrano perfettamente la sua totale impotenza teorica . I
trotskisti moderni , da parte loro praticano il dogmatismo di un dogmatismo.
Nell'epoca della rivoluzione culturale , terza tappa del marxismo essi sono
i relitti di un'epoca passata , marxisti della prima fase, come dire che non
sono affatto marxisti.
I propagandisti borghesi e gli ideologi trotskisti hanno fatto lega
all'insegna della comunanza dei beni .I primi forniscono ai secondi i loro
laboratori di ricerca e documentazione . Le opere di cremlinologia e di
sinologia , le pubblicazioni del consolato generale degli Stati Uniti a Hong
Kong costituiscono le principali fonti delle diatribe trotskiste contro i
paesi socialisti(2).
Da parte loro , i trotskisti sono importanti fornitori di ipotesi "teoriche
" , di schemi e di falsificazioni storiche che permettono di attaccare
Stalin e la Cina Popolare da un punto di vista apparentemente di "sinistra"
, e ciò rappresenta una grande risorsa per certi giornalisti che si vogliono
illuminati. Si tratta di "armonia prestabilita" , non di collusione
deliberata . Per ragioni differenti, gli uni e gli altri propagano l'idea
secondo la quale i partiti comunisti non erano altro che fantocci manipolati
da mosca e da Stalin , origine di tutti i mali. Uno dgli argomenti più
curiosi degli apologeti di Trotsky consiste nel paragonare l'uomo d'ingegno,
lo scrittore brillante che era il loro idolo all'autodidatta Stalin , dallo
stile pesante e sgraziato , per concludere che il secondo non potesse avere
ragione contro il primo . Come se la validità, nella scienza
marxista-leninista , fosse una questione di talento letterario.
Questa concezione corre come un filo nero attraverso tutte le pagine della
biografia di Trotsky scritta da Isaac Deutscher. Lo stesso sottolinea con
insistenza che Stalin non si era imposto come teorico prima del 1924. Orbene
, da questo punto di vista , era Bukharin a godere del più alto prestigio
dopo Lenin.Si vuole con ciò affermare che egli ebbe ragione di sostenere i
kulaki , di lanciar loro la parola d'ordine "arricchitevi" , di perorare la
costruzione del socialismo "a passo di lumaca "?Una simile logica sfiora
talvolta il grottesco , come quando Deutscher dichiara che Ch'en Tu-hsiu era
un "teorico" ben superiore a Mao (3).
I pubblicisti borghesi ragionano allo stesso modo. L'anarco trotskizzante
Cadar rimprovera a Mao di essere un "primitivo" e di non avere un pensiero
"raffinato". Gli sembra incomprensibile che autori "sofisticati" come
Althusser , Glucksmann o Sollers(4) tengano Mao in così alta considerazione.
L Bianco dichiara che Mao non è un "profondo pensatore " bensì un " mediocre
teorico"(5). E' evidente che per lui essere un "pensatore" significa essere
un "contemplativo". Egli constata che Mao ha saputo "svincolarsi dal dogma e
vedere la realtà quale era" ma non si rende conto che per " vedere la realtà
come è " occorrono lenti teoriche singolarmente potenti , oltre la capacità
di dirigere le lotte delle masse che trasformano in modo rivoluzionario
questa realtà ( per conoscere il gusto di una pera bisogna trasformarla
mangiandola). Ciò che questi autori , analogamente a Trotsky , non riescono
a concepire è il legame tra la teoria e la pratica e la forma concreta di
questo legame : la linea di massa. Trotsky non ha avuto forse la pretesa di
giudicare i rivoluzionari del mondo intero dal suo studio di Prinkipo o di
Coyoacan senza nemmeno dirigere , come Stalin , una vera internazionale
radicata nelle masse ?
Il risultato ( i suoi articoli), se ha talvolta lo splendore del vetro , ne
ha anche la fragilità.
Il suo stile e la sua vasta cultura gli facevano credere che le sue idee
fossero altrettanto profonde e solide.Molto spesso in lui la
contrapposizione meccanica si sostituisce all'analisi razionale e la
retorica al pensiero concreto. Si può anche dire che fu vittima tanto dei
suoi lati positivi quanto delle sue debolezze; i primi gli davano
l'illusione di possedere capacità che gli mancavano: quelle dello stratega
politico e del teorico. Mao ha detto: « Più ci si crede superiori, più i
risultati che si ottengono sono mediocri. » Chi ha avvicinato Trotsky ha
notato la sua ambizione, il suo orgoglio, o meglio la sua arroganza. Egli
poneva se stesso al di sopra di tutti, non concedendo che una sola
eccezione, e ciò solo per il periodo dal 1917 al 1924. Nei suoi scritti,
Trotsky ha almeno il buon senso di non insistere sull'ottima opinione che ha
di se stesso. Per contro, non ci nasconde il disprezzo che nutre verso i
dirigenti bolscevichi più eminenti. Un giorno si dovrà riunire un'antologia
dei testi in cui condanna, denigra, ridicolizza i suoi avversari comunisti o
i suoi compagni di lotta. La sua polemica metterà in ridicolo le sue vittime
ma finirà per ritorcersi contro di lui. Noi non impiegheremo le stesse armi.
Sottoporremo le sue tesi a un severo ma equo esame critico. È facile
compilare una voluminosa raccolta di sciocchezze con estratti dei suoi libri
e forte è la tentazione di passare sotto silenzio i meriti che egli ha
acquisito accettando la direzione di Lenin durante i primi cinque anni della
rivoluzione: questo è il modo di procedere degli autori revisionisti. Quanto
a noi, preferiamo prendere di petto il fenomeno Trotsky poiché, dopo tutto,
esso è sempre vivo, a dispetto di tutti gli esorcismi. È chiaro che Trotsky
era dotato di grande talento. Brillante pubblicista, oratore pieno di brio,
organizzatore dell'Armata Rossa, egli ha reso grandi servigi alla
rivoluzione da quando entrò nel partito bolscevico. Il rovescio della
medaglia sta nel suo estremo individualismo, nel suo orgoglio, nella sua
arroganza e nel fatto che il rigore del suo pensiero era quello di un
avvocato, non quello di un teorico che attinga la sua forza dal legame con
le masse e dalla sua capacità di dirigerle. Le sue opere più conosciute
Nuovo corso, La rivoluzione tradita, La rivoluzione permanente so-no abili e
brillanti requisitorie pro domo sua, ma di limitato interesse dato che
dimostrano, tutt'al più, che alcune delle critiche rivoltegli erano prive di
fondamento. Effettivamente non tutto quanto ha affermato nella sua polemica
contro Stalin era falso. Ma, come vedremo, si è sbagliato sull'essenziale.
Il suo rivale possedeva su di lui un vantaggio determinante, che emerge
quando si confrontano í loro rispettivi contributi al dibattito; era un
leninista, un dirigente rivoluzionario della seconda fase del marxismo;
Trotsky era un rivoluzionario « classico » sopravvissuto in un mondo
post-classico, come ha affermato il suo biografo. Queste vecchie
controversie presenterebbero un interesse unicamente storico, se i
trotskisti non vi attingessero parte della loro argomentazione. E tenendo
presente che essi esercitano una notevole influenza nell'ambito del
movimento studentesco, facendo leva sulla confusione ideologica che regna in
quest'ultimo, è di grande utilità confrontare con i fatti i principali temi
della loro propaganda. I trotskisti partono da « principi teorici » di cui
esamineremo la portata scientifica, ossia la capacità di comprendere la
realtà in vista della sua trasformazione. Oltre a ciò, essi utilizzano
esempi tratti dalla storia del movimento operaio. Non avendo mai assunto la
direzione autonoma di una rivoluzione vittoriosa, dopo quarant'anni di
esistenza delle loro organizzazioni su scala inter-nazionale, i trotskisti
non possono appoggiarsi su esperienze esemplari compiute in base
all'applicazione dei loro principi. La loro argomentazione è dunque fondata
sulla critica dell'esperienza altrui. Vedremo che la loro versione della
storia è, in ogni singolo caso, uno schema molto lontano dalla realtà. Non
bastano a giustificarli i libri in cui Trotsky, i suoi discepoli e coloro
che ne hanno subito l'influenza, accusano (spesso a ragione) gli storici «
staliniani » di aver falsificato la storia. È forse il caso di stupirci se
quest'ultima esce ancor più falsificata dalla loro letteratura apologetica?
(6)
Da lungo tempo la menzogna e l'invettiva si sono sostituite alla seria
confutazione del trotskismo. Le opere storiche sovietiche presentano una
versione dei fatti talmente monca e unilaterale da risultare inutilizzabili
da parte di un pubblico che può disporre di informazioni ulteriori, anche
contraddittorie. La Storia dell'URSS di Aragon, da questo punto di vista,
supera tutte le altre. Basta menzionare la disinvoltura con cui l'autore
nasconde la polemica sulla rivoluzione cinese del 1927. È dunque opportuno
far luce su questi problemi, in particolare per quanto concerne il movimento
della gioventù, un settore importante del movimento popolare rivoluzionario.
Sta di fatto che la degenerazione opportunista di numerosi partiti
comunisti, specialmente in America Latina e in Europa, a partire dal 1945 e,
in seguito, l'adozione delle tesi revisioniste del XX Congresso del PCUS,
hanno contribuito a infondere un « secondo slancio » al trotskismo. Dopo
esser stato controrivoluzionario (nel periodo 1929-1945), esso tende
attualmente a incarnare, tramite parole d'ordine ultrarivoluzionarie, la
rivolta della piccola borghesia intel-lettuale. Si spiega così il progresso
costante e generale dei movimenti trotskisti dopo il 1960. Gli attacchi
indiscrimi-nati di Krusciov contro la persona di Stalin e l'assenza di
autocritica scientifica da parte del PCUS hanno .fornito ai trotskisti la
possibilità di far passare í giudizi sull'URSS, espressi dal loro « profeta
» negli anni venti o trenta, come previsioni sull'evoluzione di questo paese
negli anni '50 e '60. Essi possono in tal modo giustificare
retrospettivamente il loro atteggiamento durante l'epoca di Stalin,
ingannando giovani dalle conoscenze storiche sommarie e, di conseguenza,
vulnerabili di fronte a schemi d'interpretazione che, se hanno il merito
della semplicità, non brillano certamente per rigore. Approfittando di
questa favorevole situazione, essi pro-clamano spavaldamente che « il
trotskismo... è divenuto la pietra di paragone... di tutti i movimenti
rivoluzionari con-temporanei ».(7) La pubblicazione del libro di Léo
Fíguères Il trotskismo, questo antileninismo (8) dimostra che il PCF è ormai
costretto a riconoscere questa nuova situazione. Esso la fronteggia con í
metodi consueti. Léo Figuères intitola un capitolo del suo libro: « Trotsky
populista », ma si guarda bene dal mettere in guardia il lettore sul fatto
che questa « prima parte della vita militante » di Trotsky, oggetto della
trattazione, va situata nel periodo in cui questi aveva meno di 19 anni!
Riferendosi alla guerra di Spagna, il nostro autore mette sul conto del
trotskismo gli errori del POUM, mentre era stato proprio il capo della IV
Internazionale ad accusare alcuni membri del POUM di essere « centristi
impotenti ». Léo Figuères attribuisce infine a Trotsky un'opinione che lo
stesso aveva combattuto, cioè che la burocrazia è una « nuova classe ».
Queste ingiuste accuse (e altre più gravi che tralasciamo) provano a
sufficienza che un libro simile è suscettibile di convincere solo gli
ignoranti o coloro che sono già convinti in partenza. Nel criticare il
trotskísmo da un punto di vista di destra, l'autore contribuisce a
conferirgli un'aureola di sinistra che esso non merita affatto. L'intento
del nostro libro non è di tracciare il bilancio del ruolo storico svolto da
Stalin o da Trotsky e dal suo movimento. Noi ci proponiamo solo:
1. Di cogliere quella che, a nostro avviso, è l'essenza del
trotskismo, per dimostrare in cosa esso si oppone al leninismo, in cosa è
antidialettico e antiscientifico e dunque non rivoluzionario, per non dire
controrivoluzionario;
2. Di dissipare i miti e le leggende intorno alla sua pretesa
argomentazione storica, mostrando come essa sia contraddetta dai fatti o, in
altri termini, da un'analisi scientifica della lotta di classe nel periodo
considerato.
Diamo ragione a Stalin unicamente nei limiti del dibattito che l'ha opposto
a Trotsky. La critica del secondo è riscontrabile negli scritti del primo,
ma non inversamente. Ora, una confutazione di Trotsky non risulta esauriente
se non viene associata a una critica di Stalin. Quest'ultima fa appello ai
concetti formulati da Mao Tse-tung. Grazie a lui e alla rivoluzione
culturale è oggi possibile superare lo « stalinismo » e, di conseguenza,
regolare definitivamente i conti che esso ha in sospeso con il trotskismo
sul piano teorico e pratico. Andando al di là dell'argomento base, che è la
confutazione del trotskismo, le domande finiscono spesso per prevalere sulle
risposte. Avvertiamo il lettore di questo fatto perché egli non venga
indotto in errore dal tono talvolta troppo spigliato di queste pagine. Il
nostro scopo non è quello di concludere il dibattito , ma di farlo avanzare
.
NOTE
(1) L.Trotsky " la
révolution défigurée " , De la révolution , Ed de Minuit , p. 111
(2) Vedere ad esempio , l'uso che ne fa Pierre Broué in le Parti Bolchevique
, Ed de Minuit , Parigi , 1963 , e Livio Maitan nel suo rapporto sulla
Rivoluzione Culturale al IX congresso della IV Internazionale
(3) Cfr Appendice 3
(4) Cfr le discours de la guerre , Ed l'herne , 1967
(5) Cfr Les origines del la révolution chinoise, Gallimard , 1967, p 133
(6) Prima della pubblicazione di Lezioni d'Ottobre, nell'ottobre 1924, la
rivista « Bolchevik », criticando gli articoli di Trotsky, notava a
ra-gione: « Il compagno Trotsky menziona gli stretti collaboratori di Lenin,
coloro che hanno costituito il nucleo fondamentale del bolsce-vismo,
soltanto nella misura in cui può sottolineare i loro errori. » (Citato da P.
e I. Sorlin, Lénine, Trotsky, Staline, 1921-1927, Ed. A. Colin, 1961.)
(7) Pierre Naville , "le Monde", 5 aprile 1969 .
(8) Ed sociales, 1969
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I. CRONOLOGIA
Questa cronologia
fornisce dettagli su alcuni punti non trattati nelle pagine seguenti e offre
un quadro di riferimento per agevolare la loro comprensione. Tutto ciò che
non era indispensabile a tale scopo è stato omesso.
26 ottobre 1879
Nascita di Lev Davidovic Bronstein.
1897 Inizio
dell'attività militante a Odessa.
1898 Arresto.
Influenzato per breve tempo dal populismo, egli diviene marxista con la
lettura, in carcere, dell'opera di Lenin Lo sviluppo del capitalismo in
Russia.
1902 Fugge dal suo
luogo di deportazione in Siberia e giunge a Londra.
luglio 1903 Secondo
congresso del partito socialdemocratico russo, risoltosi con una scissione.
Trotsky appoggia l'ala opportunista, che verrà ormai designata col nome di
menscevichi (minoritari) contro Lenin e i bolscevichi (maggioritari).
1904 Trotsky si reca
a Monaco dove incontra il teorico socialdemocratico tedesco di origine russa
Parvus. Trotsky mutuerà da lui gli elementi della sua teoria della
rivoluzione permanente.
9 gennaio1905
Domenica di sangue. Le "forze dell'ordine"aprono il fuoco su una
manifestazione pacifica diretta dal prete Gapone
febbraio 1905 Trotsky
arriva a Kiev , poco dopo si reca a San Pietroburgo
ottobre 1905 Sciopero
generale a Pietroburgo, Gli operai formano un soviet (consiglio) di delegati
, di cui Trotsky viene eletto presidente. Spaventato lo zar pubblica un
"manifesto" in cui promette una costituzione , le libertà civili e il
suffragio universale , pur non avendo affatto l'intenzione di mantenere la
parola
3 dicembre 1905 La
polizia arresta tutti i membri del Soviet. Per tutta risposta gli operai di
Mosca diretti dai bolscevichi si sollevano. Vengono schiacciati
dall'esercito dopo 10 giorni di combat-timento sulle barricate. Parecchie
altre rivolte. I socialdemocratici boicottano le elezioni alla Duma.
19 settembre - 2
novembre 1906 Processo del Soviet di San PietroburgoGli accusati sono
condannati alla deportazione perpetua.
febbraio 1907 Trotsky
si dà alla fuga prima che il convoglio dei prigionieri arrivi a
de-stinazione
aprile 1907 Il III°
Congresso del partito social-democratico si riunisce a Londra. Trotsky nega
l'importanza delle divergenze che oppongono bolscevichi e menscevichi.
Assume l'atteggiamen
to di un conciliatore
« al di sopra della mischia », ma si unisce ai menscevichi per attaccare
Lenin a proposito delle attività di guerriglia dei commando bolscevichi, in
particolare nel Caucaso, sotto la direzione di Stalin.
ottobre 1908 Trotsky
si stabilisce a Vienna, occupandosi soprattutto di giornalismo. Trotsky
pubblica il primo numero della « Pravda ».
gennaio 1910 I
dirigenti menscevichi e bolscevichi si riuniscono a Parigi e decidono:
1. Di escludere gli «
otzovisti » (boicottatori della Duma) che con-dannavano qualsiasi attività
legale e i « liquidatori » avversi al lavoro clandestino;
2. Di dissolvere le
loro organizzazioni e di fonderle. I menscevichi tuttavia violano ben presto
l'accordo. Si rifiutano di espellere i liqui-datori e conservano la loro
organizzazione separata. Lenin, al contrario, tien fede ai suoi impegni.
Trotsky, nella « Pravda », si astiene dal condannare l'atteggiamento
scissionista dei menscevichi. Indipendentemente dalle sue professioni di
fede, a lui ciò che importa non è l'unità, bensì la sua posizione d'arbitro
fra i due campi.
1912 Conferenza di
Praga dei bolscevichi che decidono di rompere con i menscevichi. Trotsky li
denuncia violentemente. La sua collera raggiunge il culmine quando,
nell'aprile 1912, i bolscevichi fanno uscire a Pietroburgo un quitidiano
chiamato "Pravda" , il cui capo redattore è Stalin . Dopo averli minacciati
di "prendere altre misure" se il loro giornale non avesse mutato nome, è lui
che rinuncia a continuare la pubblicazione della sua "Pravda"
agosto 1912Su
iniziativa di Trotsky, i menscevichi, i liquidatori, i bolscevichi di
sinistra (o otzovisti), il Bund ebreo e il gruppo di Trotsky si riuniscono
in una Conferenza a Vienna e formano ciò che è noto come « Blocco d'agosto
». Il fine di questa manovra è di rigettare su Lenin la responsabilità della
scissione. Il Blocco d'agosto si sfalderà molto rapidamente.
aprile 1913 Lettera
di Trotsky al dirigente menscevico Ccheidze in cui dichiara: « Tutto il
leninismo in questo momento è fondato sulla menzogna e sulla falsificazione
e porta in sé il germe della propria decomposizione. »
5 agosto 1914 Scoppia
la prima guerra mondiale. I partiti socialdemocratici delle potenze
belligeranti, a eccezione dei bolscevichi, tradiscono gli impegni che
avevano presi al Congresso della II° Internazionale, votano i crediti di
guerra, si pronunciano per la « difesa nazionale » e per l'« unione sacra ».
gennaio 1915A Parigi,
Trotsky diviene, insieme con Martov, redattore in capo di « Naché Slovo ».
In questo giornale difende la sua parola d'ordine: « Né vittoria né
sconfitta » che egli oppone al disfattismo rivoluzionario o « trasformazione
della guerra imperialista in guerra civile » di Lenin. Quest'ultimo
rispondeva che i partigiani dello slogan « Né vittoria né sconfitta » si
schierano in realtà a fianco della borghesia e degli opportunisti, poiché
essi « non credono » nella possibilità di azioni rivoluzionarie
internazionali della classe operaia contro i rispettivi governi e non
vogliono contribuire allo sviluppo delle sue azioni.
settembre
1915Conferenza di Zimmerwald (Svizzera) che riunisce i socialisti che si
oppongono alla guerra (in maggioranza pacifisti). Il manifesto adottato alla
fine della conferenza è conforme alla posizione centrista di Trotsky
aprile 1916La polizia
francese vieta « Naché Slovo ».
30 ottobre
1916Trotsky viene espulso e instradato verso la Spagna, da dove si reca
negli Stati Uniti
8-15 marzo (21-28
marzo) 1917 Il popolo rovescia lo zarismo. La borghesia gli sottrae la
vittoria e instaura un governo provvisorio presieduto dal principe L'vov. Il
Soviet dei deputati operai e soldati dominato da socialistirivoluzionari e
menscevichi gli cede il potere.
16 (29) aprile Lenin
fa rientro a Pietrogrado. Pubblica le sue Tesi d'aprile.
Modificato da Yuri
Gagarin - 31/10/2013, 20:23
« Da quassù la Terra
è bellissima, senza frontiere né confini. »
3 (16) luglio 1917
Manifestazioni armate chiedono che sia dato tutto il potere ai Soviet. I
bolscevichi scavalcati dalle masse riescono a malapena a impedire che la
manifestazione degeneri in insurrezione. La repressione si abbatte sui
bolscevichi. La « Pravda » è proibita. Lenin si nasconde.
23 luglio (3
agosto)Trotsky viene arrestato.
26 luglio (6 agosto)
VI Congresso del partito bolscevico. Stalin presenta il rapporto politico
del Comitato Centrale. Il Congresso ammette nel partito l'organizzazione di
Trotsky. Quest'ultimo viene eletto al Comitato Centrale.
24 agosto (6
settembre)Il generale Kornílov tenta di prendere il potere ma le truppe che
egli lancia contro Pietrogrado, convinte dalla propaganda bolscevica,
passano dalla parte del popolo.
4(17) settembre
Trotsky è liberato
9 (22) settembre. I
bolscevichi ottengono 'la maggioranza al Soviet di Pietrogrado; il Comitato
Centrale bolscevico decide la preparazione immediata dell'insurrezione.
Trotsky vi si oppone, insistendo perché si attenda fino al II Congresso dei
Soviet. Questo fatto è taciuto da Trotsky nella sua Storia della rivoluzione
russa dove, tuttavia, egli mette minuziosamente in evidenza ogni errore di
Stalin o di altri dirigenti bolscevichi.
17 (30)
ottobreZinov'ev e Kamenev, ostili all'insurrezione rivelano la decisione del
Comitato Centrale nel giornale di Gorki « Novaia Gizn »
24 ottobre (6
novembre)Lenin giunge a Pietrogrado e si reca all'Istituto Smolny, sede del
Soviet e quartiere generale dell'insurrezione, che egli dirigeva assistito
da Trotsky e Antonov Ovséienko, membri del Centro militare rivoluzionario
del partito bolscevico. Nella notte dal 24 al 25 tutti i punti strategici
della capitale vengono occupati.
25 ottobre (7
novembre)L'appello redatto da Lenin « Ai cittadini di Russia » annuncia la
destituzione del governo provvisorio e la presa del potere da parte del
Soviet di Pietrogrado. il II° Congresso dei Soviet si riunisce la sera
stessa. I due terzi dei delegati sono bolscevichi
2 (15) dicembre
1917Apertura dei negoziati di pace di Brest-Litovsk fra i rappresentanti
delle potenze centrali e quelli del governo sovietico con alla testa
Trotsky, commissario agli Affari Esteri. Decreto sulla creazione dell'Armata
Rossa.
1(14) febbraio
Adozione del calendario gregoriano.
10 febbraioI
sovietici (che applicano il piano di Trotsky) rompono le trattative
dichiarando che avrebbero smobilitato ma senza firmare la pace.
18 febbraio I
tedeschi sfondano il fronte e avanzano verso la capitale senza incontrare
resistenza
« Da quassù la Terra
è bellissima, senza frontiere né confini. »
23 febbraio La nuova
Armata Rossa blocca provvisoriamente i tedeschi davanti a Pskov e Narva («
Giornata dell'Armata Rossa »).
24 febbraio Trotsky
dà le dimissioni dal suo posto di commissario agli Affari Esteri.
3 marzo Viene
firmato, a Brest-Litovsk, il nuovo diktat tedesco.
13 marzo Trotsky è
nominato commissario alla Guerra.
25 maggio Dietro
istigazione della Francia, la legione cecoslovacca e le guardie bianche si
impadroniscono della Siberia e avanzano fino a Kazan. I giapponesi e gli
americani sbarcano a Vladivostok, gli inglesi prendono Baku e Arkhangelsk.
11 novembre Fine
della guerra mondiale
2-7 marzo 1919 I
Congresso dell'Internazionale comunista.
novembre Disfatta
delle armate bianche di Judenic (nei pressi di Pietrogrado) e di Denikin (in
Ucraina).
gennaio1920 Crollo
dei Bianchi in Siberia
24 aprile I polacchi
sostenuti dagli anglofrancesi attaccano la Russia sovietica e conquistano
Kiev.
21 luglio-6 agosto
II° Congresso dell'Internazionale.
12 ottobre Trattato
di pace con la Polonia
novembre Sconfitta di
Wrangel e fine della guerra civile
2-17 marzo 1921
Insurrezione di Kronstadt.
8-16 marzo X
Congresso del Partito. Adozione della NEP; divieto delle frazioni. Trotsky è
battuto sulla questione dei sindacati
15 ottobre Lettera di
46 eminenti oppositori che criticano la politica economica e l'assenza di
democrazia nel partito. È Trotsky ad ispirarli dietro le quinte.
7 novembreApertura di
un pubblico dibattito sulla lettera dei 46.
dicembre
Pubblicazione del Nuovo Corso di Trotsky: egli attacca la « vecchia guardia
» bolscevica, di cui teme la degenerazione burocratica, e fa appello alla
gioventù. Zinov'ev chiede che Trotsky venga espulso dal Partito e arrestato.
Stalin si oppone energicamente
« Da quassù la Terra
è bellissima, senza frontiere né confini. »
16-18 gennaio 1924 La
XIII Conferenza del Partito condanna Trotsky e i 46
21 gennaio Morte di
Lenin
ottobre Trotsky
pubblica le Lezioni di Ottobre. In questo testo egli tenta, ricordando i
loro passati errori, di gettare il discredito su Zinov'ev e Kamenev che si
trovano con Stalin alla testa del Partito. Riesce solo a suscitare una
levata di scudi contro se stesso: « dibattito letterario ».
15 gennaio 1925
Trotsky da le dimissioni dal commissariato alla Guerra. Kamenev tenta di far
abbandonare ii segretariato a Stalin, proponendo che quest'ultimo
sostituisca Trotsky.
27-29 aprileXIV
Conferenza del Partito. Prima divergenza tra Stalin, da un lato, che afferma
la possibilita di costruire il socialismo in un solo paese, e Zinov'ev e
Kamenev, dall'altro, che la negano. Nel corso dell'estate i seguaci di
Zinov'ev polemizzano contro i bukhariniani, che accusano di difendere
kulaki. Stalin sostiene Bukharin ma rifiuta la sua parola d'ordine «
Arricchitevi » indirizzata ai contadini. Bukharin fa l'autocritica su questo
punto.
18-31 dicembre XIV
Congresso: Zinov'ev e Kamenev sono battuti. Trotsky non prende la parola. E
da un anno che si disinteressa della politica e non si accorge neppure della
nascita di una nuova opposizione
aprile 1926 Zinov'ev
e Kamenev formano con Trotsky l'opposizione unificata.
14-23 luglio Trotsky
presenta davanti al Comitato Centrale ii programma dell'opposizione.
Zinov'ev perde il suo posto nell'Ufficio politico.
23-26 ottobre Trotsky
e Kamenev vengono esclusi dall'Ufficio politico.Bukharin sostituisce
Zinov'ev alla testa dell'Internazionale.
31 marzo 1927 Trotsky
attacca la politica cinese dell'Ufficio politico.
luglio «Dichiarazione
Clemenceau» di Trotsky. Egli annuncia che, in caso di guerra, l'opposizione
tentera di prendere il potere per meglio assicurare la difesa del paese.
27 settembre Trotsky
escluso dal Comitato esecutivo dell'Internazionale
21-28 ottobreTrotsky
e Zinov'ev vengono espulsi dal Comitato Centrale.
7 novembre
L'opposizione tenta di partecipare alle manifestazioni ufficiali con le
proprie parole d'ordine: « colpite i kulaki, gli uomini della NEP e i
burocrati », « applicate ii testamento di Lenin », « salvaguardate l'unita
bolscevica ».
15 novembre Trotsky e
Zinov'ev vengono espulsi dal Partito.
2-19 dicembre XV
Congresso. il programma dell'opposizione era stato sottoscritto da solo
6.000 membri su 725.000. Zinov'ev e Kamenev riconoscono che le loro
posizioni erano « erronee e antileniniste ».
17 gennaio 1928
Trotsky e esiliato ad Alma-Ata. Poiche i kulaki Si sono rifiutati di
consegnare il grano al prezzo fissato, la carestia si fa sentire sempre più
nelle citta.
6-11 aprile Il
Comitato Centrale chiama alla lotta contro il pericolo kulak. Esso ordina la
requisizione delle riserve di grano. Inizia il nuovo corso contro la destra.
settembre Discorsi di
Kujbysev sull'accelerazione dell'industrializzazione. L'ala destra di Mosca
viene eliminata. Bukharin critica la svolta a sinistra con il suo scritto
Osservazioni di un economista.
10 febbraio 1929
Trotsky esiliato dall'URSS. Si installa nelle Isole dei Principi presso
Costantinopoli.
16-23 aprile Il CC
condanna la deviazione di destra
23-25 aprile La XIV
Conferenza del Partito adotta il primo Piano quinquennale.
24 ottobre Crollo di
Wall Street, inizio della grande crisi.
10-17 novembre
Bukharin viene escluso dall'Ufficio politico. Fa l'autocritica.
27 dicembre Stalin
lancia un appello per l'accelerazione della collettivizzazione e la
liquidazione dei kulaki in quanto classe.
1930 Trotsky pubblica
La rivoluzione sfigurata e La rivoluzione permanente. Fa uscire il primo
numero del « Bol-lettino dell'opposizione »
1931-1932 Trotsky
mette in guardia contro l'ascesa del nazismo e critica la tattica del PC
tedesco.
30 gennaio 1933
Hitler al potere.
15-18 gennaio 1935
Primo processo di Zinov'ev e Kamenev, accusati di complicita nell'assassinio
di Kirov. Trotsky pubblica Lo Stato Operaio, Termidoro e bonapartismo.
giugno Espulso dalla
Francia, Trotsky e accolto in Norvegia.
febbraio 1936
Pubblicazione di La rivoluzione tradita.
giugno Vittoria del
Fronte popolare in Francia
17 luglio Inizio
della guerra civile di Spagna
19-24 agosto Primi
processi di Mosca. Zinov'ev e Kamenev sono condannati a morte.
settembre L'URSS
porta il suo aiuto alla Spagna repubblicana
27 settembre Yezhov
sostituisce Jagoda alla testa della NKVD.
novembre L'VIII
congresso straordinario dei soviet adotta una nuova costituzione, "la più
democratica del mondo"
9 gennaio 1937Trotsky
giunge in Messico
23-30 gennaio
Processo di Pjatakov e di Radek
3 marzo Stalin
presenta davanti al CC il suo rapporto « Per una formazione bolscevica »
11 giugnoComunicato
che annuncia l'esecuzione di Tuchacevskij e di altri capi dell'Armata rossa.
2-13 marzo 1938
Processo di Bukharin e di Rykov
3 settembre
Conferenza di fondazione della IV Internazionale.
30 settembre Accordo
di Monaco.
dicembre Yezhov
sostituito da Beria.Fine della grande purga.
28 febbraio 1939 Fine
della guerra di Spagna.
22 agosto Patto
russo-tedesco.
settembre 1939 agosto
1940 Trotsky scrive In defense of Marxism
maggio-giugno 1940 I
tedeschi invadono la Francia
20 agosto Assassinio
di Trotsky nella sua residenza di Coyoacan, per mano di un presunto agente
dei servizi speciali sovietici.
XX
Modificato da Yuri
Gagarin - 1/11/2013, 14:05
« Da quassù la Terra
è bellissima, senza frontiere né confini. »
II. UN DOGMATISMO
ATEMPORALE
La teoria « originale
» di Trotsky
Nel maggio 1904
Trotsky era appena stato allontanato dal comitato di redazione dell'« Iskra
», su proposta di Plekhanov. Egli continuò comunque a collaborare al
giornale menscevico. In quel periodo si recò a Monaco, dove conobbe il
socialdemocratico russo Helphand, il cui pseudonimo era Parvus. Rimarra con
lui fino al febbraio del 1905 e ne sara' profondamente influenzato. Pur
riservando, come il primo, la sua simpatia ai menscevichi, egli pretenderà
di svolgere il ruolo di arbitro, di giudice e di paciere tra le due frazioni
del , partito socialdemocratico russo e si terra perciò in disparte dall'una
e dall'altra. La « teoria » della rivoluzione permanente è dovuta, nei suoi
tratti essenziali, a Parvus. E' stato quest'ultimo a elaborare per primo
parte delle idee che costituiranno l'ossatura del pensiero trotskista fino
ai nostri giorni. In una serie di articoli intitolati Guerra e Rivoluzione,
egli affermava che lo Stato nazionale, il cui sorgere aveva corrisposto alle
esigenze del capitalismo industriale, poteva considerarsi ormai superato. Lo
sviluppo di un mercato mondiale avrebbe abbattuto questa divisione in
compartimenti stagni, accentuando l'interdipendenza reciproca delle nazioni.
All'inizio della rivoluzione del 1905, Parvus scrisse una prefazione al
libro di Trotsky I nostri compiti politici, in cui affermava: « II governo
rivoluzionario provvisorio di Russia sara un governo di democrazia
operaia... Siccome il partito socialdemocratico e alla testa del movimento
rivoluzionario... questo governo sara socialdemocratico... un governo
coerente con una maggioranza socialdemocratica. »
Trotsky ne dedusse
molto semplicemente che un tale tipo di governo non avrebbe potuto che
applicare una politica specificatamente socialdemocratica e che avrebbe
preso immediatamente la strada delle trasformazioni in senso socialista. In
questo egli si opponeva tanto ai menscevichi — che basandosi sul carattere
democratico-borghese della rivoluzione sostenevano la grande borghesia
liberale che stava cercando un compromesso con lo zarismo — quanto ai
bolscevichi che, sia pur distinguendo fra la tappa democratica e la tappa
socialista, ritenevano che ii proletariato dovesse mobilitare i contadini
per assumere la direzione della rivoluzione democratica e portarne i compiti
fino in fondo, cosa che non implicava assolutamente il fatto che la
socialdemocrazia avesse la maggioranza in un governo che si fosse costituito
in seguito a una vittoria popolare.(1)
Trotsky, questo
eloquente tribuno, venne accettato alla testa del Soviet di Pietrogrado dai
menscevichi e dai bolscevichi, appunto perche non rappresentava che se
stesso e pertanto non avrebbe interferito nelle politiche che ciascuno
porzava avanti. Lo dimostra ii fatto che sia gli uni che gli altri, pur
continuando a polemizzare fra di loro, si preoccuperanno in seguito assai
poco di combattere le sue concezioni. Prima di passare alla discussione
sulla « rivoluzione permanente » partendo da una analisi della situazione
concreta nel 1905, ricordiamo che Trotsky, in seguito, non sarebbe stato
tanto fiero di essere considerato ii discepolo di Par-vus. Questi, nel 1914,
si rivelera un social-sciovinista e, per giunta, mercante di cannoni e
ignobile speculatore. Ecco perche Trotsky faceva risalire la propria teoria
a Marx an-che se non osava negare ii suo debito nei confronti di Parvus. E
vero che Marx usa ii termine « rivoluzione permanen-te », specialmente in Le
lotte di classe in Francia, ma cio che dice su questo argomento si situa a
un tale livello di astra-zione che risulta impossibile basarsi su questo
test° per conferire la palma dell'ortodossia a Parvus e a Trotsky o a Lenin
e a Mao. Sia gli uni che gli altri sono in accordo con Marxsia pur
divergendo fra di loro. Marx era d'altra parte consapevole del carattere
relativamente generale e astratto della sua definizione della rivoluzione
permanente poiche si scusa di non poterla sviluppare sufficientemente a
causa della mancanza di spazio.Il concetto di rivoluzione permanente cosi
come viene sviluppato da Parvus e da Trotsky e un tentativo di risposta ai
problemi della tattica rivoluzionaria nel 1905. E a partire da quel momento
che su questo concetto appaiono delle divergenze fra coloro che si dicono
marxisti. Queste divergenze saranno oggetto del nostro studio.
Dalla rivoluzione democratica alla rivoluzione socialista
(Riassunto delle
pagine 16-24 dell'opuscolo Che fare? n. 3 cfr. bibliografia.)
Nel 1905, la
rivoluzione imminente doveva realizzare compiti democratico-borghesi, ossia
eliminare lo Stato zarista e la sua base sociale, la proprieta feudale, che
frenavano lo sviluppo del capitalismo. La borghesia non poteva tuttavia
dirigere questa rivoluzione, data la sua alleanza con i proprietari fondiari
e la sua penetrazione nell'apparato statale, che essa trasformava
graduaimente dall'interno. Da cio l'apparente paradosso: la borghesia non
era interessata alla rivoluzione borghese; essa preferiva inevitabilmente il
compromesso con lo zarismo. Nelle campagne, ciò nonostante, la borghesia
rurale non si era ancora pienamente sviluppata, trovandosi irretita nei
rapporti feudali. Tutte le categorie di contadini in via di differenziazione
avevano inoltre un comu-ne interesse a rovesciare lo zarismo. Ii
proletariato e i contadini erano dunque in questo momento le principali
forze rivoluzionarie. Un'alleanza tra le due classi era necessaria per
abbattere lo zarismo in modo rivoluzionario. Ii proletariato doveva dirigere
questa alleanza: solo esso disponeva di una capacita organizzativa tale da
rendere la propria egemonia possibile e necessaria. Per il proletariato,
dirigere la rivoluzione significava: coinvolgere i contadini, appoggiarsi
sull'iniziativa rivoluzionaria delle masse contadine, impedire alla
borghesia di conquistarsi la direzione del movimento contadino per poi
spezzarlo con una riforma agraria incompleta e burocratica (decretata
dall'alto). La parola d'ordine « dittatura democratica rivoluzionaria del
proletariato e dei contadini » stava a significare questa alleanza e questa
egemonia. Inolire la direzione proletaria, col garantire la continuità della
rivoluzione (e ii suo carattere radicale), avrebbe creato le condizioni per
una rivoluzione socialista. Questa parola d'ordine rendeva possibile la
partecipazione bolscevica a un governo rivoluzionario provvisorio che doveva
esercitare tale dittatura. Di quali partiti si sarebbe dovuto comporre in
maniera stabile questo governo? Era una domanda astratta, nel senso che solo
la pratica poteva risolvere il problema, solo lo sviluppo reale della
rivoluzione poteva apportare elementi per una risposta. La stessa domanda
perse significato dopo ii fallimento della rivoluzione e l'apparizione di un
nuovo assetto delle forze di classe. Questo punto e essenziale. Lo slogan «
dittatura democratica rivoluzionaria del proletariato e del contadini »
corrispondeva in modo adeguato alla situazione oggettiva della rivoluzione
del 1905. Esso traduceva con molta precisione i compiti del proletariato:
organizzare i contadini per l'instaurazione della dittatura comune. Non dava
adito a nessun « enigma » (Trotsky). Una parola d'ordine risponde alle
esigenze del momento. Quella dei bolscevichi nel 1905 era, come ogni parola
d'ordine, uno strumento di agitazione e di propaganda; essa mostrava agli
operai la via principale che doveva imboccare il cammino della rivoluzione:
l'organizzazione dei contadini verso la conquista di un potere democratico
conseguente; essa orientava la rivoluzione proletaria, sprigionava
l'iniziativa contadina. Trotsky, dal canto suo, proponeva al proletariato di
impadronirsi del potere statale e di servirsene successivamente per
mobilitare i contadini: « Molti strati delle masse lavoratrici,
particolarmente nelle campagne, saranno per la prima volta portati a
partecipare alla rivoluzione e riceveranno un'organizzazione politica solo
dopo che l'avanguardia della rivoluzione, il proletariato urbano, sara
giunta al timone del potere.(3)
Nel 1917, la seconda
rivoluzione trionfa, in piena guerra imperialista.Quest'ultima aveva
contribuito ad accelerare lo sviluppo sociale .Il capitalismo sie era
trasformato in capitalismo monopolistico di stato. Nelle campagne, il
processo di differenziazione aveva compiuto notevoli rogressi.La riforma
agraria zarista (stolpyn ) aveva consolidato la borghesia rurale. La guerra
aveva unito operai e contadini in modo uniforme ; sono gli stessi soldati
ammutinati che rovesceranno il governo zarista .La rivoluzione del 1917
portò all'instaurazione di un doppio potere.Da un lato il governo
provvisorio che rappresentava la borghesia repubblicana imperialista ,
dall'altro i soviet. Questi si differenziavano dai soviet sorti dalle masse
del 1905 per il fatto:
1 che erano armati
2 che, dato che la
Russia era in guerra, esistevano soviet di soldati (in gran parte coscritti
contadini).
Nelle sue Tesi
d'aprile, Lenin spiega che la situazione ri-voluzionaria presenta caratteri
specifici, in confronto a quella del 1905. La dittatura democratica si è
realizzata nei Soviet, seppure in maniera incompleta, dato che il potere
stesso coesiste con quello della borghesia imperialista. il compito del
momento è di far passare tutto il potere nelle mani dei Soviet. Questa è la
parola d'ordine avanzata della democrazia rivoluzionaria. In concreto,
questa democrazia rivoluzionaria deve risolvere il problema agrario (compito
identico, nei suoi principi, dal 1905 al 1917) e cominciare ad attuare
programmi socialisti nelle campagne. È la guerra imperialista che porta
all'ordine del giorno questi compiti del socialismo. La rivoluzione del 1917
è stata dunque rivoluzione proletaria, che doveva imboccare la via del
socialismo dopo aver realizzato i programmi democratici.
Trotsky riscrive la
storia. Egli isola i due momenti: 1905 e 1917, trascurando il periodo che li
separa (episodio indubbiamente inutile per la sua dimostrazione); ed ecco
ciò che diviene la storia del bolscevismo. Nel, 1905, stando a lui, Lenin ha
formulato una « ipotesi »: dittatura rivoluzionaria democratica del
proletariato e dei contadini, ipotesi che riposava su una « incognita »: il
ruolo politico dei contadini. L'ottobre 1917 toglie l'incognita; l'ipotesi
di Lenin (che prospettava la possibilità di un partito contadino avente la
maggioranza nel governo rivoluzionario) non si è verificata , in quanto a
trionfare è stata la dittatura del solo proletariato.
Il "pronostico" di
trotsky , al contrario è confermato.
L'Ottobre 1917 non ha
smentito il luglio 1905. A quella data, la parola d'ordine leninista era
giusta , poichè corrispondeva ai compiti del movimento d'agitazione e di
propaganda,Nel 1917 la nuova parola d'ordine leninista era giusta ,in quanto
corrispondeva ai nuovi ì compiti del momento (guerra , differenziazione
nelle campagne,sviluppo del capitalismo monopolistico, sviluppo effettivo
della situazione che ha prodotto una imprevedibile forma concreta di doppio
potere). La teoria di Trotsky suppone che le condizioni del 1905 e del 1917
siano identiche: infatti, per trovare nel 1917 la conferma di ciò che egli
affermava nel 1905, Trotsky deve supporre che, tra i due momenti, niente sia
mutato. Questo è il nucleo dell'astrazione trotskista. Trotsky, di
conseguenza, è costretto a falsificare il significato dei testi di Lenin nel
1917. Questi diceva in effetti che la dittatura democratica si era in certo
qual modo realizzata nel 1917 (sotto forma di Soviet). Trotsky finge di
credere che, se la dittatura democratica sí è realizzata, essa ha assunto la
forma del regime imperialista di Kerenskij: «Se da noi la dittatura
democratica si fosse realizzata solo con il regime di Kerenskij al servizio
di Lloyd George e di Clemenceau si sarebbe costretti a constatare che la
storia si è burlata crudelmente della parola d'ordine strategica del
bolscevismo. » (4)Ciò è falso. Lenin concepiva la forma sovietica come
realizzazione della dittatura democratica. Trotsky tenta vanamente di
mascherare la teoria leninista sotto la propria veste, basandosi sulla
apparente coincidenza fra il proprio slogan del 1905 e quello di Lenín del
1917. Lenin non esitava a definire la parola d'ordine « Tutto il potere ai
Soviet! » come quella, non del socialismo, ma della « democrazia
rivoluzionaria avanzata »; egli si guardava bene dal giocare con le parole e
con le astrazioni. La dittatura del proletariato non era per lui
un'astrazione; dopo la rivoluzione si sforzerà di spiegare perché lo Stato
sovietico era uno Stato operaio e contadino. Per ammissione di Trotsky e dei
suoi epigoni la rivoluzione permanente non è una disputa passataLa sua
importanza risiede nel suo valore attuale. Teoria generale formulata a
partire dalle lezioni d'ottobre, essa avrebbe rapresentato la via universale
del bolscevismo. Le "rivoluzioni coloniali", la Cina ieri, il Vietnam oggi
lo dimostreranno in maniera brillante .I trotskisti hanno acquisito una
notevole esperienza all'applicazione della teoria della rivoluzione
permanente . Questa "disinvoltura" dev'essere spiegata : essa poggia sul
contenuto stesso della teoria . Formatasi attaraverso la riduzione degli
sviluppi concreti della situazione russa , essa si sviluppa nello stesso
modo
Prendiamo l'esempio
della Cina: durante circa vent'anni il Partito Comunista Cinese mobilita le
masse con le parole d'ordine di nuova a democrazia, lotta contro
l'imperialismo, il feudalesimo e il capitalismo burocratico. La vittoria di
democrazia di tipo nuovo che realizza, sotto la direzione del proletariato,
la rivoluzione agraria radicale, apre al socialismo. Per arrivare a questa
vittoria, si sono distinguere esattamente le tappe della rivoluzione:
latappa borghese nella sua base economica e la tappa socialista; ed è stato
necessario preparare internamente alla prima, le condizioni per la seconda.
Tutto ciò presuppone una salda direzione della lotta, che sappia guadagnare
a sé, attraverso le proprie parole d'ordine, il maggior numero di alleati
possibile, isolando il nemico principale. I trotskisti constateranno il
risultato — la Cina socialista — e faranno la sottile osservazione: la
rivoluzione non si è arrestata, essa si è sviluppata in continuità. Si
tratta evidentemente di una rivoluzione permanente. Per vent'anni, lo slogan
« staliniano » è è stato insufficiente; esso comportava, secondo
l'affermazione dì Trotsky a proposito della parola d'ordine leninista di
dittatura democratica rivoluzionaria del proletariato, una incognita «
algebrica ». La sua risoluzione, come fosse « aritmetica », sarebbe la
rivoluzione socialista. Chi ha fatto il più può fare il meno. Quando si sarà
fatta la rivoluzione socialista (il massimo), si sarà fatta nello stesso
tempo la rivoluzione democratica (il minimo). Dal fatto che la rivoluzione
democratica si trasforma, a una fase determinata, in rivoluzione socialista,
ì trotskisti deducono che la rivoluzione socialista è all'inizio
democratica. Il loro rivoluzionarismo viene esaltato da questo giochetto di
reciprocità che, eviden temente, è capzioso, poiché occorre preparare la
fase in cui la rivoluzione si trasforma. Ciò suppone che le fasi siano
distinte. È una condizione particolare per sprigionare l'iniziativa
contadina. Nei paesi dominati dall'imperialismo, la rivoluzione agraria è un
compito fondamentale. Il processo di subordinazione della classe dei
proprietari fondiari all'imperialismo conferisce un nuovo senso concreto
alla tesi: la questione agraria, in fondo, è una questione nazionale; la
rivoluzione democratica, in ultima analisi, è una rivoluzione nazionale. Dal
punto di vista strategico, l'esempio vietnamita lo conferma
inequivocabilmente: il nemico principale di una rivoluzione democratica
conseguente è l'imperialismo; un imperialismo concreto, nel nostro caso
quello americano. La prima tappa della rivoluzione ininterrotta è dunque
nazionale democratica. Colpendo lo stesso nemico della rivoluzione
proletaria mondiale, essa fa parte di quest'ultima. Tutto ciò assicura
migliori condizioni alla necessaria direzione della lotta da parte del
proletariato, senza di che la rivoluzione nazionale democratica non sarebbe
pienamente conseguente e non potrebbe trasformarsi in rivoluzione
socialista. Questa necessaria direzione non è inevitabile, come dimostra la
vittoria della rivoluzione nazionale non democratica in Egitto o in Algeria.
Trotsky escludeva del tutto la possibilità di una vittoria rivoluzionaria
nazionale diretta dalla democrazia piccolo-borghese.(5) La realtà smentisce
il formalismo trotskista. La direzione proletaria suppone che l'iniziativa
rivoluzionaria dei contadini si sviluppi nel corso della presa del potere e
non dopo la presa del potere per mano degli operai (tesi di Trotsky). Questa
direzione presuppone metodi d'organizzazione propri ai contadini per la
conquista del potere. Affermando che i contadini non sono in grado di
organizzarsi in « partito indipendente », Trotsky esclude la possibilità di
organizzarli per la presa del potere. Riconoscere chiaramente questa
condizione significa ammettere il carattere democratico rivoluzionario del
potere da conquistare. I trotskisti non possono riconoscere la necessità (la
legittimità) di un governo democratico (tesi del Fronte di Liberazione
Nazionale) sorto sulle rovine dell'antico apparato statale, feudale,
coloniale o neocoloniale. Riconoscere la necessità di inventare le forme di
direzione che sprigionino l'iniziativa delle masse contadine significa
rendere possibile la guerra popolare e la sua illimitata creatività
rivoluzionaria.
(CONTINUA)
NOTE
1 Perche un partito
diriga un movimento rivoluzionario non e necessario che la sua autorità
venga riconosciuta dai suoi alleati. E' necessario e sufficiente che la sua
linea politica sia conseguente, le sue parole d'ordine siano corrette,
conformi agli interessi e ai desideri delle masse e capaci di unire tutti
coloro che possono essere uniti in funzione di combattere ii nemico
principale. I suoi alleati sono allora costretti a seguirlo almeno in una
certa misura. Quando non lo seguono, questi si isolano e la loro influenza
diminuisce dato che il partito applica nei loro riguardi una politica di
unita e di lotta, appoggiandoli nella misura in cui queki alleati si
oppongono al comune nemico, criticandoli quando tendono a piegarsi a dei
compromessi.
2 Le lotte di classe
in Francia dal 1848 at 1850, in Marx-Engels, Opere scelte, Editori Riuniti,
Roma,
1966, p. 463.
3 La rivoluzione
permanente, Einaudi, 1967, p. 53
4 La rivoluzione
permanente, p. 86.
5 La rivoluzione
permanente, p. 95 e sgg.
Modificato da Yuri
Gagarin - 18/11/2013, 21:50
Lenin si è convertito al trotskismo?
Nel definire
l'orientamento generale della lotta, l'obiettivo cui devono tendere tutti
gli sforzi dei socialdemocratici, Lenin dichiara nelle Due tattiche: « ...la
forza capace di riportare una "vittoria decisiva sullo zarismo" può essere
unicamente il popolo, vale a dire il proletariato e i contadini... La
"vittoria
decisiva".., è la
dittatura democratica rivoluzionaria del proletariato e dei contadini. »
Questa dittatura avrà il compito di realizzare le « trasformazioni
assolutamente e immediatamente necessarie al proletariato e ai contadini »,
ovvero il « programma minimo » del Partito. E Lenin aggiunge: « Non sarà
però evidentemente una dittatura socialista, ma una dittatura democratica,
che non potrà intaccare (senza che la rivoluzione abbia percorso varie tappe
intermedie) le basi del capitalismo. » (6)Che dice Trotsky al proposito? «
Il solo fatto, per i rappresentanti del proletariato, di entrare nel governo
non come ostaggi impotenti ma come forza dirigente, distrugge la barriera
tra programma minimo e massimo, pone cioè il collettivismo all'ordine del
giorno... Per questo motivo, non può trattarsi di una forma speciale di
dittatura del proletariato nella rivoluzione borghese, di una dittatura
democratica (o del proletariato e dei contadini)... » (7) Qualche pagina
prima aveva sottolineato: « Tutto il problema si riduce a questa domanda:
chi determinerà il contenuto della politica governativa, chi formerà nel suo
seno una solida maggioranza? »Questa la ragione per cui Lenin ha voluto
verosimilmente attribuirgli la parola d'ordine « Niente zar ma un governo
operaio » che riassume abbastanza bene la sua posizione.(9) Spiegando la
risoluzione del III Congresso del POSDR Lenin dichiara al contrario: « ...si
parla esclusivamente del governo rivoluzionario provvisorio e di
nient'altro; non si parla affatto, cioè, per esempio, della "conquista del
potere" in generale ecc... poiche la situazione politica della Russia non
pone affatto all'ordine del giorno simili questioni, mentre ii popolo intero
ha posto all'ordine del giorno l'abbattimento dell'autocrazia e la
convocazione dell'Assemblea costituente. I congressi del Partito devono
risolvere non i problemi sollevati, a torto o a ragione, da questo o quel
pubblicista, ma quelli che, date le condizioni del momento e il corso
oggettivo dello sviluppo sociale, hanno una seria importanza politica. »
(10) (Corsivi dell'autore. [N.d.R.]) Quanto alla partecipazione dei
socialdemocratici al governo rivoluzionario provvisorio, il III Congresso
aveva semplicemente concluso che ciò era ammissibile. « In funzione del
rapporto di forze e di altri fattori impossibili da determinare con
precisione in precedenza. »(11) Si constata che Lenin non era per nulla
incline a fare « pronostici» e la sua unica preoccupazione era di formulare
parole che rispondessero ai compiti del momento indicandone i punti «
essenziali, generali ». Più tardi Trotsky spieghera': « io mi opposi alla
formula "dittatura democratica del proletariato e dei contadini" perche essa
aveva, secondo me, il difetto di lasciare in sospeso la questione: a quale
di queste due classi spettera la dittatura effettiva? »(12) Questa
affermazione e esatta se Trotsky intende dire che Lenin non fissava a priori
la composizione del governo « che avrebbe dovuto esercitare la dittatura
democratica... ».(13)Ma essa è falsa se insinua che Lenin non parlava del
ruolo egemonico della classe operaia. Nelle Due tattiche, ii capo bolscevico
si è espresso piU di una volta sull'argomento: « La nostra intenzione e di
dirigere... non soltanto il proletariato organizzato dal Partito
socialdemocratico, ma anche quella piccola borghesia capace di marciare al
nostro fianco.» (14) e anche: « ...il proletariato... deve essere abbastanza
cosciente e forte per elevare i contadini alla coscienza rivoluzionaria, per
dirigere la loro offensiva e attuare cosi di propria iniziativa una
democrazia proletaria conseguente. » (15) Le critiche di Trotsky sono dunque
assolutamente prive di fondamento. Prospettando un governo socialdemocratico
omogeneo, egli sopravvaluta ii livello di coscienza politica dei lavoratori
russi, sottovalutando nello stesso tempo, il potenziale rivoluzionario della
massa contadina non ancora differenziata nel 1905. Nell'aprile 1917, la
situazione e profondamente diversa. Lenin constata « l'approfondirsi del
fossato tra gli operai agricoli e i contadini poveri da un lato, e i
contadini proprietari dall'altro. » (16) Egli insiste sulla « lotta perchè
predominino, in seno ai Soviet dei deputati, gli operai, i salariati
agricoli, i contadini e i soldati ».(17) Se ora la formula della « dittatura
democratica » ha fatto ii suo tempo, e per due ragioni:
1. Essa viene
realizzata in certo qual modo nei Soviet: « Il Soviet dei deputati operai e
soldati e la dittatura del proletariato e dei soldati; questi ultimi sono in
massima par-te contadini. Si tratta dunque di una dittatura degli operai e
contadini. » (18)
2. I Soviet, sotto la
direzione della piccola borghesia, hanno cecluto il potere al governo
provvisorio, e cioè alla borghesia.
Nella particolare
situazione del 1917, bisognava colpire in primo luogo i rappresentanti
politici di questa piccola borghesia, poiché essa ingannava le masse e
consolidava il dominio della borghesia imperialista. Sappiamo che Stalin ha
generalizzato questo caso particolare, mentre Mao ha seguito il principio
contrario (e generale) di guadagnare le forze intermedie isolando i
reazionari irriducibili. I trotskisti affermano che Lenin avrebbe condiviso
« tacitamente », nell'aprile 1917, il punto di vista di Trotsky.(19) Lenin
ha inflitto loro in anticipo delle solenni smentite, come questa che data
appunto dell'aprile 1917: « Il trotskismo dice: "Niente zar, ma un governo
operaio". È falso. La piccola borghesia esiste, non si può non tenerne
conto. Ma essa si compone di due parti. La parte povera marcia con la classe
operaia. »(20) E quest'altra che data del 1918: « Tutto si è svolto
esattamente come avevamo previsto. Lo sviluppo della rivoluzione ha
confermato l'esattezza del nostro ragionamento. In un primo tempo [Corsivo
dell'autore. (N.d.R.)] essa è stata fatta insieme a "tutti" í contadini
contro la monarchia, contro i grandi proprietari fondiari, contro il medio
evo (ed è così rimasta una rivoluzione democratico-borghese).
Successivamente [Corsivo dell'autore. (N.d. R.)] essa è andata avanti con i
contadini poveri, con i semi-proletari, con tutti gli sfruttati contro il
capitalismo, e in questo modo è diventata socialista. » (21) Si vede quale
credito convenga accordare alla leggenda fatta circolare dai trotskisti,
secondo cui Lenin si sarebbe convertito al trotskismo nel 1917 e avrebbe
riconosciuto di essersi sbagliato a distinguere la fase democratica e la
fase socialista. La nostra precedente dimostrazione proa il contrario. I
trotskisti, tentando di rendere verosimile la loro tesi, sono perciò
obbligati a spingersi ancora più in là sulla strada della falsificazione,
inventandosi un Lenin che nega l'interpenetrazione di una tappa nell'altra.
È ciò che fa Isaac Deutscher a beneficio dei suoi lettori:
« La sua politica
[quella di Lenin] era saldamente fondata sul principio che la rivoluzione
russa si sarebbe attenuta ai suoi obiettivi antifeudali. » (22) Se ci
prendiamo la briga di verificare, constateremo che Lenin ha detto
esattamente il contrario in Due tattiche della socialdemocrazia: « La
dittatura socialdemocratica rivoluzionaria del proletariato e dei
contadini.., ha un passato e un avvenire. Il suo passato è l'autocrazia, la
servitù della gleba, la monarchia, il privilegio... Il suo avvenire è la
lotta contro la proprietà privata, è la lotta del salariato contro il
padrone, è la lotta per il socialismo. »(23)Dopo aver istillato nella mente
dei suoi lettori ignari una prima contro-verità, Deutscher faticherà di meno
nel far ammettere loro la seconda (quella che gli importa) che sembrerà
ovvia: « Nel 1917,... Lenin cambiò idea. Nel concreto, la tesi della
rivoluzione permanente [naturalmente non la sua denominazione piuttosto
libresca] fu adottata dal Partito. » (24 )Così, per dare ragione a Trotsky,
si deve imputare a Lenin un volgare errore opportunistico nel 1905, ciò che
permette in seguito di falsificare in senso contrario le sue posizioni del
1917. Ammiriamo poi quel « naturalmente », che dispensa Deutscher dallo
spiegarci come mai Lenin non abbia adottato la « denominazione » di «
rivoluzione permanente », se era vero che questa corrispondeva a un concetto
scientifico. Lenin avrebbe avuto timore dei termini e dei libri marxisti?
NOTE
6
Lenin, Opere complete, vol. IX, pp. 47-48.
7 «
Results and Prospects », Permanent Revolution and Results and Prospects,
Pioneer Publisher, New York, 1965, p. 212.
8 Ibid., p. 201. 9
Secondo Trotsky questo sarebbe ii titolo di un opuscolo di cui l'autore era
Parvus. Cfr. La rivoluzione permanente, p. 39.
10 Opere complete,
vol. IX, pp. 18-19.
11 Ibid., p. 18.
12 La rivoluzione
permanente, p. 20.
13 Secondo Lenin
questa formula non prevedeva « che un rapporto fra classi, e non
un'istituzione politica che materializzasse questo rapporto, questa
collaborazione ». (Opere complete, vol. IX.)
14 Opere complete,
vol. IX, p. 38. Per piccola borghesia Lenin intende i piccoli produttori
indipendenti, quindi specialmente i piccoli proprietari contadini.
15 Ibid., p. 51.
16 Opere complete,
vol. XXIV p. 37.
17 Ibid., p. 39.
18 27 aprile 1917.
Opere complete, vol. XXIV .
19 Cfr. Isaac
Deutscher, Staline, Club du meilleur livre, 1961, p. 293; Pierre Broué, Le
Parti bolchevique, 1963, p. 83.
20 Opere complete,
vol. XXIV, p. 145. 21 Cfr. La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky.
22 Staline, p. 293.
23 Due tattiche della
socialdemocrazia (Opere complete, vol. IX, p.75).
24 Ibid.
Modificato da Yuri
Gagarin - 19/11/2013, 21:41
Trotsky e i contadini
Nella sua pretesa di
essere più leninista di Lenin, Trotsky ha negato con veemenza di aver voluto
« trascurare i contadini » o di averne sottovalutato il potenziale
rivoluzionario. Egli ha accusato Lenin di averlo criticato su questo punto
senza aver letto le sue opere. In realtà, nel capitolo Bilanci e prospettive
consacrato ai rapporti tra il proletariato al potere e i contadini, egli
manifesta apertamente il proprio disprezzo verso questi ultimi. (25) Qualche
citazione lo proverà: « Numerosi strati delle masse lavoratrici, in
particolare nelle campagne, saranno coinvolti nella rivoluzione e si
organizzeranno politicamente solo dopo che l'avanguardia rivoluzionaria, ii
proletariato urbano, avrà in mano le redini dello Stato. L'agitazione e
l'organizzazione rivoluzionaria saranno allora dirette con l'aiuto delle
risorse dello Stato » (pp. 202-203). « In una simile situazione creata dal
passaggio del potere al proletariato, ai contadini resterà solo da
collegarsi al regime della democrazia operaia. Non importa che i contadini
non lo facciano secondo un livello di coscienza più elevato di quando
sostenevano il regime borghese » (p. 205). Alludendo alla politica
leninista, egli scriveva poi: « Si propone ora di completare questa
restrizione politica con una vera "garanzia" antisocialista, imponendo al
proletariato un collaboratore: il mugik. » (26)In effetti, secondo Lenin «il
proletariato... non può vincere ... se la massa dei contadini non si unisce
alla [sua] lotta rivoluzionaria » .(27) Osserviamo innanzi tutto che il
capitolo da cui abbiamo estratto le due prime citazioni si intitola « Ii
proletariato al potere e i contadini » (Corsivo dell'autore. [N.d.R.]).
Trotsky non dice nulla sull'alleanza del proletariato e dei contadini in
vista di prendere ii potere. Possiamo riassumere come segue le idee di
Trotsky prima del 1917 sull'argomento che stiamo trattando:
— Il proletariato
emancipa i contadini e conduce internamente a essi un lavoro d'agitazione e
d'organizzazione dopo aver preso ii potere.
— I contadini si
congiungono al proletariato con un fatalismo e un'ignoranza verso i propri
interessi altrettanto grandi di quando sostenevano un regime reazionario.
— Non è il caso, per
Trotsky, di fare concessioni ai contadini affinchè le contraddizioni tra
loro e il proletariato rimangano secondarie. Infatti egli non distingue la
fase democratica dalla fase socialista della rivoluzione.(28) Inoltre, egli
considera che il passaggio a quest'ultima supponga un conflitto tra le due
classi.
La definizione data
da Lenin alla dittatura del proletariato metterà in luce quanto questa
posizione fosse antileninista: « La dittatura del proletariato e una forma
particolare dell'alleanza di classe fra proletariato, l'avanguardia dei
lavoratori, e i numerosi strati non proletari di lavoratori (piccola
borghesia, piccoli proprietari, contadini, intellettuali ecc...) diretta
contra il capitale... per l'instaurazione e il con-solidamento del
socialismo. » (29)In un paese come la Russia, gli « strati non proletari dei
lavoratori » erano principalmente le larghe masse contadine. In Russia, la
dittatura del proletariato era dunque per Lenin una forma particolare
dell'alleanza di classe tra ii proletariato e i contadini lavoratori e
sappiamo che, prima di morire, una delle sue maggiori preoccupazioni era il
mantenimento di questa alleanza. Ecco per contra ciò che Trotsky scriveva
nel 1922 nella prefazione al suo libro 1905: « Per assicurare la sua
vittoria, l'avanguardia proletaria deve, a partire dal suo arrivo al potere,
attaccare radicalmente non solo la proprietà feudale ma anche la proprietà
borghese. Ne conseguiranno conflitti non solo con tutti i settori della
borghesia ma anche con larghe masse contadine, con l'aiuto delle quali il
proletariato ha conquistato il potere. Rifiutando questa bella prospettiva,
Bukharin muove la seguente obiezione a Trotsky: « La questione coloniale, da
cui dipende la sorte del capitalismo, non è insomma per noi bolscevichi che
la questione dell'alleanza fra il proletariato industriale europeo e
americano e i contadini delle colonie. « I due problemi non sono
naturalmente identici; è pertanto vero che la questione coloniale è, nelle
sue basi sociali, una questione contadina. Appoggiando le ribellioni
attraverso cui i contadini delle colonie minano la società capitalista, la
classe operaia assicura la sua egemonia sul movimento contadino coloniale...
« Se il conflitto fra proletariato e contadini è inevitabile, lo sarà anche
dopo la vittoria mondiale del proletariato. I contadini rappresentano la
stragrande maggioranza degli abitanti del globo. Se il proletariato non
avesse i mezzi per esercitare un'influenza preponderante su questa
maggioranza, la rivoluzione internazionale soccomberebbe o dovrebbe essere
rinviata fino a quando la maggior parte degli abitanti del pianeta fosse
composta da proletari. » (30) La teoria marxista-leninista aveva previsto, e
l'esperienza ha confermato, che era possibile, per il proletariato,
stabilire una durevole alleanza sotto la propria direzione con i contadini
poveri e i contadini medi di rango inferiore. In Cina la soluzione corretta
delle contraddizioni secondarie con la massa contadina è stata facilitata
dal fatto che quest'ultima ha visto le condizioni materiali della propria
esistenza migliorate dopo la liberazione e a ogni tappa della costruzione
del socialismo. Inoltre, tutte le rivoluzioni che hanno condotto
all'instaurazione della dittatura del proletariato hanno trionfato nei paesi
in cui la maggioranza dei contadini non possedeva terra. Il disprezzo di
Trotsky nei confronti dei contadini e la sua concezione feticistica della
classe operaia l'hanno condotto a dare prova di una totale incomprensione
delle vie particolari della rivoluzione cinese, della quale si era pur
tuttavia interessato all'epoca in cui egli poteva attingervi argomenti
contro Stalin e Bukharin. Per il fatto che essa si svolgeva nelle campagne,
egli è rimasto cieco di fronte a questa lotta, apportatrice del più grande
sconvolgimento rivoluzionario di ogni tempo e destinata a segnare
profondamente la seconda metà del nostro secolo.
NOTE
25 In numerosi
passaggi del libro egli ii definisce « arretrati » « primitivi ecc. I
contadini cinesi non lo erano meno, ma Mao ha sempre parlato di loro con la
più grande ammirazione a causa del loro spirito rivoluzionario. Se si pensa
al numero di insurrezioni contadine degli ultimi decenni del XIX secolo, si
può concludere che i contadini russi fossero almeno ugualmente
rivoluzionari.
26 1905, «Nos
differends », Libr. de l'Humanite, 1923, p. 255.
27 Due tattiche della
socialdemocrazia (Opere complete, vol. IX, p. 27.)
28 Trotsky distingue
queste due fasi « in teoria », cosi come distingue un programma minimo da un
programma massimo. Questa distinzione però scompare, secondo lui, al momento
della presa del potere. Infatti non ye n'e traccia nella sua propaganda o
nelle sue parole d'ordine. Nel suo libro 1905 egli si rifa a Lassalle che
avrebbe tratto dagli eventi del 1848-49 « l'insegnamento irrefutabile che
nessuna lotta in Europa pile essere vincente se, fin dal principio, non si
manifesta come strettamente socialista » (ibid., p. 55). L'esperienza delle
lotte rivoluzionarie a partire dall'inizio del secolo, giustificherebbe
piuttosto l'assioma
29 Citato da Stalin
in Questioni del Leninismo , ed rinascita 1952 nel capitolo " La rivoluzione
d'ottobre e la tattica dei comunisti " p. 101 Cfr anche il "testamento" di
Lenin dove è scritto :"Il nostro partito si basa su due classi ; sarebbe
possibile smuoverlo e la sua caduta sarebbe inevitabile se non si potesse
fare l'alleanza di queste due classi " (opere complete vol XXXVI)
30 « Sulla teoria
della rivoluzione permanente », Giuliano Procacci, Staline con/re Trotsky,
Maspero, 1965, pp. 99 e 101. Si vede come Bukharin e Stalin abbiano
anticipato la strategia dell'accerchiamento delle città a livello mondiale
(potenze imperialiste) da parte delle campagne (paesi dominati) di Lin Piao.
Modificato da Yuri
Gagarin - 21/11/2013, 21:07
« Da quassù la Terra
è bellissima, senza frontiere né confini. »
Il socialismo in un solo paese
Pur dichiarandosi
formalmente d'accordo con Lenin sulla legge dello sviluppo ineguale, Trotsky
non ne ha mai accettato tutte le conseguenze, che sono in particolare le
seguenti:
1. Come conseguenza
delle guerre che scoppieranno fra i paesi imperialisti per la spartizione
del mondo, la rivoluzione potrà trionfare dapprima in un paese relativamente
arretrato (l'anello debole) quale la Russia, grazie all'alleanza del
proletariato e dei contadini, e resistere soprattutto grazie alle violente
contraddizioni che opporranno i suoi nemici.
2. Questa rivoluzione
non sarà necessariamente il preludio immediato alla rivoluzione mondiale, ma
quest'ultima continuerà come ha iniziato, attraverso nuove vittorie in
particolari paesi (dove il capitalismo è debole) sull'arco di un lungo
periodo storico. La maturazione disuguale delle condizioni per un'esplosione
rivoluzionaria esclude infatti che essa avvenga simultaneamente in tutti i
paesi.
Dal 1906, Trotsky
riteneva che una rivoluzione in Russia avrebbe implicato un intervento delle
potenze europee, in particolare della Germania e dell'Austria-Ungheria.
Questa guerra avrebbe condotto inevitabilmente a una rivoluzione in quei
paesi e, poco alla volta, al trionfo del socialismo in tutto il mondo.
Questo meccanismo è uno degli aspetti della permanenza della rivoluzione. È
necessario, anche per un altro verso, che la rivoluzione oltrepassi subito
le frontiere della Russia. Per Trotsky o la rivoluzione sarà mondiale o non
ci sarà. Difatti in un paese a predominanza agricola, essa soccomberà molto
velocemente
Continua
xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx
Su "IL LIBRETTO ROSSO DI LENIN", ultimo
libro-compendio uscito delle opere di Lenin, nell'Indice dei nomi, vi e'
riportato correttamente chi fosse Trotsky e il suo rapporto con il
leninismo:
QUOTE
TROTSKY
(BRONSTEIN), L.D. (1879-1940). Nemico acerrimo del leninismo. Al II congresso del POSDR, iskrista della minoranza, dopo il Congresso
svolse una lotta contro i bolscevichi su tutte le questioni della teoria e
della pratica della rivoluzione socialista.
Questo scontro non si assopì mai e si tradusse poi inevitabilmente nello
scontro con Stalin, massimo esponente e portavoce del leninismo dopo la
morte di Lenin, in quanto il trotskismo era ed è ideologicamente opposto al
marxismo-leninismo.
Bisogna poi ricordare che nell'anno 1903 fu proprio Trotsky, insieme ad
altri, a fare in modo che la direzione dell'Iskra cadesse sotto il controllo
dei menscevichi. Come conseguenza Lenin e gli altri bolscevichi uscirono
dalla redazione.
Anni dopo, nel cosidetto Testamento di Lenin, Lenin di nuovo accusò Trotsky
di non-bolscevismo.
Riguardo il "è stato proprio lui a fondare la gloriosa Armata Rossa"
Mai confondere l'azione collettiva per l'azione di un singolo: La gloriosa
Armata Rossa fu fondata nel 1918 dal Consiglio dei commissari del popolo,
non certo da Trotsky da solo!
Confondere l'azione direttiva collettiva per l'azione di un singolo e'
contrario allo spirito del marxismo-lenismo.
Lo stesso Stalin durante tutta la sua vita si è sempre più volte pronunciato
contro il culto che si andava costruendo sulla sua persona, ribadendo che
tutte le decisioni venivano prese collettivamente, e che i meriti andavano
non a un leader ma a un leader collettivo: il Comitato Centrale del
PC(b)URSS.
In poche parole attento alle fonti borghesi e a quelle trotskiste, qualunque
fossa la tua idea finale su un qualunque argomento bisogna sempre sapere
trovare e esaminare anche l'opinione opposta e avere una visione il più
completa possibile.
Valter Rossi
Il trotskysmo gode ancora di un certo accreditamento perché si ascrive
all’area insurrezionale di origine piccolo borghese, quindi anarcoide e
quindi inconcludente, che con il leninismo ha purtroppo ancora un conto
aperto da oltre un secolo. Nonostante Trotsky e il trotskysmo non possono
vantare alcunché di conseguito sul piano della teoria e della prassi a
favore del proletariato e della sua causa
contro il capitalismo, per il socialismo e il comunismo, anzi avendo operato
in un solco senza soluzione di continuità per il sistematico sabotaggio del
leninismo, riescono ancora a raccogliere qualche sparuto gruppo di seguaci
tra il proletariato. Si tratta di una frangia ultra settaria, estranea al
leninismo, verso il quale, magari non a parole, è ostile nei fatti. La loro
prosopopea, verbosità e stucchevole retorica, capaci di suscitare interesse
solo in qualche idealista incallito o intellettuale “disorganico”, non hanno
prodotto altro che confusione, ostacolando l’unità dei comunisti. I loro
autocelebrati “fasti” sono direttamente proporzionali al “lustro” che la
stessa borghesia ha dato loro, in funzione antisovietica. Le opere di
Trotsky infatti erano reperibili in Italia persino durante l’epoca fascista.
Se possono vantare un ruolo dopo la vittoria della Rivoluzione d’Ottobre, è
solo perché il partito di Lenin, che pure aveva condotto una lotta asperrima
contro il liquidazionismo e l’opportunismo di Trotsky, ha voluto concedere
loro una possibilità di riabilitarsi. I risultati tuttavia furono
disastrosi, e Trotsky e i suoi accoliti finirono per schierarsi apertamente
con la reazione internazionale nel tentativo di abbattere il potere
sovietico. Nel resto del mondo le frazioni di stampo trotskysta hanno solo
arrecato danni enormi ai movimenti di liberazione e anticolonialisti,
fungendo da autentiche quinte colonne dedite al banditismo.
Quello che resta del trotskysmo internazionale tenta ancora di guadagnare
consensi accodandosi all’esultanza della reazione per il crollo dell’Unione
Sovietica. In qualche modo si sentono coautori di questa disfatta. Per loro
l’Unione Sovietica era solo un paese capitalistico. In questa posizione
“storica”, che difendono con arrogante ignoranza, credono di ottenere un
avallo per la loro pedissequa azione “antistalinista”, che tanto piace ai
revisionisti e agli anticomunisti di ogni risma.
Tuttavia la loro pochezza, stoltezza e il loro pervicace antileninismo li
rendono immediatamente identificabili come nemici della causa. Si possono
quindi smascherare e isolare piuttosto agevolmente. Peggio di loro sono i
revisionisti che agiscono riferendosi al marxismo-leninismo, ma perseguendo
di fatto la riduzione di questo patrimonio a uno sterile dottrinarismo o a
una congerie di concetti utili a giustificare l’eclettismo.
"Per i marxisti-leninisti l'opera di Stalin è stata un'opera titanica
che travalica i confini dell'Urss, per espandersi in Europa e nel resto
del mondo. Un'opera realizzata in prima persona dalla classe operaia e
dal proletariato e che ha permesso nel corso di numerose e diverse
battaglie che a vincere fossero sempre il popolo, il socialismo ed il
progresso.
Questa sua opera ha tra i suoi capisaldi:
- la costruzione del socialismo in Urss, primo Stato al mondo a vedere
concretamente realizzato il progetto per cui avevano lottato Marx,
Engels e Lenin;
- l'unità e lo sviluppo dei Partiti comunisti di diversi continenti
nella III Internazionale;
- la vittoria sul nazifascismo e l'annientamento degli eserciti invasori
di Hitler e Mussolini;
- la nascita di nuovi Stati socialisti in Europa e in Asia.
Tutto ciò è stato realizzato in nemmeno trent'anni, uno spazio temporale
assai breve e soprattutto in una situazione che non ha precedenti nella
storia. Stalin ha infatti operato in condizioni assai complesse e
difficili. Tali erano infatti le condizioni della Russia sovietica
all'indomani della vittoria della Rivoluzione d'Ottobre. Un paese
schiacciato dal peso della secolare autocrazia zarista, devastato dalla
I guerra mondiale, aggredito congiuntamente dai più potenti eserciti
imperialisti. Un paese appena uscito da una sanguinosa guerra civile
scatenata dai nemici interni ed esterni del potere sovietico e che
rimaneva solo, senza appoggi di altri Stati ed anzi assediato dal blocco
politico-economico imperialista.
La Russia sovietica era il primo paese in cui aveva trionfato la
rivoluzione socialista. Il suo cammino iniziava senza che vi fosse
un'esperienza a cui poter fare riferimento ed in condizioni
socioeconomiche veramente tremende. Un'economia prevalentemente agricola
praticamente al collasso; un settore industriale marginale e per di più
quasi completamente distrutto; la mancanza pressoché totale di
elettricità, di una rete di trasporti e di attrezzature tecniche di
sfruttamento delle materie prime.
Partire da queste condizioni e in un trentennio costruire, contando
esclusivamente sulle proprie forze, uno Stato basato su un'economia e su
rapporti sociali completamente nuovi e che è stato in grado di resistere
e sbaragliare l'aggressione nazifascista basata su una possente forza
militare, dà il segno concreto di quanto grande sia stata l'opera
compiuta da Stalin, ma soprattutto di come questa grande opera si sia
potuta realizzare."
http://scintillarossa.forumcommunity.net/?t=3578624#entry43158959
Scritti di Sandro Pertini sull'URSS e Stalin
Brani tratti da: Il
libretto rosso di Pertini, a cura di Massimiliano e Pier Paolo Di Mino,
Edizioni Purple Press, 2011
Giuseppe Stalin
« Egli è un gigante
della storia e la sua memoria non conoscerà tramonto. Costernati siamo
perché tutti avvertiamo il vuoto che Egli lascia tra il suo popolo e
nell'umanità intera. » (Commemorazione di Stalin al Senato, da «l'Unità»
del 7 marzo 1953)
Di ritorno dall'URSS
Se ogni mio compagno
potesse andare nell'URSS, come fìnalmente vi sono andato io,
ritornerebbe tutto preso dalla certezza del trionfo della nostra idea e
lascerebbe dietro di sé le perplessità, le delusioni, i dubbi che nel
suo animo possono essere stati accumulati dalla nostra grigia vita
politica, la quale, spesso deprimente e umiliante, sembra svolgersi in
un vaso chiuso. Prendendo contatto con il popolo sovietico, con le sue
gigantesche realizzazioni, con la possente volontà di costruire e di
lottare senza arrendersi dinami a nessun ostacolo, si ha subito la
sensazione di un mondo nuovo.
È il mondo che
dall'ottobre 1917 avanza inarrestabile come il destino. Il destino
dell'umanità. E la nostra idea, che a qualcuno stanco, logorato dalla
lunga e dura lotta può ormai apparire solo una «sublime utopia»,
nell'URSS è una realtà. Milioni di uomini oggi non sognano più il
socialismo e ad esso più non guardano come a una lontana meta, ma lo
vivono, è per essi la realtà di ogni giorno. E tutte le oziose critiche,
le stupide insinuazioni, le interessate calunnie di chi disperatamente
si aggrappa a un mondo condannato a perire , appaiono solo fastidiosi
ronzii d'api in bugni vuoti, inutili chiacchiere di povere pettegole,
oscene smorfie di nani verso l'opera di un gigante.
È dall'ottobre 1917che
l'odio, l'insulto e la calunnia vengono gettati contro il popolo
sovietico, il quale sotto la guida vigorosa e illuminata dei suoi capi
ha continuato impassibile per la propria strada, ha raggiunto la meta
suprema e la ha saputa difendere, stroncando prima la controrivoluzione
e poi le forze dell'imperialismo nazista. E adesso, con le armi al
piede, questo popolo è tutto intento a ricostruire nel suo paese ciò che
la guerra ha distrutto e a perfezionare la sua grande opera sociale,
opera che non appartiene solo al popolo sovietico, ma anche a quanti
credono veramente nel socialismo. Perché nell'URSS, ripetiamo, è il
socialismo che trionfa. Esaminiamo un'altra volta in modo più
dettagliato le realizzazioni attuate nell'Unione Sovietica, oggi
vogliamo solo dare una visione sintetica di questo mondo nuovo.
Nell'URSS è stato
abolito ogni privilegio ed è stato eliminato lo sfruttamento dell'uomo
sull'uomo; scomparsi sono i mali generati dalla società capitalistica,
congeniti alla sua stessa natura e cioè la disoccupazione, la miseria,
l'analfabetismo, la prostituzione. E il lavoro che nei regimi
capitalistici si risolve in una pena, nell'URSS è divenuto quello che
dovrebbe realmente essere per tutti e cioè sorgente di vita, di forza,
di gioia. L'operaio e il contadino sovietici mentre lavorano non sono,
come i nostr i operai del nord e braccianti del sud, dannati a chiedersi
fra una maledizione e l'altra perché mai debbano faticare lunghe ore
senza trarre dalla loro fatica l'indispensabile e sfamare se stessi e la
propria famiglia e perché solo per soddisfare l'egoismo dell'azionista
ingordo e del barone ozioso debbano logorarsi in una fatica bestiale.
Nell'Unione
Sovietica l'operaio e il contadino sentono che con il proprio lavoro,
sia esso il più umile, sono necessari e utili alla collettività, cui
essi appartengono, e quindi utili a se stessi; sentono, perciò, di
lavorare in ultima analisi per se stessi, in quanto essi sono lo Stato
socialista. E dal lavoro di ogni giorno traggono mezzi tali da poter far
vivere le loro famiglie senza alcuna preoccupazione materiale. Varcate
la soglia della casa d' un contadino russo e saranno il benessere, la
tranquillità, la pace a venirvi incontro, non la miseria, la tubercolosi
e la malaria come quando varcate l'uscio dei tuguri ove ancora molti
contadini dell'Italia meridionale sono costretti a vivere. Visitate i
numerosi nidi per bambini e vi persuaderanno come l'infanzia nell'URSS
sia protetta. Nei nidi e per la strada visi ridenti di bimbi sani, ben
nutriti voi vedete e gli adulti vi si presentano sereni e tranquilli,
nessun isterismo bellicista li agita , bensì solo una ferma volontà di
lavorare per la patria sovietica li guida, consapevoli di lavorare così
anche per l'umanità intera, tanto sono profondamente internazionalisti.
È un popolo tutto compatto, non tormentato da interni contrasti, intenti
a una comune opera, proteso verso una meta unica.
Dal più modesto
lavoratore della terra o dell'officina allo scienziato e allo scrittore
celebri, dal semplice soldato dell'Armata Rossa al più alto dirigente
dello Stato, tutti si sentono uniti da una stessa fede e da un compito
comune. Per questo oggi in Russia si può dire sia stata politicamente e
spiritualmente realizzata una vera unità nazionale. Naturalmente un tale
popolo non può non voler la pace, perché la pace è insita nella sua
stessa fede politica e perché gli è necessaria al compimento della sua
opera grandiosa. Perciò noi, messaggeri di pace, siamo stati accolti
fraternamente nell'URSS, mentre altri messaggeri di pace sono stati
respinti dagli imperialisti americani, invasati dalla follia di guerra.
Il popolo sovietico è ben deciso a difendere la pace. Di fronte alla
follia bellicista degli imperialisti sta la serenità e la fermezza di
Stalin e del suo popolo. Nessuna delle molte insensate provocazioni
viene accettata dal popolo sovietico e dal suo Capo e questo solo perché
la pace sia salva. Il popolo sovietico vuole, dunque, la pace, ma se per
dannata ipotesi gli imperialisti osassero aggredirlo, insorgerebbe
compatto, deporrebbe gli strumenti della sua quotidiana fatica per
impugnare di nuovo le armi e rinnoverebbe il miracolo d'eroismo di
Stalingrado, stroncando ancora una volta le forze imperialistiche.
Per tutto questo
oggi intorno all'Unione Sovietica, al paese del socialismo, si str
ingono, dalla Cina alla Cecoslovacchia, circa cinquecento milioni di
uomini finalmente liberi sotto le bandiere della democrazia popolare e
milioni di altri lavoratori sparsi per tutto il mondo e oppressi ancora
dalle forze della reazione. È questa una solida barriera umana contro
cui le forze della guerra si spezzeranno. Ecco perché tornati in questa
nostra Italia, dominata da un governo clerico-conservatore , umile servo
verso lo straniero, prepotente aguzzino verso i lavoratori italiani,
deciso a trasformarsi in regime con gli ultimi provvedimenti
polizieschi, pensiamo con solidarietà e nostalgia ai nostri fratelli
dell'Unione Sovietica e con rinnovata speranza guardiamo alle rosse
stelle che brillano sul Cremlino. Anche per noi esse brillano.
(«Avanti!», 19 marzo
1950)
Giuseppe Stalin
Oggi Giuseppe Stalin
compie settant'anni . Quest'avvenimento non riguarda esclusivamente
l'URSS, bensì pure le masse lavoratrici di tutti i paesi, perché
Giuseppe Stalin - rivoluzionario indomito, da cinquant'anni al suo posto
di lotta, senza mai deflettere - si è battuto e si batte per il suo
popolo e per l'umanità intera. Riguardando in prospettiva tutta questa
vita spesa per un'idea, appare subito evidente come Giuseppe Stalin
abbia sempre avuto chiara dinanzi alla sua mente la visione della meta
cui voleva tendere. A questa meta egli ha decisamente puntato fin dal
primo istante della sua lotta, duro con se stesso e con gli altri,
implacabile contro chiunque - nemico o compagno - tentasse di farlo
deviare o di trattenerlo, sicuro che giusta era la strada presa: la
strada indicata da Lenin.
Compiuta la Rivoluzione
d'Ottobre, ha costruito il socialismo nella sua patria e lo ha quindi
irradiato nelle patrie altrui , sia nel cuore dell'Europa, sia
nell'Estremo Oriente, nell'immensa Cina. Tutti questi popoli che hanno
conquistato la meta suprema e tutti gli altri che stanno per
conquistarla guardano all'URSS come alla loro seconda patria e come alla
roccaforte del socialismo, contro cui già una volta si è spezzata la
rabbiosa prepotenza reazionaria e contro cui si spezzerebbe ogni nuovo
assalto delle forze imperialistiche. E guardano a Giuseppe Stalin come
una guida del mondo del lavoro. Quest'uomo - capo non solo di un forte
Stato, ma di tutto un popolo - seppe in un'ora tragica per la propria
patria trasfondere nelle genti sovietiche la sua stessa volontà di
lotta, il suo stesso incrollabile coraggio. E dietro lui tutto un popolo
si mosse.
Fu prima la resistenza
tenace, poi la travolgente insurrezione, quindi la splendida vittoria. I
proletari del mondo intero - i quali trepidanti avevano trattenuto il
respiro durante le tragiche ore di Stalingrado, perché sentivano come la
loro sorte fosse legata alla sorte stessa dell'URSS - esultarono. La
vittoria dell'Unione Sovietica era anche la loro vittoria. E oggi
quest'uomo dall'animo temprato e forte come il suo nome, dal corpo
ancora vigoroso, è alla testa non più del solo suo popolo, ma di tutti i
popoli lavoratori che vogliono difendere ad ogni costo la pace e che
protesi sono verso il proprio riscatto. Per questo da ogni parte del
mondo dove vi sono lavoratori ancora oppressi e impegnati in aspre lotte
contro la reazione, o dove lavoratori ormai liberi sono intenti a
costruire la società socialista si leva il saluto augurale verso
Giuseppe Stalin.
(«Lavoro nuovo», 21
dicembre 1949)
La strada del
Socialismo
[...] Nella lotta
gigantesca che si sta svolgendo nel campo internazionale, il PSI non ha
esitato un solo istante a mettersi dalla parte del Mondo del Socialismo,
alla cui testa sta l'Unione Sovietica. Così, senza timori e perplessità,
che può nutrire soltanto chi non possiede una chiara e salda coscienza
socialista, il nostro Partito ha sostenuto la Cina di Mao Tse-tung,
sostiene oggi con lo stesso animo lo sforzo eroico, sublime
dell'esercito popolare coreano, il quale si batte per l'indipendenza
della sua patria e per il trionfo della classe lavoratrice della libera
Corea: e sostiene la lotta tenace dei patrioti annamiti, che sotto la
ferma guida di Ho-Chi-Minhn puntano decisi verso il loro riscatto.
Questa posizione ha assunto il PSI giustamente consapevole che ogni
lotta per la libertà e, per la giustizia, e quindi per il socialismo, è
pure la sua lotta. E non può disertarla senza disertare la causa stessa
del socialismo [...].
Sandro Pertini commemora Giuseppe Stalin
06/03/1953
Signor Presidente, onorevoli colleghi
il dolore e l'angoscia che sono in noi impediscono ogni frase
retorica ed ogni accento polemico. Dinanzi a questa morte non si può
rimanere che stupiti e costernati.
Stupiti, per la grandezza che questa
figura assume nella morte. La morte la pone nella sua giusta luce;
sicché uomini di ogni credo politico, amici ed avversari, debbono
oggi riconoscere l'immensa statura di Giuseppe Stalin.
Egli è un gigante della storia e la
sua memoria non conoscerà tramonto. Siamo costernati dinanzi a
questa morte per il vuoto che Giuseppe Stalin lascia nel suo popolo
e nella umanità intera. Signori, se abbandonate per un istante le
vostre ostilità politiche, come le abbandono io in questo momento,
dovete riconoscere con me che la vita di quest'uomo coincide per
trent'anni con il corso dell'umanità stessa. Quattro tappe,
soprattutto, della esistenza di Stalin rappresentano quattro pietre
miliari della storia universale.
Ottobre 1917: questa data costituisce
una svolta decisiva per la storia del mondo, come la costituì il 14
luglio 1789. Il 14 luglio 1789 si affermò e trionfò il Terzo Stato
che dette una sua politica, economica e sociale, a tutto il secolo
xix. L'ottobre 1917, segna l'affermazione vittoriosa del Quarto
Stato, il quale soprattutto da quel giorno diviene da oggetto
soggetto di storia. Per opera di quella vittoria l'utopia d'uri
tempo diventa realtà e quella che era una speranza a sospingere le
masse diseredate ed oppresse verso la mèta suprema diviene una
certezza.
Altra tappa della vita di Giuseppe
Stalin è, a mio avviso, l'edificazione socialista nella sua terra.
Allora erano molti i pessimisti, gli scettici che dicevano che non
sarebbe stato possibile edificare il socialismo in un paese solo.
Invece questo Uomo, ereditando il pensiero e lo insegnamento di
Lenin, riuscì a trasformare il suo popolo; riuscì a dargli anche una
economia industriale, che sembrava un tempo un sogno ed una pazzia,
sfruttando le immense ricchezze che il suolo della sua terra
racchiudeva. Portò, così, il lavoratore sovietico, liberato da ogni
catena, ad un alto livèllo di vita e di dignità umana. E, badate,
signori, è stato questo sforzo gigantesco a costruire ed a
consolidare quella cittadella, contro cui più tardi s'infrangerà la
valanga nazista.
Ed ecco la terza tappa che rappresenta
un'altra pietra miliare per l'unità e su cui deve essere scritta la
parola « Stalingrado». Signori, voi tutti ricorderete le ore
angosciose che abbiamo vissuto quando la valanga nazista si rovesciò
sull'Unione Sovietica. Le armate naziste già scorgevano le torri del
Cremlino e le vette del Caucaso. Ebbene, noi sentivamo che se, per
dannata ipotesi, fosse crollata l'Unione Sovietica, con l'Unione
Sovietica - non dimenticatelo voi che mi ascoltate - sarebbero
crollate tutte le speranze di un trionfo della libertà sulla
dittatura nazifascista. In quel momento sentivamo che uomini di
tutti i credi politici trattenevano il respiro consapevoli che la
loro sorte era legata alla sorte di Stalingrado. E Stalingrado
diventò la Valmy della Rivoluzione d'Ottobre e al mondo attonito
offrì il miracolo di una strepitosa vittoria, sotto la guida di
Stalin. Allora comprendemmo che da Stalingrado aveva inizio la
vittoria delle armi democratiche contro le armi della barbarie !
Vi è poi l'ultima tappa, signori;
altra pietra miliare sul cammino dell'umanità. Se a me, umile e
piccolo uomo di fronte a tanta grandezza, fosse concesso di scoprire
su questa pietra dei nomi, tre ne scriverei : «Pace Roosevelt
Stalin». Perchè, signori, oggi noi dobbiamo tutti riconoscere che lo
sforzo che ha fatto questo uomo in questi ultimi anni è stato quello
di gettare le fondamenta di una pace sicura e duratura. Ecco perchè
egli si intese subito con un altro uomo che aveva indicato al suo ed
agli altri popoli la strada da seguire dopo la guerra, se si voleva
veramente avviare il mondo verso la pace e non verso un conflitto
mondiale : Roosevelt. Non è vero che Roosevelt sia stato ingannato!
Egli ha ascoltato semplicemente la sua coscienza, il suo grande
spirito ; e ecco perchè si intese subito con Giuseppe Stalin.
E Giuseppe Stalin continuò su questa
strada che era la strada della pace.
Per quale ragione, o signori, egli
ebbe tanto a cuore questo bene prezioso? Vedete, chi come noi è
stato nell'Unione Sovietica ha avuto la esatta impressione che i
dirigenti della politica dell'Unione Sovietica sentono di doversi
preoccupare non soltanto delle sorti del popolo lavoratore
sovietico, ma anche delle sorti dei lavoratori di tutta la terra.
Ecco perchè, o signori, noi respingiamo sdegnosi e sdegnati
l'insinuazione fatta da un'alta autorità politica italiana ed
apparsa stamani sui giornali e che cioè Giuseppe Stalin «non abbia
avuto comprensione per il popolo lavoratore italiano». Le sorti del
popolo lavoratore italiano stavano a cuore a Giuseppe Stalin come
gli stavano a cuore le sorti del popolo suo e quelle di tutti i
popoli della terra.
Egli si è sempre battuto per la pace,
consapevole che coloro che pagano il più alto tributo di sangue e di
sofferenze, nella guerra, sono i suoi contadini e gli operai. E da
buon socialista egli sapeva che non si doveva volere la guerra per
distruggere quanto la società attuale ha costruito, bensì si deve
tendere a trasformare la vecchia società per edificarne una nuova.
Questa è stata la sua volontà ferma ; per questo egli negli ultimi
anni si è battuto. Ha sempre respinto ogni provocazione, ha sempre
rinunciato ad atti di forza pur di difendere questo bene che
appartiene non solo al suo popolo, ma a tutta l'umanità.
L'ultimo suo atto come statista fu
precisamente un nuovo appello per la pace. Egli ha terminato bene la
sua giornata, anche se troppo presto per noi e per le sorti del
mondo. L'ultima sua parola è stata di pace. Ebbene, in questa ora
per noi così triste, ci auguriamo che questo invito alla pace, che
rispecchia la volontà di tutti i lavoratori della terra, non cada
nel vuoto, ma venga raccolto da tutti coloro che hanno nelle mani le
sorti dei popoli.
I
giudizi di Lenin su Trotsky nota di Giuseppina Ficarra su fb
Questa nota è dedicata ai molti compagni che ignorano quanto
negativofosse il giudizio di LENIN su TROTSKY.
In questa mota ovviamente pubblico delle estrapolazioni,
manessuno mi può accusare di estrapolare “semplicemente”, perché
forniscoprecise indicazioni e link per leggere e approfondire le
pagine di Lenincitate. DOCUMENTARSI è un dovere per tutti.
In Lenin
Sul diritto delle nazioni all’autodecisione
pubblicato nella rivista Prosvestcenie, n.4-5-6,1914
“Il servizievole Trotski è più pericoloso di un nemico! Eglinon
poté trovare argomenti per dimostrare che i «marxisti
polacchi»sono, in generale, partigiani di ogni articolo di Rosa
Luxemburg, se non nelle«conversazioni particolari» (e cioè
semplicemente nei pettegolezzi di cuiTrotski vive sempre).
Trotski presenta i «marxisti polacchi» come gente senzaonore e
senza coscienza, che non sa nemmeno rispettare le proprie
convinzioni eil programma del proprio partito. Il servizievole
Trotski!”
“Perché Trotski tace questi fatti ai lettori della sua rivista?
Soltanto perchéegli ha interesse a speculare sul rinfocolamento
dei dissensi fra gli avversaripolacchi e russi del
liquidatorismo e ad ingannare gli operai russi sullaquestione
del programma”.
“Finora, Trotski non ha mai avuto opinioni ferme su
nessunaquestione importante del marxismo egli «si insinuava
sempre attraverso lafessura» aperta da questo o quel dissenso,
passando da un campo all’altro.Oggi, egli è in compagnia dei
bundisti e dei liquidatori. E questi signori nonfanno cerimonie
col partito.”
Dallo scritto così intitolato apparso nel Sotsialdemokrat,1911,
n. 25. Cfr. Lenin, Opere complete, v. 17.
“…….per lui (n.d.r.Trotsky) il centro russo
del partito, creato dallastragrande maggioranza delle
organizzazioni socialdemocratiche russe, è ugualea zero! O
forse, compagni, Trotskij e il suo gruppetto estero sono essi
stessiuno zero per le organizzazioni socialdemocratiche russe?”
“Il compito di Trotskij consiste appunto nel dissimulare
illiquidatorismo gettando polvere negli occhi degli operai.”
“Con Trotskij non si può discutere sulla sostanza, in quanto
egli non ha idee.Si può e si deve discutere con i liquidatori e
gli otzovisti convinti, ma conun uomo che giuoca a nascondere
gli errori sia degli uni che degli altri non sidiscute: lo si
smaschera come… diplomatico della peggiore lega.”
[Pubblicato in Prosvešcenie, 1914 n.5. CfrLenin,
Opere complete, v. 20.]
A proposito di “frazionismo” Lenin scrive:
“Questi sono fatti ben noti nella storia del marxismo
organizzato in Russia. Basta appena ricordarli perchéci si renda conto della
menzogna flagrante diffusa da Trotskij.”
“A Trotskij piacciono le frasi sonore e vuote. Questo è noto.!”
“ 1. Trotskij nonspiega e non comprende il
significato storico delle divergenze idealitra le
correnti e le frazioni del marxismo, banché queste divergenze
riempianovent’anni di storia della socialdemocrazia e riguardino
le questioni essenzialidel momento attuale (come dimostreremo in
seguito);
2. Trotskij non ha capito lecaratteristiche fondamentali
del frazionismo come riconoscimentoverbale dell’unità e
divisione reale;
3. sotto la bandiera del“non-frazionismo”, Trotskij
difende una delle frazioni dell’emigrazioneparticolarmente
povera di idee e priva di importanza nel movimento operaio
diRussia.
Non è tutt’oro quel cheluce. Le frasi di Trotskij
scintillano e suonano molto, ma sono vuote.”
“Così parla Trotskij che, non sapendoapprofondire le
sue idee e connettere le sue frasi, ora vocifera contro
ilfrazionismo, ora grida: “La scissione fa, una dopo l’altra,
delle conquiste cheequivalgono a suicidi” (n. 1, p. 6).”
“. Innanzi tutto ringraziamo Trotskij: non molto tempo
addietro(dall’agosto 1912 al febbraio 1914) egli seguiva F. Dan,
che, com’è noto,minacciava di “uccidere”
la corrente antiliquidatricee faceva appello agli altri perché
lo aiutassero. Oggi Trotskij non minaccia di“uccidere” la nostra
tendenza politica (e il nostro partito: non
arrabbiatevi,cittadino Trotskij, perché è la verità!), ma
profetizza, soltanto che essa siucciderà da sé
E’ molto meno brutale, non è vero?E’ quasi “non
frazionistico”, non è cosi?
Ma non scherziamo oltre (per quanto lo scherzo sia
ilsolo modo di rispondere cortesemente alle chiacchere
insopportabili diTrotskij). “Suicidio” è
puramente e semplicemente unafrase, una frase vuota, è “trotskismo”.”
“Trotskij è molto propenso a spiegare i fenomeni storici in modo
lusinghieroper sé, assumendo il tono di “un profondo competente”
e servendosi di frasipompose e sonore.”
“Quando si leggono affermazioni di questo genere, ci
si domandainvolontariamente se esse non provengano da un
manicomio.”
“Trotskij tenta di
disorganizzare ilmovimento e di provocare una scissione.” [….] “Questi
sonoprocedimenti del tutto degni di Nozdrëv e di Iuduška
Golovlëv.
[Nozdrëv, personaggio delle Animemorte di Gogol,
ubriacone, mentitore efanfarone. Per Golovlëv cfr. sopra
la nota allo scritto di Lenin Rossoredi vergogna di Iuduška
Trotskij.]”
(“Se le divergenze sono state soltanto inventate o esagerate,
ecc. dai “leninisti”e se in realtà l’unità è possibile
tra liquidatori, plechanoviani,vperiodisti, trotskisti, ecc.,
perché in due anni non ne avete data ladimostrazione con il
vostro esempio?”)
“Trotskij inganna i proprilettori nascondendo
taledisgregazione.”
“Quando in Europa (piace aTrotskij di parlare a
sproposito di europeismo)……….”
“…….a Trotskij sono “simpatici” i modelli
europeidi opportunismo……..”
Si usa spesso dire che nel suo "Testamento" politico Lenin
avesse dato indicazioni verso Trockij piuttosto che verso
Stalin come leader del partito bolscevico e del nascente
stato sovietico. In realtà in tale "Testamento" Lenin
esprimeva profonde riserve su tutti principali leader del
partito bolscevico dell'epoca, riscontrando difetti teorici,
pratici o caratteriali sia
in Stalin che in Kamenev, Bucharin, Zinov'ev e, non ultimo,
nello stesso Trockij.
Riguardo a quest'ultimo anzi il giudizio di Lenin stesso era
sempre stato molto severo e teso alla diffidenza politica. A
questo riguardo occorre ricordare che tale preoccupazione
era presente nell'intero gruppo dirigente del partito
bolscevico, tant'è che lo stesso Stalin fu nominato
segretario generale del partito già nel 1922, Lenin vivente,
appoggiato non solo da Lenin ma dalla gran parte del gruppo
dirigente (compresi gli altri leader prima nominati),
preoccupato per il prestigio popolare acquisito dal
fondatore dell'Armata Rossa, sul quale pesavano però alcune
notevoli divergenze politiche.
A titolo di esempio riportiamo una lunga serie di giudizi
non propriamente positivi dati dal compagno Lenin su Trockij
(che riportiamo pur ricordando che fu lo stesso Lenin e lo
stesso partito ad affidare spesso incarichi importanti e
determinanti per il buon esito della rivoluzione bolscevica
e della sua salvaguardia; è però importante ricondurre pregi
e difetti ad un giudizio critico adeguato ai fatti storici):
"La spudoratezza di Trotsky nel ridurre al minimo il partito
e esaltare se stesso."
(Significato storico della lotta all'interno del Partito
comunista in Russia, 1911)
"Frasi risonanti ma vuote di quelle in cui Trotsky è un
maestro".
(Significato storico della lotta interna nel Partito
comunista in Russia, 1911)
"L’ossequiosità di Trotsky è più pericolosa di un nemico!
Trotsky non poteva offrire alcuna prova, ad eccezione di
conversazioni private (semplice sentito dire, che in Trotsky
sussiste sempre)."
(Il diritto delle nazioni all’autodeterminazione, 1914)
"Antiche e pompose ma perfettamente vacue frasi di
Trotsky... Nessuna parola sul merito della questione...
Esclamazioni vuote, parole di alto volo, uscite arroganti
contro avversari che l'autore non nomina, affermazioni
straordinariamente importanti - questo è il repertorio di
Trotsky".
(Pravda, 1913)
"Non capisce il significato storico delle differenze
ideologiche tra gruppi e tendenze marxiste"
(Rottura dell’Unità, 1914)
"Trotsky non ha mai avuto una opinione ferma su nessuna
questione importante del marxismo".
(Il diritto delle nazioni all'autodeterminazione, 1914)
"Trotsky, tuttavia, non ha mai avuto un "aspetto", l'unica
cosa che ha è l'abitudine di cambiare fronte, di saltare dai
liberali ai marxisti per ritornare di nuovo, di impostare
esageratamente argomenti e frasi roboanti..."
(La rottura del blocco di agosto, 1914)
"Trotsky, da un lato, rappresenta solo le sue esitazioni
personali e nient'altro. Nel 1903, fu menscevico; nel 1904,
ha lasciato i menscevichi; nel 1905 ritornò al menscevismo
urlando frasi ultra-rivoluzionarie; nel 1906 lo lasciò di
nuovo; alla fine del 1906 sostenne accordi elettorali con i
cadetti (essendo ancora una volta con i menscevichi); nella
primavera del 1907, al Congresso di Londra, affermò che
differiva da Rosa Luxemburg in "dettagli specifici di idee
piuttosto che di linee politiche". Un giorno Trotsky plagia
l'eredità ideologica di una fazione, il giorno dopo ne
plagia un altra, e infine si dichiara al di sopra delle
fazioni."
(Significato storico della lotta all'interno del Partito
comunista in Russia, 1911)
"Trotsky fu un ardente iskrista nel 1901-1903, e Ryazanov
descrisse il suo ruolo nel Congresso nel 1903 come "il
randello di Lenin". Alla fine del 1903, Trotsky fu un
ardente menscevico (cioè un transfuga passato dagli iskristi
agli "economisti"). Egli proclama che "tra la vecchia e la
nuova Iskra vi è un abisso". Nel 1904-1905 abbandona i
menscevichi e assume una posizione incerta, ora collaborando
con Martynov (un "economista") ora proclamando
l'assurdamente sinistra teoria della "rivoluzione
permanente". Nel 1906-1907 si avvicina ai bolscevichi e
nella primavera del 1907 si proclama d'accordo con Rosa
Luxemburg.”
(Come si viola l'unità gridando che si cerca l'unità, 1914)
"Che canaglia questo Trotsky; frasi di sinistra, e in blocco
con la destra contro la sinistra di Zimmerwald!!!".
(Lettera a Kollontai, febbraio 1917)
"Trotsky arrivò, e questo farabutto subito si alleò con
l'ala destra del Novy Mir contro la sinistra di Zimmerwald!
[...] Questo e’ Trotsky! Sempre fedele a se stesso =
truffaldino, si finge di essere di sinistra e aiuta la
destra, per quanto possibile..."
(Lettera a Inessa Armand, febbraio 1917)
"Un leader politico è responsabile non solo della propria
politica, ma anche per gli atti di coloro che egli guida."
(I sindacati, la situazione attuale e gli errori di Trotsky,
1921)
"Trotsky ha fatto perdere tempo al partito in una
discussione di parole e brutte tesi... Tutte le sue tesi,
quanto la sua intera piattaforma, sono così errate che
abbiano sottratto risorse e l'attenzione del Partito dal
lavoro pratico nella "produzione" di un sacco di discorsi
vacui [...] dopo la sessione plenaria di novembre in cui si
è data una soluzione chiara e teoricamente corretta."
(Ancora una volta sui sindacati, 1921)
"Il suo rifiuto a far parte del comitato dei sindacati è
stata una violazione della disciplina del Comitato
centrale."
(Discorso sui sindacati, 1921)
"L’apparato è per la politica, non la politica per
l'apparato [...] Trotsky è un uomo di temperamento con
esperienza militare. Egli è affezionato all'organizzazione
ma, come in politica, non ha nessuna idea."
(Riassunto di note di Lenin in occasione della Conferenza
dei Delegati al X congresso del PC(B), marzo 1921).
"Il compagno Trotsky parla di “stato operaio". Lasciatemi
dire che questa è un'astrazione, non è proprio uno “Stato
Operaio”. Questo è uno dei principali errori del compagno
Trotsky [...] Per una cosa: il nostro non è in realtà uno
stato operaio, ma uno stato di operai e contadini. E molto
deriva da esso."
(I sindacati, la situazione attuale e gli errori di Trotsky,
1921)
"Trotsky accusa Tomsky e Lozovsky di pratiche burocratiche.
Io direi che è vero il contrario."
(Secondo Congresso dei minatori russi, 1921)
"In relazione all’Ispezione operaia e contadina, il compagno
Trotsky ha fondamentalmente sbagliato [...] In relazione
alla Commissione di pianificazione dello Stato, il compagno
Trotsky non ha solo sbagliato ma sta giudicando qualcosa su
cui è sorprendentemente male informato"
(Replica sulle osservazioni sulle funzioni del Vice
Presidente dei Commissari del Popolo, 1922).
da:
Associazione Stalin Strumenti n.22
Trotskismo: controrivoluzione mascherata
Moissaye Joseph Olgin
Il fattore maggiore nella
stabilizzazione del capitalismo dopo il primo ciclo di guerre e
rivoluzioni fu la socialdemocrazia. In paesi come Germania e
Austria i leader socialdemocratici si occuparono di organizzare
e sostenere lo Stato capitalista contro l’assalto rivoluzionario
dei lavoratori. Un socialdemocratico tedesco, Noske, affogò nel
sangue la rivoluzione dei lavoratori tedeschi tra il 1918 e il
1919. I ministri socialdemocratici repressero gli scioperi,
spararono alle manifestazioni dei lavoratori e imposero la legge
marziale contro di loro. In Gran Bretagna un governo socialista
inviò l’esercito per reprimere l’insurrezione dei popoli delle
colonie. I socialdemocratici francesi presero l’iniziativa di
introdurre la legge marziale imperialista. In breve, ovunque i
leader della socialdemocrazia divennero parte dell’apparato
statale borghese. Avanzarono l’idea che dove c’era un governo
di coalizione, cioè un governo di ministri capitalisti e
socialisti, ci fosse anche una transizione dal capitalismo al
socialismo. Il fatto è che un governo di coalizione rimane un
governo capitalista, dato che non scuote le fondamenta del
capitalismo, la proprietà privata e lo sfruttamento. Al
contrario, serve soltanto a rafforzare il capitalismo ingannando
i lavoratori con l’idea di una pacifica transizione al
socialismo.
In Germania e Austria, in realtà, la
socialdemocrazia aiutò la crescita del fascismo. Squadre
fasciste venivano organizzate sotto la protezione di governi
socialdemocratici. Le manifestazioni fasciste non erano
disturbate dai capi della polizia, mentre quelle comuniste erano
disperse. Alle squadre fasciste fu permesso di armarsi, mentre
l’organizzazione militante dei lavoratori tedeschi, il Fronte
Rosso, fu messa fuori legge. Leggi marziali e semi-marziali
furono rapidamente introdotte per frenare il movimento dei
lavoratori, che chiedevano un miglioramento delle loro
intollerabili condizioni.
Proprio come Lenin, dopo il tradimento
del proletariato da parte della socialdemocrazia all’inizio
della guerra, aveva definito i leader socialdemocratici
“social-patrioti” e “social-sciovinisti”, dopo i
nuovi tradimenti della socialdemocrazia l’Internazionale
Comunista definì i suoi leader “social-fascisti” perché
aprivano la strada al fascismo.
Fu disastroso per il proletariato
tedesco e del mondo intero il fatto che i leader
socialdemocratici avessero fatto causa comune con il
capitalismo. Fu disastroso che molti milioni di lavoratori
fossero ingannati dalla fraseologia socialista dei
socialdemocratici e li ritenessero autentici combattenti per gli
interessi della classe lavoratrice. Fu una sfortuna il fatto che
il Partito Comunista Tedesco potesse ottenere soltanto sei
milioni di voti e non avesse la maggioranza della classe
lavoratrice dietro di sé. Sarebbe stato meglio per i lavoratori
della Germania e per la rivoluzione mondiale se le masse
proletarie tedesche avessero coltivato meno illusioni sui loro
leader socialdemocratici. Sarebbe stato difficile per il
fascismo arrivare al potere se in Germania fosse stato
organizzato un potente fronte unito.
Non si può negare che vi furono alcune
debolezze nel lavoro del Partito Comunista Tedesco, ma
l’opposizione al fronte unito non fu tra queste. Il Partito
Comunista non riuscì a far entrare tutti i suoi membri nei
sindacati riformisti, così da trovarvi un sostegno
rivoluzionario più forte. Non lavorò a sufficienza nei sindacati
riformisti, e questa fu la più trascurata tra le sue attività,
anche se costruì l’Opposizione Sindacale Rivoluzionaria
[6] con oltre 30.000 membri prima dell’avvento del fascismo.
Non si radicò a sufficienza nelle fabbriche e negli
stabilimenti. Non fu abbastanza flessibile nell’approccio ai
militanti socialdemocratici. Tutte queste mancanze furono
ripetutamente sottolineate dall’Internazionale Comunista, e il
Partito si sforzò molto per migliorare il suo lavoro. Come
risultato la sua influenza crebbe enormemente.
Nel
periodo precedente l'avvento di Hitler al potere, il Partito
Comunista riuscì a penetrare tra ampie masse e persino a
influenzare alcuni socialdemocratici, alcuni membri dei
sindacati riformisti e anche alcuni membri del Reichsbanner
[7], proprio perché fu in grado di organizzare la lotta
contro il decreto d’emergenza. L’autorità del Partito aumentò
molto e alcuni membri dei sindacati riformisti iniziarono a
partecipare agli scioperi guidati dall’Opposizione Sindacale
Rivoluzionaria e dai comunisti. Così, oltre ai comunisti, al
comitato per lo sciopero dei trasporti a Berlino parteciparono
anche membri dei sindacati riformisti e persino alcuni
nazional-socialisti. (O. Pjatnickij, La situazione attuale
in Germania, p. 20)
Il Partito Comunista Tedesco era
pronto a combattere il fascismo. In effetti i comunisti
combatterono le squadre fasciste per le strade in numerose
occasioni, subendo i loro attacchi e quelli della polizia che,
per esempio in Prussia, era comandata dai socialdemocratici e
proteggeva ovunque le camicie brune.
Che i comunisti stessero lavorando per
un fronte unito con i lavoratori socialdemocratici, se
necessario attraverso un accordo con i leader della
socialdemocrazia, può essere visto da quanto segue.
Nel 1925 il Partito Comunista propose
al Partito Socialdemocratico una lotta unitaria contro il
pericolo monarchico. Più tardi, quello stesso anno, vedendo
che comunisti e socialdemocratici erano la maggioranza tra i
membri dell’amministrazione comunale di Berlino, i comunisti
proposero ai socialdemocratici un programma di azione comune
per gli interessi dei lavoratori. Nel 1926 i comunisti proposero
ai dirigenti socialdemocratici di partecipare a un plebiscito
contro la restituzione delle proprietà alla vecchia famiglia
reale tedesca. Nella primavera del 1928 il Partito Comunista
propose manifestazioni unitarie per il 1° maggio.
Nell’ottobre 1928 propose un’azione antimilitarista unita contro
la costruzione di un incrociatore da battaglia. Tra il 1929 e il
1932 propose ripetutamente un’azione congiunta contro i tagli
ai salari. Nell’aprile 1932 propose una lotta unita di tutte
le organizzazioni proletarie contro i tagli ai salari.
Tutte queste proposte furono rifiutate
dai socialdemocratici. Ampie masse di lavoratori risposero ad
alcuni appelli comunisti per l’azione unitaria. I dirigenti
socialdemocratici preferirono cooperare con i partiti
capitalisti.
Quando Von Papen espulse i
socialdemocratici dal governo prussiano, il Partito Comunista
propose uno sciopero generale unitario per il ritiro dei
decreti di emergenza e per lo smantellamento delle
Sturmtruppen. Il 30 gennaio 1933, quando Hitler arrivò al
potere, il Partito Comunista propose di nuovo uno sciopero
generale per combattere la reazione. Nel marzo dello stesso
anno, dopo il rogo del Reichstag, il Partito Comunista
propose di nuovo al Partito Socialdemocratico e ai sindacati di
dichiarare uno sciopero generale contro l’attacco ai lavoratori.
Tutte queste proposte furono rifiutate dai socialdemocratici,
che preferirono credere di poter funzionare e mantenere un
minimo di potere sotto qualunque regime capitalista.
Di chi è la colpa?
Trockij dice: è colpa dei comunisti.
Perché? Perché definirono i socialdemocratici “social-fascisti”.
Trockij non può negare il fatto che i comunisti stessero
tentando di organizzare il fronte unito. Organizzarono l’Azione
Antifascista, che avrebbe dovuto unire i lavoratori di tutti i
partiti. Tentarono di organizzare il fronte unito nelle
fabbriche e nei sindacati. I dirigenti socialdemocratici
seminarono sfiducia nei confronti dei comunisti e del fronte
unito, e questo ostacolò l’azione comunista. Trockij fece la sua
parte.
Ora è scontento.
Ecco il suo asso:
Se alla definizione della sua politica il Comintern avesse
sostenuto, dal 1929 o persino dal 1930 o 1931, l’obiettiva
inconciliabilità tra la socialdemocrazia e il fascismo, o più
esattamente tra il fascismo e la socialdemocrazia; se su questa
base avesse costruito una politica del fronte unito sistematica
e persistente, entro pochi mesi sarebbe stato ricoperto da una
rete di potenti comitati di difesa popolare, potenziali soviet
dei lavoratori. (Lev Trockij, The Militant, 10 marzo 1934)
Ma, mio caro Trockij, non c’era
inconciliabilità tra socialdemocrazia e fascismo, o più
esattamente tra i dirigenti socialdemocratici e il fascismo.
Non c’era inconciliabilità per quanto riguardava i dirigenti
socialdemocratici. Certamente non si aspettavano di venire
tolti di mezzo così spietatamente. Avevano costituito una parte
considerevole dell’apparato statale sotto ogni regime prima di
quello di Hitler, ed erano convinti che persino sotto Hitler
avrebbero mantenuto una certa quota di potere. Non importava
quanto i comunisti avessero cercato di mostrare loro le
conseguenze dell’ascesa del fascismo: semplicemente non ci
credevano. Avrebbero detto di saperla più lunga.
Osservate il comportamento dei
dirigenti socialdemocratici austriaci, che dovevano essere molto
più radicali dei loro confratelli tedeschi e che conoscevano
l’esperienza dei compagni tedeschi. Ascoltate la
testimonianza del marxista di “sinistra” Otto Bauer, che in
un’intervista al corrispondente del New York Times G. E.
R. Gedye (pubblicata il 18 febbraio 1934) parlava di come i
socialdemocratici austriaci fossero pronti a collaborare con il
dittatore fascista Dollfuss a spese della Costituzione
austriaca:
Dalla data del trionfo di Hitler in Germania (5 marzo), quando
le “elezioni” per il
Reichstag imposero il controllo nazista sul paese, il nostro
Partito ha fatto i massimi sforzi per giungere a un accordo con
il governo. […] Nelle prime settimane di marzo i nostri
dirigenti erano ancora in stretto contatto personale con
Dollfuss e cercarono frequentemente di convincerlo a una
soluzione costituzionale. Alla fine di marzo promise
personalmente al nostro leader, Dennenberg, che all’inizio di
aprile avrebbe aperto i negoziati con noi per la riforma della
Costituzione [per limitare la democrazia borghese secondo la
volontà del fascismo]. Non mantenne mai quella promessa,
perché all’inizio di aprile passò definitivamente al campo
fascista […] e rifiutò di parlare con qualunque socialista.
Quando disse che non poteva incontrare i leader dell’epoca, ci
offrimmo di mandargli altri negoziatori. Rifiutò risolutamente.
Dato che non potemmo incontrarlo di nuovo, cercammo di negoziare
mediante altre persone. Onestamente, non lasciammo nulla di
intentato. Avvicinammo il presidente Miklas. […] Poi tentammo
con i politici clericali, che conoscevamo da molto tempo. […] Ma
tutto si infranse di fronte alla cocciuta resistenza di Dollfuss,
che semplicemente rifiutò di sentir parlare ancora dei
socialisti. Un gruppo di socialisti religiosi si unì a un gruppo
di democratici cattolici e tentò di indurre la Chiesa a
intervenire. Anche quello fu inutile.
Supponiamo che a quell’epoca avessero
offerto loro un fronte unito con i comunisti per lottare contro
Dollfuss. Non pensavano a combattere il fascismo. Non avevano
intenzione di difendere la democrazia borghese. Sentite questa
preziosa ammissione di Bauer nella stessa intervista:
Ci
offrimmo di fare la concessione più grande che un partito
democratico e socialista avesse mai fatto. Informammo
Dollfuss che se soltanto avesse fatto passare un decreto in
Parlamento avremmo accettato una misura che autorizzava il
governo a governare per decreto, senza il Parlamento, per due
anni [sottolineatura mia, M.J.O.], a due condizioni: che una
piccola commissione parlamentare, in cui il governo aveva la
maggioranza, doveva essere in grado di criticare i decreti, e
che una corte costituzionale, l’unica protezione contro le
violazioni della Costituzione, doveva essereripristinata.
Certamente erano pronti a spingersi
molto lontano. I socialdemocratici di “sinistra” erano pronti ad
accettare l’abolizione del Parlamento, a condizione che
l’abolizione fosse approvata dal Parlamento (una procedura messa
in pratica da Hitler in Germania). Erano pronti, dicono, ad
accettare un governo senza Parlamento “per due anni”, ma è ovvio
che non sarebbe stato molto difficile convincerli ad accettare
un’estensione dei tempi. Erano interessati a mantenere le loro
posizioni nei sindacati, nei consigli comunali, nella polizia,
nel sistema giudiziario, sapendo molto bene che quelle posizioni
si sarebbero ridimensionate sotto il fascismo. Si aggrapparono a
un’ombra di potere in un momento in cui, secondo la loro stessa
testimonianza, “l’insoddisfazione e l’agitazione dei lavoratori
contro la politica conservatrice del nostro comitato di Partito
cresceva mentre crescevano le provocazioni del governo. […]
L’agitazione è diventata febbrile nelle ultime settimane” (Ibid.).
È per non aver indotto dirigenti del
genere a organizzare un fronte unito che Trockij accusa i
comunisti.
Bisogna ricordare che egli non accusa
i comunisti di non aver avvicinato i lavoratori, perché sa molto
bene che lo fecero e fecero ogni sforzo per convincerli a unirsi
al fronte unito. Il suo asso nella manica è l’accusa che i
dirigenti comunisti non abbiano fatto pace con quelli
socialdemocratici.
L’argomento di Trockij a supporto
della possibilità di un fronte unito con i dirigenti
socialdemocratici non regge.
La
socialdemocrazia non può vivere né respirare senza appoggiarsi
alle organizzazioni politiche e sindacali della classe
lavoratrice. Perciò è precisamente lungo questa linea che si
realizza la contraddizione inconciliabile tra la
socialdemocrazia e il fascismo; precisamente lungo questa linea
si apre la necessità e la fase imprescindibile della politica
del fronte unito con la socialdemocrazia. (The
Militant, 10 marzo 1934)
Questo argomento è scorretto tanto
quanto la traduzione in inglese delle frasi è pessima. Gli
eventi hanno dimostrato che la borghesia ricorre al fascismo
quanto trova che la socialdemocrazia non sia più in grado di
tenere in scacco il movimento rivoluzionario delle masse. Per
questo motivo tutte le organizzazioni di massa della classe
lavoratrice, anche se dominate da dirigenti socialdemocratici,
vengono soppresse. Ma prima dell’avvento di Hitler i
dirigenti socialdemocratici non ci credevano.
Facevano affidamento sulla democrazia
borghese, sulla Costituzione di Weimar, sul rispetto tedesco per
la legge e l’ordine e, da ultimo ma non per importanza, sulla
loro carriera al servizio della borghesia. Si inventarono la
politica di supporto al “male minore” solo per avere una scusa
per collaborare con la borghesia. Il loro capo della polizia di
Berlino, Zoergiebel, aprì il fuoco contro i lavoratori che
partecipavano alla manifestazione del 1° maggio (1929), senza
permesso. Il numero di vittime fu superiore a 30. I loro
dirigenti approvarono una legge semi-marziale introdotta per
soffocare le rivolte operaie. I loro dirigenti sostennero i
tagli ai salari e la corsa agli armamenti. La socialdemocrazia
sostenne i governi di Brüning, Von Papen e Schleicher. Era
pronta a sostenere Hitler. Non riconobbe forse il governo di
Hitler dopo le elezioni del 5 marzo 1933, affermando che Hitler
era stato legalmente nominato da Hindenburg e gli era stato dato
un chiaro mandato di maggioranza dal popolo? Non era forse
pronta a collaborare con il suo governo se gliene fosse stata
offerta la possibilità? Non aveva assunto il ruolo di
opposizione leale anche dopo essere stata presa a calci in
faccia dagli stivali nazisti? Il gruppo parlamentare
socialdemocratico non votò forse all’unanimità al Reichstag,
il 17 maggio 1933, a favore della politica di Hitler? Carl
Severing
[8] non restò un sostenitore di Hitler nonostante tutto?
Lo stesso vecchio dirigente socialdemocratico non fece forse
appello alla popolazione della Saar perché votasse per i
nazisti? I dirigenti sindacali socialdemocratici non si
schierarono con Hitler?"
Dopo avere
cercato, trovato e pubblicato i
giudizi "demolitori" di Lenin su
Trotsky corredati di ampia
documentazione su le fonti in modo
che potessero essere giudicati nel
contesto, ho ritenuto doveroso,
prima di trarre conclusioni, cercare
anche eventuali giudizi negativi di
Lenin su Stalin.
Ebbene, che io sappia non si
conoscono giudizi negativi
di
Lenin su Stalin a parte qualche
divergenza di idee e a parte quelli
del “fantomatico” testamento. Non solo, ma Stalin fu insignito
delle più alte cariche proprio da
Lenin e appoggiato dal gruppo
dirigente
Infatti, originariamente, il partito
bolscevico, pur avendo
un'organizzazione ben precisa, non
aveva un dirigente generale vero e
proprio. Si riconosceva nelle idee e
nell'azione del grande leader
bolscevico Lenin, che però era
soltanto presidente del Consiglio
dei commissari del popolo dell'URSS.
La carica di segretario generale
venne invece creata dall'XI
Congresso del Partito nel 1922, ed
il primo a ricoprirla fu Stalin per
espresso desiderio di Lenin e
appoggiato anche dalla gran parte
del gruppo dirigente preoccupato, si
può ipotizzare, per il prestigio
popolare acquisito dal fondatore
dell'Armata Rossa, sul quale
pesavano però alcune notevoli
divergenze politiche.
STALIN ERA LA SOLA PERSONA
MEMBRO DEL COMITATO CENTRALE,
DELL'UFFICIO POLITICO, DELL'UFFICIO
ORGANIZZATIVO E DELLA SEGRETERIA DEL
PARTITO!
Anche Trotscky rivestì delle cariche
di prestigio, ma di gran lunga
minori e certamente non entrò nel
comitato centrale!!!
Fu commissario agli esteri della
R.S.F.S.R., poi ministro della
guerra nei primi anni della
Rivoluzione, nel cui ruolo organizzo
l'Armata Rossa e la condusse alla
vittoria nella guerra civile contro
i bianchi appoggiati dall'intervento
imperialista occidentale. E Lenin
nel ’20 lo nomino, in aggiunta,
anche ministro delle ferrovie.
Certamente in ciò si può cogliere
una contraddizione: come mai Lenin
sceglie come ministro un compagno
verso cui ha manifestato poca
stima! Ma i giudizi esistono!
Chi ha letto Lenin ben conosce, mi
si fa notare, il suo tratto di
mordace polemista, anche nei
confronti di compagni che stimava,
ma i giudizi espressi in molte
occasioni su Trotsky si possono
tranquillamente definire più che
mordaci altamente demolitori e
certamente non lasciano intuire
nessuna stima!!
E comunque ripeto questa vena
mordace (demolitoria) Lenin non la
manifestò mai nei confronti di
Stalin.
Mi si fa notare che questi giudizi
sono in contraddizione con il
testamento!!!
Visto che dei giudizi non si può
dubitare perché ampiamente
documentati e allora, cari compagni,
È DEL TESTAMENTO CHE BISOGNA
DUBITARE!! (Testamento non
autografo nè firmato)
Infatti se il testamento è in
contraddizione per quanto riguarda
Trotsky, a maggior ragione lo è per
quanto riguarda Stalin. Lenin che
aveva sempre stimato Stalin, che
aveva espressamente voluto che
ricoprisse la carica di segretario
generale nell’XI congresso del 22,
nel fantomatico testamento cambia
idea??
Ripeto: È DEL TESTAMENTO CHE
BISOGNA DUBITARE!! (Testamento
non autografo nè firmato)
Altrove ho pubblicato su fb i
giudizi per intero e con
l’indicazione della fonte perché
vengano esaminati nel loro contesto.
https://www.facebook.com/notes/10153244513704605/
Qui ne riporto soltanto alcuni
stralci proprio per metter in
risalto parole, aggettivi, verbi che
nessuno userebbe per discutere, sia
pure animatamente e in polemica con
una persona di cui si ha un minimo
di stima.
Ecco:
Un giorno Trockij plagia
l’eredità ideologica di una fazione,
il giorno dopo ne plagia un
altra,
Chi appoggia il gruppo di Trockij
appoggia una politica di menzogne
e d’inganno contro i lavoratori
Trockij non ha opinioni.
un diplomatico della più bassa
lega
Questo blocco è formato da mancanza
di principi, da ipocrisia e frasi
vuote. [...] Tutto questo
Trockij lo nasconde dietro la frase
rivoluzionaria
Sinora Trockij non ha mai avuto una
opinione ferma su nessuna questione
importante del marxismo
Come al solito Trockij è
completamente in disaccordo con i
social-sciovinisti in linea di
principio, ma in pratica è d’accordo
con loro su tutto”
Le frasi di Trotsky sono molto
luccicanti e sonore, ma non hanno
contenuto
spudoratezza di Trotsky nel
ridurre al minimo il partito e
esaltare se stesso
Il servizievole Trotski è più
pericoloso di un nemico
Antiche e pompose ma perfettamente
vacue frasi di Trotsky
l’unica cosa che ha è
l’abitudine di cambiare fronte,
”Che canaglia questo Trotsky;
frasi di sinistra, e in blocco con
la destra contro la sinistra di
Zimmerwald!!!”. (Lettera a Kollontai,
febbraio 1917)
”Trotsky arrivò, e questo
farabutto subito si alleò con l’ala
destra del Novy Mir contro la
sinistra di Zimmerwald! … Questo e’
Trotsky! Sempre fedele a se stesso =
truffaldino, si finge di essere di
sinistra e aiuta la destra, per
quanto possibile … “(Lettera a
Inessa Armand, febbraio 1917)
”L’apparato è per la politica,
non la politica per l’apparato …
Trotsky è un uomo di temperamento
con esperienza militare. Egli è
affezionato all’organizzazione ma,
come in politica, non ha nessuna
idea.”
"La spudoratezza di Trotsky nel
ridurre al minimo il partito e
esaltare se stesso."
“Con Trotskij non si può discutere
sulla sostanza, in quanto egli
non ha idee. Si può e si deve
discutere con i liquidatori e gli
otzovisti convinti, ma con un uomo
che giuoca a nascondere gli errori
sia degli uni che degli altri non si
discute: lo si smaschera come…
diplomatico della peggiore lega.” Da
Sulla diplomazia di Trotskij [Dallo
scritto così intitolato apparso nel
Sotsialdemokrat, 1911, n. 25. Cfr.
Lenin, Opere complete, v. 17.]
Chiariamo
preliminarmente una
cosa: attribuire
oggi
la qualifica di
capitalista a un
determinato paese non
significa nulla. Un
paese capitalista, nella
nostra epoca, è
necessariamente anche
imperialista,
cioè fomentatore di
guerre in concorrenza
con altri predoni e
rapinatore delle risorse
di paesi militarmente
più deboli. Di che cosa
sia stato capace il
capitalismo imperialista
da quando esso si è
manifestato nel mondo ce
lo ha mostrato un secolo
e più di orrori, stragi
e distruzioni e due
guerre mondiali. Le sue
imprese criminali
continuano ancora oggi,
stanno sotto gli occhi
di tutti. L’imperialismo
è guerra, disse Lenin, e
aggiunse: l’imperialismo
è la vigilia della
rivoluzione proletaria.
Dire che la Cina è
imperialista
deriva dall’ignoranza
della rivoluzione
cinese, come tenteremo
di spiegare
Noi
comunisti
dobbiamo essere,
in linea generale, gente
di una certa cultura
(questo è ovvio!), ma
soprattutto essere colti
in materia di
rivoluzione. È
obbligatorio, per noi,
conoscere
necessariamente,
e imparare a memoria,
per così dire, almeno la
storia delle 2 grandi
rivoluzioni del ‘900,
quella Russa e quella
Cinese, rivoluzioni che
ci hanno tramandato un
inestimabile patrimonio
teorico che sicuramente,
sia detto senza
retorica, illuminerà,
anch’esso, il
proletariato nel cammino
della rivoluzione
nell’Occidente
imperialista. E’ una
storia che ci
appartiene, perché è
anche la
nostra storia, e
se, per un fatto
puramente accidentale,
ricevemmo in dono il
privilegio di essere
contemporanei se non
addirittura
testimoni oculari
di quei due grandiosi
avvenimenti, abbiamo il
sacrosanto dovere,
spremendo il nostro
piccolo cervello, di
reinterpretarli quegli
avvenimenti alla luce
della situazione
odierna, farne un
bilancio storico
procedendo con umiltà e
accortezza, senza
quell’insopportabile
spocchia tipica del
trotskismo che sale
sempre in cattedra e
dice immancabilmente
supreme idiozie
immancabilmente gradite
ai propagandisti
anticomunisti del
cosiddetto mondo libero.
Tra le altre, si dà il
caso che noi siamo
Italiani, che a
differenza dei Russi e
dei Cinesi, non siamo
stati ancora capaci di
scrollarci di dosso il
dominio della borghesia
e del gigantesco,
soffocante, persecutorio
apparato burocratico e
repressivo che grava
sulle nostre spalle da
che l’Italia è diventata
un paese compiutamente
borghese, cioè da oltre
un secolo e mezzo. Nel
primo dopoguerra ci ha
tradito il partito di
Turati, nel secondo
dopoguerra quello di
Togliatti. Avevamo un
Partito comunista (si
diceva con enfasi: il
più grande partito
comunista non al
potere…che in effetti
occupava quasi mezzo
parlamento e lo votavano
milioni di popolo) il
quale ad un certo punto
si è vergognato di
chiamarsi comunista e si
è ignominiosamente
autosciolto. E’ bene
ricordare tutto ciò,
prima di levare il
ditino accusatore
piccolo-borghese verso
coloro che le autentiche
rivoluzioni le hanno
fatte e vinte, per
davvero, e stanno ancora
al potere. Le grandi
rivoluzioni producono
grande teoria perché
solo una grande teoria
coglie il momento
storico irripetibile ed
indica alle centinaia di
migliaia e ai milioni di
insorti il percorso più
concreto e realistico
verso la conquista del
potere. E’ morto da poco
uno che passava per
comunista “di sinistra”,
si complimentò con
Bertinotti, «bravo!» gli
disse «avete fatto i
conti non solo con
Stalin, ma anche con
Lenin!» poiché questo
comunista di sinistra
aveva declassato la
vicenda sovietica a
storia di errori e
orrori. Occorre davvero
un bel coraggio, un
coraggio alla Erostrato,
per spazzare via Lenin e
Stalin. Le vere
rivoluzioni ispirano,
evidentemente, paura e
sgomento a chi ha
vissuto la sua intera
esistenza nei banchi
ovattati del parlamento
borghese.
Ma
ritorniamo alla Cina.
Nel celebre discorso
“Sulla giusta soluzione
delle contraddizioni in
seno al popolo” (1957)
Mao Zedong disse:
«Nel
nostro paese, le
contraddizioni tra la
classe operaia e la
borghesia nazionale è
una contraddizione in
seno al popolo.(……)Nel
periodo della
rivoluzione socialista
lo sfruttamento della
classe operaia a scopo
di profitto rappresenta
un aspetto del carattere
della borghesia
nazionale, mentre il suo
appoggio alla
Costituzione e la sua
inclinazione ad
accettare la
trasformazione
socialista rappresentano
l’altro aspetto. La
borghesia nazionale
differisce dagli
imperialisti, dalla
classe dei proprietari
fondiari e dai
capitalisti burocratici».
Durante tutta la
lunga rivoluzione
cinese, ma soprattutto
all’indomani
dell’invasione della
Cina da parte degli
imperialisti giapponesi,
una parte della
borghesia ha
solidarizzato con la
linea e con la politica
del Partito Comunista
cinese. Questa borghesia
è la
borghesia nazionale
e quindi fa parte del
popolo. È una
cosa molto semplice da
capire, a meno che non
si sia trotskisti..
«La contraddizione fra
la borghesia nazionale e
la classe operaia
-prosegue Mao-
è una contraddizione fra
gli sfruttatori e gli
sfruttati, e per natura
è antagonistica. Ma
(ecco il
MA
che i deboli di cultura
marxista non capiscono
rischiando di procedere
mano nella mano con i
trotskisti)
nelle condizioni
concrete della Cina,
questa contraddizione di
classe di natura
antagonistica può essere
trasformata, se trattata
nel modo giusto, in
contraddizione non
antagonista ed essere
risolta con metodi
pacifici».
Risolvere con metodi
pacifici tale
contraddizione non
significa espropriare la
borghesia nazionale, ma
accontentarsi, come dice
Mao, che essa rispetti
la Costituzione, abbia
un atteggiamento di non
ostilità verso la
trasformazione
socialista della società
e partecipi allo
sviluppo e
all’elevamento del
benessere della nazione.
Noi non abbiamo idea di
che cosa possa essere la
“borghesia nazionale”,
non l’abbiamo mai vista,
la nostra è
tutta borghesia
imperialista che i
comunisti, nella
rivoluzione socialista,
hanno il compito
distruggere in quanto
classe. Ed è proprio
l’aggressione militare e
la rapina delle risorse
ai danni dei paesi
semicoloniali e
semifeudali che fa
staccare dalla borghesia
compradora una parte di
essa che trova la forza,
per gli orrori che
l’imperialismo infligge
al proprio paese, di
partecipare, insieme
alle classi diseredate,
alla lotta
antimperialista. Nel
saggio «Sulla nuova
democrazia» (1940, dieci
anni prima di prendere
il potere) Mao dice:
«Nel
mondo, i vari sistemi
statali, in base al
carattere di classe del
potere politico, possono
essere fondamentalmente
classificati in tre
categorie: a)
repubbliche sotto la
dittatura borghese;
b)repubbliche sotto la
dittatura del
proletariato;
c)repubbliche sotto la
dittatura congiunta di
diverse classi
rivoluzionarie».
In questa estrema
sintesi maoista bisogna
evidentemente intendere
per «dittatura borghese»
anche quei paesi
semi-coloniali e
semi-feudali il cui
potere è nelle mani
della borghesia
compradora, corrotta e
venduta
all’imperialismo.
Quindi, le rivoluzioni
in paesi del Terzo Mondo
si configureranno,
tutte, come
dittatura congiunta di
diverse classi
rivoluzionarie in
vista di superare,
successivamente, questa
fase
transitoria per
giungere al socialismo.
In Cina, la terza forma
di Stato si è
manifestata nel modo
classico di una
rivoluzione vittoriosa,
di una rivoluzione
armata diretta dal
Partito comunista che ha
abbattuto il vecchio
potere e lo ha
sostituito con uno nuovo
Stato, che Mao, nel
1940, chiamava Stato di
Nuova Democrazia.
Molti paesi del Terzo
mondo: Egitto, Iran,
Indonesia, Congo,
Algeria, Sudan, Etiopia,
e anche la stessa Libia
si erano messi sulla
strada di liberarsi
definitivamente
dall’imperialismo e
questo anche per la
fortissima influenza
esercitata dall’Unione
Sovietica, vista come
potenza irriducibilmente
antagonista agli Usa.
Avevano espresso leader
nazionalisti come
Nasser, Mossadegh,
Sukarno, Lumumba, Ben
Bella, Nimeiri,
Mengistu, Geddafi, e se
la storia procedesse
secondo un andamento
rettilineo, e non a
spirale, con
spaventosi salti
all’indietro, tutti
questi paesi avrebbero
seguito il destino della
Cina. L’imperialismo,
capeggiato dagli Usa, ha
svolto un ruolo
attivamente
controrivoluzionario e
li ha abbattuti tutti
questi leader, non si è
fermato neanche davanti
ai più efferati crimini
sanguinari, come accadde
in Indonesia.
Oggi,
nei paesi dell’America
Latina, e in modi
diversi, stiamo
assistendo ad un
processo di liberazione
antimperialista.
L’esempio più chiaro e
clamoroso è il
Venezuela. Si può oggi
dire che Brasile, Cile,
Bolivia Equador ecc. non
costituiscono più il
cortile degli
Stati Uniti d’America i
quali ultimi,
commettendo l’errore
strategico di estendere
a dismisura la linea del
fronte della sua guerra
globale contro il
progresso, non sono
riusciti più a tenere
sotto controllo
quest’area geopolitica
di loro tradizionale
indiscusso dominio.
Quello che sta accadendo
sotto i nostri occhi in
America Latina conferma
in linea di massima la
previsione maoista del
1940 (che abbiamo
citato) anche se -almeno
finora- non nella forma
classica di una
rivoluzione armata
antimperialista.
In
Cina, dicevamo, esiste
la borghesia nazionale
che per suo mestiere è
detentrice di capitale e
sfrutta il lavoro
salariato e si
arricchisce. Non l’ha
inventata e prodotta
Deng Xiaoping ma le
condizioni storiche di
quel grande paese quando
il Partito comunista è
andato al potere. Era un
paese poverissimo che ha
tentato tutte le vie per
risolvere il problema
primario della fame e
della morte di inedia
(nel vero senso del
temine) che incombeva su
sterminate masse di
contadini poveri e
poverissimi. Se il
socialismo è la fase
primaria del comunismo,
il socialismo cinese,
date le condizioni
proibitive degli inizi,
è, secondo quanto
affermano i compagni del
PCC,
la fase primaria della
fase primaria,
una condizione politica
di eccezione mai
sperimentata prima nella
storia. Quindi per
intendere che cosa sia
il socialismo
dalle caratteristiche
cinesi
bisognerebbe, tanto per
cominciare, avere un
atteggiamento di
rispetto, attendendo gli
sviluppi futuri,
osservando con
attenzione come si sta
muovendo la Cina nello
scacchiere mondiale, ma
studiando soprattutto i
Congressi del PCC che
sono la fonte primaria
eccezionale per capire
come evolve in quel
paese il socialismo. Il
marxista dogmatico manca
di questa attitudine, il
suo cervello è
ottenebrato dal
pregiudizio, e i
pregiudizi radicati
superano di gran lunga
la ragione. Ai marxisti
che definiscono
imperialista la
Cina si attaglia
perfettamente un noto
brano di Lenin (vol.17°
op. complete pag. 29):
«La
nostra dottrina, diceva
Engels parlando di se
stesso e del suo celebre
amico, non è un dogma,
ma una guida per
l’azione. Questa
classica formula
sottolinea con forza e
concisione meravigliose
quell’aspetto del
marxismo che a ogni
istante viene perso di
vista. E perdendolo di
vista, noi facciamo del
marxismo una cosa
unilaterale, deforme e
morta; lo svuotiamo del
suo vivo contenuto,
scalziamo le sue basi
teoriche fondamentali:
la dialettica, la
dottrina dell’evoluzione
storica multiforme e
piena di contraddizioni;
indeboliamo il suo
legame con i precisi
compiti pratici
dell’epoca, che possono
cambiare a ogni nuova
svolta della storia»
Una
svolta della storia
è stata la morte di Mao
Zedong; una
svolta nella storia
è stata la morte di
Stalin. I marxisti
dogmatici non riescono a
capire la differenza
abissale fra questi due
eventi; per costoro
l’uno vale l’altro, non
capiscono la
dottrina dell’evoluzione
storica multiforme e
piena di contraddizioni
che non ha nulla a che
vedere con la visione
evoluzionistica secondo
la quale ogni nuova
svolta della storia non
è un salto dialettico ma
deriva dalla situazione
che l’ha preceduta, per
pura «filiazione»
evoluzionistica.
All’indomani della morte
di Stalin si è aperta
una
lacerante contraddizione:
si formò una congiura,
capeggiata da Krusciov
che ha dato vita ad una
vera e propria
«controrivoluzione nel
campo della
sovrastruttura»,
secondo l’espressione
che usò il PCC. Al
contrario, all’indomani
della scomparsa di Mao
il PCC mise all’ordine
del giorno, sotto la
guida di Deng Xiaoping,
i
precisi compiti pratici
che si imponevano alla
Cina: la contraddizione
principale del nostro
paese, disse il PCC, non
è la
lotta di classe
ma lo
sviluppo delle forze
produttive. E al
contrario
dell’arcicriminale
Krusciov che demonizzò
Stalin sulla base di
indicibili menzogne fino
a chiamarlo “idiota” e
“sanguinario”, il PCC
riconobbe i meriti
imperituri di Mao
nettamente prevalenti,
ma ne criticò anche gli
errori che commise
nell’ultima parte della
sua vita. Al suo celebre
discorso sulla giusta
soluzione delle
contraddizioni in seno
al popolo tenuto nel
1957, seguì, dieci anni
dopo, la Rivoluzione
culturale proletaria
voluta e capeggiata da
Mao personalmente. La
teoria e la pratica
della Rivoluzione
culturale andava nel
senso opposto a quella
delineata nel discorso
del 1957: la teoria
della
lotta fra le due linee
all’interno del partito,
una proletaria e una
borghese, portava a
violenti, insanabili,
drammatici contrasti che
spinsero la Cina
sull’orlo della guerra
civile, per ammissione
dello stesso Mao! La
rivoluzione culturale
proletaria si è
dimostrata, nei fatti,
la teoria e la pratica
dell’errata
soluzione delle
contraddizioni in seno
al popolo, è stata la
teoria e la pratica di
rendere antagoniste le
contraddizioni in seno
al popolo. Per cui, si
potrebbe affermare, fu
Deng Xiaoping a
ripristinare la tattica
geniale che Mao delineò
nel famoso discorso del
1957.
Il
socialismo dalle
caratteristiche cinesi è
indubbiamente un
rompicapo. Ma poiché il
marxismo, come diceva
Engels, non è un dogma
ma una guida per
l’azione, per superare
lo stato di estrema
miseria del paese più
popolato del mondo, i
dirigenti di quel paese,
comunisti -mai
dimenticarlo-
ispirandosi a questo
metodo, vale a
dire al marxismo
leninismo e al pensiero
di Mao Zedong, dopo una
lunga e tormentosa
ricerca e una serie di
sperimentazioni
(commettendo anche degli
errori – da essi stessi
riconosciuti tali), sono
giunti alla conclusione
(dopo un dibattito
teorico che è durato
molti anni e di cui i
comunisti dogmatici non
sanno nulla) che il
mercato e la
concorrenza, non essendo
necessariamente
appannaggio di
un’economia
capitalistica, poteva
andare bene anche in
un’economia socialista.
I dirigenti del PCC, di
cui bisognerebbe
riconoscere audacia,
spregiudicatezza e
duttilità tattica, hanno
alla fine portato la
Cina in pochi anni, al
livello mondiale di
grande potenza economica
e militare.
Sbalorditivo, no? Non
bisognerebbe esultare di
gioia? Invece i
dogmatici dicono: quella
è borghesia, il mercato
è incompatibile col
socialismo, al
socialismo si confà
l’emulazione socialista,
non la
concorrenza di
mercato. Va bene, è una
borghesia. E’ una
borghesia capace di
elevare il tenore di
vita di mille e trecento
milioni di esseri umani;
di sviluppare le forze
produttive; di creare
una condizione economica
di spinta verso la piena
occupazione nel paese
più popoloso del mondo;
di assicurare l’ordine,
in un tale paese, senza
ricorrere al terrore; di
scalzare
progressivamente la
triade imperialista
(Usa, Europa, Giappone)
dai mercati di Asia
Africa e America Latina
stabilendo rapporti di
scambio fondati, per la
prima volta nel mondo,
sul mutuo interesse e
non sulla spoliazione di
tipo coloniale. E’ una
borghesia che attua
piani quinquennali senza
i quali non sarebbe
possibile realizzare
indici di sviluppo
annuali che i paesi
imperialisti si sognano!
Ma scusate, se diciamo
che anche la Cina è
borghese, non
facciamo,
inconsapevolmente,
apologia di borghesia,
sempre e solo borghesia,
evviva la borghesia? E
poi… come è possibile
che questa malsana idea
di capacità egemonica
della borghesia che
conquista tutte le
latitudini e le
longitudini del mondo
venga fuori proprio da
noi comunisti
occidentali (dogmatici)
che oltre ad aver subito
la sequenza di orrori di
cui dicevamo prima,
abbiamo sperimentato la
scandalosa inettitudine
a governare, per esempio
in Italia, di gentaglia
come Prodi, che ha
criminalmente calcolato
il valore del cambio
euro-lira in modo da
dimezzare letteralmente
il potere d’acquisto dei
nostri già miserabili
salari, stipendi e
pensioni, l’orrendo
molestatore di ragazzine
minorenni di Arcore, “il
professore” Monti agente
dell’imperialista Banca
Centrale Europea, e,
dulcis in fundo,
l’attuale cerebroleso
che ci fa schifo anche
nominare? Vi immaginate
se alla testa del PCC
(ritenuto borghese
controrivoluzionario) vi
fossero individui di
livello etico e politico
pari a queste schifezze
di semiuomini che
abbiamo nominato??
Suvvia, ragazzi…..la
Cina, in questa
malaugurata ipotesi di
fradicia direzione
borghese già l’avrebbero
smembrata e
l’imperialismo Usa,
rovesciando il potere
del Partito comunista,
avrebbe fatto Tombola!
Noi
comunisti credevamo che
una volta stabilito il
socialismo, la via verso
il comunismo sarebbe
stata relativamente
breve. Invece,
purtroppo, la storia sta
dimostrando che anche il
socialismo, fase
primaria del comunismo,
ha bisogno di tempi
molto più lunghi per
affermarsi in quanto
tale prima di preparare
la fase successiva.
Dicono oggi i compagni
cinesi:
«Affinché
il socialismo dei paesi
a capitalismo maturo
possa affermarsi, c’è
bisogno che nasca una
nuova generazione di
teorici e rivoluzionari
comunisti»
(Liu Chanchun, in una
Conferenza a Milano il 7
giugno 2014). Da questo
punto di vista siamo
rovinati. Tutto ciò che
si richiama al
comunismo, oggi, tranne
rare eccezioni, in
Italia e anche in altri
paesi europei, ha un
orientamento decisamente
anticinese, sostiene che
la Cina è imperialista.
In
Europa c’è
un’Internazionale, per
così dire, anticinese,
guidata dal KKE, Partito
Comunista greco, il
quale, a differenza del
nostro Pci, è stato
sempre un partito
rivoluzionario, fin
dalla nascita, che gode
di grande prestigio ed è
orgoglioso delle sue
tradizioni. Gli
consiglieremmo- se mai
un giorno avessimo
l’opportunità di
incontrare questi
valorosi compagni che
hanno sempre combattuto
il revisionismo moderno-
di essere più attenti,
nei confronti della
Cina, meno precipitosi,
di non fare come Enver
Hoxa. Il rivoluzionario
albanese era un
grandissimo dirigente
comunista, colui che ha
edificato l’Albania
socialista guidando la
lotta armata fino alla
cacciata dei nazisti dal
suolo albanese. Egli,
inoltre, ebbe un
atteggiamento eroico nel
contrastare a fronte
alta la linea
controrivoluzionaria di
Krusciov, ancor più del
PCC. Eppure…egli attaccò
il PCC e Mao perché non
ne condivise la linea di
politica interna, non
capì la politica dei
«cento fiori», accusò
Mao di opportunismo. Ma
che cosa hanno
dimostrato i fatti? Che
l’Albania è sprofondata
nella barbarie del
capitalismo asservito
agli Usa, che il suo
capo è stato dipinto
come un dittatore
sanguinario, che sua
moglie ha subito l’onta
dell’arresto e della
prigione…..mentre la
Cina è sempre lì,
diretta dal Partito
Comunista. E proprio
l’atteggiamento di Enver
Hoxa, rivelatosi
storicamente errato e
intempestivo, dovrebbe
indurci ad una più
profonda riflessione
sulla Cina.
Uno
schema di politica
internazionale fondato
sul presupposto che la
Cina è una superpotenza
imperialista è
semplicemente
catastrofico, significa
buttare a mare l’analisi
leninista
dell’imperialismo-vigilia
della rivoluzione
mondiale. Sono decenni
che stiamo a parlare del
declino irreversibile
dell’imperialismo con
alla testa gli Usa, e
proprio quando vediamo
con
i nostri occhiora,
nella politica dell’oggi,
materializzarsi una
coalizione mondiale che
sta intelligentemente
costruendo la Cina, con
cui l’imperialismo dovrà
amaramente fare i conti,
ebbene, proprio in
questo contesto di
pericoli di guerra
termonucleare che la
bestia ferita a morte
progetta di scatenare,
riproporre lo schema:
scontro fra superpotenze
è una svista colossale e
-non si offendano i
marxisti leninisti
anticinesi- una svista
proprio di natura
trotskista.
In
un articolo apparso
sull’ultimo numero di
http://resistenze.org/un compagno ha
scritto che non si può
ridurre «questo
esperimento asiatico»
(parla della Cina) in
«gabbie ideologiche»,
intendendo dire che è
inutile una definizione
“ideologica” della Cina.
Parliamo dei misfatti
della Cina, egli dice, e
poi saranno questi fatti
e misfatti a dirci
finalmente che cos’è
realmente
quell’«esperimento
asiatico». Una posizione
del genere è
completamente errata, è
una posizione
opportunista. Noi
dobbiamo definire a
chiare lettere, cioè
‘ideologicamente’ la
Cina: è socialista o
imperialista? Non c’è
un’altra possibilità,
tertium non datur, anzi,
ci sarebbe una terza
possibilità: la
categoria della ‘società
post-capitalista’
escogitata dal compagno
Losurdo, che però anche
i cinesi la
rispedirebbero
cortesemente al
mittente. La società
post-capitalista è una
categoria antimarxista
che farebbe rigirare
nella tomba Marx ed
Engels. Dopo il
capitalismo c’è solo il
socialismo.
Dunque:
1-Vi è
una Cina socialista,
che proprio in quanto
ispirata ai principi del
marxismo leninismo sta
costruendo un fronte
antimperialista
mondiale, il Brics, che
sono le iniziali di
paesi mai stati
imperialisti, ma che
portano ancora sulle
loro carni le ferite che
l’imperialismo ha
inferto loro, a cui
presumibilmente si
aggregheranno altri
paesi non imperialisti
ma vittime
dell’imperialismo. È una
Cina socialista, che fa
un uso anti-dogmatico
del marxismo leninismo
ed è stata capace di
stringere forti legami
con la Russia di Putin,
ciò che fu impossibile
in passato fra Cina e
Urss per la criminale
politica
controrivoluzionaria di
Krusciov che ruppe
l’unità del campo
socialista. È una Cina
socialista che si è
ormai, finalmente,
impadronita della
tecnologia da cui
l’Occidente borghese ha
cercato con tutti i
mezzi di tenerla
esclusa. È una Cina
costretta a spendere una
notevole quota della
ricchezza nazionale per
armarsi di tutto punto
allo scopo di difendersi
da un attacco
termonucleare di
Washington. Ebbene,
tutto ciò ci riempie il
cuore di gioia, perché
una Cina militarmente
forte, stretta alleata
della Russia
(temutissima potenza
nucleare) allontana in
pericolo di una
catastrofe atomica
perché i guerrafondai
del Quarto Reich ci
penseranno mille volte
prima di azzardarsi a
scatenare l’attacco. E
il tempo che passa è a
tutto vantaggio della
Cina e del Brics.;
2-
Vi è una Cina
imperialista che
ha formato un campo
imperialista che compete
con la triade Usa-
Europa-Giappone. Dunque,
una non improbabile
guerra termonucleare
sarà, come la Prima e la
Seconda guerra mondiale
una guerra
interimperialista, dalla
quale risulterà vincente
uno dei due
schieramenti, dopodiché
bisognerà aspettare
decenni o forse secoli
prima di abbattere le
rimanenti potenze
imperialiste uscite
vincitrici dallo
scontro. Poi,
finalmente, sorgerà
l’alba del socialismo.
Come si può vedere, qui
ci sono due schemi
interpretativi opposti.
L’attuale polemica Cina
socialista, Cina
imperialista è della
stessa natura teorica e
di principio di quella
scatenata da Trotski
all’indomani stesso
della morte di Lenin: e
cioè se era possibile
costruire il socialismo
in un singolo paese,
oppure bisognava
scatenare una guerra
avventurista contro i
paesi capitalisti, ciò
che avrebbe significato
la distruzione della
giovane Repubblica
Sovietica.
Se
la divergenza sul
socialismo in un solo
paese riguardava la
Russia Sovietica (che
era pur sempre un sesto
delle terre emerse),
l’attuale polemica sulla
Cina ha a che vedere con
il destino dell’intera
umanità.
Grover Furr |
mltoday.com
Traduzione per
Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e
Documentazione Popolare
11/08/2015
Nota dell'editore: L'aforisma latino De mortuis
nihil nisi bonum ("Dei morti niente si dica se non il
bene") è un saggio principio che indica come sia socialmente
inappropriato parlare male dei defunti. A coniare la frase
fu Chilone di Sparta, uno dei Sette savi greci, intorno al
600 a.C. Alcuni morti però meritano, a nostro avviso, un
trattamento più equilibrato.
Robert Conquest, probabilmente il maggior propagandista
anti-comunista e anti-stalinista del XX secolo insieme a
Leon Trotsky, è morto. Naturalmente, i media capitalisti
sono ossequiosi e adulatori nei suoi confronti.
Molto si potrebbe dire di Conquest. Io lo farò un po' alla
fine. Ecco intanto alcuni fatti - verificati - riguardanti
il suo libro più famoso, The Great Terror (Il Grande
Terrore).
Robert Conquest risulta aver lavorato per l'Information
Research Department (Ird), da quando venne istituito fino al
1956. L'Ird, fondato nel 1947 (originariamente chiamato
Communist Information Bureau), era un dipartimento [del
Foreign Office britannico, ndt] il cui compito principale
consisteva nel combattere l'influenza comunista in tutto il
mondo, diffondendo storie tra politici, giornalisti e altri
in grado di influenzare l'opinione pubblica.
Nel 1978, The Guardian affermò che il lavoro di
Conquest doveva contribuire a redigere la cosiddetta "storia
nera" dell'Unione Sovietica, in altre parole, storie false
fatte circolare come fatti veri e consegnate a giornalisti
ed altri in grado di influenzare l'opinione pubblica. Dopo
aver formalmente lasciato l'Ird, Conquest continuò a
scrivere libri suggeriti da questo dipartimento, con il
supporto del Secret Intelligence Service (Sis).
Il suo libro The Great Terror, testo anti-comunista
basilare sul tema della lotta per il potere che ebbe luogo
in Unione Sovietica nel 1937, era in realtà una
ricompilazione dei testi scritti quando lavorava per i
servizi segreti. Il libro fu ultimato e pubblicato con
l'aiuto dell'Ird. Un terzo delle copie stampate fu
acquistata dalla Praeger Press, casa editrice normalmente
associata alla pubblicazione di letteratura proveniente da
fonti Cia.
Il libro di Conquest era destinato ad essere presentato agli
"utili idioti", come i professori universitari e chi lavora
nella stampa, in radio e televisione. Per gli storici
anti-comunisti, Conquest rimane ad oggi una delle più
importanti fonti di materiale sull'Unione Sovietica (1).
L'articolo del Guardian del 1978 a cui ci
riferiamo, "David Leigh, Death of the department that never
was. (La morte del dipartimento che non c'è mai stato)
The Guardian, 27/01/1978, p. 13. (1), documenta
l'attività di propaganda dell'Ird.
Nella sua dissertazione per il dottorato di ricerca (ma non
nel libro che lui stesso ha scritto) Archibald Getty
sottolineava:
"La tendenza dominante [nello scrivere la storia delle
"purghe"] è stata di credere meccanicamente a qualsiasi
affermazione provenisse da un fuoriuscito, negando
automaticamente ogni verità al lato stalinista. Se si
volesse un ritratto equilibrato dello Zar Ivan IV, ("Il
terribile"), non si accetterebbero per oro colato le
descrizioni del principe Kurbsky, esiliato in Polonia,
fornite in un periodo di guerra russo-polacca.
"Se si volesse un quadro equilibrato del regime di Mao
Tse-Tung in Cina, non si accetterebbe come sostanzialmente
affidabile la versione di Chiang Kai-Shek data nei primi
anni 1950. L'apparente mostruosità dei crimini di Stalin e
la generazione di atteggiamenti da Guerra fredda hanno
contribuito a produrre delle analisi che sarebbero state
considerate superficiali in qualsiasi altra area di
indagine".
Getty faceva anche notare che Conquest, specializzato in
propaganda anticomunista, era mascherato da beneficiario di
borsa di studio pur lavorando per i servizi segreti
britannici.
"Riguardo alla 'borsa di studio', si può parlare di qualcosa
di più che semplice disattenzione. Recenti indagini
sull'attività dell'intelligence britannica (sulla scia degli
rivelazioni Usa post-Watergate), suggeriscono che Robert
Conquest, autore del molto influente Grande Terrore,
accettò di essere pagato dai servizi segreti britannici per
falsificare deliberatamente le informazioni sull'Unione
Sovietica. Di conseguenza, le opere di un tale individuo
difficilmente possono essere considerate validi lavori
accademici dai suoi pari della comunità accademica
occidentale" (3).
Getty afferma inoltre:
"... Conquest (Terror, 754) ... fa la stupefacente
dichiarazione che 'La verità può filtrare solo sotto la
forma del sentito dire'. E, inoltre, che 'Fondamentalmente,
sulle questioni politiche, la fonte migliore, anche se non
infallibile, è il pettegolezzo...'. Egli ritiene che il modo
migliore per verificare le voci sia di confrontarle con
altre voci - un procedimento di dubbia validità dato che i
fuoriusciti usano leggere i rispettivi lavori. Naturalmente,
in qualsiasi altro campo degli studi storici, dicerie e voci
non vengono accettate come prove" (4).
Già nel 1979 Getty aveva concluso che "il punto di vista qui
adottato è che le interpretazioni standard sulle 'Grandi
purghe', come quelle di Fainsod e Conquest, siano gravemente
difettose, non possano spiegare le prove disponibili, e non
siano quindi più sostenibili" (5).
Nel 1980 intervistai il professor John Hazard della Columbia
University, al tempo esperto mondiale di diritto sovietico.
Hazard mi disse che gente del campo di studi sovietici gli
aveva riferito che l'intelligence britannica stava ancora
utilizzando il lavoro di Conquest.
Una buona risposta alla disonestà di Conquest è l'articolo
di Robert W. Thurston, "On Desk-bound Parochialism,
Commonsense Perspective, and Lousy Evidence: A Reply to
Robert Conquest." (Sul campalinismo da poltrona, una visione
qualunquista e delle prove disgustose: una risposta a Robert
Conquest)". Non sono a conoscenza di nessun altro studioso
ufficiale nel campo della storia sovietica che abbia mai
osato attaccare frontalmente Conquest sulla stampa, in un
giornale mainstream. (6)
Conquest rispose a tono cestinando il libro di Thurston
sulla storia dell'Unione Sovietica degli anni Trenta, quando
fu pubblicato dalla Yale University Press nel 1996. Il libro
di Thurston era, fino a quel momento, di gran lunga il
miglior libro su quel periodo ed è ancora il migliore,
perché rifiuta l'istintiva linea anti-comunista e
anti-stalinista, e si attacca alle prove, con pochissimi
passi falsi. (7)
Thurston pubblicò inoltre un eccellente articolo che mostra
la disonestà del termine "Grande Terrore" sottolineando come
pochissime persone fossero in realtà "terrorizzate" (8).
Questo articolo suscitò una reazione ostile, ma una risposta
molto debole da parte di Conquest, a cui Thurston replicò
con l'articolo sulle "prove disgustose" citato sopra.
Dopo che il libro di Conquest sulla carestia in Ucraina,
Harvest of Sorrow (Raccolto di dolore) fu pubblicato
negli anni Ottanta, gli esperti anticomunisti nel campo
della storia sovietica lo respinsero universalmente. Potete
leggere alcune loro citazioni in questo articolo di Jeff
Coplon, "In Search of a Soviet Holocaust. A 55-year-old
Famine Feeds the Right" (Alla ricerca di un olocausto
sovietico. Una carestia vecchia 55 anni che nutre la
destra), Village Voice, 12/01/1988 (9).
Naturalmente non ci fu nessuna "carestia intenzionale". Al
contrario, la collettivizzazione pose fine alle carestie in
Russia/Ucraina. In seguito, Conquest ritrattò la sua idea
che Stalin avesse deliberatamente provocato la carestia.
Si potrebbe dire che tale ritrattazione accorcia la distanza
esistente tra la nostra visione su Stalin e carestia e
quella di Robert Conquest, quello stesso Conquest che presto
sarebbe stato considerato il campione della tesi secondo la
quale Stalin aveva intenzionalmente provocato la carestia e
agito in maniera genocida. Nel 2003, il dottor Conquest ci
scrisse spiegando di non nutrire l'idea che "Stalin ha
volutamente inflitto la carestia del 1933. No. Quello che
sostengo è che in conseguenza dell'imminente carestia, egli
avrebbe potuto impedirla, ma seguì un 'interesse sovietico'
diverso da quello di nutrire per prima cosa gli affamati -
così consapevolmente la favorì" (10).
Per tutte queste e altre citazioni, vi rimando al primo
capitolo del mio libro Blood Lies (Bugie di sangue)
(11):
Dopo che il mio libro Khrushchev Lied (Krusciov
mentiva) venne pubblicato in Russia, sono stato intervistato
da Literaturnaia Rossia, una rivista
letteraria-culturale. L'intervistatore mi ha posto alcune
difficili domande, il che è un bene! Parte della mia
risposta verteva sul libro di Conquest, Il Grande
Terrore:
"Come universitario degli anni 1965-69 mi opponevo alla
guerra statunitense in Vietnam. Ad un certo punto qualcuno
mi disse che i comunisti vietnamiti non potevano essere i
'buoni', perché erano tutti 'stalinisti', e che 'Stalin
aveva ucciso milioni di persone innocenti'.
"Mi ricordai di questa osservazione. Essa fu probabilmente
il motivo per cui nei primi anni Settanta lessi la prima
edizione del libro di Robert Conquest Il Grande Terrore
quando fu pubblicata. Fui molto scosso da quello che
avevo letto!
"Vorrei aggiungere che potevo leggere il russo in quanto
studiavo letteratura russa sin dalle scuole superiori. Così,
studiai il libro di Conquest con molta attenzione. Pare che
nessun altro lo avesse mai fatto!
"Scoprii che Conquest era scorretto nell'uso delle fonti. Le
note non sostenevano le sue conclusioni contro Stalin! In
sostanza, aveva usato qualsiasi fonte risultasse ostile a
Stalin, a prescindere che fosse affidabile o meno (12).
"Conquest, con l'aiuto dei servizi segreti britannici, prese
le menzogne sul periodo di Stalin escogitate sotto Krusciov
e da lui stesso, ne aggiunse altre provenienti da fonti
anti-comuniste occidentali, come Alexander Orlov e Walter
Krivitsky, e le ha presentate come 'la storia'".
Il Grande Terrore di Conquest ha una grande
quantità di note, che hanno lo scopo di ingannare il lettore
colto ma ingenuo. Ma quelle stesse note mi hanno reso
possibile scoprire che Conquest si era avvalso di prove
false, senza aver mai dimostrato nessuna
delle sue affermazioni anti-comuniste e contro Stalin.
Venticinque anni dopo, quando Gorbaciov accolse le menzogne
anti-comuniste e contro Stalin di Krusciov, e le ripeté
aggiungendone altre di suo, Conquest pubblicò una nuova
edizione del Grande Terrore e disse a tutti "avevo
ragione". Ma non aveva "ragione". Gorbaciov stava
semplicemente raccontando lo stesso tipo di menzogne, e
spesso esattamente le stesse, sul periodo staliniano che
Krusciov e i suoi avevano riportato.
Conquest ha ricevuto moltissimi riconoscimenti dagli
imperialisti uccisori di massa, da Margaret Thatcher a
Ronald Reagan, George W. Bush, e non solo. Ha guadagnato la
loro lode. Ha anche ottenuto un incarico comodo e ben pagato
presso la Hoover Institution. Tali sono le ricompense per
raccontare bugie per conto degli anticomunisti. Dobbiamo
renderci conto che nessuno così onorato dai principali
assassini di massa della storia del mondo potrà mai dire la
verità.
Quelli di noi che vogliono lottare per un mondo migliore,
per un mondo comunista, hanno bisogno di imparare dai
successi, così come dagli errori dell'Unione Sovietica
dell'era di Stalin e del movimento comunista mondiale del XX
secolo, così che si possa imitare ciò che è stato fatto
bene, evitando gli errori. Quindi, cerchiamo di aumentare il
nostro impegno in questo senso.
Note:
1) Source: -
http://www.fact-index.com/r/ro/robert_conquest.html
2) Thanks to Mario Sousa you can download a facsimile of
this article here:
https://msuweb.montclair.edu/~furrg/research/leigh_ird_facsimile.pdf
The article in HTML format may be downloaded here:
http://www.cambridgeclarion.org/e/fo_deceit_unit_graun_27jan1978.html
3) Getty, "The Great Purges Reconsidered," Ph.D.
dissertation, Boston College, 1979, p. 48.
4) Getty, 1979 p. 64 note 57. These passages are also quoted
in Getty, Origins of the Great Purges. The Soviet
Communist Party Reconsidered, 1933-1938. (New York and
Cambridge: Cambridge University Press, 1985) p. 5 and note
12, p.222.
5) Getty, 1979 p. 53.
6) Slavic Review 1986, 238-244.
7) Thurston, Life and Terror in Stalin's Russia,
1934-1941. Yale U.P. 1996.
8) "Fear and Belief in the USSR's 'Great Terror': Response
to Arrest, 1935-1939." Slavic Review 45 (1986),
214-234.
9) Coplon's article, with quotations from the anticommunist
scholars, is at
https://msuweb.montclair.edu/~furrg/vv.html
10) R. W. Davies & Stephen G. Wheatcroft. "Debate. Stalin
and the Soviet Famine of 1932 — 33: A Reply to Ellman."
Europe-Asia Studies 58 (4) June 2006, 629; also in
Davies & Wheatcroft, The Years of Hunger: Soviet
Agriculture, 1931 — 1933 (Basingstoke, Palgrave
Macmillan, 2004), 441 n.145.
11) Grover Furr, Blood Lies. The Evidence that Every
Accusation Against Joseph Stalin and the Soviet Union in
Timothy Snyder's Bloodlands Is False. (New York: Red
Star Publications, 2014), Chapter 1 "The 'Man-Made Famine'
and 'Deliberate Famine' Arguments in Bloodlands, Chapter 1."
12) "The Sixty-One Untruths of Nikita Khrushchev. " At
https://msuweb.montclair.edu/~furrg/research/litrossiainterv0608_eng.html
Cette campagne de
propagande anticommuniste était secrètement financée et ne
s’affichait pas comme telle auprès du public. Arthur Koestler,
écrivain britannique d’origine hongroise, a été l’un des
plus importants agents et conseillers de l’IRD lors de sa
mise en place. Ces efforts ont permis l’établissement d’un
nouveau consensus
sur l’opportunité de la guerre froide, ainsi que l’isolement
des défenseurs du communisme. L’activité de propagande
s’accompagnait d’une purge des communistes au sein des
syndicats, du Labour Party
et de l’appareil d’État.
Condivido
il mio
post
segnalando
commenti
significativi!!!
Alberto
Lombardo
"Il
reddito
del
capitale
è
l’interesse.
Il
profitto,
come gli
economisti
ben
sanno,
spetta a
chi
prende
le
decisioni
sull’attività
economica
e se ne
assume
il
rischio.
E in un
sistema
d’imprese
gestite
dal
lavoro
le
decisioni
sono
prese
dai
lavoratori
o da
loro
rappresentanti
ed è,
pertanto,
ai
lavoratori,
che
sopportano
il
rischio,
che
spetta
il
profitto."
La frase
più
anti-marxista
che si
può dire
ALBERTO
LOMBARDO
Marx non
prescriveva
ricette
per
l'osteria
dell'avvenire,
ma
esaminava
sempre
concretamente
la
situazione
storica
nella
quale si
trovava.
Tuttavia
sia Marx
nella
"Critica
al
programma
di
Gotha" e
Engels
nell'"Antiduring"
qualcosa
la
possono
delineare.
Per la
disamina
della
più
matura
espressione
della
costruzione
del
socialismo
(quello
realmente
fatto e
non
quello
pensato
a
tavolino)
si veda:
STALIN
"Problemi
economici
del
socialismo",
dove si
discute
proprio
della
transizione
al
socialismo
e si
attaccano
proprio
quelle
che già
di
allora
si
prefiguravano
come i
maggiori
pericoli
del
socialismo
(estensione
del
mercato,
legge
del
valore
come
legge
immutabile)
che
avrebbero
portato
prima al
khruscevismo
e poi a
Gorbacev
Antonio
Monetti
Antonio
Monetti
ha
condiviso
il tuo
post.
5 aprile
alle ore
19:51 ·
Dico
apertamente
che
fortunatamente
non
faccio
più
patre
del PRC
dal
2005.
Io sono
un
Marxista-Leninista,
voi non
siete
nulla,
semplicemente
non
siete
Comunisti,
non
conoscete
il
grande
valore
politico
e
l'onore
di
essere
Comunisti.
Antonio
Monetti
ha
condiviso
il tuo
post.
5 aprile
alle ore
16:33 ·
PURA
DEMAGOGIA
ANTICOMUNISTA!!!
SENZA
VIOLENZA
RIVOLUZIONARIA
NON CI
SARA'
MAI IL
COMUNISMO!!!!
VOI CHE
DITE
QUESTA
ERESIA
NON
SIETE
COMUNISTI,
NON
SIETE
COMPAGNI.
ALESSANDRO
LATELLA
ha
condiviso
il tuo
post.
5 aprile
alle ore
11:58 ·
Noi
diamo
spazio a
tutti
gli
idioti
esistenti
sulla
faccia
della
terra
come se
le
istituzioni
siano
neutre e
non
emanazione
della
classe
al
potere.
Questo
articolo
e il
cretino
che da
l'autorizzazione
a
pubblicarlo
denota
come
molti
siano
comunisti
di nome
ma non
di
fatto,
che non
hanno
capito
nulla di
comunismo,
di Lenin
e di
Marx.
Una
sinistra
da
salotto
per
nulla
conflittuale:
andate a
casa!!!!!!!!!
a
cui
aggiungo
che c'è
da
piangere
a
leggere
in un
giornale
che si
chiama
RIFONDAZIONE
COMUNISTA
le
empietà
e le
cretinaggini
che
questo
tale
Jossa ha
scritto
Amedeo
Curatoli
criveva
qualche
anno fa:
"Ciò non
significa,
ovviamente
che un
partito
comunista
debba
solo
propagandare
l’inevitabilità
dell’abbattimento
dello
stato
borghese:
un tale
partito
può
stare
all’opposizione
anche
cento
anni, ma
nel far
proprie
tutte le
rivendicazioni
politiche,
economiche,
di
civiltà,
di
progresso
che
nascono
dal
profondo
delle
masse
popolari
contro i
governi
borghesi,
non deve
mai,
nelle
sua
battaglie
quotidiane,
durassero
anche un
secolo,
raccontar
frottole
e
illudere
le masse
sulla
possibilità
di
ottenere
cambiamenti
radicali
(socializzazione
dei
mezzi di
produzione,
sostituzione
dei
valori
d’uso ai
valori
di
scambio!!)
Tacendo
opportunisticamente
sull’inevitabilità
storica
dello
scontro
rivoluzionario
con la
borghesia
monopolistica.."
"Il trotskysmo gode ancora di un certo accreditamento
perché si ascrive all’area insurrezionale di origine piccolo
borghese, quindi anarcoide e quindi inconcludente, che con
il leninismo ha purtroppo ancora un conto aperto da oltre un
secolo. Nonostante Trotsky e il trotskysmo non possono
vantare alcunché di conseguito sul piano della teoria e
della prassi a favore del proletariato e della sua causa
contro il capitalismo, per il socialismo e il comunismo,
anzi avendo operato in un solco senza soluzione di
continuità per il sistematico sabotaggio del leninismo,
riescono ancora a raccogliere qualche sparuto gruppo di
seguaci tra il proletariato. Si tratta di una frangia ultra
settaria, estranea al leninismo, verso il quale, magari non
a parole, è ostile nei fatti. La loro prosopopea, verbosità
e stucchevole retorica, capaci di suscitare interesse solo
in qualche idealista incallito o intellettuale
“disorganico”, non hanno prodotto altro che confusione,
ostacolando l’unità dei comunisti. I loro autocelebrati
“fasti” sono direttamente proporzionali al “lustro” che la
stessa borghesia ha dato loro, in funzione antisovietica. Le
opere di Trotsky infatti erano reperibili in Italia persino
durante l’epoca fascista. Se possono vantare un ruolo dopo
la vittoria della Rivoluzione d’Ottobre, è solo perché il
partito di Lenin, che pure aveva condotto una lotta
asperrima contro il liquidazionismo e l’opportunismo di
Trotsky, ha voluto concedere loro una possibilità di
riabilitarsi. I risultati tuttavia furono disastrosi, e
Trotsky e i suoi accoliti finirono per schierarsi
apertamente con la reazione internazionale nel tentativo di
abbattere il potere sovietico. Nel resto del mondo le
frazioni di stampo trotskysta hanno solo arrecato danni
enormi ai movimenti di liberazione e anticolonialisti,
fungendo da autentiche quinte colonne dedite al banditismo.
Quello che resta del trotskysmo internazionale tenta ancora
di guadagnare consensi accodandosi all’esultanza della
reazione per il crollo dell’Unione Sovietica. In qualche
modo si sentono coautori di questa disfatta. Per loro
l’Unione Sovietica era solo un paese capitalistico. In
questa posizione “storica”, che difendono con arrogante
ignoranza, credono di ottenere un avallo per la loro
pedissequa azione “antistalinista”, che tanto piace ai
revisionisti e agli anticomunisti di ogni risma.
Tuttavia la loro pochezza, stoltezza e il loro pervicace
antileninismo li rendono immediatamente identificabili come
nemici della causa. Si possono quindi smascherare e isolare
piuttosto agevolmente. Peggio di loro sono i revisionisti
che agiscono riferendosi al marxismo-leninismo, ma
perseguendo di fatto la riduzione di questo patrimonio a uno
sterile dottrinarismo o a una congerie di concetti utili a
giustificare l’eclettismo."
"Ho avuto poco fa la dimostrazione
(ennesima) della pochezza del bordighismo e dei suoi adepti.
Tal Marco Rossi, che qualcuno ha tra i contatti (io sono
stato cancellato per aver esposto la mia posizione) ha
esposto la tesi trita e ritrita del conflitto
interimperialistico tra USA e Russia. Posizione che
serpeggia in diverse aree del movimento comunista, peraltro.
Mi limito a riassumere il mio commento, che mi ha procurato
la cacciata immediata dalle sue "amicizie".
In sostanza, ho scritto, nel giudicare USA e Russia come due
potenze imperialiste che semplicemente si fronteggiano per
spartirsi le zone di ingerenza, si dimentica di considerare
la portata reale degli eventi, di produrre dei danni seri,
non solo concettuali. Cosa che non fece Marx quando si
schierò con gli unionisti contro i confederati, durante la
guerra civile americana; quando parteggiò per la nobiltà
polacca contro lo zarismo e con i nazionalisti irlandesi
contro i colonialisti inglesi. Posizione analoga assunse per
esempio anche Lenin nella lotta del popolo afghano contro
l'occupante inglese. Ho aggiunto, polemicamente, che mi
piacerebbe vedere questi custodi della presunta ortodossia
marxista convincere il popolo del Donbass, che fugge in
massa verso la Russia per cercare protezione dalle belve
naziste aizzate e finanziate dagli yankee, che si trova in
mezzo a due predoni di eguale natura..."
https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=137980429938818&id=100011805847766&pnref=story
17 marzo
1991: il 77% dei sovietici disse Sì all’Urss
Come sappiamo bene alle nostre latitudini, i referendum
vengono indetti perché il alto si sia sicuri di fare
esattamente il contrario di quanto espresso dalla
“volontà popolare”. Il 17 marzo 1991 in Urss si tenne un
referendum per la conservazione o meno dell’Unione
Sovietica, pur con un rinnovato accordo tra le
Repubbliche. Oltre il 76% (il 71% in Russia) dei votanti
si espresse per la conservazione dell’Unione; a fine
anno, nella ormai tragicamente famosa “notte di sbornie”
del 8 dicembre nella Belovežskaja puša, i presidenti di
Russia, Bielorussia e Ucraina, Boris Eltsin, Stanislav
Šuškevič e Leonid Kravčuk decisero il contrario e non
persero tempo a informarne la Casa Bianca.
Oggi,
secondo un sondaggio condotto a inizio marzo
dall’ufficiale VTsIOM, la maggioranza (64%) dei russi
intervistati voterebbe nuovamente per la conservazione
dell’Urss. Secondo le età, le percentuali variano dal
47% tra i 18-24enni al 76% tra gli ultrasessantenni.
Contrari si dichiarano il 20% degli interpellati. Tra i
principali colpevoli del mancato rispetto della “volontà
popolare”, gli odierni russi indicano la compagine di
Boris Eltsin (13%), deputati e governo (17%) e Mikhail
Gorbačev (27%); il 36% considera anzi la fine dell’Urss
come il principale errore commesso dall’ex presidente
sovietico. Appena il 2% incolpa gli Stati Uniti.
Il referendum del 17 marzo 1991 era stato preceduto,
per gran parte del 1990, dalla cosiddetta “parata delle
sovranità”, per cui le varie Repubbliche, a partire da
quelle baltiche, fino alla Russia, avevano adottato
“Dichiarazioni di sovranità nazionale”, mettendo in
discussione la priorità della legislazione federale su
quella repubblicana e, con ciò stesso, mandando in crisi
la già traballante economia sovranazionale. Come
ricordava ieri l’agenzia nnm.me, nell’aprile 1990,
l’Urss adottava la legge relativa alle modalità di
uscita delle Repubbliche dall’Unione. Nel dicembre
successivo, proprio per cercare di mettere un freno alla
“parata delle sovranità”, il Congresso dei Deputati del
popolo dell’Urss (massimo organo di potere dal 1989 al
1991) approvava la risoluzione “Sul concetto generale
del nuovo accordo dell’Unione e le modalità della sua
conclusione”: in pratica, il piano di uno stato
federativo basato sull’unione volontaria di Repubbliche
sovrane. In ogni caso, il vertice statale (Gorbačev in
testa) decideva per il referendum. Dopo che 1.665
delegati su 1.816 al quarto Congresso dei Deputati del
popolo aveva optato per la conservazione dell’Urss, il
16 gennaio 1991 il Soviet Supremo adottava la
risoluzione sull’organizzazione del referendum: il primo
e l’ultimo in settant’anni di storia dell’Unione
Sovietica.
La consultazione si tenne in 8 delle Repubbliche
sovietiche – Russia, Ucraina, Bielorussia, Uzbekistan,
Azerbajdžan, Kirghizia, Tadžikistan, Turkmenistan – e in
alcune delle Regioni autonome (Abkhazia, Ossetia
meridionale, Gagauzia, Transdnestria) facenti parte di
Repubbliche sovietiche – Lituania, Lettonia, Estonia,
Georgia, Armenia e Moldavia – in cui il referendum non
si teneva, perché vi era stata già proclamata (o ci si
apprestava a farlo) l’indipendenza.
Su poco meno di 186 milioni di sovietici aventi
diritto al voto, parteciparono quindi al referendum 148
milioni e 574mila cittadini: 113 milioni e 512mila
(76,4%) si espressero per il sì alla conservazione
dell’Unione; 32 milioni e 304mila (21,7%) per il no.
Nella Repubblica federativa russa, il sì raggiunse il
71,34%; in Ucraina il 70%; in Bielorussia l’82,7%; nelle
repubbliche centroasiatiche si andò dal 93,3%
dell’Uzbekistan al 97,9% del Turkmenistan.
Ma poi venne il “golpe immaginario” – come lo definì
l’ultimo Presidente del Soviet Supremo dell’Urss,
Anatolij Lukjanov – dell’agosto che, volente o nolente,
contribuì all’ascesa di Boris Eltsin. L’8 dicembre 1991,
gli artefici delle “sovranità” si infischiarono
bellamente di tali percentuali e proclamarono la
cosiddetta Comunità degli Stati Indipendenti e il 12
dicembre il Soviet Supremo della Repubblica federativa
russa adottò la risoluzione “Sulla denuncia dell’Accordo
sulla formazione dell’Urss”. In pratica, come stabilì la
Duma russa alcuni anni dopo, nella puša di Beloveža, al
confine tra Bielorussia e Polonia, fu denunciato un
accordo internazionale della Federazione russa – cioè
l’accordo di Unione sottoscritto da tutte le Repubbliche
in base alla Costituzione sovietica – che, secondo la
Convenzione di Vienna del 1969, non poteva essere
denunciato. Comunque la si volesse girare, la “notte
brava” di Eltsin, Šuškevič e Kravčuk non si basava su
alcun fondamento del diritto, ma solo su quelli della
forza. Una forza che veniva da 70 anni di tentativi
internazionali di abbattere quello che un tempo era
stato, per alcuni decenni, il primo (per essere precisi,
il secondo, avrebbe detto Lenin: dopo la Comune di
Parigi) esperimento al mondo di uno stato degli operai e
contadini. Con cinquant’anni di ritardo, si compiva il
complotto per cui, alla fine degli anni ’30, i diversi
gruppi di opposizione in Urss erano stati accusati di
collusione con i servizi segreti nazisti, giapponesi,
polacchi: smembramento dell’Urss, restaurazione del
capitalismo e scorporamento dei territori delle diverse
Repubbliche sovietiche.
Ecco che oggi, quello scorporamento, assume la veste
di un progetto di Confederazione tra Ucraina e Polonia:
“il sogno di sempre dell’aristocrazia polacca: feudatari
polacchi e servi della gleba ucraini”, commenta l’ultimo
direttore della ex-corazzata propagandistica
gorbacioviana, Moskovskie Novosti, l’osservatore
politico Vitalij Tretjakov, non certo acclamatore
entusiasta del periodo sovietico. Tra un paio d’anni
l’Ucraina sarà pronta per il “progetto che Kiev e
Varsavia, sponsorizzati da Washington (ma no?!) stanno
discutendo da almeno un anno e mezzo”, scrive oggi
Pravda.ru: uno stato federato con capitale,
presumibilmente, nell’ex polacca L’vov. L’annuncio è
stato dato proprio ieri, nel corso della conferenza dal
titolo eloquente “Militarizzazione della Crimea occupata
come minaccia alla sicurezza internazionale”. Secondo
fonti ucraine, il sogno del presidente polacco Andrzej
Duda sarebbe quello di inglobare nella futura entità –
federata o confederata: qui le visioni polacca e ucraina
si dividono – anche le repubbliche baltiche, rinverdendo
così i fasti dell’antico regno di Polonia, dal Baltico
al mar Nero. A mantenere ancora le distanze dal
progetto, scrive Pravda.ru, rimane pur sempre il macello
della Volinija, quando le SS ucraine di Stepan Bandera e
Roman Šukhevič, tra il1942 e il 1944 massacrarono tra
600 e 900mila polacchi, oltre che centinaia di migliaia
di ebrei, ucraini e soldati sovietici.
E ieri, in occasione del 25° anniversario di quel
referendum del 17 marzo 1991, i neonazisti ucraini hanno
voluto rimarcare lo spirito “democratico e europeista”
che li anima. I bravi del battaglione Azov, reduci dalla
brutta figura del giorno precedente a Riga, quando erano
stati sloggiati persino dal corteo dei nazisti autentici
delle ex Waffen SS lettoni, hanno voluto prendersi la
rivincita, alla maniera fascista, aggredendo gruppi di
anziani che, a Kiev, stavano per l’appunto celebrando la
ricorrenza del referendum. Nonostante il meeting fosse
autorizzato, non era protetto dalla polizia (ma
guarda!), così che gli squadristi, secondo il metodo
classico, si sono trovati di fronte solo anziani
indifesi e hanno “eroicamente” e in tutta tranquillità
disperso la manifestazione, spaccando la testa a uno dei
partecipanti.
Pare comunque che la storia, per ora solo
iconograficamente, si voglia prendere la rivincita sugli
affossatori dell’Urss e sui loro epigoni, SS baltici e
banderisti ucraini: a Zaporože, una delle maggiori città
dell’Ucraina meridionale, dallo scorso 12 marzo un paio
di centinaia di “figli del postsovietismo” stanno
tentando senza successo di smontare il monumento a Lenin
più grande (quasi 20 metri di altezza) di tutta
l’Ucraina. Come avrebbe detto Theodore Fontane
“Un’immagine sepolta nella nostra anima non impallidisce
mai completamente”.
Il
rimorso di un dissidente: Aleksandr Zinoviev su Stalin e la
dissoluzione dell’URSS
agosto 23, 2016
Aleksandr Zinoviev (1922-2006) fu un filosofo, sociologo,
matematico e scrittore russo. E’ un caso straordinario di
dissidente sovietico che si scusò per il suo antisovietismo
e antistalinismo. In gioventù, nel 1939, venne arrestato con
l’accusa di essere coinvolto in un complotto per assassinare
Stalin. A capo e professore del Dipartimento di Logica
presso Università Statale di Mosca, Zinoviev acquisì la
reputazione di dissidente. Nel 1978 lasciò l’Unione
Sovietica e visse in Europa occidentale fino al 1999. Dopo
l’opportunità di vivere sotto il sistema socialista
dell’URSS e il capitalismo dell’Europa occidentale, Zinoviev
fece un’inversione di pensiero dopo gli eventi
controrivoluzionari in Unione Sovietica (1989-1991). Si
rammaricò profondamente della sua precedente posizione
anti-sovietica e chiese al popolo russo di perdonarlo.
Scrisse in uno dei suoi libri: “…il
comunismo è stato così organico alla Russia e così
potentemente aderente a stile di vita e psicologia dei russi
che la distruzione del comunismo equivalse alla distruzione
della Russia e del popolo russo. (…) In un parola, (i
guerrieri freddi occidentali) attaccarono il comunismo,
uccidendo la Russia” (Aleksande Zinoviev, Russkaja tragedija,
in AZ,
Nesostojavshijsja proekt, Mosca: Astreldel 2009,
p.409).
In un’intervista del 2005 disse che il suo arresto nel 1939
era giustificabile, essendo stato membro di un complotto
volto ad assassinare Stalin. Su Josif Stalin, che odiò per
quasi tutta la vita, disse nel 1993: “Lo
considero una della più grandi personalità nella storia
umana. Nella storia della Russia fu, a mio parere, anche più
grande di Lenin. Fino alla morte di Stalin ero
anti-stalinista, ma l’ho sempre considerato una brillante
personalità“. (Знаменитости).
Sull’antistalinismo e l’arresto per aver complottato contro
Stalin, Aleksandr Zinoviev disse: “Ero
già un deciso antistalinista a diciassette anni… L’idea di
uccidere Stalin era nei miei pensieri e sentimenti…
studiammo le possibilità di un attentato… perfino le
testammo. Se mi avessero condannato a morte nel 1939, la
loro decisione sarebbe stata giusta. Avevo un piano per
uccidere Stalin, non era un crimine? Quando Stalin era
ancora vivo, vedevo le cose diversamente, ma se guardo
questo secolo, posso affermare che Stalin fu il più grande
individuo del secolo, il più grande genio politico. Adottare
un atteggiamento scientifico è molto diverso da uno
personale“. Zinoviev non era un comunista o
marxista-leninista. Tuttavia, dopo il rovesciamento del
socialismo in URSS, fu un convinto sostenitore dei risultati
del sistema socialista, riconoscendo che, nonostante
problemi ed inefficienze, il sistema socialista era molto
più umano della barbarie capitalista. Ecco alcune
osservazioni interessanti dall’intervista a Figaro (1999): Domanda:
Quindi la lotta al comunismo era un complotto per
distruggere la Russia? Zinoviev:
Precisamente. Lo dico perché una volta fui complice
inconsapevole di ciò che trovo vergognoso. L’occidente ha
voluto e programmato la catastrofe russa. Ho letto documenti
e partecipato a ricerche che, con il pretesto della lotta
ideologica, operavano per la distruzione della Russia. Ciò
mi fu così insopportabile che non potevo più rimanere nel
campo di chi distrugge il mio popolo e il mio Paese.
L’occidente non mi è estraneo, ma lo considero un impero
nemico. Dopo la caduta del comunismo in Europa orientale,
massicci attacchi ai diritti sociali dei cittadini furono
lanciati in occidente. Oggi i socialisti al potere nella
maggioranza dei Paesi europei perseguono politiche di
smantellamento del sistema di sicurezza sociale,
distruggendo tutto ciò che vi era di socialista nei Paesi
capitalisti. Non c’è più una forza politica in occidente
capace di proteggere i cittadini. I partiti politici sono
una mera formalità e si differenziano sempre meno col
passare del tempo. La guerra nei Balcani fu tutto tranne che
democratica. Tuttavia, la guerra fu perpetrata dai
socialisti che storicamente erano contro tali iniziative.
Gli ambientalisti al potere in alcuni Paesi, salutarono la
catastrofe ambientale causata dai bombardamenti della NATO,
ed ebbero anche il coraggio di affermare che le bombe
all’uranio impoverito non sono pericolose per l’ambiente,
anche se i soldati che le caricavano indossavano tute
protettive speciali. Così, la democrazia scompare dalla
struttura sociale occidentale. Il totalitarismo si diffonde
nel mondo perché la struttura sovranazionale impone le sue
leggi ai singoli Stati. Tale sovrastruttura antidemocratica
dà gli ordini, impone sanzioni, organizza embarghi, sgancia
bombe, provoca fame. Anche Clinton obbedisce. Il
totalitarismo finanziario ha soggiogato il potere politico.
Le emozioni e la compassione sono estranei al freddo
totalitarismo finanziario. Rispetto alla dittatura
finanziaria, quella politica è umana. La resistenza fu
possibile nelle dittature più brutali. La ribellione contro
le banche è impossibile. Il cittadino occidentale subisce il
lavaggio del cervello molto più di quello sovietico
all’epoca della propaganda comunista. Nell’ideologia la cosa
principale non sono le idee, ma i meccanismi della loro
diffusione. La potenza dei media occidentali, per esempio, è
incomparabilmente superiore alla propaganda del Vaticano al
culmine della sua potenza e non si tratta solo di cinema,
letteratura, filosofia. Tutte le leve d’influenza e i
meccanismi utilizzati nella promulgazione della cultura, nel
senso più ampio, operano in tale direzione. Al minimo
impulso tutti coloro che lavorano in questo settore
rispondono con tale coerenza che è difficile non pensare che
gli ordini provengano da un’unica fonte. In Unione Sovietica
il 10 – 12% della popolazione attiva lavorava
nell’amministrazione del Paese. Negli Stati Uniti è il
16-20%. Tuttavia l’URSS fu criticata per l’economia
pianificata e il peso dell’apparato burocratico. Duemila
persone lavoravano nel Comitato centrale del partito
comunista. L’apparato del partito comunista aveva 150mila
lavoratori. Oggi in occidente vi sono decine, persino
centinaia di imprese industriali e bancarie che impiegano
più persone. L’apparato burocratico del Partito comunista
sovietico era trascurabile rispetto al personale delle
multinazionali occidentali.
Una evidente INCONGRUENZA tra due affermazioni IN
UN IMPORTANTE DOCUMENTO DEL PRC
In tesi VIII
CONGRESSO PRC leggo:
1) la Rivoluzione d’Ottobre
mantiene un valore peculiare: essa è stata uno
spartiacque del XX secolo. Per la prima volta nella
storia le masse hanno preso in mano il loro destino.
La Rivoluzione d’ottobre ha permesso al popolo russo
di uscire da una situazione di miseria, servaggio e
ignoranza ed ha modificato in profondità gli
equilibri del mondo, rompendo il monopolio
planetario del mercato capitalistico e influenzando
l’intero corso rivoluzionario del ‘900, fino alle
liberazioni anticoloniali. Ha costretto le classi
dominanti
dell’Occidente capitalistico a compromessi
significativi con il movimento operaio. Ha
contribuito in
termini decisivi alla sconfitta del nazifascismo.
2) si può essere portatori e portatrici credibili
di un’ipotesi rivoluzionaria e comunista solo in
quanto essa si definisce in discontinuità rispetto
all’esperienza del “socialismo realizzato”.
DOMANDA:
- Il popolo russo esce da una situazione di miseria,
servaggio e ignoranza;
- si modificano in profondità gli equilibri del
mondo, rompendo il monopolio planetario del mercato
capitalistico;
- la Rivoluzione ha influenzato l’intero corso
rivoluzionario del ‘900;
- liberazioni anticoloniali;
- la Rivoluzione ha contribuito in termini decisivi
alla sconfitta del nazifascismo.
Tutto questo è socialismo realizzato? Lo è
certamente.
Ma allora “cari” compagni revisionisti che
significa: IN DISCONTINUITA' rispetto all’esperienza
del “socialismo realizzato”?
perché no IN CONTINUITA’??
Maria Felicia Crapisi
I signori del PRC appartengono alla categoria dei
REVISIONISTI, che si opposero, vivo Lenin, ai suoi
progetti, e, nel periodo di Stalin, ostacolarono,
per vie più o meno nascoste, la realizzazione del
socialismo. Il REVISIONISMO è un verme velenoso, che
ha insidiato, fin dall'inizio, la storia del
SOCIALISMO
Perché il socialismo è di
molto superiore al capitalismo.
Le conquiste della costruzione del Socialismo nell'Unione
Sovietica
Nikos Mottas * | communismgr.blogspot.it
Traduzione per
Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e
Documentazione Popolare
Durante gli ultimi 25 anni, dopo la vittoria delle forze
controrivoluzionarie nell'Unione Sovietica e nell'Est
Europa, la discussione politica pubblica è stata dominata
dal concetto della "fine della storia, fine delle
ideologie". Questo è certamente un concetto molto
conveniente per la classe dominante, la borghesia, nel suo
sforzo di convincere il mondo che 1) il socialismo è
irreversibilmente fallito, 2) il capitalismo è il vincitore
finale nella successione delle trasformazioni
socio-economiche della storia, 3) ogni argomentazione a
favore di una società non capitalista, dove i mezzi di
produzione siano socializzati in una economia centralmente
pianificata, è "irrealistica" oppure una "fantasia
utopistica".
L'anticomunismo, naturalmente, è stata una parte
essenziale del suddetto principio borghese. Per più di due
decenni, le forze borghesi ed i loro meccanismi di potere
(storiografia, mezzi di comunicazione di massa, ecc.) hanno
scatenato in tutto il mondo una crociata anticomunista,
principalmente demonizzando e diffamando l'Unione Sovietica
e in generale la costruzione del socialismo nel XX secolo.
Uno spettro infesta le teste dei neoliberisti, dei
centristi, dei socialdemocratici, dei neonazisti e degli
altri apologeti della barbarie capitalista ogni volta che si
trovano ad affrontare le verità scientifiche del
marxismo-leninismo. E' lo spettro del - come usano chiamarlo
- "totalitario", "stalinista", "sanguinario", "repressivo",
eccetera, regime Sovietico. Gli anticomunisti cercano di
distorcere la storia in ogni modo e direzione possibile ma,
sfortunatamente per loro, non possono cambiare i fatti e le
verità storiche.
La storia stessa mostra le menzogne senza ritegno della
propaganda anticomunista borghese. Nonostante esistessero
problemi e debolezze, il sistema socialista del XX secolo ha
provato coi fatti la superiorità del socialismo sul
capitalismo ed ha mostrato gli enormi vantaggi che arreca
alla vita ed al lavoro delle persone. L'abolizione dei
rapporti di produzione capitalistici ha liberato l'uomo
dalla schiavitù del lavoro salariato, aprendo così la via
per la produzione e lo sviluppo scientifico, non volto al
profitto di pochi, ma alla soddisfazione dei bisogni dei
popoli. Nei cosiddetti "regimi totalitaristi comunisti"
(sic) ogni essere umano ha un lavoro garantito, sanità
pubblica gratuita, servizi a basso costo forniti dallo
Stato, casa, libero accesso alle attività sportive e
culturali.
Nei successivi paragrafi, come risposta a tutti gli
apologeti della barbarie capitalista, riportiamo molte
fondamentali conquiste della costruzione socialista
nell'Unione Sovietica.
Diritti delle donne
La grande Rivoluzione d'Ottobre del 1917 ha aperto la
strada per l'emancipazione sociale e la liberazione delle
donne della classe operaia. Prima della Rivoluzione
d'Ottobre, nella Russia zarista, la donna era soggetta a
diverse discriminazione di classe e basate sul genere
sessuale, con l'80 per cento di esse che erano operaie non
specializzate che guadagnavano la metà del salario dei loro
colleghi maschi. Nella Russia zarista, l'87% delle donne non
sapeva né leggere né scrivere. Uno dei primi decreti della
Rivoluzione garantì i pieni e completi diritti politici alle
donne; in Gran Bretagna questo accadde nel 1918, negli USA
nel 1920 e in Francia nel 1944 (In Italia solo nel 1945,
dopo che nel 1926 e nel 1928 Mussolini aveva abolito ogni
diritto di voto delle donne, cancellando anche i limitati
diritti di elettorato solo attivo e limitato alle elezioni
amministrative che il governo postunitario aveva
parzialmente concesso in modo non universale, n.d.t.).
Nell'Unione Sovietica, dal 1917 al 1920, più di 4 milioni
di donne impararono a leggere ed a scrivere, mentre dal 1922
al 1928 la rappresentanza femminile nei Soviet aumentò 9
volte (830.000 donne lavoratrici e coltivatrici): Negli anni
70, quando negli USA solo il 5% dei membri del governo
federale e dei governi statali era donna, il 35,6% dei
membri del Soviet Supremo erano di sesso femminile.
E' stato nell'Unione Sovietica - non nell'Europa
occidentale o negli USA - che sono state approvate leggi
speciali per proteggere il lavoro della donna durante il suo
periodo di gravidanza: 4 mesi di maternità con pieno
stipendio per ogni donna.
Nota: Nell'Unione Europea il tasso di disoccupazione
femminile era del 10,6% nel 2012 e del 10,1 nel 2014
(Eurostat), mentre il numero totale delle donne che vivono
sotto il livello di povertà raggiungeva i 65 milioni!
Conquiste dei lavoratori
Nell'Unione Sovietica c'era lavoro stabile e permanente
per tutti, non più di 41 ore per settimana. Per coloro che
erano impiegati in lavori insalubri od usuranti, le ore di
lavoro furono ridotte a 36 la settimana. La settimana
lavorativa in Unione Sovietica era una delle più corte del
mondo, mentre ogni lavoratore ed ogni lavoratrice avevano il
diritto al tempo libero ogni settimana e ferie annuali
pagate.
L'assicurazione sociale statale dei lavoratori era
obbligatoria. La risorsa per l'assicurazione non era il
salario dei lavoratori, ma il bilancio dello stato ed il
bilancio delle compagnie statali. Ogni lavoratore aveva
diritto alla piena pensione a 60 anni per gli uomini ed a 55
anni per le donne. In caso di lavori insalubri od usuranti,
gli uomini avevano diritto di andare in pensione a 50 anni e
le donne a 45.
Il riposo ed il tempo libero non era un privilegio - come
succede nel capitalismo - ma un diritto secondo l'articolo
119 della Costituzione Sovietica. Lo stato socialista
provvedeva ad una vasta rete di libere attività culturali e
sportive che venivano messe a disposizione del popolo. La
prima casa del tempo libero fu costruita in Pietroburgo
(Leningrado) nel 1920, come iniziativa dello stesso V.I.
Lenin. All'inizio del 1940 c'erano già 3600 case del tempo
libero che potevano servire 470.000 lavoratori, mentre nel
1980 c'erano più di 14.000 centri di vacanza e tempo libero
per 45 milioni di persone.
Nota: Nel mondo capitalista - specialmente nell'Europa
occidentale - le conquiste del lavoro vennero come risultato
di permanenti e sanguinose lotte di classe. L'esistenza
dell'Unione Sovietica e l'esempio della costruzione del
socialismo costrinse un numero significativo di governi
occidentali borghesi a concedere alcuni diritti sociali e
del lavoro ai propri popoli. Comunque, dopo la
controrivoluzione in URSS ed Est Europa, questi diritti
sociali e del lavoro vennero ferocemente attaccati. Oggi,
nel 2016, viviamo in una barbarie capitalista di
disoccupazione di massa, sotto-occupazione, salari ridotti,
indebitamento di massa, nessuna contrattazione sul lavoro,
impiego di minori al lavoro. Nel mondo capitalista, tutti i
diritti sociali e del lavoro vengono sacrificati sull'altare
del profitto capitalista; dagli USA dei 47 milioni di
persone che vivono sotto la soglia di povertà fino
all'Unione Europea dei 25 milioni di disoccupati!
Servizio sanitario pubblico e gratuito
Il servizio sanitario pubblico che è stato istituito in
Unione Sovietica rappresenta un esempio significativo di
costruzione socialista. Nella Russia Sovietica vi era una
vasta rete sanitaria, basata sull'economia socialista
centralmente pianificata, che provvedeva a cure mediche
gratuite per l'intera popolazione. I numeri parlano da soli:
prima della Rivoluzione d'Ottobre, nella Russia zarista,
l'aspettativa di vita era solo di 32 anni. Dopo il 1917, in
pochi anni, l'aspettativa di vita salì a 44 anni (1920). Nel
1987, L'Unione Sovietica aveva la stessa aspettativa di vita
del mondo occidentale (69 anni).
Durante la costruzione del socialismo, il numero dei
medici di ogni specializzazione fu rapidamente aumentato,
mentre la mortalità infantile (che nella Russia
prerivoluzionaria era un problema enorme) è diminuita di
dieci volte. Nella metà degli anni 80, approssimativamente
160 milioni di persone sostenevano check-up sanitari
preventivi annuali, mentre più di 35 milioni erano sotto
costante monitoraggio medico gratuito. Nello stesso periodo,
esistevano nell'Unione Sovietica più di 28.000 ambulatori di
stato per uomini, donne e bambini.
Nota: Nella Russia capitalista di Putin, l'aspettativa di
vita è diminuita nel 2004 a 63 anni. Inoltre, nella Russia
capitalista degli oligarchi e dei gruppi monopolistici la
sanità non è più né pubblica né gratuita: numerosi ospedali
e cliniche statali sono state chiuse mentre venivano aperti
grandi ospedali privati, gli "incidenti" sul lavoro sono
aumentati (6000 morti ogni anno) e i lavoratori russi devono
pagare i servizi anche nei residui ospedali pubblici.
Istruzione pubblica e gratuita
Una conquista unica della costruzione del Socialismo in
Unione Sovietica fu la completa eliminazione
dell'analfabetismo e il rapido aumento del livello di
istruzione. Prima della Rivoluzione d'Ottobre del 1917, solo
il 37,9% dei russofoni maschi e solo il 12,5% delle
russofone femmine sapevano leggere e scrivere. Fin dai primi
momenti, il governo Sovietico fece uno sforzo colossale per
eliminare l'analfabetismo. I numeri parlano da soli:
approssimativamente 50 milioni di adulti hanno imparato a
leggere ed a scrivere negli anni tra il 1920 ed il 1940; nel
1937, il 75% della popolazione totale sapeva leggere e
scrivere. Nel primo decennio del 1960, l'analfabetismo è
stato completamente eliminato.
L'eliminazione dell'analfabetismo - che fu raggiunta
anche dalla Cuba socialista negli anni 60 - era parte di un
programma generale ed unificato creato dal governo Sovietico
che includeva: l'istituzione della libera educazione per
ogni bambino, la creazione di un programma sociale educativo
prescolare, libera e gratuita accessibilità agli studi
universitari per operai e contadini, creazione di migliaia
di asili d'infanzia, scuole elementari, medie e superiori.
Il numero di persone che hanno raggiunto la laurea
universitaria è aumentato dall'1,2 milioni del 1939 ai 21
milioni della fine degli anni 80. Dal 1918 al 1990, più di
135 milioni di russi hanno completato gli studi
universitari.
Mentre nel mondo capitalista il diritto all'istruzione
veniva sottoposto al profitto ed alle privatizzazioni, gli
studenti in URSS avevano libero e gratuito accesso ad ogni
livello di istruzione. Non c'erano rette da pagare
nell'Unione Sovietica per accedere ai più alti livelli di
educazione e inoltre, vi era completo accesso
all'assicurazione medica come a vari sport ed eventi
culturali.
Nota: Nel 2000, nella Russia capitalista, il 40% degli
studenti universitari paga le rette. La restaurazione del
capitalismo nel paese ha portato alla distruzione del
carattere libero e gratuito dell'istruzione. Le indiscusse
conquiste del Socialismo nell'educazione sono state
internazionalmente riconosciute dalle comunità scientifiche
degli stati capitalisti. La frase "Ivan sapeva quello che
Johnny non sa", che divenne oggetto di ricerca negli Stati
Uniti, è caratteristica. Specialmente dopo i trionfi
sovietici nel settore delle scienze, incluse le conquiste
spaziali, nessuno poteva discutere la superiorità del
socialismo nel campo dell'educazione.
* * *
Non c'era settore della scienza nel XX secolo dove l'Unione
Sovietica non fosse leader. Ogni anno, il 20-25% delle
scoperte e delle invenzioni, nei maggiori campi della
tecnologia, dipendevano dall'URSS.
Potremmo elencare molte più conquiste del Socialismo
nell'Unione Sovietica così come nell'Europa dell'Est.
Potremmo certamente menzionare la completa trasformazione di
un povero, semifeudale stato zarista in una superpotenza con
industrializzazione estensiva e rapido aumento della
produzione agricola. Potremmo menzionare il colossale
contributo dell'Unione Sovietica alla lotta antifascista
durante la Seconda Guerra Mondiale. Potremmo anche citare le
magnifiche conquiste sovietiche nelle Arti, nella Cultura,
incluso il cinema, il teatro, la musica classica, la poesia
e la letteratura, ed altro ancora.
La conclusione è però una sola: in ogni settore della
vita sociale ed economica, il Socialismo ha provato la sua
superiorità sul capitalismo. E quando parliamo di
"superiorità", ci riferiamo a come il sistema Socialista
amministrava la soddisfazione dei bisogni del popolo
eliminando lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Il
capitalismo con la sua anarchia produttiva e con la sua
deificazione del profitto non ha nulla da offrire
all'umanità se non povertà, miseria, disoccupazione,
diseguaglianze e guerre.
L'Unione Sovietica e gli stati socialisti del XX secolo,
a dispetto dei loro pur esistenti problemi, hanno dimostrato
di essere il miglior mondo possibile. Nonostante il
temporaneo passo indietro storico delle controrivoluzioni
del 1989-1991, nulla è finito. La fine della storia non è
arrivata, caro signor Fukuyama e cari apologeti del
capitalismo.
Il socialismo-comunismo è il futuro dell'umanità.
*) Nikos Mottas è capo editore di "In difesa del
Comunismo", dottorando di Scienze Politiche, relazioni
Internazionali e Storia della Politica.
Ho potuto notare che storici antistalinisti e
compagni antistalinisti che si atteggiano a
storici, quando parlano di Stalin, non si
riferiscono mai a “documenti storici” che vadano
oltre il “RAPPORTO SEGRETO” di KRUSCEV. La
storia per loro finisce nel ’56, e sui processi
di Mosca, principale capo di accusa contro
Stalin, amano citare “Buio a
mezzogiorno” scritto da uno dei
condannati a questi processi, Arthur Koestler,
(finanziato dalla CIA), e qui si fermano. E
niente sanno (?) di un altro ben più famoso
condannato da Stalin,
Alexander Zinoviev! Ebbene ALEXANDER
ZINOVIEV , tra i principali
imputati nei processi di Mosca, ivi condannato
nel 1936 a morte, poi riabilitatio con la
glasnost di Gorbačëv, nel 1988, proprio Zinoviev
in uno dei sette capitoli del suo famoso saggio:
"COME UCCIDERE UN ELEFANTE
CON UN AGO", scritto nel 2005, un anno
prima della morte. (Il materiale si basa sui
ricordi di numerosi incontri che Aleksandr
Zinoviev ebbe con i rappresentanti della élite
politica occidentale responsabili della politica
verso l’URSS.) ci parla di Gorbaciov agente
della CIA. Zinoviev diceva spesso che a
giudicare dal comportamento di Gorbaciov, non si
poteva escludere la possibilità che lavorasse
per l’occidente, ma che infine non ha molta
importanza, perché quello che fece servì
esattamente gli interessi dell’occidente.
https://aurorasito.wordpress.com/…/gorbaciov-agente-della-…/
Qualche tempo fa di Zinoviev ho presentato su
facebook (https://www.facebook.com/giuseppeca...)
uno straordinario documento
“IL RIMORSO DI UN DISSIDENTE: ALEKSANDR ZINOVIEV
SU STALIN E LA DISSOLUZIONE DELL’URSS”.
che l’onesto storico e amico
Giuseppe Carlo Marino ha così commentato:
“Grazie, cara Giuseppina. E' un caso sul quale
sarebbe opportuno estendere la riflessione, ma
con metodo scientifico, se possibile;…”
https://aurorasito.wordpress.com/2016/08/23/il-rimorso-di-un-dissidente-aleksandr-zinoviev-su-stalin-e-la-dissoluzione-dellurss/
Pietro Ancona rivaluta Stalin e lo
stalinismo
Fluorilegio di pensieri espressi in varie
occasioni da Pietro su Stalin e lo stalinismo
In questi ultimi tempi ho avuto modo di
riconsiderare convinzioni che avevo radicato
dentro di me da decenni. Una di queste si
riferiva a Stalin ed al periodo storico in cui
l'URSS fu diretta da lui dalla morte di Lenin al
1953.
Avevo accettato come verità assoluta le
rivelazioni di Kruscev al 20 Congresso del 1956
e, in conseguenza di ciò, anche la
smobilitazione dell'URSS fatta da Gorbacev ed
Etlsin. Con l'aiuto di alcuni ausili storici
come gli scritti del prof. Losurdo e di Martens
e sopratutto con un'analisi critica più libera
del comportamento attuale e della storia del
capitalismo e dell'Occidente sono giunto ad un
giudizio diverso dell'opera di Stalin e dei
bolscevichi. Io ero e resto socialista
libertario ma ciò non mi impedisce di vedere
Stalin come lo considerava il PSI di Nenni e
Morandi fino al ventesimo congresso del PCUS.
Cioè come un grande statista della storia,
edificatore di una società nuova che aboliva lo
sfruttamento dell'uomo sull'uomo.
Ma Stalin è ancora argomento tabù e molta gente si
scandalizza ed è sconcertata quando qualcuno ne
parla bene o giustifica il suo operato. Sessanta
anni dopo il ventesimo congresso è difficile
recuperare obiettività. Tanti amici non
capiscono quella che considerano soltanto una
mia radicalizzazione estremistica. Io non sono
un estremista. Dal metodo di storia comparata
applicato dal prof. Lo Surdo ho imparato a
vedere in modo meno limitato gli eventi
inserendoli negli scenari che li hanno prodotto.
Non c'è dubbio che coloro i quali negavano a
Rosa Parks ancora nel 1955 il diritto al posto
in autobus non hanno le carte in regola per
condannare come illiberale il regime sovietico.
Non c'è dubbio che la fabbrica di Stalin era di
gran lunga più umana e più civile della Fiat di
Marchionne. Stalin inoltre non usò le bombe
atomiche come fece Truman deliberatamente per
terrorizzare il mondo. (Se non fosse stato così
gli USA non avrebbero fatto esplodere una
seconda bomba dopo avere constatato gli effetti
apocalittici della prima).
Ma mi rendo conto di andare controcorrente e
moltissime persone, brave ed oneste persone di
sinistra, non sono in grado di accettare la
revisione del giudizio sullo stalinismo e che io
non condivida la loro ancestrale condanna. Ma io
non per questo fingerò di continuare a credere
agli orrori di Stalin e del comunismo.
Quarta giornata di lavori sul pensiero di
Antonio Gramsci.
Oggi c'è stata l'ultima giornata di studi su
Gramsci dedicata agli usi politici che oggi si
fanno o si potrebbero fare del pensiero del
grande dirigente del partito comunista italiano
per dieci lunghissimi anni chiuso in carcere da
Mussolini che, pur essendo afflido da gravi e
debilitanti malattie, ebbe la forza di lasciarci
un patrimonio inestimabile di idee. un deposito
inesauribile di riflessioni sulla storia
d'Italia sulla sua cultura sulla funzione delle
sue classi dirigenti. Credo si possa dire che
Gramsci è stato per il socialismo italiano molto
di più di quello che Benedetto Croce è stato per
il liberalismo. Gramsci ha fornito ai comunisti
le chiavi per capire la storia del loro paese ed
in più il martirio della sua stessa persona per
il sostegno della causa dei comunisti cosa che
Benedetto Croce si guardò bene dal dare
acconciandosi a trascorre i venti anni del
fascismo in una nicchia indisturbata. La
relazione è stata tenuta stasera dal prof.
Francesco Giasi vice direttore della Fondazione
Gramsci che ha lumeggiato aaspetti importanti
della biografia e della opera di Gramsci. Ha
detto che il pensiero di Gramsci va sempre letto
nel contesto storico in cui è maturato e che è
sbagliato stralciarne aspetti e pretendere con
questi di interpretare il presente. Di Gramsci
bisogna assorbire la capacità di leggere la
realtà e la cultura e non riprodurre
meccanicamente la sua lettura della realtà e
della cultura. Ha parlato dell'assenza in Italia
di un partito gramsciano. Ma come fa ad esserci
un partito gramsciano se il revisionismo ha
travolto e fatto degenerare il c omunismo
specialmente con la Bolognina e l'assunzione del
pensiero unico come pensiero del partito che fu
una volta il PCI?
Come si può accettare Gramsci quando si è
rinnegata la rivoluzione d'ottobre Lenin Stalin
e la loro opera? Si può essere gramsciani senza
essere comunisti? Non è possibile!!
E' stato bello, bellissimo vedere tanti giovani
seguire per quattro giorni questa bella
iniziativa dei giovani comunisti. Questa è la
meglio gioventù quella che studia, si informa,
discute, lotta per una Sicilia ed una Italia
migliori!
Precedentemente Pietro, a proposito di Gramsci,
aveva scritto:
venerdì 11 giugno 2010 -
Gramsci ed il PCI
Rifletto su Gramsci sul suo lascito politico e
mi domando perché è la citazione preferita dei
comunisti che ne richiamano il pensiero quando
affrontano questioni cruciali del nostro tempo.
Credo che la ragione, la causa di tanta
attualità del suo pensiero, sia dovuta alla sua
eresia. Gramsci, fondatore del PCI, era un
eretico e come tale fu trattato dal suo Partito,
dalla tenebrosa e possente organizzazione del
comunismo internazionale. Il Comintern
dove Togliatti era dirigente di rilievo ne
ignorava il pensiero ma lo teneva sotto
controllo. L’atteggiamento dei comunisti
verso di lui fu come quello della Chiesa nei
confronti di pensatori eretici e poi finiti sul
rogo o comunque discriminati ed isolati.
Gramsci non condivise l’atteggiamento assunto
dalla terza internazionale nei confronti della
socialdemocrazia definitasocialfascismo
e da combattere ancora più duramente dei nemici
di classe perché, come diceva Togliatti, bisogna
"tagliare l’erba del nostro vicino". Per
quanto non sapesse molto di quanto succedeva in
Unione Sovietica certamente era allarmato dei
segni di una degenerazione verso il
totalitarismo di Stato. Credo che il
comunismo gramsciano finisca con lui. Il PCI è
un’altra cosa. Il PCI è stata forgiato dal
togliattismo frutto lungamente maturato negli
uffici del Comintern e dell’URSS. La
commistione tra interessi statali, di potenza
con quelli di partito è fortissima.
L’idea che gli interessi del Partito siano da
anteporre a quelli della classe lavoratrice e,
se del caso, dello stesso socialismo che è
alla base della dottrina togliattiana non
sarebbe mai stata condivisa da Gramsci. Gramsci
avrebbe sempre preposto gli interessi dei
lavoratori e del socialismo a quelli del
Partito. Inoltre la sua idea del Partito non era
esattamente quella di Togliatti e dei suoi
successori. Questo lo deduco dalla lettura di
Ordine Nuovo e dai Quaderni del Carcere. La
struttura cardinalizia del PCI, la sua cultura
sapienziale paragonabile a quella dei gesuiti,
il "centralismo democratico", la disciplina
ferrea, non sarebbero mai state accettati dal
nostro pensatore che non cessava mai di pensare
e di correggersi. Gramsci non avrebbe votato
la radiazione del gruppo del "Manifesto" come
fece Ingrao. Il PCI isolò Gramsci in galera.
Forse il silenzio dei suoi compagni che non gli
rivolgevano la parola per paura di
compromettersi con il partito fu la cosa più
dolorosa della sua lunga detenzione. Credo che
anche suoi parenti come la cognata Titiana
furono usati dal Partito e dal Comintern per
monitorarne continuamente il pensiero. La storia
dei rapporti di Gramsci con la sua famiglia
andrebbe tutta riscritta. Anche il destino dei
suoi figli è degno di approfondimento e non è
soltanto una faccenda privata. Dubito molto che
Gramsci avrebbe condiviso il duplice strappo di
Berlinguer (non si può governare con il 51 per
cento e l’adesione alla Nato del cui ombrello si
sentiva protetto). Dubito che avrebbe condiviso
la Bolognina e la deidentificazione del
comunismo italiano. Il suo comunismo era frutto
originale della cultura del socialismo italiano
e non avrebbe avuto bisogno dei pentimenti e dei
"mi vergogno" dei Veltroni... Pietro Ancona
C'è qualcosa di malato nella fuga da se
stessi, dagli ideali per i quali si è combattuto
magari tutta la vita, negli allontanamenti e
nelle tristi e squallide abiure dal comunismo o
dal socialismo e cioè di quanto di meno
immanente ci possa essere oggi nella realtà
italiana ed europea in preda a spinte di segno
assolutamente reazionario di destra. Ed è
singolare che i ravvedimenti i ripensamenti
avvengano mentre si chiede la resa
incondizionata ai lavoratori e la cancellazione
di ogni seppur minimo tratto di socialismo nel
welfare delle legislazioni europee. Perchè
personaggi autorevoli della "sinistra" maestri
di pensiero si affannano a comunicare che tutto
ciò in cui avevano creduto è sbagliato e spesso
anche abominevole?
Sono rimasto assai colpito della spiegazione
che Rossana Rossanda, un vero e proprio mostro
sacro per diverse generazioni di intellettuali
comunisti, ha dato ieri alla crisi di vendite
del "Manifesto" che oramai non raggiunge più le
quindicimila copie giornaliere. Rossanda si
domanda: se non possiamo più dirci comunisti che
cosa siamo? Io credo che la crisi di lettori del
Manifesto non nasca da una crisi della idea del
comunismo nella gente ma dal progressivo
spretamento di gruppi dirigenti storici della
sinistra italiana e dal loro abbandono di ciò
che Rodolfo Morandi chiamava le" latitudini
dottrinarie del socialismo". Questa crisi di "spretamento",
di perdita della fede e delle ragioni della
scelta politica è stata visibile in tutta la
vicenda della aggressione e della distruzione
della Libia. Rossanda riteneva che fosse
condivisibile la rivolta armata contro la
Jamaria e la dittatura di Gheddafi ed ha dato
spiegazioni assurde per l'intervento dello
Occidente dicendo che derivava da ragioni
elettorali interne alle Francia. Il Manifesto ha
tirato la volata da sinistra ad una sanguinaria
guerra colonialista che ha sfasciato la Libia e
l'ha trasformato in un inferno in cui la legge è
scomparsa e si è in balia degli odi tribali.
Credo che rispetto la questione siriana si sta
ripetendo lo stesso "errore" di valutazione. Ma
si tratta proprio di un errore oppure di un
cambiamento radicale di prospettiva, in una
condivisione della idea che l'Occidente sia la
democrazia e la Siria la Libia l'Iraq siano
tirannidi da estirpare anche con il bisturi
della guerra e dei bombardamenti? Rossanda si
ripara come Berlinguer sotto l'ombrello della
Nato e sotterra l'analisi comunista della
realtà mondiale?
A questo punto quale differenza tra Rossanda e
Veltroni che criminalizza l'art.18 e D'Alema che
dopo avere bombardato Belgrado si dichiara
pronto ad arruolarsi per la Siria? Che c'è di
diverso nelle abiure e nei ripensamenti di
questi personaggiP? Che cosa resta di sinistra
se non di comunista nel "Manifesto"? Perchè i
compagni dovrebbero continuare a distinguere
Rossanda da Bersani?
E' singolare che più la realtà precipita
verso il peggio della crisi sociale ed economica
e più si fa insopportabile e stringente la presa
autoritaria di un capitalismo sempre più feroce
e sempre più portato alla distruzione della
civiltà europea come l'abbiamo conosciuta da
cinquanta anni a questa parte e più i gruppi
dirigenti e singole personalità della sinistra
comunista e radicale rinculano a destra, sempre
più a destra. Qualcosa di simile si verificò
alla vigilia del nazismo quando importanti
gruppi e personaggi della socialdemocrazia si
convertirono al fascismo. Potrei capire che un
capitalismo keinesiano progressista tollerante
ed aperto al benessere dei ceti medi e dei
lavoratori possa indurre un dirigente di
sinistra a moderare, ad attenuare al massimo la
propria intransigenza di oppositore. Ma come si
fa a diventare di destra quando abbiamo avuto la
tatcher e Reagan e quando il potere delle banche
è diventato terroristico verso le famiglie e le
nazioni ed i salari sono stati abbassati
brutalmente in tutto l'Occidente? Nella fase storica che si è aperta sarebbe
auspicabile piuttosto che l'abiura una
riscoperta integrale del comunismo da Carlo Marx
e Federico Engels alla Rosa luxemburg, a Lenin
ed a Stalin. Lenin spiega alla perfezione il
fallimento e la vacuità dei regimi parlamentari
e Stalin potrebbe offrire il modello sovietico
della accumulazione collettiva e della
trasformazione di un popolo di 160 milioni di
contadini poveri ed analfabeti in un popolo di
scienziati, ingegneri, professori, medici,
tecnici capaci di vincere Hitler e di competere
nella sfida spaziale. Ecco, mentre la crisi
della società spinge a destra la Rossanda,
Bersani ed a tantissimi altri, la classe
operaia che c'è sempre e la lotta di classe che
non è mai finita ripropongono la riscoperta
integrale del Comunismo oggi più che mai attuale
e corrispondente agli interessi generali della
umanità. Per questo, io che sono stato
socialista tutta la vita credo che oggi essere
socialisti non vuol dire convincersi delle buone
ragioni di Friedman e di Monti ma diventare fino
in fondo comunisti. Comunisti come potevano
esserlo i bolscevichi. La Grecia, la Libia,
l'Iraq ci indicano tutto quello per cui
dobbiamo lottare....Le scelte sono diventate
radicali e discriminanti.
Pietro Ancona
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Stalin è il comunismo
le tesi dell'ottavo congresso del PRC
condannano senza alcuna indulgenza lo stalinismo
e lo considerano una malattia, una corruzione
del comunismo. Io credo che in questa condanna
ci sia un errore derivante dalla voglia di
ripulirsi della storia spesso tragica del
comunismo mondiale e di ripararsi, come disse
Berlinguer, sotto l'ombrello della Nato. Se guardiamo lo stalinismo riferendoci
al periodo storico in cui Stalin diresse l'URSS
parliamo del comunismo come si è realizzato dopo
la morte di Lenin. Condannando Stalin si
condanna il comunismo e lo stesso Lenin, cioè la
rivoluzione d'ottobre alla quale il PRC dice di
riferirsi. Il comunismo non poteva essere diverso da
quello realizzato da Stalin e difeso
dall'invasione degli eserciti del mondo
capitalistico ed infine trasfuso della
Costituzione del 1947 dell'URSS che è una delle
più avanzate del mondo.Se si condanna
soltanto l'opera dottrinaria e teorica di Stalin
non si sa bene di che cosa si parla perchè
niente c'è di più elevato del pensiero sulle
nazionalità e sulla lingua di Stalin. Un
rispetto profondo per i popoli della URSS e di
tutto il mondo che veniva avvertito dal mondo
oppresso dal colonialismo e dall'imperialismo
anglosassone ed europeo che avevano in lui un
punto di riferimento nella lotta per il loro
riscatto.
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C'è una sorta di reazione di sgomento superstizioso quando
si cita positivamente Stalin. E' la stessa reazione che si
riscontra quando si cita negativamente Padre Pio
di Pietralcina che, seppur santificato a furore
del popolo dei suoi numerosi fan, fu assai
discusso dalla Chiesa ed in qualche modo subito
di mala voglia. Una identica reazione se si loda
Stalin e se si critica Padre Pio. La stessa
superstizione. C'è una responsabilità storica
del gruppo dirigente comunista non più
bolscevico del XX Congresso. Immaginatevi al
posto di Togliatti, Gramsci,Terracini,
Scoccimarro Secchia persone come Bersani,
D'Alema, Veltroni, Camusso, Napolitano. Insomma
la corrente migliorista del PCUS ha preso il
sopravvento e i dirigenti della potente Unione
Sovietica non accettavano più come Stalin di
ricevere un modesto compenso mentre oramai
amministravano ricchezze e risorse immense.
Per quanti privilegi potesse avere la
Nomenclatura essi erano ben misera cosa in
confronto a quelli ai quali agognavano le
cricche radunate attorno a Kruscev e poi trenta
anni dopo attorno a Gorbacev. La direzione
di un immenso Stato ne aveva fatto dei borghesi
senza averne però i vantaggi che hanno i
dirigenti delle "democrazie" occidentali.
Lo stalinismo era il massimo di idealità e di
spiritualità nella gestione dello stato
comunista. Una gestione di persone che
guadagnavano al massimo tre o quattro volte
quanto un operaio. Il kruscevismo è stato un
colpo di stato borghese dentro il comunismo
fatto dal suo stesso ceto dirigente! Stalin
aveva capito che questo era possibile che
accadesse ma probabilmente era oramai troppo
anziano per potere mettere in salvo il potere
bolscevico da nuovi borghesi.
Guardate la fine miserevole fatta da Gorbacev
ridotto a vendersi come un prodotto
pubblicitario, come la prova della impossibilità
del comunismo. Gorbacev che nel constatare
quanti danni ha prodotto all'URSS non ha ancora
avuto l'onestà di farsi una pubblica autocritica
e dire: "ho sbagliato". Migliaia di neoricchi
russi che gozzovigliano negli alberghi più
lussuosi dello Occidente, personaggi che
possiedono venti anni dopo la caduta del
comunismo patrimoni di miliardi e miliardi di
rubli mentre la società russa subisce una sorta
di regressione antropologica con una terribile
diminuzione di natalità e migliaia e migliaia di
poveri non hanno casa e d'inverno muoiono per
strada, centinaia di migliaia di bambini
abbandonati in Bielorussia, Ucraina, Georgia
sono la terribile prova di quanto fosse
avvelenato il pomo della libertà offerto da
Gorbacev e dal sicario degli USA Eltsin al
popolo russo. Solo un
ritorno all'etica bolscevica del comunismo
edificato da Lenin e da Stalin può ridare
speranza non solo ai russi ma all'umanità per la
quale Stalin era un faro, un punto di speranza.
"A da veni baffon" tornerà a spingere
un movimento per recuperare gli ideali del
comunismo, la sua etica umanitaria superiore a
quella di qualsiasi religione. Desidero chiudere
ricordando le parole di Pietro Nenni e di
Rodolfo Morandi nel ricordo che fecero
sull'Avanti! del marzo 1953 di Giuseppe Stalin:
"L'umanità ha perduto un grande condottiero di
pace e di libertà!"
======
Grandezza del Comunismo Sovietico!!
Ho appena finito di vedere a RaiStoria un
servizio di Arrigo Levi ed altri sulla seconda
guerra mondiale combattuta in Russia in
particolare a Mosca e Leningrado. Il velenoso
anticomunista Arrigo Levi si è contraddetto
parecchie volte parlando di Stalin sostenendo,
con Kruscev, che era stato "sorpreso" dalla
invasione nazista e che solo dopo una decina di
giorni prese il comando delle operazioni di
guerra.- Falsità che tuttavia non hanno
potuto offuscare la grandezza di Stalin,
la grandezza del popolo russo nel suo stesso
racconto a volte fatto a denti stretti. Davvero un popolo
oppresso da una spaventosa dittatura durata
oltre venti anni avrebbe combattuto con tanto
ardore, abnegazione, coraggio, dedizione, contro
i tedeschi (e gli italiani ed altri alleati
nella operazione Barbarossa)? Da che cosa
discendeva la grande motivazione della
popolazione sovietica che partecipò attivamente
alle operazioni belliche a sostegno dell Armata
Rossa? Discendeva dal
fatto che il comunismo aveva fatto sentire come
propria la Nazione e lo Stato cosa che non era
successa durante la prima guerra mondiale con lo
zarismo. 27.07.2015
======
Purtroppo Putin non è Stalin che mise l'URSS
al riparo di Hitler con i processi del 36 e le
condanne a morte dei congiurati.
02/03/2015
================
25.12.2014
E' un modo per esprimere il proprio disagio nel
PD o in RC o altrove senza riproporsi una strada
radicale quale potrebbe essere quella di una
antibolognina di rivalutazione della rivoluzione
di ottobre e della esperienza storica dell'URSS
e del suo governo bolscevico. Questa strada non
può essere percossa dai quadri e dagli
intellettuali di quella che fu il revisionismo
italiano che da Berlinguer a Occhetto a Renzi ha
riscoperto il valore della libertà e della
democrazia dentro il mercato e dentro il blocco
ideologico militare della Nato. Non ammetteranno
mai questi signori di essersi sbagliati quando
hanno ritenuto esaurita la spinta propulsiva
della rivoluzione e condannata come totalitaria
la società comunista creata da Lenin e Stalin e
dal partito bolscevico.
=====================
Il delitto Troscki 2.11.2014
contrariamente a quanto i massmedia occidentali
hanno lasciato credere per tanti anni Lev Troski
venne ucciso non da un agente di Stalin ma da un
suo fedelissimo collaboratore che gli fungeva da
segretario.
La causa fu una donna della quale l'assassino
era follemente innamorato e che Troscki non gli
consentiva di sposare.
Il delitto avvenne in Messico dove Troscki
viveva all'interno di una villa fortificata
protetta da un muro alto sette metri e protetta
da guardie private. Troscki vi viveva circondato
da una vera e propria corte.
Quando il socialismo europeo ritroverà se stesso
e cesserà di rinnegare Stalin
che ne è stato l'incarnazione ed il grande
successo dell'URSS, riprenderà la dialettica
sociale e politica che aprirà nuovi orizzonti a
tutto il continente europeo. Orizzonti oggi
cancellati dalla triste miserie delle società
capitalistiche basate sull'operaio di Danzica
pagato meno di un terzo di quello che il regime
comunista pagava a Lesqa Walesa ed ai suoi
compagni di lavoro.
"Questo è l'esito di una storia politica che è
cominciata con Berlinguer ed attraverso Occhetto
giunge a Renzi. La storia di una abiura degli
ideali e della identità a cominciare dalla
rivoluzione di ottobre e poi della
criminalizzazione di Stalin e dell'URSS
I processi di Mosca salvarono il mondo dal
nazismo.
In Urss c'era una potente e diffusa quinta
colonna di Hitler e probabilmente non solo di
lui ma anche di altri paesi occidentali. L'Urss
sin dal 1917 era stata invasa da eserciti
regolari o irregolari inviati dalle potenze
capitalistiche per impedire la nascita dello
Stato Comunista. Questi eserciti restarono fino
al 1923 ed erano riusciti a ridurre il controllo
bolscevico sul territorio soltanto alla zona
circostante Mosca. Poi la rivoluzione si riprese
il Paese. La cosa fu talmente grave da provocare
un rinvio della edificazione del socialismo.
Soltanto nel 1927, dieci anni dopo la
Rivoluzione, parti il primo Piano Quinquennale.
13.03.2014
Sto leggendo un libro d'un ambasciatore
americano nell'URSS dei bolscevichi e di Stalin
dal 36 al 41. E' una testimonianza che distrugge
le basi del rapporto Kruscev su due questioni
essenziali: i processi e la preparazione alla
guerra contro i nazisti. L'ambasciatore si
chiamava Davies. Il libro fu edito a suo tempo
dalla Mondadori con il titolo " Missione Mosca"
La descrizione della Urss è di un paese pieno di
fervore di entusiasmo nella costruzione di una
grande ricca possente società comunista.- Lo
ambasciatore è spesso sbalordito della forza che
sprigionava la società sovietica guidata da
Stalin e dal Partito Bolscevico.
Stalin viene descritto e ricordato come un
mostro. Truman viene descritto e ricordato come
un galantuomo ed grande presidente degli USA.
Ebbene mentre l'URSS di Stalin non ha mai fatto
uso della sua forza e delle armi per imporsi ad
altri popoli, gli USA di Truman sperimentavano
la bomba atomica a Hiroshima e Nagasaki. Non mi
pare che nel mondo occidentale ed in Italia ci
sia mai stata una forte corrente di repulsione e
di critica per questo immane sterminio di esseri
umani. C'è stato e c'è semmai una sorta di
giustificazionismo basato sulla menzogna che
soltanto così si sono convinti i giapponesi a
dichiarare la loro sconfitta,. Ma i fatti hanno
la testa dura e dimostrano che Stalin è stato
grande campione di pace e Truman grande campione
di guerra di sterminio. E inoltre anche se la
cosa non è molto nota Truman voleva incenerire
con l'atomica Mosca, Leningrado ed altre venti
grandi città sovietiche e cinesi e tra queste
Pechino.
L'invasione dell'URSS da parte dei poderosi
eserciti tedeschi avvenne il 27 giugno del 1941.
Lo sbarco alleato in Normandia con apertura del
secondo fronte avvenne soltanto il 6 giugno del
1944. Per tre lunghissimi interminabili anni la
guerra contro Hitler fu sostenuta soltanto dalla
URSS. IN questi tre anni morirono oltre venti
milioni di cittadini sovietici. Stalin pressava
per l'apertura del fronte occidentale sin dal
1941. Per stringere Hitler tra due fronti ed
alleggerire la mostruosa pressione che si
scaricava sulla Russia. Ma gli alleati facevano
finta di non vedere e di non sentire. Si
limitavano a combattimenti in Africa ed in altri
luoghi del pianeta di minore valore strategico.
Perchè? Magari speravano che Hitler distruggesse
l'URSS. Ma l'URSS non si lasciò distruggere. Si
era preparata alla guerra da molti anni ed aveva
sperimentato la presenza di eserciti mercenari
occidentali nel suo territorio. Un esercito
italiano antibolscevico fu di stanza a
Vladivostok dal 1917 al 1922. Gli USA hanno
giocato con l'URSS come il gatto con il topo.
Hanno sperato fino alla fine che fosse distrutta
da Hitler. Ma la capacità del comunismo di
trasformare la realtà è semplicemente
straordinaria ed in pochi anni un popolo di
analfabeti contadini uscito dalla prima guerra
mondiale divenne un popolo tra i più acculturati
e tecnicamente capaci del mondo.-
==================
Stalin era sopratutto un grande lavoratore. Per
tutta la vita non si concesse mai una vacanza.
Ma non si possono giudicare Stalin o Mao dal
vestito o dalla dedizione al lavoro. Stalin e
Mao furono grandi edificatori del comunismo.
A distanza di sessanta anni dalla morte, Stalin
viene evocato come un mostruoso dittatore. Lo
stalinismo viene esecrato come una degenerazione
della rivoluzione di ottobre e del marxismo. La
stessa rivoluzione di ottobre viene
"revisionata" con lo stesso criterio con il
quale una certa storiografia reazionaria
revisiona la rivoluzione francese e ne
criminalizza la fase giacobina. In verità chi
esecra Stalin e la rivoluzione d'ottobre esecra
il comunismo.
Chi parla male di Stalin non solo non è
comunista ma è passato dall'altra parte.
Il reddito di cittadinanza
è quanto di più reazionario e negativo si possa
proporre. I giovani non hanno bisogno di un
assegno di sussistenza che avrà un massimo tra
otto-mesi ed un anno, ma un lavoro stabile che
può essere ottenuto abbassando le pensioni a 58
anni ed immettendo nella pubblica
amministrazione forze nuove, energie nuove. Il
reddito di cittadinanza è una misura
assistenziale tipica del capitalismo
compassionevole. I giovani non hanno bisogno di
compassione ma di lavoro. Una spinta alla loro
occupazione si potrebbe avere diminuendo la
settimana lavorativa a 33 ore. Non dimentichiamo
che Stalin la voleva ridurre e 20 ore e ci
sarebbe riuscito se fosse stato il successore di
se stesso e non avesse avuto come successore
quella merdaccia di Kruscev che lo ha sparlato....
Si calcola che la riduzione della settimana
lavorativa creerebbe non meno di un milione di
posti di lavoro....
Troscki e Stalin
Troski assieme a Lenin a Stalin ed a tutto il
partito bolscevico vinse la grande sfida della
vittoria del comunismo in URSS sulle guardie
bianche e sugli eserciti occidentali che avevano
conquistato grandissima parte del territorio
della Russia restringendo il territorio
controllato dai comunisti alla zone circostanti
Mosca. Di fatto la guerra durò dieci anni e fini
attorno al 1927. Mi meraviglia molto il suo
atteggiamento successivo relativo agli anni
durissimi della costruzione del comunismo di cui
al mondo non si aveva nessuna esperienza. Era la
prima volta che le idee di Marx e del socialismo
venivano applicate ad uno Stato che peraltro
usciva stremato dalla prima guerra mondiale e
dalle aggressioni dei paesi capitalistici dello
Occidente e del Giappone. Perchè mai la disputa
sulla possibilità di costruire il socialismo in
solo paese o sulla rivoluzione mondiale non si è
ricomposta allo interno dello stato socialista
che cominciava la sua navigazione nel mondo?
Perchè Troscki ha voluto diventare il punto di
riferimento mondiale dell'anticomunismo rispetto
il socialismo realizzato? Mettiamo che avesse
ragione Troschi e torto Stalin (io non la penso
così). Ma questo era un motivo per
polemizzare e mettere a nudo le insufficienze ed
i difetti dello Stato Comunista avvantaggiando
con questa critica i nemici dell'URSS?
============
20.9.2012
Giuseppe Stalin fu statista mondiale abile ed
illuminato. Non si fece infinocchiare da
Roosvelt e da Churchill che fino alla fine
tentarono l'accordo con il nazismo per
scatenarlo contro l'Unione Sovietica. Non
meritava un epigone invidioso meschino e
mediocre come kruscev che lo diffamò in tutto il
mondo. Giuseppe Stalin usci vittorioso dalla
seconda guerra mondiale e
se avesse avuto un
successore alla sua altezza oggi il mondo
sarebbe tutto comunista.
===============
Troschi era agente segreto della germania e
dell'occidente e lavorò tutta la vita contro
l'URSS nel tentativo di distruggerla., Non fu mai bolscevico.Troschi era agente
segreto della germania e dell'occidente e lavorò
tutta la vita contro l'URSS nel tentativo di
distruggerla., Non fu mai bolscevico.
13.10.2014
https://www.facebook.com/photo.php?fbid=734194943323335&set=a.104225506320285.6516.100001985084693&type=3&theater
================
Pietro Ancona
3/01/2016
Commento alla nota di Luigi Ficarra, sulle
tesi del prof. Alberto Lombardo sul VI congresso
dell’Internazionale
Pietro AnconaI
socialdemocratici europei, complici delle
borghesie nazionali nella prima guerra mondiale,
nel 1917 parteciparono all'assedio capitalistico
dell'URSS e non boicottarono l'invio di armate
occidentali che soggiornarono in URSS sino al
1924. Il giudizio di
Stalin e della terza internazionale su di loro
non poteva che essere negativo e tale rimase
fino alla fine della seconda guerra mondiale.
I comunisti contestarono inoltre al al governo
socialdemocratico tedesco l'uccisione barbara di
Rosa Luxemburg che come sappiamo fu trucidata a
colpi di calcio di fucile dalla soldataglia del
ministro socialdemocratico alla difesa tedesco.
Aggiungo che Stalin e la terza Internazionale
lanciarono subito dopo la seconda guerra
mondiale la parola d'ordine dei Fronti Popolari
fondati sulla unità tra socialisti comunisti ed
altre forze progressiste. In Italia si fece
il Blocco del Popolo con l'emblema di Garibaldi
che tuttavia non vinse le elezioni del 48. In
ogni caso la storia della socialdemocrazia
europea, tranne rare occasioni, è stata una
storia di asservimento alle borghesie nazionali
sulla base della teoria di Bernstein "il
processo è tutto, il fine nulla" che
sostanzialmente abdicava la costruzione del
socialismo allo ottenimento di una serie di
riforme che avrebbero consentito un
miglioramento delle condizioni dei lavoratori.
Ancora oggi la socialdemocrazia europea sostiene
la politica liberista della Merkel e di Draghi
ed è complice degli USA nella Nato nella lotta
di distruzione dei popoli e delle economie arabe
a cominciare dalla Libia e dalla Siria.
Stalin è morto povero e certo non aveva soldi
depositati a Panama,.
Il comunismo specialmente quello staliniano è
molto faticoso e comporta sacrifici che molti
faticano a sopportare. Amministrare montagne di
ricchezze senza prenderne un pò per se non è da
tutti.
Per questo Stalin e lo stalinismo vengono
esecrati. Per questo Gorbacev è stato osannato
dall'Occidente mentre Stalin viene considerato
una sorta di criminale.
Ferrero trova modo di definire Putin fascista
nel momento in cui la Nato stringe ancora di più
d'assedio la Russia e attraverso l'Ucraina dove
il governo installato dalla Cia ha ucciso almeno
tre mila civili vorrebbe distruggerla come ha
fatto in tutto il mondo arabo.
Ma oggi Putin non solo non è fascista ma è
l'unica vera credibile opposizione alle
politiche dell'imperialismo che altro non sono
che una macchia di sangue che si espande e
lambisce molta parte del pianeta,.
Fascista è Obama che tutte le mattine firma una
list (kill list) di persone da sopprimere nel
mondo perchè potenzialmente nocive per gli USA.
15.09.2014
Oggi nell'anniversario dell'omicidio di Gheddafi
della sua famiglia e della Libia ricordo con
tristezza e rabbia che Ferrero assieme ad una
delegazione del PRC andò a protestare sotto
l'ambasciata libica a Roma per chiederne la
testa mentre le forze navali ed aeree della Nato
prendevano posizione nel golfo della Sirte.
4) Il revisionismo italiano, dal
dopoguerra fino al PD
"L'insegnamento della Terza Internazionale fu
fondamentale nella vittoria sul nazifascismo,
consentendo di acquisire stima, fiducia e
simpatia da parte delle masse popolari. Nel
corso della Resistenza nei vari paesi europei, i
partiti comunisti che ne avevano fatto parte,
piccoli e clandestini, raccolsero gli elementi
migliori espressi dalla lotta antifascista e
crebbero enormemente perché seppero unire al
compito della lotta alla barbarie nazifascista
l'obiettivo dell'emancipazione delle classi
oppresse. E'ciò che fece anche il PCI, che
crebbe molto, diventando, per numero di
aderenti, il primo partito popolare. Sempre
l'eredità delle linee direttive della Terza
Internazionale imponeva di non delegare la
liberazione dei popoli agli eserciti alleati, né
che la Resistenza al nazifascismo si
manifestasse come fatto spontaneo e
disorganizzato senza riferimenti politici, né
ancora che il crollo delle forze dell'Asse
comportasse il ritorno alle forme statuali
prebelliche."
Visto che sia trotskisti "consapevoli"
che cosiddetti "inconsapevoli" (ma
ugualmente pericolosi) oltre che
compagni semplicemente poco informati e
che male o per niente applicano i
criteri leninisti, continuano a
farfugliare e a farneticare dicendo che
sia il blocco nero USA-NATO-Giappone,
sia l'alleanza dei paesi SCO-BRICS-G77
(che in realtà questi ultimi a tutti gli
effetti economici, militari e politici
sono una alleanza antiimperialista)
sarebbero "UGUALMENTE IMPERIALISTI" e
impegnati in confronti
"INTERIMPERIALISTICI", vi posto qui di
seguito una precisa e circostanziata
applicazione dei famosi 5 criteri di
Lenin per stabilire se dei paesi sono
imperialisti.
(E' tratta da un mio intervento
altrove). Eccola, compagni:
DUNQUE, quei due grandi blocchi in cui
si è diviso il mondo - il blocco nero
USA-NATO-Giappone e alleati da una parte
e l'Alleanza dei paesi del Sud e
dell'Est del mondo - SCO-BRICS-G77&China
dall'altra SAREBBERO "UGUALMENTE
IMPERIALISTI" e impegnati in confronti
"INTERIMPERIALISTICI"?? E' uno SBAGLIO
(se non direttamente una velenosa
mistificazione trotskista) - infatti
usando i 5 criteri di Lenin per
stabilire se un paese è imperialista
(ovviamente riferito a un paese
capitalista, per stabilire se esso abbia
o meno raggiunto l'ultimo stadio, ossia
l'imperialismo: tali criteri ovviamente
non si applicano né ai paesi socialisti
né a quelli "semisocialisti") - criteri
che possiamo trovare elencati e
descritti nel libro "L'Imperialismo"
(1916, Lenin, per esempio nelle Edizioni
in Lingue Estere delle Opere Scelte,
1949, Mosca, Vol. I pag. 676) - dicevo:
usando quei 5 famosi criteri leninisti
si vede chiaramente che NESSUNO - ripeto
nessuno - dei paesi membri di quella che
il compagno Fidel chiamava la "Grande
Alleanza Antiimperialista" (ossia SCO -
Shanghai Cooperation Organization, BRICS,
e infine i paesi (circa 140) del
G77&China) - alleanza diretta da Cina e
Russia - è imperialista. Infatti: 1)
<<concentrazione della produzione e del
capitale, con formazione di monopoli che
controllano la vita economica e
controllano il funzionamento dello stato
stesso>>. Non è cosi in nessun paese
della menzionata Alleanza: In Russia -
che è prevalentemente capitalista - lo
Stato invece controlla e possiede la
maggior parte delle grandissime imprese,
ed ha - con decisione di Putin -
nazionalizzato tutte le grandi holdings
che Eltsyn aveva privatizzato subito
dopo la caduta dell'URSS. Dunque le
imprese private esistono si - piccole
medie e grandi -ma i monopoli sono
controllati dallo Stato, e addirittura
gli oligarchi sonon stati via via
incarcerati, esiliati (come
Kodarkhovskij) o ridotti a muoversi
seguendo linee guida dello Stato
federale. In tutti gli altri stati
capitalisti o semicapitalisti il
"controllo dei monopoli sullo stato" non
c'è. In quelli socialisti e
semisocialisti ovviamente la questione
non si pone, in quanto il controllo
dello Stato sulla grande produzione è
totale. Passiamo al secondo punto: 2)
<<fusione del capitale industriale con
quello bancario e formazione di una
oligarchia finanziaria che domina lo
stato>>. Di nuovo: In Russia, NON è
avvenuta tale fusione, in quanto il
capitale industriale domina quello
finanziario, niente avvenuta fusione, e
il capitale industriale è costretto
dentro binari stabiliti dallo stato
federale (non era cosi nel decennio del
golpista e traditore Eltsyn). In tutti
gli altri paesi capitalisti o non
socialisti dell'Alleanza (per esempio
India, Brasile, Iran etc) tale "fusione"
tra capitale industriale e bancario è
avvenuta persino ancor meno che in
Russia. Passiamo al terzo punto: 3)
<<l'esportazione di capitale domina
rispetto all'esportazione delle merci>>
Di nuovo, in Russia l'esportazione in
merci è il 95%-96% del totale (a causa
di esportazioni dominanti in materie
prime, manufatti di siderurgia,
acciaieria e metallurgia in generale,
esportazione di distillati del petrolio
(carburanti), elaborati di meccanica
(motori di navi,camion, trattori,
aerei), esportazione di aerei,
esportazione di cereali, farine e
graniglie, esportazione di sistemi
d'arma e di armi, esportazione di
materiali plastici ed elaborati, di
prodotti del petrolchimico come
pesticidi e fertilizzanti sintetici,
medicine, e una immensa esportazione di
chip eletronici e di prodotti
elettronici e tantissimo altro).
L'esportazione di capitale bancario è
solo il 5%-4% del totale. In Cina (che è
prevalentemente socialista in quanto
esiste l'impresa privata solo a
canduzione familiare, e le grandi
imprese private straniere possono fare
solo ciò e quando e come permette il
PCC, essendo il mercato in Cina non solo
"non libero", ma controllato
strettamente dallo Stato e dal PCC: non
è più come ai tempi dell'amico degli USA
Deng Hsiao-Ping...) dicevo: in Cina le
esportazioni (dello Stato) in capitale
sono le più grandi di tutte quelle degli
altri paesi della Coalizione: sono il
17% del totale delle esportazioni
cinesi: dunque sono la minoranza delle
esportazioni cinesi, essendo le
esportazioni cinesi in merci l'83% del
totale. E le esportazioni di capitale -
di proprietà e controllate dallo stato
socialista, dunque non soggette al
criterio 3) di Lenin - sono usate dalla
Cina per strangolare il debito degli
USA, che non sono di conseguenza piu
solventi nel loro debito verso l'estero
di ben 20 trilioni di dollari (20mila
miliardi!!), che aumenta di piu di 1000
miliardi l'anno. In piu, la Cina e la
Russia, insieme a India e Iran, Brasile
Sud Africa, etc etc ormai scambiano
tutti i loro scambi in merci NON USANDO
PIU' il dollaro (grazie allo
strangolamento cinese del debito USA) ma
ognuno le proprie valute rispettive,
cosa che suona come una campana a morto
per l'economia USA. Passiamo al quarto e
quinto criterio: 4) <<i paesi
imperialistici sono volti alla conquista
essenzialmente di tutti i territori
disponibili>> e 5) <<i paesi
imperialistici sono tesi a ripartirsi il
mondo>> tendendo pertanto a conquistare
tutte le risorse naturali in materiali
ed energetiche. Bene:gli ultimi
territori - nonchè le risorse - rimasti
e sfruttabili al mondo sono SOLO quelli
appunto dei paesi membri dell'alleanza
Cina-Russia-SCO-BRICS-G77&China.
L'occidente invece - ossia i paesi del
blocco USA-NATO-Giappone (e alleati come
Australia, Nuova Zelanda etc) , insomma
i paesi di quello che il compagno Fidel
Castro chiamava il "blocco nero" - le
risorse naturali sui propri territori LE
HA ORMAI ESAURITE essenzialmente (ne
sono rimaste sui territori
dell'occidente solo meno del 36% del
loro valore iniziale, e solo meno del
10% sono sfruttabili, a enormi costi a
causa del depauperamento e del basso
tenore dei minerali rimasti). Dunque NON
è fisicamente possibile che "se le
contendano e rapinino a vicenda " come
sarebbe se fossero tutti e due (blocco
nero e paesi SCO-BRICS-G77)
imperialisti. Dunque, secondo il
criterio 5) di Lenin i paesi del blocco
nero sono imperialisti, e quelli
dell'Alleanza di SCO-BRICS-G77 NON sono
imperialisti. Esattamente lo stesso vale
per il punto 4) sui territori rimasti
sulla Terra: tolti i deserti
inutilizzabili, gli ultimi territori
rimasti sono SOLTANTO nei paesi
SCO-BRICS-G77, mentre l'occidente non ne
ha più. Dunque i due blocchi NON "si
rapinano e conquistano i teritori
rimasti a vicenda", MA BENSI i paesi del
blocco nero vorrebbero ed hanno piani di
guerra per la conquista dei territori
dei paesi del Sud e dell'Est del mondo
(cioè di nuovo dei paesi SCO-BRICS-G77)
E NON VICEVERSA. Dunque il confronto tra
i due blocchi NON E'
"INTERIMPERIALISTA": al contrario: I
paesi del blocco nero sono imperialisti
- ai criteri di Lenin - e i paesi
dell'Alleanza SCO-BRICS-G77 NON LO SONO.
Inoltre, come ci ricordava sempre il
compagno Fidel dalle pagine di Cuba
Debate e "Reflexiones de Fidel", i paesi
SCO-BRICS-G77 - dato che sono tutti
membri di alleanze militari, economiche,
e tecnologiche che contrastano in tutto
e ovunque l'alleanza militare ed
economica IMPERIALISTA del blocco nero
USA-NATO-Giappone e alleati - SONO DI
CONSEGUENZA PAESI ANTIIMPERIALISTI. E ad
essi ci esortava a stringerci il
compagno Fidel fino a pochi mesi prima
della sua scoparsa, in quanto tali paesi
dell'Alleanza Antiimperialista
SCO-BRICS-G77 sono gli unici in grado di
contrastare e tentare di scoraggiare la
grande criminale aggressione progettata
dal blocco nero, e se il blocco nero la
vorrà scatenare per forza, i paesi
SCO-BRICS-G77 sono gli unici in grado di
sconfiggere e poi distruggere il blocco
nero. E dunque tali paesi "sono nostri
alleati, e guai a chi ce li tocca" (per
usare una espressione favorita dal
compagno Stalin nella politica delle
alleanze). Per finire, ricordiamo che il
compagno Fidel ci spiegava senza mai
stancarsi che l'Alleanza
Antiimperialista SCO-BRICS-G77 è l'unica
ed efficace arma per combattere il
blocco nero, a cui si riferiva il
compagno Castro chiamandolo <<UNA
INSOLITA E DISGUSTOSA NUOVA FORMA DI
FASCISMO>>. Spero di essere stato
chiaro, comagni... e se dopo tante e
precise citazioni e applicazioni dei
criteri leninisti qualcuno torna - in
maniera di fatto trotskista - a
farfugliare di "opposti imperialismi",
SORGE DAVVERO IL RAGIONEVOLE DUBBIO E IL
SOSPETTO CHE LE MOTIVAZIONI SIANO
ALTRE......... E allora ci sarebbe
materia di indagine per la V.Ch.K. del
compagno Dzerzhinskij...
Compagno Stalin, io stavo vicino al mare
a Isla Negra,
riposando dopo lotte e viaggi,
quando la notizia della tua morte giunse
come un colpo di oceano.
Fu dapprima il silenzio, lo stupore
delle cose, e poi giunse dal mare
un’onda grande.
Di alghe, metalli e uomini, pietre,
spuma e lacrime era fatta quest’onda.
Da storia, spazio e tempo raccolse la
sua materia e s’innalzò piangendo sul
mondo
fino a che di fronte a me venne a
colpire la costa e fece piombare sulle
mie porte il suo messaggio di lutto
con un grido enorme
come se d’improvviso si spaccasse la
terra. […]
Staliniani. Portiamo questo nome con
orgoglio.
Staliniani. Questa è la gerarchia del
nostro tempo! […]
Non è scomparsa la luce,
non è scomparso il fuoco,
anzi, aumenta
la luce, il pane, il fuoco e la speranza
dell’invincibile tempo staliniano!
Nei suoi ultimi anni la colomba,
la Pace, l’errante rosa perseguitata,
si fermò sulla sua spalla e Stalin, il
gigante,
l’innalzò sulla sua fronte.
Così videro la pace popoli distanti…
Sul futuro dell'ANPI e
dell'antifascismo in Italia
http://www.resistenze.org/sito/te/cu/an/cuanfe28-016392.htm Una riflessione "a bocce ferme"
Andrea Martocchia * 21/05/2015
Prima di mettere nero su bianco questi
miei pensieri ho voluto attendere il
passaggio delle ricorrenze del 70.mo
della Liberazione dell'Italia e
dell'Europa, che ci hanno visto tutti
impegnati in numerose iniziative, poiché
ritengo che certe questioni vanno
affrontate il più possibile a mente
fredda, usando tutta l'attenzione, la
lucidità e la pacatezza di cui siamo
capaci.
Mi riallaccio solo in parte alla
discussione pubblicamente inaugurata da
Saverio Ferrari (1)
poiché era da tempo che ragionavo sulle
tematiche più larghe che vado ad
esporre. Premetto che il mio intervento
è motivato dalla passione personale, che
mi porta ad avere a cuore sia le sorti
dell'antifascismo in generale sia le più
specifiche sorti dell'ANPI, Associazione
della quale non ho la tessera pur
frequentandone con assiduità crescente
sedi, soci e soprattutto compagni
partigiani per attività connesse alla
ricostruzione storiografica oltre che
per affinità ideale.
Cos'è l'ANPI?
Ferrari a mio avviso pone il tema
dell'antifascismo in un'accezione troppo
larga, che travalica ciò che può essere
davvero pertinente per l'ANPI (errore
"per eccesso"); al contempo egli non
tematizza, e dunque non aiuta ad
affrontare, la questione specifica del
carattere e dei compiti dell'ANPI
(errore "per difetto"). Cosicché, gli
interrogativi posti da Ferrari colgono
solo alcuni aspetti nella ridda di
discussioni sviluppate dentro, attorno e
fuori dell'ANPI da qualche tempo;
discussioni che peraltro hanno già
portato ad alcune conseguenze e
decisioni, quale è stata quella della
concreta trasformazione dell'ANPI da
associazione "chiusa" (riservata agli ex
combattenti) ad associazione "aperta"
(da qualche anno possono iscriversi
tutti). Per quanto ne so io, il
confronto sulla natura e sul destino
dell'ANPI prosegue molto animato
soprattutto all'interno della stessa
Associazione.
Il momento simbolico del 70.mo coincide
con un cruciale passaggio nella storia e
nella natura dell'ANPI e della
Repubblica Italiana. Siamo – già da
qualche tempo, in realtà – al tornante
storico della scomparsa degli ultimi
partigiani; eppure le riflessioni sulle
implicazioni anche politiche di questo
tornante sono state finora assolutamente
insufficienti.
In estrema sintesi, su che cosa debba
essere l'ANPI prevalgono oggi due tesi:
– la prima riconduce l'ANPI ad una
associazione combattentistica (ed in tal
caso il suo ruolo sarebbe già pressoché
esaurito) o comunque a realtà meramente
testimoniale (e perciò sempre meno
influente nella politica e nella
società, e sempre meno interessante
anche per lo storico professionista che
si occupa di Resistenza);
– la seconda, pur rivendicando all'ANPI
la sua origine di testimone, ne
sottolinea la funzione attuale come
soggetto guardiano della Costituzione
e/o, più genericamente, dell'etica della
politica.
Questa seconda visione è prevalente oggi
negli organismi direttivi dell'ANPI.
Tuttavia, a parte il fatto che per poter
imporre dei valori bisogna avere la
forza/rappresentatività sociale
necessaria, è innegabile che per lungo
tempo quella dell'ANPI sia stata una
funzione di servizio, in senso sia
positivo – in quanto "fondamento morale"
della Repubblica – sia negativo – in
quanto strumento di legittimazione per
istituzioni che troppo spesso hanno
deluso le aspettative.
L'ANPI si trova di volta in volta presa
in mezzo a tensioni da parti opposte,
sulle questioni più diverse e tutte
potenzialmente laceranti: dai reiterati
casi di revisionismo storico fino allo
scontro israelo-palestinese, dalla
TAV alle nuove guerre, dalle "foibe"
all'antifascismo militante... al
contempo essa subisce gli scossoni
provocati dalla deriva politica
(indubbiamente verso destra) dell'
"azionista di riferimento", cioè il
Partito Democratico in quanto principale
erede delle forze politiche egemoni nel
processo di costituzione dell'Italia
repubblicana.
Antifascisti e Partigiani
Vorrei allora sgombrare il campo da una
prima questione: certamente oggigiorno
c'è un buon 75% di antifascismo che non
è rappresentato dall'ANPI, ed anzi va
detto che la percentuale non ha mai
raggiunto il 100%.
In effetti, l'ANPI non nasce come ambito
organizzativo "degli antifascisti",
bensì come Associazione Partigiani. Tale
definizione la porta ad avere un ruolo
sostanzialmente diverso rispetto a
quello auspicato da Ferrari, e non da
oggi: ad esemplificare tale specificità
è l'esistenza di un'altra associazione,
l'ANPPIA, preposta alla organizzazione
delle istanze degli antifascisti
"storici", che non necessariamente
furono (o poterono essere) partigiani.
Non è una distinzione di lana caprina:
soprattutto, non lo è di fronte ad una
estensione direi vertiginosa del
concetto di "antifascismo", e alla
concomitante perdita del senso esatto
del termine "fascismo". Succede infatti
che iniziative e festival "antifascisti"
organizzati sul territorio portino in
risalto battaglie e identità che molto
poco hanno a che fare con il fascismo
"storico": dai diritti LGBT ai vegani,
dalla TAV al commercio equo e
solidale... Un tale allargamento della
prospettiva è accettabile solo nella
misura in cui non travolge/oscura la
esigenza di precisare e difendere la
specificità ed i valori della guerra
vinta contro il nazifascismo
(1941-1945), specificità e valori che
hanno diritto a sedi dedicate per essere
affermati e tramandati.
Tuttavia, affermando che l'ANPI è il
consesso "dei partigiani" più che degli
"antifascisti" (tantomeno degli
"antifascisti in senso lato"), ancora
non abbiamo definito esattamente
l'oggetto della nostra riflessione.
E' ben noto il dibattito sul carattere
"uno e trino" della Resistenza italiana,
intesa di volta in volta come (a)
movimento di liberazione nazionale (b)
moto di emancipazione sociale (c) guerra
civile tra diverse opzioni politiche.
Per di più, nelle nostrane
interpretazioni della Resistenza è
normalmente eluso il suo carattere
internazionale e internazionalista – al
quale è soprattutto dedicato il lavoro
storiografico che stiamo portando
avanti in prima persona da qualche anno.
(2) Di quest'ultimo aspetto l'ANPI si è
fatta interprete in ritardo e con
difficoltà: basti pensare alla
recente sofferta battaglia interna
all'Associazione sulla possibilità di
tesseramento per i cittadini non
italiani, o al fatto che solo da
pochissimo l'ANPI ha aderito alla
Federazione Internazionale delle
organizzazioni sue omologhe (FIR). Tali
ritardi si spiegano solo e precisamente
con il fatto che l'ANPI ha a lungo
operato essenzialmente come vestale di
un culto della Resistenza intesa
esclusivamente come "lotta di
liberazione nazionale", cioè usando
quella accezione della Resistenza che è
l'unica funzionale alle esigenze
istituzionali. Solo in tale accezione,
infatti, la Resistenza può essere
presentata come atto costituente di
questa Nazione e di questo Stato
("Secondo Risorgimento").
Benché restrittiva, tale accezione era e
rimane prevalente nel discorso pubblico
tanto da essere stata addirittura
rilanciata in occasione delle
recentissime celebrazioni per il 70.mo:
infatti, in occasione della sessione a
Camere riunite del Parlamento, il 16
aprile u.s., cui su invito del
Presidente Mattarella hanno presenziato
un gran numero di partigiani, nei
discorsi delle autorità (cito
soprattutto la Boldrini) si è voluto
fermamente ribadire che la Resistenza fu
un moto "nazionale" e "interclassista".
Per converso, le celebrazioni del 70.mo
della Liberazione a livello europeo sono
state sostanzialmente minimizzate e
disertate, in un frangente dei rapporti
internazionali che vede anche i nostri
politici fomentatori di una rinnovata
ostilità contro la Russia.
Il dilemma attuale dell'ANPI
Torniamo dunque all'ANPI.
Nell'ANPI assieme all'anima antifascista
convive, sin dall'inizio, un'anima
patriottica che perfettamente interpreta
quella concezione del "Secondo
Risorgimento" di cui sopra.
D'altronde le due anime – antifascista e
patriottica – hanno convissuto già nel
movimento partigiano, incontrandosi ma
anche scontrandosi. Esse possono
coincidere, ma non lo devono
necessariamente. Andrebbe allora
innanzitutto analizzata questa
dialettica, che non è affatto risolta,
come dimostrano le polemiche in merito
al Giorno del Ricordo ed ai presunti
crimini della Resistenza jugoslava.
Tuttavia, il problema attuale, che
rischia di essere un problema di vita o
di morte per l'ANPI, in questa fase, mi
sembra soprattutto quello della
sostenibilità del suo ruolo
"istituzionale" tradizionale: tolte
infatti le celebrazioni del 70.mo, le
nuove istituzioni repubblicane
dimostrano di non essere più
completamente devote alla Costituzione
cosicché sempre meno potranno in futuro
essere considerate filiazione della
Resistenza. Questa contraddizione, tutta
politica, ha precipitato l'ANPI in una
condizione imbarazzate, e questo sin
dai tempi del passaggio dalla Prima alla
Seconda Repubblica: tant'è vero che
attorno al 1990 ci fu anche chi parlò di
scioglimento dell'ANPI, ed alcune
sezioni riversarono per intero gli
archivi agli Istituti della rete ISMLI
(Istituti per la storia della Resistenza
e della società contemporanea in
Italia).
Di fronte ai passaggi istituzionali in
corso, che con la gestione Renzi
sembrano soggetti ad una drammatica
accelerazione, l'ANPI rischia di
rimanere stritolata. Va rilevato che è
proprio il presidente dell'ANPI, Carlo
Smuraglia, uno dei più autorevoli
critici dei progetti di riforma
istituzionale/costituzionale sul
tappeto.
Allora che cosa vogliamo dall'ANPI?
Vogliamo trasformarla in qualcosa che
non è mai stata? Lasciamo che sia
cancellata dagli eventi politici e
biologici? Mentre gli ultimi partigiani
scompaiono, il 70.mo della Liberazione
rischia di essere veramente l'anno del
"botto" dell'ANPI.
Io credo che dobbiamo rispetto all'ANPI
e perciò non le dobbiamo chiedere
l'impossibile. Dobbiamo invece porre le
questioni su di un piano più generale,
che non riguarda solo il destino dell'ANPI
bensì anche la sorte dello Stato
italiano da un lato e la sorte della
storiografia della Resistenza
dall'altro.
Liberare l'ANPI, liberare la
storiografia della Resistenza
Rinnovate forme di "sovversivismo delle
classi dirigenti" hanno minato la
fondazione antifascista e costituzionale
della Repubblica da molti anni oramai:
su questo, o si affianca e difende l'ANPI
in tutte le sedi associative e politiche
possibili, oppure non si può pretendere
proprio nulla dall'ANPI. Negli anni si è
alzata la voce allarmata di chi ha
parlato di tradimento della Resistenza,
di chi ha ricordato la persecuzione
antipartigiana del dopoguerra... Se l'ANPI
non poteva reagire a suo tempo,
tantomeno la si può caricare di ogni
responsabilità per le sconfitte
politiche che abbiamo subito tutti: si
tratta casomai di proseguire in ogni
sede con le battaglie per la democrazia
e la giustizia sociale che i partigiani
iniziarono. Anche la battaglia contro le
nuove destre, non riguarda solamente l'ANPI
e l'ANPI in nessun caso potrebbe farsene
carico da sola.
Dunque l'ANPI non deve essere
sovraccaricata di funzione politica,
bensì eventualmente deve esserne
emancipata, poiché è stata la politica
che, per troppo tempo, ha "tenuto
schiava" l'ANPI.
La questione a mio avviso si pone in
maniera esattamente opposta per quanto
riguarda la funzione "storiografica"
dell'ANPI, che le è stata sottratta e
dovrebbe esserle in qualche modo
restituita.
La politica ha
oggettivamente condizionato la scrittura
della Storia della Resistenza in Italia,
per alcuni versi impedendola. Essa ha
costretto l'ANPI a ruoli cerimoniali e
ha demandato ad altre sedi la
storiografia; ma quali sono queste altre
sedi? Nel migliore dei casi sono sedi
accademiche e para-accademiche, in
particolare la rete ISMLI che, fondata
66 anni fa da Ferruccio Parri, è stata
ristrutturata ad hoc a partire dagli
anni Settanta, assumendo infine una
funzione quasi "totalitaria" di
scrittura della Storia della Resistenza
attorno agli anni Novanta. Ebbene sulla
attività di questi Istituti dell'ISMLI
sarebbe necessario sviluppare una
riflessione critica non meno importante
di quella che riguarda l'ANPI. Da anni è
in atto un processo di mutazione, spesso
evidenziato dal cambiamento di nome –
dalla "Storia della Resistenza" o "del
Movimento di Liberazione" alla "Storia
Contemporanea" –, per cui si tende ad
occuparsi di ogni sorta di questioni che
riguardano la contemporaneità e la
realtà locale, dalle analisi
paesaggistiche alle tradizioni
culinarie, creando pesanti discontinuità
quando non proprio dismettendo la
funzione iniziale. Questo in un contesto
in cui, nel corso di settant'anni e
ancora oggi, si è sviluppata una
rigogliosa sub-letteratura
memorialistica locale e individuale
sugli eventi della II Guerra Mondiale e
sulla Resistenza, che per uno storico è
ardua da manipolare ma che rappresenta
in troppi casi l'unica fonte, benché
secondaria, per la ricostruzione di
eventi anche cruciali. Se aggiungiamo
che le politiche archivistiche in questo
campo sono state assenti o incoerenti, e
che da un certo punto in poi si è
colpevolmente sostituita una
estetizzante ricognizione della
"memoria" alla scientifica ricostruzione
della Storia, il risultato netto è che
la storiografia della Resistenza a 70
anni dagli eventi è lacunosa,
dannatamente frammentata e
prevalentemente ad uso e consumo delle
necessità di portare acqua al mulino di
interpretazioni di comodo.
Cosicché, chiunque si occupi di questi
temi incappa in una serie di paurosi
"buchi" storiografici. D'altronde, il
revisionismo, poi diventato rovescismo,
si è innestato sulla narrazione già
incompleta di una "guerra di liberazione
nazionale" cui si sarebbe dovuto
premettere il racconto di crimini di
guerra italiani ed affiancare il
contesto di una Resistenza che è stata
internazionale e internazionalista più
ancora che "italiana". Di tutto questo
in molti partigiani combattenti c'è (o
c'era) perfetta contezza: bisogna
restituire a loro la parola, se non
materialmente, almeno attraverso le
testimonianze che hanno lasciato.
Bisogna soprattutto restituire la parola
ai tanti partigiani che nel dopoguerra
sono stati emarginati, costretti alla
emigrazione o alla irrilevanza politica,
e che in molti casi hanno persino
rinunciato a impegnarsi attivamente
nell'ANPI o in altre realtà
consimili. E' il caso ad esempio di
decine di migliaia di partigiani
italiani all'estero, le cui vicende sono
colpevolmente trascurate, come quelle
dei partigiani stranieri in Italia.
Sintesi conclusiva
Dal 1945 in poi si è imposta una
chiave di lettura totalizzante per la
vicenda della Resistenza in Italia,
quella di una lotta di liberazione
*nazionale* contro l'occupante
*straniero* (tedesco). Questa operazione
è stata possibile, e per certi versi
anche legittima, nel contesto della
Guerra Fredda, in virtù di una
convergenza "multi-partisan" che oggi
però mostra il segno. Di fronte ad
attacchi perduranti rivolti contro
*tutta* la memoria partigiana, è
perdente e controproducente, oltreché
anacronistica, la tendenza a forzare,
ancora, la memoria storica nell'angusta
strettoia "nazionale". In particolare,
l'ANPI può farsi portatrice e promotrice
di una visione più complessiva e meno
"istituzionale" della vicenda
partigiana, allentando i condizionamenti
politici e tornando ad avocare a se
anche una funzione di tipo
storiografico, culturale, didattica e
divulgativa.
Definitivamente abbandonato lo status di
associazione combattentistica – dal
quale derivano solo vincoli e
nessun vantaggio – l'ANPI dovrebbe a mio
avviso in primis mantenere la funzione
di depositaria della memoria storica dei
partigiani combattenti, non solo e non
tanto in senso morale-celebrativo quanto
proprio nel senso concreto delle storie
vissute e della loro documentabilità,
recuperando le troppe memorie relegate
nell'oblio a causa di contingenze
politiche non favorevoli. Solo a queste
condizioni l'ANPI può continuare nel
proprio percorso, anche dopo la
scomparsa della generazione dei
partigiani, via via accogliendo anche le
memorie degli altri antifascisti del
passato e del presente e valorizzandole.
E' solo da tale tesoro di esperienze
reali che all'ANPI deriva quella
autorità morale per cui può indicare
alla pubblica opinione che cosa sono
stati il nazifascismo e le sue politiche
di guerra, e come e perché il loro
riaffacciarsi deve essere scongiurato.
*) Saggista, co-autore de "I
partigiani jugoslavi nella Resistenza
italiana" e segretario del Coord. Naz.
per la Jugoslavia ONLUS.
1) Lo scambio tra il saggista Saverio
Ferrari e il presidente nazionale dell'ANPI
Carlo Smuraglia è riprodotto
integralmente di seguito.
IL TESTO DELL'ARTICOLO DI
SAVERIO FERRARI (OSSERVATORIO
DEMOCRATICO NUOVE DESTRE) SUL
"MANIFESTO" DELLO SCORSO 4 MARZO 2015,
LA RISPOSTA DEL PRESIDENTE NAZIONALE
DELL'ANPI CARLO SMURAGLIA SU ANPI NEWS E
IL COMMENTO FINALE DI FERRARI:
Saverio Ferrari: L'ANPI BATTA UN
COLPO VERSO I NUOVI MOVIMENTI
L'antifascismo è oggi sempre più stretto
fra due derive opposte. Tra la parte
istituzionale, incarnata dall'Anpi, da
un lato, e l'antifascismo antagonista e
giovanile, dall'altro.
L'Anpi in questi ultimi anni ha cercato
di rinnovarsi. Un'operazione riuscita a
metà. Sono arrivate nuove iscrizioni,
spesso di militanti in fuga dai partiti
di sinistra, e si è assistito a una
ripresa di vitalità. Ma in diverse
situazioni si sono anche manifestate
chiusure e indisponibilità al dialogo
con le nuove generazioni. Un panorama
vario e articolato, città per città.
Prevalente è stato però, nel complesso,
l'affermarsi di un profilo marcatamente
istituzionale, con un'attività di tipo
celebrativo quasi esclusivamente rivolta
al passato. Lontano dal cogliere nella
sua portata l'attualità e il pericolo
delle nuove spinte xenofobe e razziste,
quanto dell'irrompere sulla scena di
nuove destre, nostalgiche e populiste.
Emblematico il caso milanese, dove l'Anpi
ha considerato "pericoloso" mobilitarsi
il 18 ottobre scorso contro la
manifestazione nazionale della Lega e di
Casa Pound, con migliaia di camicie nere
e verdi in piazza Duomo. Sistematica la
rinuncia, anche in seguito, a
contrastare ulteriori iniziative
dell'estrema destra, tra l'altro in
piazza Della Scala, sotto il comune,
come di recente accaduto. L'opposto di
Roma dove, invece, l'Anpi è scesa in
piazza, senza tentennamenti, sempre
contro Lega e Casa Pound, a fianco dei
centri sociali, in un vasto schieramento
antifascista, mobilitando decine di
migliaia di persone. Due linee.
UNA REPUBBLICA ANCORA ANTIFASCISTA?
Vi sono certamente, sullo sfondo, le
difficoltà del gruppo dirigente
nazionale dell'Anpi a comprendere
appieno alcuni mutamenti in corso nelle
stesse istituzioni, sempre meno
rispondenti al dettame costituzionale.
In tutta Italia si tengono da anni
iniziative pubbliche apologetiche del
"ventennio", con il costituirsi di
formazioni apertamente neofasciste e
neonaziste, con tanto di corollario di
atti violenti, senza alcun vero
contrasto istituzionale (si perseguono
solo "i casi limite"). Ciò a prescindere
dal succedersi di governi, ministri
dell'interno, questori e prefetti, in
una sorta di assoluta continuità. Un
dato di fatto. Come la sospensione
dell'applicazione di leggi ordinarie, in
primis la legge Mancino, istituita
proprio per contrastare l'istigazione
all'odio razziale, etnico e religioso.
Alla stessa Anpi, quando protesta, si
replica asserendo la legittimità di
tutti a esprimersi, fascisti compresi.
Allo stesso modo si risponde alle
interrogazioni parlamentari, a volte di
deputati e senatori del Pd,
paradossalmente da parte di altri
esponenti del Pd al governo. Una
rilegittimazione dei fascisti ormai
avvenuta. Una nuova fase nella storia
della Repubblica, al passaggio epocale
del cambiamento della sua carta
costituzionale. Affidarsi alle
istituzioni democratiche per combattere
i fenomeni neofascisti sta divenendo un
evidente controsenso. Bisognerebbe
prenderne coscienza. La crisi
dell'antifascismo passa anche da qui.
Lo stesso futuro dell'Anpi appare
incerto all'avvicinarsi del suo prossimo
congresso nazionale. L'opposizione
manifestata alle riforme in campo, sia
elettorali sia costituzionali, sta
producendo continui tentativi di
contenimento, soprattutto attraverso
l'azione del Pd ai livelli locali, volta
a depotenziare, sfumare, se non
apertamente intralciare, la linea
ufficiale. Il rinnovo, in programma, del
presidente nazionale dell'associazione
sarà probabilmente l'occasione per
cercare di "riallineare" l'Anpi,
confinandola definitivamente a funzioni
meramente celebrative. Un'eventualità
più che concreta.
L'ALTRO MOVIMENTO
Lontano dall'antifascismo istituzionale
si muove ormai da diversi anni un'area
composita di giovani organizzati in
centri sociali, collettivi e
associazioni, presente su una parte
importante del territorio nazionale.
Quasi un mondo a parte con cui l'Anpi il
più delle volte rifiuta il dialogo. A
questa realtà si deve spesso
l'iniziativa di contrasto, in tantissime
città, delle iniziative razziste e
neofasciste. La loro generosità ricorda
da vicino i «reietti e gli stranieri» di
cui parlava negli anni Sessanta Herbert
Marcuse ne L'uomo a una dimensione,
quando negli Stati Uniti scendevano
nelle strade per chiedere «i più
elementari diritti civili», affrontando
«cani, pietre e galera», a volte
«persino la morte» negli scontri con la
polizia. Rappresenta nel suo complesso
una realtà antifascista di tipo diverso,
per nulla istituzionale e poco propensa
al perbenismo, cresciuta con propri
simboli (le due bandiere dell'"antifa"
sovrapposte, mutuate dalle battaglie di
strada dei comunisti tedeschi a cavallo
degli anni Trenta contro le squadre
d'assalto naziste) e propri modelli
storici, gli Arditi del Popolo, in primo
luogo, espressione di un'unità dal basso
dei militanti di sinistra oltre le
appartenenze politiche.
Come nel caso recente di Cremona (gli
scontri a gennaio dopo il ferimento
quasi mortale di un militante di un
centro sociale da parte degli squadristi
di casa Pound), quest'area, a volte, fa
prevalere l'azione diretta rispetto a
ogni altro calcolo politico, restando
priva di sbocchi e isolata anche dalla
sinistra politica.
L'esigenza di un nuovo movimento
antifascista è più che matura. Un
movimento necessariamente plurale,
aperto alle nuove generazioni, privo di
steccati e istituzionalismi fuori tempo,
in grado di relazionarsi con il presente
e i pericoli rappresentati dagli attuali
movimenti razzisti e neofascisti. La
stessa capacità di trasmettere la
memoria della Resistenza non può che
partire da qui, per non ridursi a vuota
retorica. Un rischio già presente.
Questo nuovo movimento non può che
nascere dal confronto e dalla capacità
di dialogo fra i diversi antifascismi.
Sarebbe il caso che per prima l'Anpi
battesse un colpo.
SAVERIO FERRARI
Milano, 3 marzo 2015
*********************************
ANPI NEWS n. 157 – 31 marzo/7 aprile
2015:
NOTAZIONI DEL PRESIDENTE NAZIONALE ANPI
CARLO SMURAGLIA:
Quasi un mese fa, ho letto un articolo
di Saverio Ferrari su "il manifesto",
intitolato: "Appello all'ANPI: guardi ai
nuovi antifascisti". Un articolo molto
ampio, in cui si fornisce un quadro non
proprio esatto dell'ANPI di oggi e del
suo antifascismo, contrapponendogli un
quadro di "nuovi" movimenti
antifascisti, a cui si dovrebbe,
praticamente - secondo l'A. - l'unica
vera ed efficace iniziativa di contrasto
del riemergente neofascismo e
neonazismo. Non occorrono molte
parole per confutare un simile assunto.
Anzitutto, ragioniamo sull'immagine
dell'ANPI, che avrebbe cercato – senza
riuscirci – di innovarsi, mantenendo
tuttavia uno spiccato carattere
"istituzionale" e "collaborativo".
Strano che Ferrari, che pure è stato –
fino a poco tempo fa – componente anche
di un organismo dirigente periferico
(dell'ANPI), ci conosca così poco.
Teniamo viva la memoria, è vero, ma è
nostro dovere (altrimenti, chi lo
farebbe?), e comunque ci sforziamo di
renderla attiva, per aiutare soprattutto
a conoscere i fatti della storia, anche
perché servano di esempio e di monito
per il futuro e favoriscano la
riflessione storica.
Ma facciamo anche tante altre attività;
ci occupiamo della scuola e della
"cittadinanza attiva" (vedi il
protocollo di intesa sottoscritto col
MIUR il 24 luglio 2014 e in corso di
attuazione), ci occupiamo delle stragi
nazifasciste degli anni '43-'45, non
solo partecipando alle iniziative di
ricordo, ma anche promuovendo seminari e
convegni per irrobustire, con gli
storici, la conoscenza di tutto quanto è
accaduto; mettendo in cantiere un
"Atlante delle Stragi", che sarà
d'importanza storica e per il quale
siamo riusciti ad ottenere un
finanziamento da parte della Germania;
ci occupiamo delle riforme
costituzionali, contrastando con forza
ed energia quelle che ci appaiono non
come modifiche, ma come stravolgimenti
della Carta costituzionale; ci occupiamo
di diritti, di pace, di lavoro,
esercitando quella "coscienza critica"
che ci è stata indicata come un dovere
primario da parte del Congresso
nazionale del 2011;
ci occupiamo di donne, di emancipazione,
di libertà e uguaglianza; e tantissimo,
di formazione non solo dei giovani ma
anche dei nostri dirigenti.
E tutto questo non è né statico né tanto
meno "istituzionale" (ma cosa vuol dire,
alla fine, questa espressione?.
Ci occupiamo, e molto, piaccia o no a
chi chiede che l'ANPI "batta un colpo",
di antifascismo, non solo perché siamo
sempre attivi nel richiamare gli organi
istituzionali ed elettivi al ruolo che
loro è assegnato da una Costituzione
profondamente e nettamente antifascista,
in tutte le sue norme, i suoi princìpi
ed i valori che esprime, ma anche perché
cerchiamo, in tutte le forme possibili,
di contrastare i movimenti neofascisti e
neonazisti, che si stanno sempre più
espandendo, nonostante le nostre
iniziative e nonostante gli sforzi di
quello che Ferrari definisce come
"l'altro movimento".
Non a caso, abbiamo tenuto un Seminario,
su questi temi, con l'Istituto Cervi e
nella sua sede; non a caso abbiamo
tenuto un Convegno, a Roma, nell'aprile
2014 proprio sul modo di contrastare
questi fenomeni. A quel Convegno avevamo
invitato tutte le istituzioni (dico
tutte) e sono venuti solo due
parlamentari! Poi abbiamo pubblicato e
diffuso un opuscolo che riassume i
contenuti di quel Convegno e in cui sono
collocate, in appendice, due sentenze
della Corte di Cassazione che
considerano reato il saluto romano in
luogo pubblico, fornendo così
indicazioni precise ai nostri organismi
periferici perché si attivino sempre,
contattino Sindaci, Prefetti, Questori,
facciano denunce all'Autorità
giudiziaria, insomma scuotano il
silenzio e l'indifferenza con cui il
nostro Paese affronta (o meglio, non
affronta) un problema che è grave,
storicamente e politicamente, e denso di
incognite per il futuro.
Certo, noi preferiamo i presìdi agli
scontri frontali, evitiamo le occasioni
di contrasto violento, cerchiamo di
coinvolgere i cittadini e non di
allontanarli, ma non manchiamo di
adottare, in ogni occasione, le
iniziative che riteniamo utili, o anche
solo opportune. Bisogna riconoscere che
gli esiti di questo impegno sono, a
tutt'oggi, ancora limitati. Ma ottiene
qualcosa di più "l'altro movimento"? Un
corteo, uno scontro, sono più efficaci
di un presidio? La realtà ci dice di no
e ci insegna che ciò che conta è non
rassegnarsi mai e contestare sempre le
iniziative neofasciste, assumendo per
primi le iniziative necessarie per
controbatterle, per ottenere che vengano
impedite, per suscitare le reazioni che
dovrebbero provenire proprio dagli
organi dello Stato e dagli Enti locali.
Tutto questo è un "calcolo politico",
come sembra sostenere l'articolo? Non è
così, anche se è ovvio che bisogna
dotarsi, contro un fenomeno grave e
pericoloso, di una qualche strategia.
Non la intravvedo, questa strategia,
nell'articolo, anche se presentata con
una certa enfasi, ma in realtà limitata
ai cortei, che talora sono utili, se
richiamano l'attenzione e coinvolgono i
distratti, ma sono semplicemente
rischiosi se conducono ad uno scontro,
quanto meno privo di effetti positivi.
Che sia meglio unire le forze, non è
dubitabile, ma bisogna farlo con un
minimo di umiltà e di vera
disponibilità, senza essere convinti di
essere gli unici detentori della verità.
Ci si chiede di "battere un colpo"; ma
su che cosa, se siamo già in campo da
sempre e continuiamo, doverosamente e
quotidianamente, ad interrogarci se
quanto facciamo è sufficiente o possiamo
e dobbiamo fare qualcosa di più efficace
e come?
Io sono convinto che il problema
principale stia in questo Stato, che non
riesce a diventare antifascista, che non
sente la memoria come un valore da
coltivare, che non si pronuncia neppure
di fronte ai fenomeni più gravi e
appariscenti. Sono convinto che se il
Ministero degli Interni desse direttive
precise e conformi alle linee ed ai
valori della Costituzione, se i
rappresentanti periferici dello Stato si
adeguassero, se tutti i Sindaci
facessero capire con chiarezza che nel
territorio che amministrano, i fascisti
e i nazisti, comunque si chiamino, non
sono graditi, qualcosa comincerebbe a
cambiare. E sono convinto che bisogna
superare quel muro di indifferenza e
disimpegno che caratterizza tanta parte
degli italiani. Se su questo si è
disposti a svolgere un'azione comune,
noi siamo già in campo e non abbiamo
alcun bisogno di inventare nuovi
organismi, mentre sentiamo forte
l'esigenza di un antifascismo diffuso.
Non a caso in molte città esistono da
tempo "Comitati antifascisti", nei quali
c'è sempre l'ANPI, che cercano di
realizzare il coordinamento di azioni e
unità di intenti; soprattutto c'è l'ANPI,
che ha aperto dal 2006 agli
"antifascisti" e ne ha tratto enorme
vantaggio, non per i numeri ma per la
crescita delle idee, dei confronti,
delle proposte, delle iniziative.
Se abbiamo ancora bisogno di "crescere",
come sostiene l'articolo, ci si dia un
contributo di idee e di proposte, ma non
si pretenda di risolvere il problema
contrastando proprio la forza più
determinata e forte che è impegnata, su
questo terreno, praticamente dalla
Liberazione.
Non c'è da inventare nulla di nuovo;
abbiamo suggerito di prendere sempre le
iniziative più "tempestive", di
organizzare presìdi quando occorre e di
fare manifestazioni quando sono idonee
non solo a richiamare l'attenzione, ma
anche ad allargare il fronte
antifascista, anziché rinchiuderlo in un
recinto. Abbiamo anche fornito gli
strumenti per investire l'Autorità
giudiziaria dell'esigenza di far
applicare le leggi che ci sono, checché
se ne pensi; stiamo organizzando un
incontro di riflessione per capire
meglio che cosa attrae i giovani e che
cosa può suscitare in loro positivi ed
efficaci entusiasmi, nel solco della
Costituzione. Possiamo sbagliare,
possiamo avere incertezze e dubbi sulle
iniziative da intraprendere, ma
cerchiamo di fare sempre meglio e di
più, senza avventure. Se esiste un
problema dei giovani (che dobbiamo
cercare di capire noi, prima di ogni
altra cosa), bisogna affrontarlo con
serietà e approfondimento, nello sforzo
di individuare una strada, suscitare
interessi, proporre precise scelte di
campo, rendendoci conto che anche fra
loro ci sono differenze, modi di vedere
ed agire diversi; e soprattutto che
nessuno ne può rivendicare il monopolio.
Nelle loro mani sta il futuro del Paese:
sono loro che dovranno combattere le
battaglie necessarie per preservare la
democrazia da ogni pericolo; anche loro,
però, dovranno fare le loro riflessioni
e mettere in campo ricerche di identità
e di prospettive. Noi possiamo
confrontarci, anche richiamandoci alle
nostre esperienze, per quel che valgono
e fornire qualche spunto di riflessione,
però con l'umiltà di chi ha sperimentato
in concreto il valore e il significato
delle "scelte" e non pretende che
vengano adottate come modello, ma al più
siano oggetto di conoscenza e di
riflessione. Siamo di fronte a fenomeni
che sembravano inimmaginabili, in una
Europa che ha vissuto gli orrori della
dittatura, della persecuzione dei
"diversi", della barbarie più disumana.
Tutto questo non è bastato a vaccinarci,
tutti, contro il pericolo di ritorni al
passato, anche se in forme diverse.
Dobbiamo, dunque, fare di più e meglio,
dobbiamo capire come e perché nascono
certi movimenti e perché suscitano
attenzione anche da parte dei giovani; e
dobbiamo cercare di combatterli in forme
unitarie, ma capaci di ampliare il
consenso. Lo facciamo, tutto questo,
senza iattanza, ma con convinzione e
fermezza e con la ricerca continua di
andare oltre gli schemi che già
conosciamo, soprattutto per creare, nel
Paese, un vero "clima " antifascista .
Siamo pronti, come indica il documento
politico del Convegno di Torino, ad
essere la "casa degli antifascisti" se
sono disponibili anche al confronto e se
considerano con attenzione tutto ciò
che, talora faticosamente e magari
qualche volta sbagliando, cerchiamo di
fare. Non c'è bisogno, dunque, di case
"nuove", perché una l'abbiamo già e da
molto tempo ed è una casa aperta per
tutti coloro che vogliono, sinceramente
e lealmente, perseguire l'obiettivo di
un Paese più intimamente e profondamente
antifascista e caratterizzato da una più
solida democrazia.
*********************************
COMMENTO FINALE DI SAVERIO FERRARI:
La risposta del presidente nazionale
dell'Anpi Carlo Smuraglia in realtà è
una non-risposta. Dopo più di un mese si
è solo degnato di un commento sul
bollettino interno dell'Anpi. Come dire:
quell'articolo un dibattito pubblico non
lo merita. Un atto di supponenza.
Per altro, con ogni evidenza, l'articolo
uscito sul Manifesto, non è stato
nemmeno davvero letto, preferendo
procedere attraverso il metodo della
caricatura. Lo schema è il seguente: da
un lato c'è l'Anpi che agisce a tutto
campo e che si impegna anche nei
confronti delle istituzioni, ammettendo
comunque non solo di non aver più sponde
politiche in Parlamento, ma anche di non
aver in questo campo conseguito alcun
risultato, non traendo però l'ovvia
conclusione che forse le stesse
istituzioni stanno mutando natura (una
delle considerazioni su cui si invitava
a una riflessione), dall'altro si muove
un informe movimento attraversato da
pulsioni violente con cui nulla si vuole
aver a che fare.
Conclusione: c'è solo l'Anpi, non esiste
nessuna altra realtà antifascista,
tantomeno nata fra le nuove generazioni,
qualora esistesse, è solo il frutto di
un'invenzione o parte di una combriccola
di teppisti, rimaniamo nella nostra
torre d'avorio, autosufficienti e
autoreferenziali. Non discutiamo,
infine, con nessuno che ci pone problemi
o mette in discussione le nostre
certezze.
Peccato. Si tratta dell'ennesima
occasione mancata per mettere l'Anpi in
sintonia con la realtà. Fino a quando si
penserà di poterlo fare?
La minaccia alla nostra
democrazia, alla cooperazione
euro-atlantica, proviene dalla
Russia. Non hanno dubbi quelli del
PPE europeo, che hanno votato tanto
di risoluzione in questo senso al
loro congresso. I russi hanno invaso
l’Ucraina, la Georgia, minacciano di
invasione i paesi baltici, si sono
annessi la Crimea, molestano,
sabotano, interferiscono. Se non ci
fosse la Russia vivremmo tutti in
pace e serenità. Bisognerà decidere
qualcosa, e presto, per arginare
questa pericolo mortale. Meno male
che esistono gli USA, loro sì, a
vegliare sulla pace, sulla
democrazia e sui valori occidentali.
Oggi, dopo mesi di silenzio sui
bombardamenti dei banderisti ucraini
sugli inermi civili del Donbass, ai
notiziari di regime hanno parlato
dei vacillanti accordi di Minsk. La
situazione è grave, hanno detto, per
colpa naturalmente dei russi di
Ucraina, che proprio non vogliono
smetterla di difendersi. Questa
notizia potrebbe essere il segnale
dell’avvio delle operazioni di
guerra in scala più vasta nell’area
già martoriata da anni di feroci
attacchi. Bisogna riportare la pace,
e attardarsi significherebbe fare il
gioco dello zar Putin, sembra di
capire…
Il deputato del PD Andrea Romano
è convinto che Beppe Grillo prenda
dei soldi da Mosca. Ci sarà comunque
un’interrogazione parlamentare al
ministro degli esteri per chiedere
chiarimenti sui piani di
destabilizzazione della Russia anche
nel nostro paese. Grillo ce l’ha il
piglio del doppiogiochista, non si
era infatti anche detto che prendeva
i soldi dagli americani?
Mike Flynn ha deciso di
“cantare”. In cambio dell’immunità
svelerà la liaison tra lui e i
servizi russi, e sarà la prova forse
definitiva per dimostrare che Trump
era il manchurian candidate di
Mosca. Il principio di ingerenza
negli affari interni di uno stato,
ancorché provata, è universalmente
riconosciuto come inammissibile. Gli
americani lo sanno bene, che da
oltre due secoli fanno e disfano
governi in tutto il mondo. Ma loro
sono lo Stato Sole, l’assolutismo
moderno, per cui l’état c’est moi di
CIA, NSA, DEA, FBI e Pentagono non
si può discutere e perciò non si
possono, per grazia del popolo e
volontà divina, auto accusare. Se il
principio venisse applicato si
dovrebbero processare tutti i
presidenti del consiglio e i
presidenti della repubblica
italiani, per essersi fatti
portatori degli interessi di paesi
stranieri. Anzi, di un solo paese
straniero, consegnandogli persino
pezzi del territorio italiano. Uno
come Gorbaciov, per esempio, invece,
dovrebbe essere giustiziato…
E’ uscito il libro dal titolo più
che esplicito: Il caso Mattei, le
prove dell’omicidio del presidente
dell’ENI. Si tratta dell’opera di
raccolta del magistrato Vincenzo
Calia, che elenca tutte le
risultanze delle perizie che
all’epoca furono deliberatamente
ignorate. Un grande complotto contro
i presidente dell’ENI che chiama in
causa la mafia e la DC, che svela
gli intrecci, le connivenze della
criminalità con lo Stato, che vede
sulla scia dell’assassinio di Enrico
Mattei altri delitti eccellenti,
tutti insabbiati. Ora non ci sono
sospetti, abbiamo anche le prove. Ma
le prove che questo è un sistema
gestito da cosche sono esibite
quotidianamente, ma non bastano mai,
evidentemente.
https://www.facebook.com/valterr3/posts/1751942518177032
L’importanza
di
chiamarsi
dittatura
(o
democrazia)
Navalny
(e come
poteva
essere
altrimenti)
è stato
arruolato
già come
il
leader
dell’opposizione
russa.
Questi
elementi,
occorre
riconoscerlo,
hanno
anche
del
coraggio.
Ricordano
i
cosiddetti
dissidenti
di epoca
sovietica:
reazionari,
corrotti,
psichicamente
instabili,
a libro
paga dei
servizi
occidentali,
pluridecorati
di ogni
possibile
titolo,
e
determinati
a
condurre
la lotta
per la
quale
sono
stati
istruiti,
a testa
bassa.
Per la
verità
anche
Muktar
Blyazov,
un
faccendiere
evasore
kazako,
dunque
di epoca
post
sovietica,
si era
guadagnato
il
titolo
di
dissidente
in
assenza
di
dissenso
ma con
un
mandato
di
cattura
per
evasione.
Le
democrazie
occidentali
hanno
sempre
la bocca
buona
nei
confronti
di ogni
feccia,
purchè
funzionale
agli
scopi
della
democrazia.
La NATO
avrebbe
lo scopo
di
difendere
le
istituzioni
democratiche,
lo
proclama
nello
statuto.
Eppure
nel
ventre
si
teneva
la
Grecia
dei
colonnelli,
la
Turchia
dei
generali,
la
Spagna e
il
Portogallo
fascisti.
Oggi la
NATO è
uno
strumento
di
destabilizzazione,
un’organizzazione
terroristica
non
dichiarata
ma
operante
come
tale.
Stamane
si
sentiva
parlare
nei
programmi
Rai
di
Putin
come
dittatore
e di
Russia
come
dittatura.
Dall’alto
della
nostra
democrazia
possiamo
bollare
con
competenza
i
dittatori
altrui.
Dittatore
era
infatti
Saddam,
ed è
stato
impiccato.
Dittatore
era
Milosevic,
rappresentante
dei
serbo
comunisti
(così
li
chiamavano
i
radicali
di
Panella
e la
Rai)
ed è
stato
assassinato.
Dittatore
era
Gheddafi,
ed è
stato
trucidato.
Questi
tre
paesi
sono
precipitati
nell’inferno
di
una
guerra
genocida
per
merito
delle
democrazie.
Dittatore
naturalmente
è
Assad,
e
infatti
la
Siria
è
oggetto
di
un
assedio
mostruoso
da 6
anni
che
ha
creato
sofferenze
a
milioni
di
persone.
Dittatore,
dicevano
ultimo
in
Europa,
è
Lukashenko.
Yanukovich
era
un
dittatore,
l’ha
scampata
per
poco,
e al
suo
posto
è
stato
installato
un
nazista
a
promuovere
la
democrazia
in
Ucraina,
anche
a
costo
della
rovina
del
paese
e di
una
guerra
fratricida.
Alla
morte
di
Fidel
hanno
parlato
della
fine
di
un
dittatore.
Kim
Jong
Un è
dittatore
per
default,
si
sa.
Ora
è il
di
turno
Putin,
e
l’apparato
democratico
si è
mobilitato
in
grande
per
informarci
di
quanto
è
dittatoriale
la
Russia.
Questa
democrazia
deve
essere
consolidata
al
prezzo
anche
di
una
guerra
totale…
Spartaco Josif Dell'Acciaioin realtà il blocco nero - come il compagno Fidel chiamava il blocco USA-NATO-G77&China - ha intenzione di aggredire non solo la Russia, ma anche la Cina, l'Iran e tutti i loro alleati SCO e BRICS, allo scopo di prendersi con la forza le ultime risorse e gli ultimi territori utili rimasti sulla Terra, ed essi giacciono proprio sui territori dei paesi del Sud+Est del mondo, quelli tra l'altro rimasti loro dopo duecento anni di schiavismo, rapine, stragi, colonialismo e infine imperialismo. Ma si illudono, cosi' come si illudevano gli hitleriani nel 1941...farneticano di "colpi a sorpresa" e delirano di vincere....Non lo dicono, ma lo fanno capire con le migliaia di missili installati in Polonia, Romania, Ungheria, Paesi Baltici, Turchia.... e poi in Australia alla nuova base di Darwin, in KoreadelSud, in Giappone... e lo fanno capire con l'abolizione unilaterale del Trattato ABM (Anti Ballistic Missile treaty) e con l'esenzione unilateraleal Giappone dal Trattato di Resa dell'agosto 1945, in cui era scritto che il Giappone non oteva dotarsi di esercito, aviazione e marina adatti all'attacco (il Giappone sta costruendo centinaia di navi e migliaia di aerei da guerra....cosa ci deve fare?). La loro "voglia di guerra" dunque non solo è reale ancorché farneticante, ma è rivolta non solo contro la Russia, ma contro l'Iran e la Cina, e contro tutta l'Alleanza Antiimperialista SCO-BRICS-G77&China. E' ora che diamo retta alle numerose esortazioni del compagno Fidel (fino a pochi mesi prima della sua scomparsa) a stringerciattorno a tale alleanza, per cercaredi scoraggiare tali piani criminali del blocco nero, e se dovesseattaccare, per sconfiggerlo e distruggerlo, e persconfiggere quella che il copagno Fidel da piu di 5 anni chiamava <<una insolita e disgustosa nuova forma di fascismo>>. E non mi fate sentire farneticazioni di "opposti imperialismi>>!
A questo punto dobbiamo ricordare il discorso famoso del Comandante Che Guevara "sulla bestialità dell'imperialismo". Parla di oggi, il compagno Guevara, i oggi di ieri e di domani. Bestie sono gli imperialisti che armano l'ISIS, che armano Al Qaeda e Al Nusra (dicendo a chiacchiere che li cambattono), armano i teppisti e i mercenari delle cosiddette "rivoluzioni colorate" per rovesciare legittimi governi e affogare nel sangue popolazioni inermi e pacifiche, per tentare di costringere - con la bestiale violenza imperialista -tante popolazioni e tanti stati a piegarsi al loro volere, a eseguire tutto ciò che serve e piace agli USA. Onore alle vittime russe! Solidarietà al popolo russo e al loro presidente Vladimir Vladimirovich Putin! FERMEREMO I RATTI NERI! Siamo con l'Alleanza Antiimperialista SCO-BRICS.G77&China guidata da Russia e Cina e ad essa ci stringiamo, proprio come ci esortava instancabilmente a fare il compagno Fidel, fino a pochi mesi prima della sua scomparsa. Riascoltiamo il compagno Guevara: questo suo discorso andrebbe imparato a memoria, per quanto è attuale!
Come comunista credente che è contro l'omofobia,
sul problema dell'omosessualità in URSS vorrei svolgere delle
considerazioni alla luce delle attuali ricerche e statistiche
sull'argomento in questione.
Il fatto che l'omosessualità fosse penalmente sanzionata ai SENSI del
DIRITTO SOVIETICO è qualcosa che spesso viene gettato in faccia hai
comunisti in generale, e viene utilizzato per "screditare" il compagno
Stalin in particolare.
Infatti, "Stalin odiava i gay" è una cosa che ho visto pubblicare On
Line numerose volte da trotzkisti ed anarchici.
Dubito che Stalin abbia mai scritto qualcosa sulla questione o ne abbia
mai parlato in pubblico.
In ogni caso, tale accusa è, per la sua stessa natura,
decontestualizzata e fuorviante.
Ciò che deve essere affermato con chiarezza è che l'opinione legale e
medica su questa faccenda non era diversa da quella che a quell'epoca
andava per la maggiore e cioè che l'omosessualità fosse un disturbo
psico-sessuale, una forma di malattia mentale.
Per quanto oggi possa sembrare sbagliata questa opinione, essa deve
essere affrontata nel suo contesto storico in quanto la scienza avanza,
la conoscenza cresce e si approfondisce.
La branca della scienza della sessualità umana rimase nella sua infanzia
per tutta la durata della vita di Stalin.
La morte di Stalin avvenne nel 1953.
Egli morì prima della "rivoluzione sessuale" e non sentì mai parlare di
Alfred Kinsey, di Masters e Johnson o del RAPPORTO HITE.
In realtà fu solo nel 1975 che la stessa American Psychological
Association smise di classificare l'omosessualità come un disturbo
mentale.
Aspettarsi che Stalin e la Russia sovietica, nel 1930, potessero
anticipare i progressi della scienza medica e psicologica che si
verificarono quarant'anni dopo è ingenuo o pericoloso.
Inoltre penso che si dovrebbe anche sottolineare che, nonostante l'idea
che l'omosessualità fosse un disturbo mentale, l'ARTICOLO 121 del CODICE
PENALE SOVIETICO era praticamente applicato solo in casi di pedofilia,
con circa un massimo di 800 - 1.000 procedimenti giudiziari all'anno.
Il numero preciso di persone perseguite ai SENSI dell'ARTICOLO 121 è
sconosciuto (le prime informazioni ufficiali furono rilasciate solo
nell'anno 1988) , ma si crede che si aggirasse sui 1.000 casi all'anno.
Al momento, secondo i dati ufficiali, il numero di uomini condannati
secondo l'ex ARTICOLO 121 è in costante diminuzione dalla fine del 1980:
- Nel 1987, 831 uomini sono stati condannati.
- Nel 1989, 539 uomini sono stati condannati.
- Nel 1990, 497 uomini sono stati condannati.
- Nel 1991, 462 uomini sono stati condannati.
- Nei primi 6 mesi del 1992, 227 uomini , tra i
quali quasi tutti, eccetto 10, sono stati condannati ai SENSI
dell'ARTICOLO 121 (le cifre del 1992 sono solo per la Russia) .
Questi dati (eccetto quelli per il 1992) si
riferiscono all'intera Unione Sovietica.
Secondo gli Avvocati russi, la maggior parte delle condanne sono infatti
in relazione all'ex ARTICOLO 121, e l'80 % dei casi specifici è
correlato al coinvolgimento di minori fino a 18 anni.
In un'analisi di 130 condanne in relazione all'ARTICOLO 121, un'analisi
svolta tra il 1985 e il 1992, si è riscontrato che il 74 % degli
accusati sono stati condannati in forza hai SENSI dell'ARTICOLO 121, di
cui il 20 % lo sono stati a causa di stupro mediante l'uso della forza
fisica, l'8 % per l'utilizzo di minacce, il 52 % per aver avuto contatti
sessuali con minori, il 18 % sfruttando uno stato di vulnerabilità e il
2 % abusando della totale dipendenza delle vittime.
Questi sono i fatti.
Era una LEGGE perfetta ?
Ovviamente no !
Era una buona LEGGE o qualcosa da ammirare o ripetere ?
No.
Questa LEGGE si prestò ad abusi e persone innocenti furono condannate ?
Probabilmente sì, come purtroppo succede in tutti i sistemi giuridici,
ma l'intento e la portata della LEGGE furono molto diversi da quello che
la propaganda della "sinistra" anticomunista e della propaganda contro
Stalin vuole far credere
Vladimir Putin accusato
dalla destra di essere filocomunista:
vedere: il giornale.it
di Berlusconi
el'intraprendente.it
Giornale d'opinione dal Nord direttore
Giovanni Sallusti
Il
presidente russo, Vladimir Putin,
prende le distanze da Lenin.
“Ma non è la prima volta che lo fa.
Intervenuto a un forum di attivisti pro Cremlino svoltosi a Stavropol,
ha ricordato che il padre della Rivoluzione d'ottobre "piazzò una bomba
a orologeria sotto l'edificio dello Stato", ponendo i confini delle
repubbliche sovietiche "in maniera assolutamente arbitraria" senza
tenere in considerazione i gruppi etnici. E in un altro passaggio del
suo intervento ha denunciato senza mezzi termini le brutalità di cui si
macchiò il governo bolscevico, in primis per lo sterminio della
famiglia intera dell'ultimo zar, Nicola II, sovrano
compreso.” (n.d.r. questa accusa è stata mossa pure da prc)
Per spiegare meglio quella che, a
suo dire, è stata l'eredità distruttiva di Lenin, Putin ha citato l'Est
Ucraina in cui separatisti pro-russi e esercito ucraino si
combattono ormai da due anni. Il presidente russo è dell'avviso che
il grande errore fu mettere quella regione sotto l'amministrazione
dell'Ucraina, dividendo dalla madre patria i cittadini di origine russa.
Putin ha poi voluto ricordare il
proprio amore per le idee comuniste durante gli anni della Guerra
Fredda, ammettendo però che si trattava di sogni bellissimi più che di
un sistema davvero realizzabile.
Un commento
Mar, 26/01/2016 - 17:13
Stavropol, 26
gennaio Interfax - Il presidente russo Vladimir Putin ha detto che gli
piacono ancora le idee del comunismo e che non ha abbandonato la sua
carta d'identità di partito. "Mi piacevano molto, e ancora fare, le
idee comuniste e socialiste. Se guardiamo il codice del costruttore del
comunismo, che è stato ampiamente diffuso in Unione Sovietica, è molto
simile alla Bibbia. Non è uno scherzo, c'è infatti un passo simile nella
Bibbia ", ha detto al primo forum interregionale organizzata Lunedì dal
suo Fronte popolare All-Russia. "Il Codice proclama idee molto buone:
uguaglianza, la fratellanza, la felicità."
“Putin
ha tirato in ballo comunismo e nazismo nel corso della sessione
televisiva di domande e risposte con il pubblico russo, ieri. Ha
richiamato gli spettri dei due totalitarismi perché il parlamento dell’Ucraina, non appena è riuscito a liberarsi di ogni
influenza russa dopo il Maidan, è riuscito a varare una legge (votata da
una maggioranza schiacciante) che
vieta simbologia e apologia sia del nazismo che del comunismo. La
Russia di Putin, al contrario, vive sulla simbologia comunista.
L’esercito porta la stella rossa, le statue di Lenin
sono difese e custodite con cura, così come lo stesso mausoleo di Lenin
nella Piazza Rossa di Mosca è ancora un luogo di attrazione. La Russia
di Putin si preoccupa addirittura di proteggere i monumenti sovietici
all’estero. Ha tirato le orecchie alla Bulgaria, perché le statue
dedicate all’Armata Rossa vengono vandalizzate. Nel
2007 aveva quasi dichiarato guerra all’Estonia (poi si limitò a un
massiccio attacco hacker) perché il comune di Tallin aveva deciso di
trasferire (nemmeno distruggere) un memoriale dedicato agli aviatori
sovietici. E dopo la rivolta del Maidan a Kiev, la difesa delle statue
di Lenin nelle città ucraine è diventata prioritaria per i militanti
russi e pro-russi. Facendo un passo indietro rispetto alla stessa Unione
Sovietica, che dopo Chrushev e il suo famoso Congresso del 1956,
condannò la memoria storica di Stalin, il putinismo
ha riabilitato il dittatore georgiano. Nei libri di storia russi, i
cui testi sono controllati dallo Stato, viene presentato come un
leader forte e modernizzatore, come l’uomo che sconfisse i
nazisti e come una grande guida della nazione. Dopo un decennio di
indottrinamento, i russi hanno finito per dimenticare la tragedia del
passato. E adesso, secondo un sondaggio del Levada Center, i “sacrifici”
imposti dallo stalinismo sono ritenuti “giustificabili” da quasi la metà
dei russi.
Di
fronte alla domanda su comunismo e nazismo, Putin, sapendo di essere
ascoltato anche da un pubblico internazionale, ha smorzato un po’ i toni
e ammesso qualche colpa. Ma comunque: nonostante «le deformità e le
repressioni», lo stalinismo, al contrario del nazismo, «non si è
mai posto l’obiettivo di eliminare dei popoli».
“Lo
dovrebbe spiegare (n.d.r.Putin) ai 5 milioni di ucraini
eliminati da Stalin,..” [……………...]
“Nazismo
e comunismo possono e devono essere equiparati, se non altro moralmente,
per i loro metodi: il controllo totale della società e
l’eliminazione fisica di intere categorie di esseri umani, non per
quello che facevano, ma per quello che erano.” ..[……]
“È un
rifiuto di riconoscere le colpe del passato, è una dichiarazione di
guerra a ogni possibile sviluppo liberale e democratico, è
un’accettazione esplicita dell’eredità di quel
totalitarismo e di quello sterminio di massa. Nel
Donbass, i russi e i pro-russi sono convinti di combattere per
una “grande eredità morale” lasciata da Stalin. Un mito che non crolla,
neppure di fronte all’evidenza dei fatti. Spetta semmai a noi, a noi
abitanti del mondo libero, a noi che siamo sempre
vissuti al di qua della cortina di ferro, affermare che quella “eredità
morale” è solo una menzogna, costruita ad arte per nascondere
decine di milioni di vittime.”
Nell’articolo questa foto
La
storia profonda della guerra fredda occidentale contro la Russia.
Dopo decenni le Nazioni Unite hanno infine pubblicato gli archivi della
Commissione sui crimini di guerra della Seconda guerra mondiale che
indagò sull’olocausto nazista. La fonte di questi archivi sui crimini di
guerra nazisti erano i governi occidentali, anche quelli in esilio
durante la guerra, come Belgio, Polonia e Cecoslovacchia. Il periodo
coperto è il 1943-1949. Washington e Londra avevano cercato di fermarne
la pubblicazione. Perché? In particolare, la pubblicazione dei dossier
storici il mese scorso ha avuto scarsa copertura mediatica occidentale.
Sorprendentemente perché la storia che emergerebbe dai documenti
racconta la versione occulta della seconda guerra mondiale, cioè la
collusione continua tra i governi statunitensi e inglesi con il Terzo
Reich nazista. Come segnalato da Deutsche Welle, “I fascicoli
indicano che le forze alleate seppero sul sistema dei campi di
concentramento nazista prima della fine della guerra più di quanto si è
generalmente pensato”. Questa rivelazione indica la maggiore
“conoscenza” tra gli alleati occidentali dei crimini nazisti, arrivando
a dichiararne la collusione. Ciò spiegherebbe anche perché Washington e
Londra erano così restie a rendere pubblici i dossier sui crimini di
guerra delle Nazioni Unite. Vi è da tempo una controversia nelle nazioni
occidentali sul perché Stati Uniti e Gran Bretagna in particolare non
fecero di più per bombardare l’infrastruttura dei campi della morte e
delle ferrovie naziste. Washington e Londra spesso affermarono di non
sapere pienamente dell’orrore perpetrato dai nazisti fino alla fine
della guerra, quando centri di sterminio come ad Auschwitz e Treblinka
furono liberati dall’Armata Rossa sovietica, altra cosa che si dovrebbe
notare. Tuttavia, l’ultima versione dei dossier sull’Olocausto delle
Nazioni Unite mostra che Washington e Londra erano pienamente
consapevoli della soluzione finale nazista in cui milioni di ebrei
europei e slavi vennero sistematicamente fatti lavorare fino a morire o
sterminati nelle camere a gas. Quindi la domanda è sempre: perché Stati
Uniti e Gran Bretagna non diressero i loro bombardamenti aerei per
distruggere l’infrastruttura nazista? Una possibile risposta è che gli
alleati occidentali avessero un totale disprezzo per le vittime dei
nazisti. Le dirigenze di Washington e Londra furono accusate di
pregiudizi antisemiti, come si nota dallo scandalo quando tali governi
respinsero migliaia di rifugiati ebrei europei durante la seconda guerra
mondiale, rispedendone molti a morire sotto il regime nazista. Non
escludendo il fattore del razzismo occidentale, c’è un secondo fattore
ancor più inquietante. I governi occidentali, o almeno parti potenti,
non disprezzarono la guerra nazista contro l’Unione Sovietica,
nonostante fosse un “alleato” nominale dell’occidente fino alla
sconfitta della Germania nazista. Tale prospettiva si fonda su una
concezione radicalmente diversa della Seconda Guerra Mondiale, in
contrasto con quella narrata dalle versioni ufficiali occidentali. In
tale contesto storico, l’assalto del Terzo Reich nazista fu
deliberatamente fomentato dai governanti statunitensi e inglesi in
quanto bastione europeo contro la diffusione del comunismo.
L’antisemitismo rabbioso di Adolf Hitler si accoppiò al disprezzo del
marxismo e dei popoli slavi dell’Unione Sovietica. Nell’ideologia
nazista erano tutti “untermenschen” (subhumani) da sterminare con la
“soluzione finale”.
Quindi, quando la Germania nazista attaccò l’Unione Sovietica e attuò la
soluzione finale dal giugno 1941 fino alla fine del 1944, non meraviglia
che Stati Uniti e Gran Bretagna mostrassero una curiosa riluttanza ad
impegnare pienamente le loro forze armate per aprire il fronte
occidentale. Gli alleati occidentali erano evidentemente contenti di
vedere la macchina di guerra nazista fare ciò che doveva fare fin
dall’inizio: distruggere il nemico principale del capitalismo
occidentale, l’Unione Sovietica. Questo non vuol dire che tutti i capi
politici statunitensi e inglesi condividessero o fossero consapevoli di
tale sottintesa visione strategica. Leader come il presidente Franklin
Roosevelt e il primo ministro Winston Churchill sembravano essere
sinceramente impegnati a sconfiggere la Germania nazista. Tuttavia, le
loro visioni personali vanno contestualizzate nella collusione continua
tra potenti interessi occidentali e Germania nazista. Come l’autore
statunitense David Talbot ha documentato nel suo libro, La scacchiera
del diavolo: Allen Dulles, CIA e governo segreto dell’America (2015),
c’erano enormi legami finanziari tra Wall Street e Terzo Reich,
risalenti a diversi anni prima della Seconda guerra mondiale. Allen
Dulles, che lavorò per lo studio legale di Wall Street Sullivan&Cromwell
e che successivamente diresse la Central Intelligence Agency,
fu un attore chiave del legame tra capitale statunitense e industria
tedesca. I giganti industriali statunitensi come Ford, GM, ITT e Du Pont
investirono notevolmente nelle industrie tedesche come IG Farben
(produttore del Zyklon B, il gas tossico utilizzato
nell’Olocausto), Krupp e Daimler. Il capitale
statunitense, così come quello inglese, erano integrati nella macchina
da guerra nazista e nella successiva dipendenza dal sistema schiavistico
permesso dalla soluzione finale. Ciò spiegherebbe perché gli alleati
occidentali fecero così poco per distruggere l’infrastruttura nazista
con la loro indiscutibilmente formidabile forza da bombardamento aereo.
Assai peggio della mera inerzia o indifferenza per pregiudizio razzista
verso le vittime naziste, emerge che l’élite capitalista
anglo-statunitense investì sul Terzo Reich, soprattutto per eliminare
l’Unione Sovietica e qualsiasi movimento globale genuinamente
socialista. Bombardare l’infrastruttura nazista sarebbe equivalso ad
eliminare risorse occidentali. A tal fine, quando la guerra si avvicinò
alla fine e l’Unione Sovietica sembrò pronta a spazzare da sola il Terzo
Reich, statunitensi ed inglesi aumentarono gli sforzi bellici
nell’Europa occidentale e meridionale. L’obiettivo era salvare le
risorse occidentali rimaste del regime nazista. Allen Dulles, futuro
direttore della CIA, subito preparò la fuga dei capi nazisti e dell’oro
che saccheggiarono in Europa con l’accordo di resa segreto noto come
Operazione Sunrise. L’intelligence militare della Gran Bretagna, l’MI6,
fu coinvolta nell’operazione segreta statunitense per salvare i nazisti
via ratline. La cattiva fede mostrata agli “alleati” sovietici annunciò
la successiva guerra fredda che subito seguì la Seconda guerra mondiale.
La testimonianza di ciò che avvenne fu significativa e fu esposta
recentemente in un’intervista alla BBC di Ben Ferencz, procuratore-capo
statunitense superstite del processo di Norimberga. All’età di 98 anni,
Ferencz poteva ancora ricordare lucidamente come vari criminali di
guerra nazisti venissero liberati dalle autorità statunitensi e inglesi.
Ferencz citò il generale degli Stati Uniti George Patton che osservò
poco prima della resa finale del Terzo Reich, all’inizio del maggio
1945, “Combattiamo il nemico sbagliato”. La sincera animosità di Patton
verso l’Unione Sovietica più profonda che verso la Germania nazista, era
coerente con la classe dominante statunitense e inglese che colluse con
il Terzo Reich di Hitler nella guerra geostrategica contro l’Unione
Sovietica e i movimenti socialisti dei lavoratori in Europa e America.
In altre parole, la guerra fredda che Stati Uniti e Gran Bretagna
avviarono dal 1945 era solo la continuazione della politica ostile verso
Mosca in corso da ben prima la Seconda guerra mondiale, scoppiata nel
1939 sotto forma di aggressione della Germania nazista. Per vari motivi,
fu opportuno che le potenze occidentali liquidassero la macchina da
guerra nazista insieme all’Unione Sovietica. Ma come si può notare, le
risorse occidentali nella macchina nazista furono riciclate nella guerra
fredda di USA e Regno Unito contro l’Unione Sovietica. Un’eredità
pesante furono le agenzie d’intelligence militari statunitensi e inglesi
consolidate e finanziate dai criminali nazisti.
La recente pubblicazione dei dossier sull’Olocausto delle Nazioni Unite,
nonostante le prevaricazioni statunitensi e inglesi per molti anni,
aggiunge ulteriori prove all’analisi storica sulle potenze occidentali
profondamente colluse coi crimini monumentali del Terzo Reich nazista.
Sapevano di questi crimini perché li permisero, complicità derivante
dall’ostilità occidentale verso la Russia percepita come rivale
geopolitico. Non è un mero esercizio accademico. La complicità
occidentale con la Germania nazista trova un corollario nelle attuali
ostilità di Washington, Gran Bretagna e alleati della NATO verso Mosca.
L’incessante dispiegamento di forze offensive della NATO ai confini
della Russia, l’infinita russofobia nei media propagandistici
occidentali, il blocco economico sotto forma di sanzioni dai deboli
pretesti, sono profondamente radicati nella storia. La guerra fredda
occidentale contro Mosca precedette la Seconda guerra mondiale, continuò
dopo la sconfitta della Germania nazista e persiste oggi,
indipendentemente dal fatto che l’Unione Sovietica non esista più.
Perché? Perché la Russia è percepita quale rivale dell’egemonia
capitalista anglo-statunitense, così come la Cina o qualsiasi potenza
emergente che sconvolga l’egemonia unipolare voluta. La collusione
anglo-statunitense con la Germania nazista ritrova una manifestazione
attuale nella collusione della NATO con il regime neonazista in Ucraina
e i gruppi terroristici jihadisti nelle guerre per procura contro gli
interessi russi in Siria e altrove. Gli attori possono cambiare nel
tempo, ma la patologia alla radice è il capitalismo anglo-statunitense e
la sua dipendenza egemonica. La guerra fredda infinita finirà solo
quando il capitalismo anglo-statunitense sarà finalmente sconfitto e
sostituito da un sistema davvero democratico.
Manlio
DinucciNavalny, un
democratico made in Usa 28.03.2017
L’arte della
guerra. La rubrica settimanale di Manlio Dinucci
Un poliziotto sfonda la porta di
casa con un ariete portatile, l’altro entra con la pistola spianata e
crivella di colpi l’uomo che, svegliato di soprassalto, ha afferrato una
mazza da baseball, mentre altri poliziotti puntano le pistole contro un
bambino con le mani alzate: scene di ordinaria violenza «legale» negli
Stati uniti, documentate una settimana fa con immagini video dal New
York Times, che parla di «scia di sangue» provocata da queste
«perquisizioni» effettuate da ex militari reclutati nella polizia, con
le stesse tecniche dei rastrellamenti in Afghanistan o Iraq.
Tutto questo non ce lo fanno vedere
i nostri grandi media, gli stessi che mettono in prima pagina la polizia
russa che arresta Alexey Navalny a Mosca per manifestazione non
autorizzata.
Un «affronto ai valori democratici
fondamentali», lo definisce il Dipartimento di stato Usa che richiede
fermamente il suo immediato rilascio e quello di altri fermati.
Anche Federica Mogherini, alto
rappresentante della politica estera della Ue, condanna il governo russo
perché «impedisce l’esercizio delle libertà fondamentali di espressione,
associazione e assemblea pacifica». Tutti uniti, dunque, nella nuova
campagna lanciata contro la Russia con i toni tipici della guerra
fredda, a sostegno del nuovo paladino dei «valori democratici».
Chi è Alexey Navalny? Come si legge
nel suo profilo ufficiale, è stato formato all’università statunitense
di Yale quale «fellow» (membro selezionato) del «Greenberg
World Fellows Program», un programma creato nel 2002 per il quale
vengono selezionati ogni anno su scala mondiale appena 16 persone con
caratteristiche tali da farne dei «leader globali». Essi fanno parte di
una rete di «leader impegnati globalmente per rendere il mondo un
posto migliore», composta attualmente da 291 «fellows» di 87 paesi,
l’uno in contatto con l’altro e tutti collegati al centro statunitense
di Yale.
Navalny è allo stesso tempo co-fondatore del movimento «Alternativa
democratica», uno dei beneficiari della
National Endowment for Democracy (Ned), potente «fondazione privata
non-profit» statunitense che con fondi forniti anche dal Congresso
finanzia, apertamente o sottobanco, migliaia di organizzazioni
non-governative in oltre 90 paesi per «far avanzare la democrazia».
La Ned, una delle succursali della
Cia per le operazioni coperte, è stata ed è particolarmente attiva
in Ucraina. Qui ha sostenuto (secondo quanto scrive) «la Rivoluzione
di Maidan che ha abbattuto un governo corrotto che impediva la
democrazia».
Col risultato che, con il
putsch di Piazza Maidan, è stato insediato a Kiev un governo ancora
più corrotto, il cui carattere democratico è rappresentato dai
neonazisti che vi occupano posizioni chiave.
In Russia, dove sono state proibite
le attività delle «organizzazioni non-governative indesiderabili», la
Ned non ha per questo cessato la sua campagna contro il governo di
Mosca, accusato di condurre una politica estera aggressiva per
sottoporre alla sua sfera d’influenza tutti gli stati un tempo facenti
parte dell’Urss. Accusa che serve da base alla strategia Usa/Nato contro
la Russia.
La tecnica, ormai consolidata, è
quella delle «rivoluzioni arancioni»: far leva su casi veri o inventati
di corruzione e su altre cause di malcontento per fomentare una
ribellione anti-governativa, così da indebolire lo Stato dall’interno
mentre dall’esterno cresce su di esso la pressione militare, politica ed
economica.
In tale quadro si inserisce
l’attività di Alexey Navalny, specializzatosi a Yale quale avvocato
difensore dei deboli di fronte ai soprusi dei potenti.
MOBILITA’ UMANA INTERNAZIONALE
–
CARTA DI PALERMO 2015
Dalla migrazione come sofferenza alla mobilità come diritto umano
inalienabile
Il diritto alla mobilità come diritto della persona umana
.
V
erso la cittadinanza di residenza. Per
l’abolizione del perm
esso di soggiorno.
I problemi legati alle ormai quotidiane migrazioni devono e possono trovare
soluzione solo se si
inseriscono nella cornice della mobilità come diritto. Bisogna cambiare
approccio: dalla
migrazione, appunto, come sofferenza alla mobilità
come diritto. Nessun essere umano ha scelto, o
sceglie, il luogo dove nascere; tutti devono vedersi riconosciuti il diritto
di scegliere il
luogo dove
vivere, vivere meglio e non morire.
Il processo migratorio è spesso un’emergenza, una drammatica emergen
za. Ma è soltanto la punta
dell'iceberg dell'inevitabile ordinario
spostamento di milioni di esseri umani; tale fenomeno è
connesso alla
globalizzazione, alle
crisi economiche e politiche di lungo periodo.
Uscire dall’emergenza, dalle tante emergenze, è
necessario. Io sono persona.
È necessario evitare la cronicizzazione delle emergenze, tutte riconducibili
ad un dato strutturale:
l’impossibilità di bloccare lo spostamento di milioni e milioni di esseri
umani.
La soluzione alle emergenze, presenti in tut
to il mondo e non soltanto nel Mediterraneo, non può
prescindere, dunque, da una visione progettuale che abbia come elemento
centrale il
riconoscimento del migrante come persona. Io sono persona.
Occorre dunque riconoscere la mobilità di tutti e di ciasc
uno come un diritto umano inalienabile.
Ogni altro aspetto, ivi compreso il concetto di “sicurezza”, troppe volte e
impropriamente invocata,
deve essere coerente con tale impostazione.
Allo stesso modo ogni soluzione legislativa, amministrativa, organizzat
iva, comportamentale non
può non partire dal presupposto che bisogna riconoscere il diritto umano
alla mobilità di tutte le
persone.
Questo impianto ha ispirato il convegno di Palermo intitolato IO SONO
PERSONA. Accanto al titolo
del Convegno
di Palermo è
inserita un’impronta digitale: per ricordare che ogni esigenza, a partire
da quella della sicurezza, deve essere rispettosa del migrante persona umana
e della mobilità come
diritto.
Abolizione del permesso di soggiorno non è una provocazione, non è uno sl
ogan velleitario. È la
conferma
di una scelta progettuale e valoriale, che impone l’eliminazione di apparati
normativi
emergenziali e disumani.
La storia è piena di apparati normativi emergenziali che pervertono il
valore della sicurezza e il
valore del ri
spetto della persona umana. La storia è piena di una legalità disumana.
2
Basti
citare la pena di morte, che tuttavia persiste in numerosi Stati che
pretendono di definirsi
civili e democratici, e la schiavitù, prevista da leggi che consentivano
–
è soltant
o un esempio
-
al
grande Voltaire di arricchirsi comprando e vendendo esseri
umani.
Un ruolo importante deve e può essere svolto dall'Unione Europea che può
attuare il compito di
una visione che si fa concretezza e vita quotidiana.
L'Unione Europea
-
trop
po spesso ne sottovalutiamo o ne stravolgiamo il significato a causa
di
logiche contabili, speculative, finanziarie
-
è un esempio straordinario di volontà di convivenza e
coesione a partire dal suo essere una “unione di minoranze". In Europa
nessuno è mag
gioranza per
ragioni identitarie: non i tedeschi né i musulmani, non gli ebrei o i
francesi. Nessuna identità è
maggioranza. In Europa si sono, coerentemente,
rifiutate schiavitù e pena di morte.
È tempo che l'Unione Europea promuova l’abolizione del perm
esso di soggiorno per tutti coloro
che migrano, riaffermando la libertà di circolazione delle persone, oltre
che dei capitali e delle
merci, nel mondo globalizzato. Deve partire proprio dall’Europa una forte
sollecitazione alla
comunità mondiale per il
ric
onoscimento della mobilità di tutti gli esseri umani come un diritto, su
scala globale e non soltanto all’interno dello spazio Schengen.
È evidente che tutto ciò comporti adeguatezza di modalità e di tempi. È
parimenti evidente, però,
che è necessario agi
re sin da subito "come se " la mobilità fosse
un diritto umano inalienabile.
Ciò comporta, nel concreto e nel quotidiano, l’attuazione di norme
e
di modelli organizzativi
radicalmente diversi dagli attuali; evitando di considerare (come oggi si fa
con logi
che
emergenziali) il migrante un pericolo in sé, rassegnandosi alla migrazione
come sofferenza, con
l'alibi della sicurezza che copre razzismi, egoismi, torture e colonialismi
del terzo millennio.
La migrazione non può dunque essere considerata come un pr
oblema di frontiere, di identità
culturale e religiosa, di politica sociale e di accesso al mercato del
lavoro. Si deve uscire dalla logica
e dalle politiche dell’emergenza che durano ormai da decenni. La mobilità
umana costituisce un
fattore strutturale
della nostra società e non una questione di sicurezza. Occorre liberalizzare
questa mobilità umana e valorizzarla come una risorsa e non come un onere
aggiuntivo per i paesi
di destinazione. Nel nostro paese si tratta di dare concreta attuazione agli
artic
oli 2 e 3 della
Costituzione, rendendo effettivi i diritti fondamentali della persona e
rimuovendo gli ostacoli che
ne impediscono la piena realizzazione.
Si deve anche prendere atto dell’arrivo di un numero crescente di
richiedenti protezione
internazion
ale o umanitaria e di una notevole mobilità di quanti, già soggiornanti nei
diversi paesi
dell’area Schengen, ed in particolare in Italia, desiderano spostarsi verso
quegli stati nei quali si
possono ancora individuare migliori possibilità di occupazione e
livelli soddisfacenti di welfare.
Nel tempo della crisi si diffonde il pregiudizio che gli “stranieri”
sarebbero responsabili
dell’aggravamento dei problemi che affliggono gli strati meno abbienti della
popolazione. Eppure
gli immigrati non hanno certo
scelto il luogo dove nascere e sempre più spesso non sono partiti per
migliorare la propria posizione, ma solo per difendere il loro diritto alla
vita. Anche in questo caso
va data piena attuazione al dettato costituzionale che all’art. 10 riconosce
il dir
itto di asilo a tutti
coloro che sono costretti a fuggire da paesi nei quali non sono garantiti i
diritti fondamentali.
3
Di fronte alle reazioni difensive che caratterizzano sempre di più la nostra
società occorre reagire
con politiche e con prassi applica
te dagli organi istituzionali che favoriscano la conoscenza
reciproca, la parità di trattamento, la partecipazione democratica. Sono
questi i veri fattori che
possono garantire maggiore sicurezza.
L’accesso effettivo dei migranti ai diritti fondamentali d
ella persona, a partire dai diritti alla
residenza ed alla circolazione, appare un obiettivo ineludibile che va
perseguito con interventi
multilivello, non solo a livello europeo e nazionale, ma anche con il
concorso degli enti locali e
delle organizzazion
i non governative per garantire una coesistenza pacifica ed una
valorizzazione
delle differenze culturali, come una risorsa.
La punta dell’orizzonte è pertanto il passaggio dalla migrazione come
sofferenza alla mobilità come
diritto umano. Le attuali prev
isioni internazionali garantiscono ipocritamente il diritto di emigrare
ma non garantiscono un corrispondente diritto all’ingresso con uno specifico
dovere di accoglienza
da parte degli stati.
Occorre costruire una nuova convivenza civile sui comportamen
ti quotidiani e non sui proclami
ideologici o su processi di semplice assimilazione. Va superata la logica
escludente del permesso di
soggiorno che riduce l’esistenza delle persone ad una mera sopravvivenza
condizionata dal rilascio
periodico e discreziona
le di un documento.
Questo meccanismo spesso è imprigionato dentro un iter burocratico di durata
imprevedibile,
nel
corso del quale i migranti, anche se presenti da anni nel territorio dello
Stato, sono esposti al
rischio di ricadere in condizioni di preca
rietà e di emarginazione.
Superare il permesso di soggiorno significa considerare i migranti come
persone, come esseri
umani, a prescindere dal documento che ne sancisce lo status, significa
anche vedere in loro non
dei “carichi sociali” o “consumatori di
risorse”: siano esse posti di lavoro, aiuti sociali o case
popolari, ma dei cittadini attivi in grado di dare valore alla comunità e al
luogo in cui risiedono.
Abolire il permesso di soggiorno, in prospettiva, è fondamentale per
costruire una nuova
citta
dinanza basata sulla condivisione e sul rispetto reciproco, attuando
politiche di
empowerment
,
di autonomia, canali di ingresso che non facciano arrivare persone piegate e
offese dalle violenze
subite alle frontiere e nel lungo viaggio da parte delle organ
izzazioni criminali che ne consentono il
superamento.
Le frontiere. Il diritto alla vita. Il diritto all’asilo.
Le analisi e le proposte che faremo sono immediatamente riferite all’Europa,
ed ai singoli Stati che
la compongono, ma costituiscono criterio
di riferimento che può e deve essere utilizzato anche per
la mobilità su scala planetaria.
Nel quadro odierno della mobilità globale, emerge che coloro che sono
costretti a partire sono,
nella maggior parte di casi, persone vittime delle guerre, dei confli
tti interni e della violenza. Sono
persone in fuga dagli stessi orrori che oggi alimentano paure nel mondo
intero. Sono profughi,
richiedenti asilo, che hanno il diritto di essere protetti. Non solo in
Europa.
Di fronte a questa realtà oggettiva non si pos
sono accettare i recenti proclami dell’Unione Europea
che chiedono di aprire canali di ingresso legali solo per “talenti
qualificati”, e di esternalizzare
invece il diritto d’asilo stringendo accordi con gli stessi regimi da cui le
persone fuggono.
4
Occorre
fare chiarezza sui Processi di Rabat e di Karthoum ad oggi in corso.
La proposta di esternalizzare il diritto di asilo nei paesi di transito e di
creare campi di raccolta in
Africa non appare rispettosa del diritto di asilo come è sancito dalle
convenzion
i internazionali e
della normativa europea.
L’accesso effettivo al diritto d’asilo è l’assoluta priorità, attraverso
l’apertura di percorsi di arrivo
garantito, che permettano alle persone di raggiungere in sicurezza il
territorio europeo su cui fare
rich
iesta di protezione internazionale.
L’Unione Europea dovrà riconsiderare la propria politica sui visti
d’ingresso, aprendo canali legali di
ingresso per lavoro, in un momento di crisi in cui molti migranti si
orientano verso altre zone del
mondo, e sull’as
ilo (protezione internazionale), in modo da contrastare il ricorso ai
trafficanti, che
oggi, anche per coloro che sono costretti alla migrazione forzata,
costituiscono il principale canale
di ingresso.
Occorre una modifica sostanziale alla normativa eur
opea.
Il Regolamento FRONTEX e il Regolamento Dublino vanno modificati e bisogna
garantire una
missione europea di salvataggio in mare, come quella costituita dalla
missione Mare Nostrum, che
è rimasta purtroppo un’iniziativa esclusivamente italiana.
Occo
rre un riconoscimento reciproco delle decisioni che stabiliscono il diritto
alla protezione
internazionale eliminando l’obbligo delle procedure nel Paese di primo
approdo.
Il diritto alla libera circolazione dei profughi in Europa va garantito con
un’accel
erazione ed una
semplificazione delle procedure. In tempi più immediati vanno assistiti con
misure particolari, di
carattere assistenziale, legale e psicologico, tutti coloro che sono
riammessi in Italia da altri paesi
europei, per effetto dell’applicazion
e del Regolamento Dublino, in modo di garantire successive
possibilità di mobilità, il diritto di ricorso ed il diritto al
ricongiungimento familiare.
Il diritto alla protezione e il diritto di accoglienza.
La situazione del sistema di
accoglienza italian
o è già assai critica.
Se l’accoglienza e i percorsi di
inclusione (ad es. apprendimento della lingua, ripresa psicologica,
orientamento ed avviamento
verso il lavoro) non vengono garantiti, il sistema di protezione rischia di
diventare, un nuovo canale
pe
r riprodurre le clientele ed una fabbrica di emarginazione che peserà su
tutti.
Entrambe le cose fanno male non solo ai migranti ma all’intera comunità.
Investire sull’inclusione e
sulle capacità delle persone: qualunque sia il loro status è giusto perché
valorizza la dignità della
persona ed anche remunerativo. Vanno incrementati ancora
i posti dei centri SPRAR (Servizio
nazionale di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) e garantiti
standard dignitosi per gli altri
centri di primissima e di prima
accoglienza e dei CARA, evitando gestioni opache e concentramenti
di persone in luoghi che sfuggono a qualsiasi possibilità di controllo.
Occorre attivare un monitoraggio dei centri di accoglienza, delle diverse
tipologie, oggi esistenti nel
territorio. I
n particolare occorre verificare la corrispondenza delle dotazioni di
personale e delle
professionalità richieste con lo schema tipo di convenzioni sottoscritte
dagli enti gestori.
Al fine di garantire una migliore programmazione del collocamento e dei tra
sferimenti delle
persone vanno riattivate tutte le sedi di confronto tra istituzioni e tra
queste e le associazioni.
5
Vanno in particolare evitate modalità di trasferimento tra i diversi centri
che interrompano i
processi di integrazione e allunghino l’iter
burocratico per il riconoscimento di uno status definitivo
di soggiorno.
Il diritto alla partecipazione politica e alla contaminazione culturale.
Vanno riattivati i Consigli territoriali per l’immigrazione e si dovranno
stabilire occasioni di
confronto p
eriodico con gli uffici stranieri della Questura al fine di velocizzare le
procedure anche
attraverso il contributo delle associazioni, degli uffici comunali e degli
operatori professionali.
Occorre restituire funzionalità agli organismi esistenti aument
ando i canali di partecipazione. In
questo senso intendiamo valorizzare e mettere a disposizione l’esperienza
della Consulta delle
culture della città di Palermo, esempio di protagonismo politico delle
comunità e luogo dello
scambio e della contaminazione
interculturale.
La Consulta delle culture della città di Palermo è l’applicazione concreta
di un modello in cui i diritti
di cittadinanza sono connessi esclusivamente alla residenza.
Il Lavoro. Il diritto alla dignità.
Nel corso degli ultimi due decenni,
la produzione di migranti “irregolari” si è affermata
gradualmente come asse portante del nostro sistema sociale, così come il
circolo irregolarità
-
sanatorie è assurto a perno tanto delle logiche della legittimazione
politica, quanto di quelle del
mercato
del lavoro.
Sul primo versante, la repressione dei migranti diventa una delle principali
arene politiche in cui si
contendono i voti degli elettori; sul secondo versante, la condizione
d’illegalità dei migranti
favorisce il loro impiego con una remunerazi
one irrisoria e consente non solo la sopravvivenza di
imprese che non potrebbero permettersi di retribuire regolarmente i loro
lavoratori, ma soddisfa
anche bisogni primari delle famiglie italiane, a cui il
welfare state
non è assolutamente in grado di
ris
pondere.
In parallelo, si è diffuso una sorta di razzismo economicistico strisciante
che, partendo dalla visione
dei migranti come “risorse” indispensabili per il sistema produttivo di beni
e servizi e, allo stesso
tempo, soggetti esclusi dai circuiti assi
stenziali e previdenziali, ha impercettibilmente condotto alla
creazione di un modello di inclusione sociale neo
-
schiavistico.
Nelle more della piena realizzazione degli obiettivi della “Carta di
Palermo”, è necessaria, in vista
dell’eliminazione del per
messo di soggiorno, la rottura del legame tra permesso di soggiorno e
contratto di lavoro.
Bisogna stabilire forme di ingresso regolare e possibilità effettive di
regolarizzazione permanente in
presenza di requisiti certi ed obiettivamente verificabili.
Al
lo strumento ipocrita di regolarizzazione periodica che si verificava con i
decreti flussi annuali,
oggi sospesi, va sostituita la possibilità permanente di regolarizzazione
per chi matura requisiti di
stabilità e di inserimento in Italia.
Va eliminata la
previsione di una perdita del permesso di soggiorno per coloro che perdono
il
lavoro. Si tratta di un’attribuzione di un potere ingiustificato ai datori
di lavoro, che diventano
arbitri del destino e spesso della vita di esseri umani, alimentando anche
in
questo caso un diffuso
mercato illegale che è proprio dei proibizionismi esasperati.
6
Va abolito l’accordo di integrazione che nella prassi applicata rischia di
diventare uno strumento di
selezione differenziata.
A livello territoriale vanno verificate tut
te le prassi per il riconoscimento ed il rinnovo dei permessi
di soggiorno.
Occorre costituire un Osservatorio indipendente
sulle politiche di integrazione, a livello regionale,
ed in prospettiva a livello nazionale, per prevenire l’esclusione sociale,
per
rilevare le buone
pratiche e diffonderle, per fornire un sostegno alle amministrazioni locali,
per contrastare i
fenomeni di razzismo e di discriminazione.
La casa. Il diritto all’abitazione e all’iscrizione anagrafica.
In Italia, l’iscrizione nelle list
e anagrafiche della popolazione residente
di un comune afferisce al
diritto costituzionale di circolare
e soggiornare liberamente sul territorio nazionale (art. 16 Cost.)
e
nel contempo è requisito essenziale per poter effettivamente
esercitare altri dirit
ti fondamentali.
Essa rappresenta un presupposto per qualsiasi processo
d’integrazione degli stranieri, compresi i
beneficiari di protezione
internazionale e i richiedenti asilo.
Occorre semplificare tutte le procedure per l’iscrizione anagrafica, anche c
on riferimento ai
richiedenti asilo ed ai rifugiati ospiti dei centri di accoglienza. Le
politiche di inclusione e di
assistenza dovranno garantire soluzioni alloggiative dignitose agli
immigrati come alle altre fasce
deboli della popolazione autoctona. Il
diritto alla casa va riconosciuto alle persone in quanto
componenti di un’unica comunità di persone, residenti stabilmente in un
determinato territorio e
non dovrà diventare
occasione per ennesimi conflitti sociali o per altre “guerre tra poveri”. Si
devo
no valorizzare i processi di auto recupero con il coinvolgimento diretto
degli immigrati, la
gestione cooperativa di spazi pubblici in disuso,
anche con il ricorso all'utilizzo di beni confiscati
,
e
questo non solo per migranti ma per l’intera comunità res
idente, garantendo anche spazi di lavoro
e di comunicazione alle associazioni
.
La salute. Bene pubblico ed individuale indivisibile.
Va garantito per tutti gli indigenti, a condizioni di parità tra immigrati
ed autoctoni, il diritto alle
cure gratuite e v
anno semplificate le procedure per l’iscrizione al Servizio sanitario
nazionale. Va
salvaguardata l’effettiva attuazione dei principi sanciti dall’art. 32 della
Costituzione che non
distingue tra migranti e cittadini, ma si rivolge a tutte le persone comun
que presenti sul territorio
nazionale.
“
La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e
interesse
della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”.
Un’attenzione particolare va rivolta alla situazione delle persone
che perdono il diritto all’iscrizione
anagrafica e quindi il diritto all’accesso alle prestazioni sociali, tra
loro anche un numero crescente
di cittadini italiani. Vanno altresì rimosse tutte le norme e le prassi che
negano una piena fruizione
del diritto
alla salute ai cittadini dell’Unione Europea comunque presenti in Italia.
Le vittime di tortura e di trattamenti inumani o degradanti. Le ferite
invisibili.
L
e torture e i trattamenti inumani e degradanti continuano ad avere luogo
quotidianamente e
co
stituiscono un’offesa alla dignità umana. Cresce il numero di vittime, che
si confondono e si
nascondono in mezzo a noi, nella speranza di costruire una nuova vita, una
nuova dignità, una
nuova storia non segnata da violenza e dalla mancanza di libertà.
7
U
no strumento fondamentale in questo senso è il riconoscimento del loro
status di rifugiato, a cui
hanno diritto tutti quegli individui che, nello stato d’origine, rischiano
la propria integrità fisica e
mentale per le proprie scelte politiche, religiose, d
i orientamento sessuale o per un’appartenenza
etnica. Per i numerosi minori stranieri che arrivano in Italia con segni
fisici e psichici di tortura o di
altri trattamenti disumani o degradanti vanno apprestate tutele specifiche e
tempestive, a partire
dall
a prima accoglienza, nella quale va evitata la ricorrente promiscuità con
adulti, causa di altre
possibili violenze.
Vanno facilitati tutti i percorsi che portano alla nomina di un tutore ed
alla conferma dei documenti
di soggiorno anche dopo i diciotto a
nni, ed anche quando non ci siano i presupposti per il
riconoscimento di uno status di protezione internazionale o umanitaria.
In Italia il diritto d'asilo alle vittime di tortura viene riconosciuto
quasi esclusivamente a chi
presenta certificazione medica
. Il richiedente deve produrre una “giustificata” prova traumatica
che dimostri la possibilità di aver sperimentato violenza individualmente.
Occorre rivalutare un
concetto più ampio di tortura che tenga conto delle gravissime violenze che
sempre più spess
o
vengono inflitte ai migranti, alle donne in particolare, durante il loro
viaggio nei paesi di transito.
La presa in carico di questi particolari pazienti non può essere però un
problema del singolo
operatore o professionista, che spesso l
avora in condizioni di invisibilità e solitudine, ma è un
problema più ampio, che coinvolge e chiama direttamente in causa le
Istituzioni.
Occorre garantire servizi che facilitino la scoperta immediata delle vittime
di tortura e di
trattamenti inumani o de
gradanti. E occorre l’attivazione di una struttura specializzata che possa
affrontare i postumi dei traumi subiti durante il viaggio, sia da un punto
di vista fisico che psichico.
È necessario il riconoscimento ed il supporto del lavoro svolto in questi an
ni in modo competente e
multidisciplinare dalle equipe che si sono specializzate in questo campo e
che hanno agito e
agiscono sinergicamente con l’obiettivo di “guarire dalla tortura”.
I minori stranieri non accompagnati. Il diritto al futuro.
Nel sistema
italiano di accoglienza dei minori stranieri non accompagnati le principali
criticità non
emergono dal quadro normativo quanto piuttosto dalle prassi. Situazioni
quali quelle che
periodicamente si registrano nei CPSA di Lampedusa e di altri porti sicilian
i, o nelle comunità di
accoglienza, si pongono in palese violazione con gli standard internazionali
e nazionali di tutela
dell’infanzia e dell’adolescenza.
Oltre a essere lesive della dignità dei minori coinvolti, il rischio è che
gli stessi si allontanin
o dalle
strutture in cui sono accolti e si trovino esposti a situazioni di pericolo.
Peraltro, i ritardi nella
nomina del tutore legale o nel trasferimento in strutture di accoglienza
adeguate rallentano l’avvio
dei percorsi di inserimento sociale dei bamb
ini e degli adolescenti.
In tutte le procedure che riguardano i minori non accompagnati, dovrebbe
prevalere il loro
superiore interesse, principio guida per ciascun attore coinvolto a vario
titolo nella presa in carico,
nell’assistenza e nell’accoglienza
di queste persone vulnerabili. Perché tale principio trovi piena
realizzazione è necessario che si ponga al centro la singola persona con
tutte le sue peculiarità, con
la sua storia individuale e le sue precipue esigenze. Come la Corte
costituzionale itali
ana e la Corte
europea dei diritti umani hanno costantemente ribadito, i bambini e gli
adolescenti stranieri sono
8
innanzitutto dei minori d’età e, in quanto tali, debbono beneficiare di una
tutela rafforzata che
possa offrire loro riparo dalla situazione d
i vulnerabilità in cui versano.
Occorre garantire la nomina più tempestiva dei tutori, attivando processi di
formazione e
monitoraggio, e semplificare le procedure per il rinnovo dei permessi di
soggiorno per minore età
al compimento del diciottesimo anno
di età.
Occorre anche evitare che la prassi di richiedere il passaporto rilasciato
dal paese di origine possa
impedire il completamento dei percorsi di inserimento intrapresi dai minori
dopo il loro arrivo in
Italia.
Occorre una modifica sostanziale della
legislazione nazionale e regionale in materia di migrazione.
Appare ormai improcrastinabile l’adozione di una legge regionale organica in
materia di
immigrazione. La Sicilia è l’unica regione italiana che ne rimane ancora
priva. Ma occorre anche un
costan
te impegno verso prassi applicate a livello amministrativo che restituiscano
effettività ai
diritti ed ai doveri sanciti troppo spesso solo sulla carta. Si dovrà
dedicare una particolare
attenzione alla condizione dei soggetti più vulnerabili, come i richi
edenti asilo ed i rifugiati, i minori
stranieri non accompagnati e le vittime di tratta.
Una nuova legge sulla cittadinanza.
Diritti di cittadinanza. Percorsi di cittadinanza.
Per diritti di cittadinanza si possono intendere il diritto alla residenza
le
gale, la protezione contro
procedure illegittime di espulsione e di trattenimento amministrativo,
l’accesso
al mercato del
lavoro, l’accesso ai servizi pubblici, il diritto a vivere in famiglia,
l’accesso all’educazione ed alla
formazione professionale, il
diritto alla sicurezza ed alla previdenza sociale, la libertà di riunione e
di associazione, il diritto di partecipare alla vita politica, il diritto di
partecipare alle elezioni
europee e di ricorrere agli organi della giustizia europea, il diritto alla
mobilità nel territorio
nazionale e nei diversi paesi dell’Unione Europea.
Non occorre scomodare né dichiarazioni universali né interventi di altri
paesi per procedere ad una
riforma radicale della legge sulla cittadinanza, sempre rinviata da decenni,
dal
Parlamento italiano.
Occorre abbandonare l’arcaico riferimento allo
ius sanguinis
, riconoscere tempestivamente
l’acquisto del diritto di cittadinanza alle “seconde generazioni” favorire e
non ostacolare in tutti i
modi i percorsi di acquisto della cittadi
nanza per effetto della cosiddetta naturalizzazione, favorire
trasparenza, tempestività e legalità nel riconoscimento della cittadinanza a
seguito di matrimonio.
Occorre ridurre i tempi e le pastoie burocratiche che ostacolano il
riconoscimento della
citta
dinanza italiana non demandando alla discrezionalità e/o alla sensibilità
delle amministrazioni
locali. Si devono ridurre i tempi e la farraginosità delle procedure
evitando i continui rinvii da un
ufficio ad un altro.
Diventa sempre più necessario garanti
re l’automatica acquisizione della cittadinanza ai nati in Italia
e consentire la possibilità che la cittadinanza e i diritti connessi siano
acquisibili con la residenza
nel territorio nazionale e/o europeo.
9
Nella prospettiva di una piena attuazione del pr
incipio di non discriminazione, va ampliata la
possibilità di conseguire la cittadinanza italiana, con il superamento di
normative e prassi
amministrative che allungano i tempi e ne rendono assai difficile il
riconoscimento formale.
PALERMO, 13
-
15
Marzo 2015
Cantieri culturali alla Zisa
IO SONO PERSONA
“
Dalla Migrazione come sofferenza alla mobilità come diritto
http://www.cestim.it/argomenti/50libera_circolazione/2015-03-Carta-di-Palermo.pdf
L'obbrobriosa manipolazione ai danni di un
grande comunista
Amedeo Curatoli
settembre 2103
Il grande comunista di cui parliamo è Antonio Gramsci, leninista
della prima ora, leninista nel senso di fautore
della lotta armata come unico mezzo per rovesciare la dittatura
borghese. In Cina nel 1983 la Casa editrice del Popolo ha
pubblicato i Quaderni del Carcere. In una successiva antologia di
scritti gramsciani (1992) si dice: "Gramsci fu il teorico della
rivoluzione proletaria in Italia e applicò con reale impegno il
marxismo-leninismo in Italia".
Sì, Gramsci fu questo. Egli capì immediatamente la rivoluzione
russa, e capì profondamente la linea di Lenin prima che i
bolscevichi prendessero il potere. Appoggiò e propagandò questa
linea nei suoi articoli sul Grido del popolo e sull'Avanti
(sezione torinese). Quando, il 13 agosto 1917 il governo provvisorio
di Kerensky inviò in Italia suoi rappresentanti, Gramsci organizzò a
Torino una manifestazione di massa con 40.000 dimostranti che
gridavano a gran voce lo slogan: VIVA LENIN! Lo stesso accadeva a
Firenze, Milano, Bologna.
La settimana successiva lo sciopero iniziato in alcune fabbriche si
trasformò in sciopero generale insurrezionale. L'esercito dovette
usare i carri armati e le mitragliatrici pesanti per domarlo.
Rimasero sul terreno della battaglia 21 lavoratori uccisi. Gli
operai insorti riuscirono ad abbattere solo tre poliziotti, vi
furono centinaia di feriti e 1500 arresti.
Gramsci aveva allora 26 anni e fu in quel grandioso clima
rivoluzionario che si formò come dirigente leninista. La marea
rivoluzionaria continuava a salire, fino a giungere, a Torino,
all'occupazione generalizzata delle fabbriche dove gli operai si
asserragliavano armati di tutto punto e pronti allo scontro finale
contro il capitalismo e contro il dominio borghese. Il Primo Maggio
del 1919 Gramsci fondò il settimanale L'Ordine Nuovo che
gettava benzina sul fuoco. I riformisti del suo partito (militava
nel Psi) lo temevano, e lo temeva anche il governo, che sottoponeva
a censura i suoi scritti. Quello che passerà alla storia col nome
di Biennio Rosso (1919-1920) fu contemporaneo
all'instaurazione della Repubblica Sovietica in Ungheria e seguì di
poco la Rivoluzione tedesca del 1918; c'era in Europa un fermento
rivoluzionario dappertutto. Sulle cause della sconfitta del Biennio
Rosso e dell'ascesa del fascismo citeremo fra poco un documento
della III Internazionale Comunista.
Il 16 maggio del 1925, in qualità di parlamentare, e già capo
riconosciuto e temuto dalla reazione (aveva trentaquattro anni)
Gramsci pronunziò alla Camera un discorso antifascista eroico e
commovente. Tutti i deputati fascisti e lo stesso Mussolini lo
interruppero continuamente per tentare di spezzare il filo del suo
ragionamento, ma non vi riuscirono. Egli concluse questo suo primo
intervento rivoluzionario dalla tribuna parlamentare (che fu anche
l'ultimo) con le seguenti parole: "Ciò noi vogliamo dire al
proletariato e alle masse contadine italiane da questa tribuna: che
le forze rivoluzionarie italiane non si lasceranno schiantare, che
il vostro torbido sogno non riuscirà a realizzarsi". Parole
profetiche, che i marxisti leninisti considerano il testamento e
l'impegno per la futura rivoluzione proletaria in Italia.
L'anno successivo (1926), le tesi politiche scritte da Gramsci
per il Congresso clandestino tenuto a Lione (che fu il 3° dopo
quello costitutivo di Livorno nel '21 e di Roma nel '22),
raccolsero la quasi unanimità se si eccettua un 9,2% che andò ai
bordighisti. Erano tesi integralmente marxiste leniniste. Gramsci
intervenne contro l'estremismo dogmatico di Bordiga: "In nessun
paese -disse- il proletariato è in grado di conquistare il
potere e di tenerlo con le sue sole forze: esso deve quindi
procurarsi degli alleati, cioè deve condurre una tale politica che
gli consenta di porsi a capo delle altre classi che hanno interessi
anticapitalistici e guidarle nella lotta per l'abbattimento della
società borghese". Egli parlava da grande leninista.
L'analisi più autenticamente vera, cioè marxista, delle condizioni
storiche dell'Italia del primo dopoguerra e della mancata vittoria
della rivoluzione la fece, nel 1922, il 4° Congresso
dell'Internazionale Comunista. Riportiamo alcuni brani di quella
meravigliosa analisi:
"Verso la fine della guerra imperialista mondiale la situazione
in Italia era oggettivamente rivoluzionaria. La borghesia aveva
allentato le redini del potere. L'apparato dello Stato borghese era
scosso, l'inquietudine s'era impossessata della classe dominante.
Le masse operaie erano stanche della guerra tanto che in diverse
regioni esse si trovavano già in uno stato insurrezionale.
Considerevoli settori della classe contadina cominciavano a
sollevarsi contro i proprietari terrieri e contro lo Stato, ed erano
disposti a sostenere la classe operaia nella sua lotta
rivoluzionaria. I soldati erano contro la guerra e pronti a
fraternizzare con gli operai. Si erano dunque realizzate le
condizioni oggettive per una rivoluzione vittoriosa. Mancava
soltanto il fattore soggettivo; mancava un partito operaio deciso,
pronto al combattimento, cosciente della sua forza, rivoluzionario,
in una parola: un vero Partito Comunista.
In generale, alla fine della guerra esisteva un'analoga
situazione in quasi tutti i paesi belligeranti. Se la classe operaia
non ha trionfato nei paesi più importanti, la cosa si spiega proprio
a causa dell'assenza di un partito operaio rivoluzionario. E' ciò
che si è manifestato con maggiore evidenza proprio in Italia, paese
che era il più prossimo alla rivoluzione e che ora sta attraversando
un periodo di controrivoluzione.
L'occupazione delle fabbriche da parte degli operai italiani,
nell'autunno del 1920, ha costituito un momento decisivo nello
sviluppo della lotta di classe in Italia. Istintivamente, gli operai
italiani spingevano verso la soluzione della crisi in un senso
rivoluzionario. Ma l'assenza di un partito operaio rivoluzionario
decise le sorti della classe operaia, consacrò la sconfitta e
preparò il trionfo attuale del fascismo. La classe operaia non ha
saputo trovare forze sufficienti nel momento culminante del suo
movimento per impossessarsi del potere: ecco perché la borghesia,
nelle sembianze del fascismo, la sua ala più energica, è riuscita
ben presto a far mordere la polvere alla classe operaia e a
stabilire la sua dittatura. In nessun luogo, la prova della
grandezza del ruolo storico di un Partito Comunista per la
rivoluzione mondiale è stata fornita in modo così chiaro come in
Italia dove, proprio per la mancanza di un tale partito, il corso
degli eventi ha assunto una piega favorevole alla borghesia" (….).
"All'inizio del 1921 ci fu la rottura da parte della maggioranza del
Partito Socialista con l'Internazionale Comunista. A Livorno, il
centro preferì separarsi dall'Internazionale Comunista e da 58.000
comunisti italiani, semplicemente per non rompere con 16.000
riformisti. Si costituirono due partiti: da una parte il giovane
Partito Comunista che, malgrado tutto il suo coraggio e la devozione
alla causa rivoluzionaria, era troppo debole per condurre la classe
operaia alla vittoria, e dall'altra, il vecchio Partito Socialista
nel quale, dopo Livorno, andava crescendo l'influenza corruttrice
dei riformisti. La classe operaia era divisa e senza risorse. Con
l'aiuto dei riformisti la borghesia consolidò le sue posizioni. Fu
solo allora che cominciò l'offensiva del capitale sia in campo
economico che politico. Occorsero quasi due interi anni di
tradimento ininterrotto da parte dei riformisti perché anche i capi
del centro, sotto la pressione delle masse, riconoscessero i loro
errori e si dichiarassero pronti a trarne tutte le conseguenze".
Al Congresso di Roma, nell'ottobre 1922 i riformisti furono espulsi
dal Partito Socialista.
Qual è l'estrema sintesi di tale documento?
"Di questa triste ma istruttiva lezione degli avvenimenti
d'Italia -prosegue il documento- devono trarre insegnamento
gli operai coscienti di tutto il mondo. 1) Il riformista, ecco dove si annida il nemico. 2) Le esitazioni dei centristi costituiscono un pericolo mortale
per un partito operaio. 3) La condizione più importante della vittoria del proletariato,
è l'esistenza di un Partito Comunista cosciente e omogeneo. Tali sono gli insegnamenti della tragedia italiana".
E veniamo ora alle obbrobriose falsificazioni revisioniste di
Gramsci. Paolo Spriano, storico del Pci (ma anche dirigente di quel
partito) ha togliattianamente distinto il Gramsci pre-carcere (del
quale non si poteva dire a cuor leggero che non fosse un
rivoluzionario – a meno di non coprirsi di ridicolo) dal Gramsci
prigioniero: "Ma è forsegiusto prospettare un salto
(sott. nostra) nell'elaborazione carceraria nella teoria della
rivoluzione (sott. nostra) rispetto al periodo precedente"
(prefazione a Scritti politici di Gramsci).
Quindi il rivoluzionario sardo, che scriveva tesi leniniste sulla
lotta armata e sulla necessità della dittatura del proletariato,
dopo che è piombato nel buco nero del carcere fascista (in cui è
stato torturato per 10 anni, fino alla morte) avrebbe fatto un
"salto", avrebbe cioè superato il leninismo e fondato una nuovateoria della rivoluzione. Su che cosa poggerebbe questa
presunta "nuova" teoria della rivoluzione? Sulle casematte,
sull'egemonia, sulla distinzione fra "società civile" e Stato, cose
che abbiamo sentito ripetere miliardi di volte, e che hanno fatto di
Gramsci il nume tutelare della via togliattiana al "socialismo".
Orrenda falsità. Gramsci ha scritto in carcere 33 quaderni per un
totale di 2400 pagine a stampa. Ha scritto di tutto, sui più
disparati argomenti e in questo mare magnum di annotazioni hanno
pescato a piene mani i togliattiani forzandone l'interpretazione,
talvolta falsificandole, ed hanno avuto buon gioco (data l'immensità
di questi appunti) a costringere il pensiero del grande
rivoluzionario sardo nei limiti angusti (e miserabili) di una "nuova
teoria della rivoluzione" che non era la "teoria" di Gramsci, ma
quella di Togliatti, teoria che non aveva nulla di nuovo, ma era la
riproposizione in termini nuovi rispetto alla vecchia
socialdemocrazia, del tradimento del marxismo e della rivoluzione.
Prima o poi dovrà apparire una lettura marxista leninista dei
Quaderni del Carcere per sbriciolare punto per punto tutti gli
imbrogli che su quei Quaderni hanno intessuto Togliatti in primis e
tutta la pletora di intellettuali che si sono messi al suo servizio.
Una nuova rilettura dei Quaderni si impone non solo per ridare a
Gramsci l'onore del grande marxista leninista italiano quale Egli è
stato e che Togliatti gli ha tolto, ma anche per mettere finalmente
in luce i suoi apporti innovativi ed originali alla teoria marxista
leninista della rivoluzione.
Nei Quaderni del carcere Gramsci parla spesso -non dando mai un
carattere sistematico all'argomento- di guerra di movimento e guerra
di posizione, del rapporto fra l'una e l'altra, di quali condizioni
storiche concrete spingono un partito rivoluzionario ad adottare
l'una tattica (guerra di movimento) rispetto all'altra (guerra di
posizione). In una delle più significative note su tale argomento
egli scrive:
"Questa mi pare la quistione di teoria politica la più
importante posta dal periodo del dopo guerra e la più difficile ad
essere risolta giustamente. Essa è legata alle questioni sollevate
da Bronstein, che in un modo o nell'altro, può ritenersi il teorico
politico dell'attacco frontale in un periodo in cui esso è solo
causa di disfatta. Solo indirettamente questo passaggio nella
scienza politica è legato a quello avvenuto nel campo militare,
sebbene certamente un legame esista ed essenziale. La guerra di
posizione domanda enormi sacrifici a masse sterminate di
popolazione; perciò è necessaria una concentrazione inaudita
dell'egemonia e quindi una forma di governo più "intervenzionista",
che più apertamente prenda l'offensiva contro gli oppositori e
organizzi permanentemente l' "impossibilità" di disgregazione
interna: controlli di ogni genere, politici, amministrativi ecc.,
rafforzamento delle "posizioni" egemoniche del gruppo dominante ecc.
Tutto ciò indica che si è entrati in una fase culminante della
situazione politico-storica, poiché nella politica la "guerra di
posizione", una volta vinta, è decisiva definitivamente" (QdC
ediz. Einaudi pag 801-802.)
Che cosa dice in questo passo Gramsci? Che nel "dopoguerra" cioè
dopo la Rivoluzione d'Ottobre, i bolscevichi, invece di lanciarsi in
un avventuristico attacco frontale propugnato da Trotski (Bronstein)
hanno ancora più concentrato nelle loro mani il potere e sostenuto
"l'offensiva contro gli oppositori". Parla anche del "rafforzamento
delle posizioni egemoniche" del "gruppo dominante" (cioè della
maggioranza del partito bolscevico alla cui guida c'era Stalin),
posizioni egemoniche che non escludevano neppure controlli politici
e amministrativi (cioè allontanamenti o anche espulsioni dal
Partito).
Questa nota di Gramsci sbugiarda in modo clamoroso Giuseppe Vacca
che ha scritto (nella retrocopertina del 1° volume dei Quaderni del
carcere) che Gramsci "fu l'iniziatore della critica più pregnante
dello stalinismo". E' un'affermazione del tutto falsa perché Gramsci
condivise la linea di Stalin proprio in quell'aspetto della sua
azione politica che più di ogni altra è stata violentemente
attaccata dalla borghesia, dalla socialdemocrazia e dai trotskisti:
la lotta dura e intransigente contro l'opposizione interna che
culminerà con i Processi di Mosca del '36, '37 e '38. Da questa nota
si evince anche che mettere in contrapposizione, come fanno i
revisionisti, "dominio" ed "egemonia" (quasi che Gramsci preferisse
porre l'accento piuttosto sull'una che sull'altro) è una
mistificazione.
Ogni dominio (sia pure il più violento e terroristico come fu quello
fascista) presuppone un'egemonia, altrimenti non si spiegherebbero
le "adunate oceaniche" e il prestigio di cui godette il "Duce" che
stimolò nel cuore di una piccola borghesia frustrata dalla guerra il
sempre risorgente orgoglio per le imprese colonialiste ed
imperialiste. Gramsci può aver detto, nel corso della sua prigionia,
che essendo le società occidentali meno "gelatinose" e quindi più
complesse di quelle orientali sarebbe occorso, preferibilmente,
attuare una tattica di "guerra di posizione" fatta di "casematte" da
conquistare progressivamente piuttosto che un "assalto armato" al
potere borghese ("guerra di movimento"). Accogliere quest'idea come
un dogma indimostrabile è antistorico, è anti-marxista, è avallare
un Gramsci gradualista, riformista, in ultima analisi un Gramsci
togliattiano. E' comprensibilissimo che il grande rivoluzionario
sardo in una condizione drammatica di crudele, totale isolamento dal
mondo (quando le borghesie già affilavano i coltelli in preparazione
della seconda guerra mondiale) sia potuto cadere preda del
pessimismo.
Il Gramsci che lottava contro il degrado fisico e morale imposto dai
carnefici fascisti non era il Gramsci dell'Ordine Nuovo e del
Congresso di Lione: chi volutamente non tiene conto delle
condizioni assolutamente eccezionali in cui piombò dopo l'arresto
non è un marxista. Resta tuttavia il fatto che la Storia ha
dimostrato che si trattava di un pessimismo infondato, perché
da lì a qualche anno si sarebbe sviluppata in Europa -cioè nel luogo
geopolitico in cui la rivoluzione socialista era erroneamente
ritenuta più "difficile" rispetto all'Oriente- un'insurrezione
popolare come conseguenza inevitabile della catastrofe della seconda
carneficina mondiale e che portò all'instaurazione del socialismo in
mezza Europa. Lo stesso Gramsci, se avesse resistito qualche anno in
più alle torture che gli inflisse il fascismo, e avesse vissuto lo
sfacelo della guerra e la rivoluzione armata antifascista,
difficilmente sarebbe rimasto legato alla sua idea di guerra di
posizione.
Spriano dice che "tutto (tutto!!) il pensiero politico
di Gramsci approda al principio dell'egemonia". Ma che cos'è
l'egemonia? Abbiamo letto che i volumi, i saggi e gli articoli
su Gramsci costituiscono un insieme di diciannovemila documenti
in 41 lingue che vanno a comporre la più vasta bibliografia dedicata
ad un singolo autore! Ciò significa che Gramsci, "egemonicamente"
parlando (ovviamente dal punto di vista dell'egemonia borghese), è
stato accolto nell'empireo dei "classici" della letteratura mondiale
al di là e al di sopra della politica, ma in particolare al di là
della politica rivoluzionaria. Bisognerebbe indagare sul
perché di questa straordinaria fortuna postuma del Gramscismo
al di sopra delle classi. I primi in assoluto che si sono cimentati
in quest'operazione di trasfigurazione sono stati i revisionisti che
dovevano dare nobili natali alla via italiana al socialismo. Secondo
Vacca il pensiero di Gramsci "trascende l'orizzonte
storico-politico del suo tempo, e quanto più passano gli anni e le
sue opere si diffondono in contesti culturali lontani da quello in
cui furono originariamente concepite, tanto più la sua ricerca si
afferma come un 'crocevia' delle maggiori 'quistioni' del nostro
tempo: i dilemmi della modernità, la soggettività dei popoli, le
prospettive dell'industrialismo, la crisi dello Stato-nazione, il
fondamento morale della politica".
Tutte chiacchiere controrivoluzionarie, dove, in questa fraudolenta
descrizione del Gramsci vacchiano c'è di tutto, dai "dilemmi della
modernità" (?) ai "fondamenti morali della politica" (?) alla
"soggettività dei popoli" (?), nel "crocevia delle maggiori 'quistioni'
del nostro tempo"manca solo la rivoluzione. La vera verità è che
l'egemonia è divenuta un'accademia, un "lemma" che ha finito col
perdere qualsiasi significato (o acquistarne un'infinità – che è la
stessa cosa), un terreno di scontro ideale in sostituzione del campo
di battaglia della lotta armata. Sembrerebbe anzi che l'egemonia sia
la moderna (rispetto alla socialdemocrazia) chiave di volta per
soppiantare la rivoluzione e sostituirla con l'opera di
"convinzione" degli intellettuali organici. Vista alla luce
dell'attuale società borghese, che è la società della TV, queste
idee revisioniste dell'egemonia sono completamente ridicole se
paragonate, appunto, alla TV, cioè all'egemonia schiacciante,
intossicante, "instupidente" e "addormentante" che esercita la
TVsulla "società civile" con i suoi canali (a decine e a centinaia).
E' un'egemonia che grava come un macigno e intorpidisce i cervelli:
i programmi di una TV borghese imperialista possono essere definiti
veri e propri crimini culturali contro l'umanità, che hanno come
sottofondo una furiosa propaganda contro il comunismo e contro la
civiltà, che propagandano oscene falsità sulla giustezza delle
aggressioni imperialiste a popoli indifesi e che penetrano in tutte
le famiglie non risparmiano neanche i bambini. Non c'è più bisogno
dei grandi intellettuali organici alla borghesia come Croce per
diffondere valori antagonisti al marxismo: oggi basta un miserabile
delinquente palazzinaro per mettere su reti televisive nazionali che
esercitano egemonia mille volte più efficace e micidiale di un
intellettuale organico. Aggiungeteci la stampa quotidiana,
soporifera quando si tratta di mettere la sordina alle lotte
sociali, guerrafondaia se deve avallare le menzogne del Grande
fratello, dal Corriere della Sera a Repubblica via via fino
all'Unità (che hanno ancora l'improntitudine di lasciare la scritta
"giornale fondato da Antonio Gramsci"!).
Per contrastare quest'egemonia borghese assolutamente preponderante,
all'insegna di quali valori politici ideologici culturali si è
contrapposta l'egemonia del partito comunista togliattiano? La
genuflessione allo Stato, alla cosiddetta "repubblicanatadallaresistenza",
l'ossequio servile alle regole del gioco della democrazia senza
aggettivi. Togliatti arrivò a dire che la Resistenza era il
coronamento del Risorgimento, che la Resistenza aveva apportato una
"correzione" al Risorgimento….ma soffermiamoci un attimo su una
pagina di storia così importante per noi italiani.
Il nostro Risorgimento è stato un processo (giunto a maturazione con
secoli di ritardo rispetto ad altre nazioni europee) e quindi
divenuto irresistibile, che ha portato finalmente all'unità
d'Italia con la cacciata dell'impero austro-ungarico dal
Lombardo-Veneto e la distruzione di Ducati e Granducati,
l'abbattimento del Regno delle Due Sicilie e dello Stato Pontificio.
Era ora!..Ma chi è stato, in ultima analisi, l'egemone in questa
lotta? La monarchia Sabauda e il suo primo ministro Cavour. La
possibilità di un esito democratico-repubblicano (Mazzini-Garibaldi)
fu sconfitta. L'unità d'Italia fu un fatto politico importantissimo,
ovviamente, ma che non ebbe in pratica nessuna conseguenza sul piano
sociale ed economico per le larghe masse dei contadini (il grande
latifondo non fu toccato) e le masse lavoratrici in generale. Quindi
l'unità della nostra nazione, da un astratto punto di vista di
"sinistra" si è fatta nel "peggiore" dei modi possibili. Dire dunque
che la Resistenza ha rappresentato il coronamento o la "correzione"
del Risorgimento è una truffa colossale.
La verità sta da un'altra parte: la Resistenza non aveva come
finalità quella di servire a perfezionare il dominio borghese, a
imbellettarlo con il suffragio universale (che è una conquista
borghese) e con la forma repubblicana dello Stato (che è anch'essa
un'altra conquista borghese) ma doveva "proseguire", se ci fosse
stata una guida marxista leninista, "verso" il socialismo (come è
avvenuto in altri paesi europei). E invece, dopo aver dissipato
questa occasione storica irripetibile (200 mila uomini armati, lo
Stato monarco-fascista in sfacelo, la presenza sulla scena mondiale
di un'Urss trionfatrice sul nazismo e militarmente fortissima e
temuta, un processo rivoluzionario in atto nell'Europa dell'Est, una
grande guerra rivoluzionaria in Cina guidata da un Partito
Comunista) i togliattiani hanno infangato la Resistenza
attribuendole il "merito" di aver trasformato un'Italia
proto-borghese monarchica, in un'Italia borghese repubblicana.
L'egemonia o è proletaria o borghese, o alimenta l'odio, lo
smascheramento e il disprezzo per lo Stato borghese il parlamento
borghese e la democrazia borghese oppure diffonde idee nefaste sullo
Stato "di tutti" e sulla democrazia intesa (come disse Berlinguer)
come "valore universale". Abbiamo il diritto, dopo 57 anni dal
fatidico 8° Congresso kruscioviano controrivoluzionario del Pci, di
rigettare totalmente e integralmente quella politica e quella
"teoria" che ha portato alla distruzione del comunismo nel nostro
paese? Se, come diceva Gramsci, la filosofia della praxis è unità di
filosofia e politica, è uguaglianza di pensiero e azione, non
dobbiamo trarre dalla marcia realtà dell'attuale teatrino politico
borghese l'incrollabile certezza che soltanto la lotta armata
servirà ad abbattere questo Stato?
Di egemonia rivoluzionaria proletaria Lenin e Stalin non solo ne
hanno scritto, ma l'hanno anche esercitata per davvero sia
all'interno della decrepita Russia zarista sia dopo aver condotto
alla vittoria una rivoluzione armata, sia nell'arena internazionale.
Il primo a riconoscerlo è Gramsci: "Il più grande teorico
moderno della filosofia della paxis (parla di Lenin), nel
terreno della lotta e dell'organizzazione politica… ha, in
opposizione alle diverse tendenze "economicistiche",
rivalutato il fronte della lotta culturale e costruito la dottrina
dell'egemonia (sott. nostra) come complemento della teoria
dello Stato-forza…" (Quaderni del carcere, ediz.
Einaudi, pag. 1235).
Secondo uno studioso cinese di Gramsci, il filosofo Tian Shigang "senza
il leninismo e la rivoluzione d'Ottobre non ci sarebbe la teoria
dell'egemonia di Gramsci". Si può dire che il "Che fare?"
scritto da Lenin (1902) è un monumento all'"egemonia", nel
senso che è il testo che più sistematicamente ed implacabilmente
combatte e quindi smaschera ogni tipo di ristrettezza ed
autolimitazione della lotta della classe operaia e del partito
politico che la rappresenta. "Il proletariato, per essere
veramente rivoluzionario, dice Lenin, deve saper mettere in
pratica l'idea dell' egemonia" (Marx-Engels-Marxismo,
ediz. Rinascita, pag.245), deve cioè, in una "multiforme
agitazione politica" saper fare proprie anche le rivendicazioni
che provengono da tutti gli altri strati sociali oppressi, spiegando
però il carattere ristretto ed inconseguente di tali rivendicazioni,
che vanno sempre e comunque incasellate nella prospettiva della
rivoluzione socialista.
Addirittura, dice Lenin "il proletariato educa le masse popolari
nello spirito di devozione all'idea della rivoluzione" (ibid.
pag.252). Da notare: "spirito di devozione all'idea di rivoluzione".
Per tutta la sua vita Lenin si è battuto per l'idea dell'egemonia.
"Ogni lotta di ogni piccola borghesia contro ogni sorta di
privilegi porta sempre in sé le tracce della limitatezza, della
mancanza di risolutezza piccolo-borghese, e la lotta contro queste
caratteristiche è appunto compito dell'egemone" (LOC vol 17,
pag 66). Notiamo di sfuggita che ci troviamo oggi in Italia di
fronte ad un caso lampante di piccola-borghesia che intende lottare
"contro ogni sorta di privilegi". Essa trova espressione nel
movimento di Grillo. Coloro che usurpano ancora il nome ed i simboli
del comunismo, che avrebbero dovuto esercitare egemonia
denunciando la limitatezza e mancanza di risolutezza
di questa lotta, si sono invece fatti essi stessi egemonizzare da
un giudice borghese cento volte più moderato di Grillo!
C'era un capo del riformismo russo (siamo nel 1911), un certo
Levitski che dichiarò che la socialdemocrazia russa doveva essere "non
un'egemonia ma un partito di classe". "Questo
significa, commentò Lenin, dire allo schiavo della sua
epoca, all'operaio salariato, lotta per migliorare la tua situazione
di schiavo, ma considera come utopia nociva l'idea dell'abbattimento
della schiavitù" (LOC vol. 17 pag. 67).). Dunque l'egemonia
del proletariato (attraverso il suo partito marxista) consiste
nell'educare le masse oppresse e sfruttate all'idea
"dell'abbattimento della schiavitù". "Il nostro partito
-scrisse Lenin nelle Tesi d'Aprile- è in minoranza, e
costituisce per ora un'esigua minoranza".
Dunque da esigua minoranza della nazione russa, nel corso
di soli 8 mesi, i bolscevichi diventarono maggioranza nei
due principali Soviet, quelli di Pietroburgo e di Mosca (e i soviet
erano organi di potere, anzi di contropotere,
organi di dualismo di potere che alla fine scalzarono
l'altro potere che era il governo Kerenski). Se non fossero stati
egemoni, ci chiediamo, come sarebbe stato possibile il
"miracolo" di instradare la sterminata popolazione russa (la gran
parte della quale era contadina) sulla linea rivoluzionaria
bolscevica-leninista?
L'egemonia del proletariato è una linea rivoluzionaria
aderente alla situazione storica data, è un complesso di idee che
vanno incontro alle necessità impellenti delle masse oppresse: "Il
nostro compito potrà consistere soltanto nello spiegare alle masse
in modo paziente sistematico, perseverante, conforme ai loro bisogni
pratici gli errori della loro tattica" (Lenin,
Tesi d'Aprile). E fu una lotta al coltello contro tutte le
mistificazioni, gli inganni e le falsificazioni del potere
reazionario, il quale ultimo fece ripiombare la Russia democratica
rivoluzionaria nel clima reazionario zarista poiché si mise sulla
via di distruggere le tipografie bolsceviche e di dare la caccia a
Lenin per fargli fare la fine che i Kerenski tedeschi riserveranno a
Rosa Luxemburg e a Karl Liebcnecht.
Nel corso di un'intervista concessa ad una delegazione di operai
statunitensi Stalin si diffuse sul problema dell'egemonia.
Egli disse:
"Pur essendo stato la forza d'urto della rivoluzione, il
proletariato russo ha cercato nello stesso tempo di essere
l'egemone, il dirigente politico di tutte le masse sfruttate della
città e della campagna, stringendole attorno a sé, strappandole alla
borghesia, isolando politicamente la borghesia. Egemone delle masse
sfruttate, il proletariato russo ha lottato per prendere il potere
nelle proprie mani e servirsene per il proprio interesse contro la
borghesia, contro il capitalismo. Proprio questo spiega perché ogni
grande scoppio della rivoluzione in Russia sia nell'ottobre 1905 che
nel febbraio 1917, abbia portato sulla scena i Soviet dei deputati
operai, come embrioni del nuovo apparato del potere avente la
funzione di schiacciare la borghesia, in opposizione al parlamento
borghese, vecchio apparato del potere avente la funzione di
schiacciare il proletariato.
"Due volte da noi, la borghesia ha tentato di restaurare il
parlamento borghese e metter fine ai Soviet: nel settembre del 1917
al tempo del preparlamento, prima della presa del potere da parte
dei bolscevichi, e nel gennaio 1918 al tempo dell'Assemblea
costituente, dopo la presa del potere da parte del proletariato, ed
entrambe le volte è stata sconfitta. Perché? Perché la borghesia era
già politicamente isolata, perché le larghe masse dei lavoratori
guardavano al proletariato come l'unico capo della rivoluzione,
perché i Soviet erano già stati provati e sperimentati dalle masse
come il loro proprio potere operaio, e perché cambiare questo potere
con un parlamento borghese sarebbe stato un suicidio. Non c'è quindi
da meravigliarsi se il parlamentarismo borghese non ha attecchito da
noi. Ecco perché la rivoluzione ha portato in Russia al potere del
proletariato.
"Questi sono i risultati dell'applicazione del sistema leninista
dell'egemonia del proletariato nella rivoluzione" (Stalin,
Opere complete, ediz. Rinascita, vol. 10°, pagg. 109-110)
Gramsci è stato un teorico profondo ed originale dell'egemonia ed ha
quindi dato un contributo autentico alla teoria marxista, ma
elevarlo a livello di Lenin è anch'essa una mistificazione.
Togliatti affermò di considerare l'egemonia gramsciana una "riformulazione
del leninismo. Spriano, come abbiamo visto, scrisse che
Gramsci ha inventato una nuova teoria della rivoluzione.
Losurdo, il quale evidentemente si considera uno dei più grandi
marxisti viventi, va oltre Spriano e con minore cautela rispetto ai
vecchi volponi revisionisti scrive:
"Lenin a lungo vede nella rivoluzione d'Ottobre solo il preludio
della rivoluzione in Occidente, considerata ormai imminente. Certo,
il dirigente bolscevico si rende poi conto dell'erroneità di tale
previsione e della necessità di concentrarsi in Unione Sovietica
sulla costruzione del socialismo, o, comunque, di un ordinamento
politico-sociale post-capitalistico. Ma la morte interviene a
troncare un tale processo di ripensamento: il punto d'approdo del
dirigente bolscevico costituisce invece il punto di partenza della
riflessione dei Quaderni del Carcere".
Questa analisi di Losurdo, a parte il tono di supponenza che la
permea, è completamente falsa. Che Lenin vedesse nella rivoluzione
d'Ottobre il preludio della rivoluzione non solo europea, ma anche
mondiale, era assolutamente giusto. Forse che gli orrori
della prima guerra imperialista e la conseguente vittoria
dell'Ottobre non provocarono un fermento rivoluzionario che si
estese a tutta l'Europa e che portò il proletariato tedesco ed
italiano sull'orlo della presa del potere? Non si costituì in
Ungheria, sempre sull'onda dell'Ottobre, la Repubblica dei Soviet? E
una possibilissima vittoria in Italia o in Germania della
rivoluzione proletaria non avrebbe dato un ulteriore formidabile
impulso a tutta l'Europa proletaria antiborghese? Le rivoluzioni
sono rivoluzioni, o trionfano o sono schiacciate dalla reazione, e
di fronte al fermento rivoluzionario che si accese in Europa, che
cosa avrebbe dovuto fare la III internazionale voluta da Lenin se
non rianimarlo, propagandarlo, dare una cassa di risonanza a questo
fermento, spingerlo verso la vittoria? Soltanto la pedanteria può
portare a trinciare giudizi sulla "erroneità" delle previsioni di
Lenin.
E poi che significa: Lenin (dopo il presunto errore di previsione)
si "concentrò" sulla costruzione del socialismo o "di un
ordinamento politico sociale post-capitalistico"? Losurdo ci
da questa rappresentazione: Lenin prevede lo scoppio di altre
rivoluzioni e se ne sta fermo, incrociando le dita nell'attesa che
queste rivoluzioni (o almeno una di esse) giungano alla vittoria. Ma
poi si rende conto che ha sbagliato previsione e si "concentra"
sull'edificazione di un qualcosa che potrebbe lontanamente
assomigliare al socialismo ma che socialismo non è, un "ordinamento
sociale post-capitalistico". Questa categoria inventata dal
Losurdo è totalmente antimarxista, è una categoria che sta solo nel
suo cervello. I bolscevichi hanno fatto una rivoluzione, distrutto
lo Stato zarista, espropriato i capitalisti, nazionalizzato la
terra, attuato per la prima volta nella storia dell'umanità
un'economia centralizzata secondo le necessità della gente
attraverso Piani Quinquennali e alla fine, a coronamento di tutte
queste belle cose hanno sgominato militarmente il nazismo e
ricostruito l'Urss ancora più potente di prima…e Losurdo, che ha
evidentemente gusti molto sofisticati chiama tutto ciò,
"ordinamento post-capitalistico".
Quindi le rivoluzioni si fanno non per instaurare il "socialismo" ma
il "post-capitalismo", categoria spuria, né socialismo né
capitalismo, scoperta per la prima volta da Losurdo. E poi vorremmo
chiedergli: quale è stato il "processo di ripensamento" di Lenin? Su
che cosa ha "ripensato"? dove lo ha detto? dove lo ha scritto? C'è,
nell'analisi di Losurdo qualcosa di sbalorditivo: la morte di Lenin
(1924) interrompe il suo "ripensamento", e toccherà a Gramsci, dopo
alcuni anni, completare il presunto "ripensamento" di Lenin. E nel
frattempo? Che cosa avrà mai fatto Stalin dopo la morte di Lenin?
Non avrà mai avuto "ripensamenti" sul fatto che la società
socialista (integrale) che stava costruendo, altro non era in
effetti (per colpa delle rivoluzioni in Occidente non giunte alla
vittoria) che un "ordinamento post-capitalistico"? Era troppo rozzo
Stalin per avere simili ripensamenti? Domanda: Ma non le abbiamo già
sentite in passato (meglio non fare nomi) ricostruzioni "storiche"
simili a queste?
Per Spriano -ripetiamolo ancora un'altra volta- Gramsci ha
prospettato una nuova teoria della rivoluzione, per Losurdo
invece Gramsci è il teorico dei tempi lunghi della rivoluzione,
a dispetto del fatto che sia nel primo che nel secondo dopoguerra il
proletariato italiano sia stato molto vicino alla presa del potere.
Ma davvero Gramsci è da ritenere l'autore di una "nuova" teoria
della rivoluzione fondata, antileninisticamente parlando, sui "tempi
lunghi"? NO, Gramsci, molto più semplicemente, è stato un grande
leninista, che ha il merito storico imperituro di aver spaccato il
Psi e fatto nascere anche nell'Italia rivoluzionaria di allora un
partito marxista leninista sezione italiana della Terza
Internazionale. Quando all'interno del partito bolscevico gli
oppositori, all'indomani della morte di Lenin, decuplicarono le
loro energie scissioniste per impossessarsi del potere, Gramsci fu
sempre dalla parte della maggioranza bolscevica che difese il
leninismo e sgominò l'opposizione.
Innalzare Gramsci al livello di Lenin apparentemente potrebbe
sembrare una cosa lusinghiera per il grande rivoluzionario sardo. Ma
egli stesso non avrebbe gradito tale accostamento. Sono i grandi
sconvolgimenti nell'arena internazionale, sono le grandi rivoluzioni
portate alla vittoria, sono i processi di costruzione del
socialismo che si realizzano per la prima volta nella storia che
producono i grandi teorici del comunismo. Altrimenti cadremmo
vittime della miserabile teoria borghese del genio al di sopra della
storia. E chi intende elevare Gramsci al livello di Lenin lo fa per
dare maggiore autorità alla propria visione opportunista della
rivoluzione attribuendola Gramsci. I marxisti leninisti hanno il
sacro dovere di tenere Antonio Gramsci al riparo da simili
operazioni ciniche e immorali e di smascherarle e denunciarle
instancabilmente.
LA SOCIETA' SOVIETICA SUL PIANO DELLA
SESSUALITA'
"Sul piano della sessualità la società sovietica
già negli anni Trenta giunge ad una concezione di alto profilo,
che neppure i più avanzati e spregiudicati paesi capitalistici
negli anni Ottanta e Novanta giungeranno mai.
Riconoscimento della coppia di fatto, riconoscimento della
coppia gay, riconoscimento della ragazza madre, riconoscimento
dell’aborto – e sul piano puramente clinico negli anni Trenta si
aveva una morte ogni 25mila casi di aborto contro il 2% in
Europa– che si attuava non solo con la libertà dell’interruzione
volontaria della gravidanza, ma anche con le tre settimane di
concedo dopo l’aborto.
Per quanto riguarda l’omosessualità essa non è riconosciuta
reato fino al 1934 e per principio non costituisce reato. Il
divieto ed il conseguente riconoscimento di reato viene
introdotto solo nel 1934 ma sulla basi di alcune questioni, che
l’imposero per necessità.
Nel marzo del 1934 il Presidium emana un decreto che prescrive
di aggiungere al codice penale un articolo comminante per
l’omosessualità pene da tre a cinque anni e se commessa con
minorenni o dipendenti e accompagnata dalla violenza con la
prigione da cinque a otto anni.
La decisione del Presidium è determinata dalla scoperta di
centri di corruzione di ragazzi, sorti per influenza di servizi
stranieri, che furono sommariamente espulsi dal territorio
sovietico.
Era successo che una tale libertà di vivere la sessualità
nelle condizioni più complessive di arretratezza e barbarie
rispetto a questo problema, aveva determinato che l’U.R.S.S
veniva a trovarsi ad essere un paradiso ove allettare e
corrompere giovani per pratiche omosessuali per stranieri."
"L’emancipazione della Donna è assoluta. Mai la Donna, e
neppure negli anni Settanta, nei paesi capitalistici raggiunge
una tale emancipazione totale: dall’aborto, al divorzio,
assistenza alla maternità, alla sessualità, alla parità reale
con l’uomo nella direzione e nel ricoprire ruoli di direzione a
tutti i livelli nella società sovietica."
resistenze.org/sito/te/cu/ur/cuur3n11.htm
p.s.
Togliatti, ancora negli anni ’60
definiva, alla maniera ottocentesca, l’omofilia “degenerazione e
vizio borghese”, e non perdeva occasione di svillaneggiare con
battute velenose i compagni sospettati di tali tendenze. Come
“la Secchia rotta”, vale a dire Pietro Secchia, alto funzionario
del Pci, ma piuttosto effeminato
Pajetta una mattina, in attesa in anticamera, vide sfilare fuori
dallo studio del Segretario (Berlinguer) prima le prostitute,
poi i trans, infine i gay. Costernato si rivolse ai funzionari
più giovani, e urlando chiese: “Prima le puttane, poi i
travestiti, mò i froci! Ma mi sapete spiegare voi che cazzo è
diventato questo partito?! Io non ci capisco più niente!”
In confronto, insistere
sull'episodio dell'Unione sovietica circoscritto in un breve
periodo di tempo, si può ascrive soltanto nell'ambito della
accanita criminalizzazione del Comunismo!!!!
LA SOCIETA' SOVIETICA SUL PIANO DELLA SESSUALITA'
"Sul piano della sessualità la società sovietica già negli
anni Trenta giunge ad una concezione di alto profilo, che
neppure i più avanzati e spregiudicati paesi capitalistici negli
anni Ottanta e Novanta giungeranno mai.
Riconoscimento della coppia di fatto, riconoscimento della
coppia gay, riconoscimento della ragazza madre, riconoscimento
dell’aborto – e sul piano puramente clinico negli anni Trenta si
aveva una morte ogni 25mila casi di aborto contro il 2% in
Europa– che si attuava non solo con la libertà dell’interruzione
volontaria della gravidanza, ma anche con le tre settimane di
concedo dopo l’aborto.
Per quanto riguarda l’omosessualità essa non è riconosciuta
reato fino al 1934 e per principio non costituisce reato. Il
divieto ed il conseguente riconoscimento di reato viene
introdotto solo nel 1934 ma sulla basi di alcune questioni, che
l’imposero per necessità.
Nel marzo del 1934 il Presidium emana un decreto che prescrive
di aggiungere al codice penale un articolo comminante per
l’omosessualità pene da tre a cinque anni e se commessa con
minorenni o dipendenti e accompagnata dalla violenza con la
prigione da cinque a otto anni.
La decisione del Presidium è determinata dalla scoperta di
centri di corruzione di ragazzi, sorti per influenza di servizi
stranieri, che furono sommariamente espulsi dal territorio
sovietico.
Era successo che una tale libertà di vivere la sessualità
nelle condizioni più complessive di arretratezza e barbarie
rispetto a questo problema, aveva determinato che l’U.R.S.S
veniva a trovarsi ad essere un paradiso ove allettare e
corrompere giovani per pratiche omosessuali per stranieri."
"L’emancipazione della Donna è assoluta. Mai la Donna, e
neppure negli anni Settanta, nei paesi capitalistici raggiunge
una tale emancipazione totale: dall’aborto, al divorzio,
assistenza alla maternità, alla sessualità, alla parità reale
con l’uomo nella direzione e nel ricoprire ruoli di direzione a
tutti i livelli nella società sovietica."
resistenze.org/sito/te/cu/ur/cuur3n11.htm
Togliatti, ancora negli anni ’60
definiva, alla maniera ottocentesca, l’omofilia “degenerazione e
vizio borghese”, e non perdeva occasione di svillaneggiare con
battute velenose i compagni sospettati di tali tendenze. Come
“la Secchia rotta”, vale a dire Pietro Secchia, alto funzionario
del Pci, ma piuttosto effeminato
Pajetta una mattina, in attesa in anticamera, vide sfilare fuori
dallo studio del Segretario (Berlinguer) prima le prostitute,
poi i trans, infine i gay. Costernato si rivolse ai funzionari
più giovani, e urlando chiese: “Prima le puttane, poi i
travestiti, mò i froci! Ma mi sapete spiegare voi che cazzo è
diventato questo partito?! Io non ci capisco più niente!”
In confronto, insistere
sull'episodio dell'Unione sovietica si può ascrive soltanto
nell'ambito della accanita criminalizzazione del Comunismo!!!!
È
di qualche giorno fa l’annuncio di Silvio Berlusconi, leader di
Forza Italia, che ha lanciato la proposta di un “reddito di
dignità”: mille euro al mese garantiti dallo Stato, che verserà
la differenza a chi si trova al di sotto di quella soglia di
reddito. Una misura, quella del reddito minimo garantito, già
esistente in paesi come la Germania. Da anni è uno dei cavalli
di battaglia del Movimento Cinque Stelle, che la chiama “reddito
di cittadinanza” (con una proposta a tratti diversa), e fatto
proprio anche da diverse sigle a sinistra. Nomi e forme diverse
nelle proposte, ma stessa sostanza.
È
un dato di fatto che questa proposta oggi è sempre più diffusa.
Di per sé, il fatto che persino Berlusconi la faccia propria,
tra l’altro citando il concetto di “imposta
negativa”
di Milton Friedman, dovrebbe spingere a una riflessione. Si
tratta solo di grandi annunci elettorali, o c’è qualcosa di più?
Il
punto è che quella del reddito non è di per sé una proposta
rivoluzionaria, e nemmeno “di sinistra” come molti hanno
creduto. Non lo è nemmeno nella sua forma più “radicale”, quella
del
“reddito di base”
incondizionato, che
andrebbe cioé elargito a tutti indipendentemente dal reddito di
ciascuno. Questa forma più “radicale” nasceva paradossalmente
(solo in apparenza) nei primi circoli neoliberisti degli USA,
dopo la pubblicazione di “Capitalism
and freedom”
(1962) da parte del già citato Milton Friedman, e ben si sposava
con l’ondata di privatizzazioni selvagge che si progettava. Il
reddito elargito incondizionatamente, come garanzia della
sussistenza di base, era concepito come contraltare alla
privatizzazione di istruzione, sanità ecc. La garanzia di questi
diritti, secondo quell’idea, non sarebbe più dovuta essere onere
dello Stato, ma lasciata al “libero mercato”, e il reddito di
base elargito a tutti avrebbe soppiantato la spesa nel Welfare
State da smantellare.
Non
è un caso se questa proposta oggi diventa trasversale a più
forze politiche. Lo è perché, al di là di ogni logica di
polemica politica, si sposa con alcuni interessi immediati di
settori del capitale italiano e delle grandi imprese. In termini
economici, il reddito di cittadinanza è una misura che
gioverebbe quasi più alle imprese che non a chi lo riceverebbe.
È una misura di politica fiscale di sostegno alla domanda
aggregata, che in termini macroeconomici punta all’aumento del
reddito disponibile per rilanciare i consumi. Quello che bisogna
chiedersi è: a spese di chi?
In
tutti questi anni è stato condotto un attacco ai diritti dei
lavoratori e delle classi popolari da parte dei grandi settori
dell’economia, dei monopoli bancari e industriali. La “produttività”
viene rilanciata attaccando i salari e il costo del lavoro,
mentre i profitti delle grandi imprese crescono. Il contraltare
di tutto ciò è una povertà diffusa, nello specifico una povertà
assoluta aumentata del 141% in dieci anni (dagli 1,9 milioni di
poveri di 10 anni fa agli attuali 4,5 milioni), dato che mal si
sposa con la necessità di tenere alti i consumi, cioè di
garantire la vendita di ciò che effettivamente viene prodotto:
nessuno spende in compere se non ci sono i soldi per farlo. È
qui che entra in gioco il reddito di cittadinanza: a fronte di
un trasferimento di ricchezza dal basso verso l’alto, avvenuto
in questi anni, si chiede che sia lo Stato a sopperirvi
elargendo un reddito finanziato tramite la fiscalità generale.
Cioè grazie alle tasse che vengono pagate, in proporzione, dai
redditi medio-bassi più che da quelli elevati e dalle grandi
imprese.
Una
redistribuzione di ricchezza dai poveri ai poverissimi, quindi.
Molte obiezioni, come quelle di settori della Confindustria
negli ultimi anni, hanno mosso una critica sostanzialmente di
carattere quantitativo alle proposte sul reddito di
cittadinanza, sostenendo che un reddito troppo elevato
porterebbe al rischio di un innalzamento dei salari nel “mercato
del lavoro” a causa di atteggiamenti “parassitari”, e quindi a
un potenziale svantaggio per le imprese. Ma nessuno critica la
misura nella sostanza, e anzi sempre più sono le aperture a una
proposta che, specie quando fatta propria dalle forze di
“sinistra”, si trasforma in una vera e propria battaglia di
retroguardia.
Ai
lavoratori, ai precari, ai disoccupati, tanto a quelli “anziani”
quanto ai giovani che non trovano lavoro, non serve una misura
che renda tollerabile una situazione che di incertezza e
precarietà. Quello che serve è il diritto al lavoro, che oggi in
Italia non esiste. La grande contraddizione dei nostri tempi è
che a fronte del progresso scientifico e tecnologico, che
permette un incremento della produttività del lavoro, si lavora
sempre di più, a condizioni sempre peggiori dopo l’attacco ai
diritti sociali degli ultimi anni. E se da un lato c’è chi
lavora, dall’altro c’è un esercito di disoccupati pronti ad
accettare qualsiasi condizione pur di lavorare, che i padroni
utilizzano come strumento di pressione nei confronti dei
lavoratori per tenere bassi i salari.
Tutto questo avviene mentre lo sviluppo economico e del sistema
produttivo permetterebbe la drastica riduzione dell’orario di
lavoro. Se tutto questo non avviene, è perché si tutela il
diritto delle imprese a fare profitti sempre maggiori, a spese
proprio dei lavoratori e delle classi popolari. La proposta del
reddito, in ogni sua forma, è una proposta che non rompe con
questo stato di cose, ma al contrario vi si trova in piena
compatibilità.
Alcune forze liberali contrarie al reddito di cittadinanza, dal
PD di Renzi alle forze di destra, inclusi settori della
Confindustria, hanno fatto proprio l’argomento “dare lavoro, non
reddito”. Ma “dare lavoro”, detto da un liberale, dal PD o dalla
Confindustria, significa “dobbiamo ridurre le tutele e i salari
ed elargire incentivi alle imprese, così assumeranno di più”.
La
proposta dei comunisti, che pure parla di lavoro, è radicalmente
opposta, perché lavoro e dignità non possono camminare separati.
La retorica di questi anni, secondo cui per aumentare
l’occupazione bisogna accettare riduzioni dei salari e
cancellazione di diritti conquistati in decenni di lotta, va
rifiutata senza sconti assieme a quella secondo cui “siamo tutti
sulla stessa barca” e bisogna venirsi incontro, perché mentre si
abbassavano i salari e crescevano precarietà e disoccupazione
c’è chi ha continuato a fare profitti sulle nostre spalle.
Ad
essere oggi più attuale che mai è la parola d’ordine “lavorare
meno, lavorare tutti”,
ancor più praticabile oggi rispetto al passato, visto il livello
di sviluppo raggiunto. Una proposta, a differenza del reddito,
davvero rivoluzionaria e che per questo fa parte del programma
dei comunisti. In altre parole, questo significa
riduzione dell’orario
di lavoro a parità di salario,
ripristino del sistema di
collocamento pubblico
con l’obiettivo chiaro della
piena occupazione;
abolizione del Jobs Act e delle leggi Fornero, Biagi e Treu,
e quindi in sostanza
abolizione della
precarietà sul lavoro
e istituzione, infine, di un
salario minimo
intercategoriale,
che l’Italia è fra i pochissimi paesi del continente a non
avere. Queste sono le parole d’ordine dei comunisti, e le uniche
“di sinistra” nel senso più progressista e conseguente del
termine.
A
qualcuno sembrerà scontato obiettare dicendo che “non si può
fare” per ragioni economiche, perché “banalmente” senza
contratti precari e con salari più alti “le
imprese non assumeranno più”.
E in effetti è evidente che queste proposte non si conciliano
con la necessità delle grandi imprese di fare profitti sempre
maggiori, di
rilanciare la
produttività
come va di moda dire ultimamente. Ma sta proprio qui il punto.
Alla domanda “è davvero possibile far lavorare tutti, ridurre
l’orario di lavoro, aumentare i salari?” i comunisti rispondono
di “sì, se si spezzano i vincoli di questo sistema”. Come? Ad
esempio
nazionalizzando le
grandi imprese, i settori strategici dell’economia, sganciandoli
dalla legge del profitto
che governa il sistema capitalista. Una proposta che il Partito
Comunista ha recentemente lanciato per Alitalia, ad esempio, in
contrapposizione alle politiche di questi anni che socializzano
le perdite, con piani di salvataggio a spese dello Stato mentre
i profitti restano privati e i lavoratori restano in balia
dell’arroganza padronale. Una politica che senza dubbio sarebbe
realizzata in forte rottura con il sistema di potere oggi
esistente, contro i principi di “libero mercato” e di libera
circolazione di merci e servizi” imperanti nell’Unione Europea.
La
questione oggi si riduce esattamente a questo: scegliere se
accettare o no la compatibilità con questo sistema e le sue
leggi. Chi propone il reddito di cittadinanza, anche a sinistra,
ha già fatto la sua scelta, perché formula una proposta che sa
benissimo essere del tutto compatibile con l’attuale stato delle
cose, tanto nelle sue versioni di stampo “keynesiano”, quanto in
quelle più marcatamente liberiste come quella proposta da
Berlusconi. La scelta dei comunisti è diversa, e per questo
rivoluzionaria.
www.resistenze.org -
osservatorio - italia - politica e società - 10-02-18 - n. 661
Le foibe e il
10 febbraio, "giorno del ricordo"
Alessandro Pascale
10/02/2018
Nel 2004 con la Legge n° 92/2004, la Repubblica Italiana ha
istituito il "Giorno del Ricordo", per omaggiare "la memoria
della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle
foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e
dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda
del confine orientale". Da diversi anni tale ricorrenza è
utilizzata per commemorare il fantomatico "eccidio di
Italiani" che sarebbe avvenuto durante la Resistenza ad
opera dei partigiani "slavo-comunisti" nella Venezia Giulia.
Gente che sarebbe stata gettata ancora viva in cavità
carsiche (le foibe appunto) dove sarebbe stata lasciata
morire tra enormi atrocità per il solo fatto di essere
italiana. In queste foibe sarebbero state gettate migliaia,
decine (e qualcuno arriva pure a dire centinaia) di migliaia
di persone. Nel 2002 l'allora Presidente della Repubblica
Ciampi disse che le foibe furono una "pulizia etnica".
Galliano Fogar, storico dell'Istituto Regionale friulano per
la Storia del Movimento di liberazione, ha affermato che
nessuno storico serio "osa sostenere tale tesi". Vediamo di
ricostruire in maniera completa i fatti storici che si
intrecciano alle vicende di un'area, quella dei Balcani, che
per secoli è stata un crogiuolo di etnie, popoli, lingue e
religioni assai diversificati, ma viventi in relativa
tolleranza e tranquillità.
1) 1918-1940 - Le premesse
Nel 1918 la vittoria dell'Italia nella Prima Guerra Mondiale
rinfocola in alcune frange del Paese idee e velleità
imperialiste e irredentiste, sempre ampiamente finanziate e
sostenute da settori della Confindustria e dell'Alta
Finanza. Ricordiamo a tal riguardo i finanziamenti provati
all'Associazione Nazionalista Italiana fondata nel 1910,
responsabile culturale primaria dell'interventismo italiano
prima in Libia poi contro l'Austria-Ungheria, e il parallelo
finanziamento dei progetti politici di Mussolini. In questo
clima si assiste anche all'episodio di Fiume, con cui
D'Annunzio ha occupato la città con mille uomini per un anno
godendo di protezioni politiche ed economiche. Nel 1920
viene siglato il Trattato di Rapallo, con cui l'Italia e il
Regno dei Serbi, Croati e Sloveni stabiliscono
consensualmente i confini dei due Regni e le rispettive
sovranità: l'Italia non otteneva la Dalmazia (come da
accordi del Patto di Londra, 1915), bensì solo Zara e alcune
isole, oltre chiaramente all'Istria, Trieste, Gorizia e
Gradisca. In tutto si trattava di 356 mila sudditi
"italiani" nuovi. Ne erano esclusi 15 mila, ancora interni
alle frontiere slave, ma compensati da 500 mila
sloveno-croati ora cittadini italiani.
È immediato il tentativo di violenta assimilazione
culturale: nel 1919 vengono chiuse 45 scuole croate su 49.
Il razzismo del fascismo si manifesta la prima volta, quasi
vent'anni prima delle leggi contro gli ebrei, nel '20 a Pola
con le parole di Mussolini: «Di fronte a una razza come la
slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica
che dà lo zuccherino ma quella del bastone». Con la Legge
Gentile del 1923 vengono chiuse in generale tutte le scuole
non italiane presenti nel Paese. 500 scuole elementari
slovene-croate sono strasformate in scuole dove si parla
solo nella lingua di Dante e Manzoni. Poi iniziano le
violenze squadriste, che partono nel 1919 con intensità
crescente fino al 1922: nel 1920 viene incendiato il Narodni
Dom, la sede delle organizzazioni degli sloveni triestini,
un edificio polifunzionale nel centro di Trieste, nel quale
si trovavano anche un teatro, una cassa di risparmio, un
caffè e un albergo. Capitano episodi come questo: 21
fascisti sparano a bambini da un treno, facendo 2 morti e 5
feriti. In un susseguirsi di violenze oltre 1000 circoli
culturali, sportivi e assistenziali sloveno-croati sono
chiusi, i loro beni e le sedi confiscate e date ad
organizzazioni fasciste.
Con il rafforzamento istituzionale al potere del fascismo si
intensifica l'italianizzazione forzata della regione, in
ossequio ai principi nazionalisti propagandati da Mussolini:
si assiste all'allontanamento o al trasferimento di
dipendenti pubblici non italiani, all'italianizzazione di
toponimi, nomi e cognomi stranieri. Inizia a questo punto la
Resistenza della minoranza oppressa anche culturalmente e
umanamente oltre che socialmente e politicamente. Nascono
organizzazioni come TIGR e BORBA che adottano forme di lotta
armata come risposta alla violenza subita. La repressione è
spietata: tra il 1927 e il 1943 vengono svolti 544 processi
a sloveno-croati, dando luogo a 476 condanne, 33 delle quale
alla pena di morte.
2) 1941-1943 – L'aggressione militare italiana
Durante la guerra la repressione aumenta di intensità: a
Trieste e nei territori italiani viene accentuata la
repressione antislava e anticomunista con l'istituzione di
diversi organismi, tra cui l'Ispettorato Speciale di
Pubblica Sicurezza, la Polizia Economica, la Guardia Civica,
la Milizia di Difesa Territoriale, la Guardia di Finanza e
la Decima Mas. Un esempio di repressione è la Strage di Lipa,
sulla strada tra Fiume e Trieste, avvenuta il 30 aprile
1944: in rappresaglia ad un attacco partigiano che ha ucciso
4 soldati tedeschi le truppe nazifasciste radunano gli
abitanti sparsi nelle vicinanze, li stipano in un casolare e
li bruciano vivi. Gettano poi bombe a mano per distruggere
completamente la casa e rendere impossibile un
riconoscimento delle vittime. I morti sono 269, fra
cui donne e bambini (tre bambine non avevano neanche un
anno).
Nell'aprile 1941 forze italo-tedesche invadono il Regno di
Jugoslavia che viene sottomesso in un paio di settimane. Tra
le ragioni della partecipazione italiana è da segnalare che
nel periodo dal 1925 al 1934 si è sviluppata un'ampia
propaganda a sostegno del mito della "vittoria mutilata", in
riferimento al mancato rispetto del Patto di Londra
nell'ambito dei trattati di Pace della Prima Guerra
Mondiale. Il tema è ampiamento ripreso dal fascismo che
amplifica la politica nazionalistica e imperialista del
regime. Ne segue da parte dei Servizi Segreti italiani in
questo periodo il finanziamento a gruppi terroristici
nazionalistici macedoni, kosovari e gli Ustascia croati.
L'obiettivo è esasperare e rendere impossibile la convivenza
etnica così da favorire in seguito all'annessione militare
lo smembramento del Paese: in questi anni si diffonde anche
culturalmente sulle riviste italiane l'idea di una "grande
Croazia" e di una parallela "grande Albania", strutturati su
sistemi fascisti simili a quello italiano. In tale ottica
all'Italia sarebbero andati l'egemonia sulla Serbia e sulla
Slovenia.
Con la sconfitta jugoslava del 1941, il ruolo militare
giocato dai Tedeschi fa si che siano loro a decidere nei
fatti la spartizione territoriale. All'Italia si accorda il
controllo diretto del Montenegro, della Dalmazia, della
Slovenia meridionale e del Kosovo. In Croazia viene favorita
la nascita dello Stato collaborazionista degli Ustascia
fascisti di Ante Pavelic. Tale regime ottiene l'appoggio
politico del Vaticano e del clero locale, nonostante su una
popolazione di 6 milioni di persone solo il 50% sia
cattolica. Seguono anni di violenze, stragi e persecuzioni
da parte dei croati contro le etnie rom, i serbi e gli
ebrei. Si può parlare di un vero e proprio sterminio etnico.
Nel solo lager di Jasenovac muoiono 100 mila persone. Una
parte di questi lager sono situati nelle zone di occupazione
italiane, a Pag e Jadovno, nella connivenza totale delle
autorità politiche e militari italiani. L'arcivescovo di
Zagabria, Stepinac, legittimò questa pulizia etnica
sostenendo il regime reazionario clerico-fascista di Pavelic,
e dichiarando che tutto ciò fosse in nome di Dio. La chiesa
cattolica ebbe così un ruolo di primo piano nell'Olocausto
balcanico giustificandolo come una conversione di massa
degli infedeli (serbo-ortodossi). Il frutto di questo regime
criminale sostenuto dal Governo Italiano è di 240 mila
persone obbligate a convertirsi al cattolicesimo, di 300
mila esuli in fuga dal Paese e di oltre 500 mila serbi
uccisi, da aggiungersi ai 25 mila ebrei e a 20 mila rom. Di
questi fatti è data perfino notizia sulla stampa italiana,
sulla quale però compare anche il sostegno esplicito e
consapevole dei fascisti italiani. Molte sono le
testimonianze degli stessi soldati italiani presenti alle
esecuzioni degli Ustascia. Citiamo quella del generale
Ponticelli, in una intervista rilasciata al giornale "Il
Tempo": "...quattro lustri di odio sono esplosi in un
massacro che in un breve lasso di tempo ha avuto quale
risultato lo sterminio di 350 mila serbi e decine di
migliaia di altri... Tutti furono uccisi con torture
inimmaginabili... Tutto può essere facilmente accertato e
apparire in tutte le sue atrocità... Gli orrori che gli
ustascia hanno commesso sulle ragazze serbe superano ogni
idea... Centinaia di fotografie confermano i misfatti subiti
dai pochi sopravvissuti: colpi di baionetta, lingue e denti
strappati, occhi estirpati, seni tagliati, tutto ciò
accadeva dopo che esse erano state violentate...".
In questo contesto nasce e si sviluppa la Resistenza
Partigiana guidata dal Partito Comunista, il cui
leader è Josip Broz, detto Tito. Questi propone a chi lo
segue di ricostruire il Paese jugoslavo con l'unità delle
varie etnie presenti ma rinnovando profondamente la società,
con l'abbattimento dei rapporti di produzione capitalistici
e l'instaurazione di un regime socialista. È contro i
partigiani titini che si svolgono a questo punto le manovre
militari italiane. Viene intensificata l'occupazione e la
militarizzazione del territorio e si risponde alla rivolta
slavo-comunista con la repressione selvaggia. Si prendono
perfino accordi con un altro gruppo partigiano, quello di
"destra" dei cetnici, nazionalisti monarchici guidati da
Mihailovic (la cui organizzazione prenderà il nome di MVAC
dal '42, arrivando a contare circa 100 mila unità). Questi
preferiscono rivolgere le armi contro i partigiani comunisti
piuttosto che contro gli occupanti stranieri. Gli italiani
giocano così con successo la tattica del "Divide et Impera".
Il generale italiano Roatta a tal riguardo ha detto
chiaramente: "si sgozzino tra di loro". Nella repressione
del movimento partigiano si distinguono per ferocia anche
gli Ustascia croati: per ogni caduto dell'Asse vengono
giustiziati 10 prigionieri comunisti.
Dall'altra parte i titini ricevono direttive ben precise:
non bisogna scatenare punizioni collettive contro i
prigionieri di guerra ottenuti: i soldati semplici catturati
vanno cooptati nelle proprie fila, vanno tenuti ostaggi o se
la situazione non lo consente vanno rilasciati. Diversa
sorte invece per gli ufficiali militari e i riconosciuti
fascisti, ustascia e nazisti, che vengono giustiziati.
Facile capire il perché: le maggiori violenze italiane sono
messe in atto da squadre e truppe speciali fedeli
direttamente al Partito Nazionale Fascista. Sono insomma le
truppe più fanatiche ed esaltate di odio razzista e
anticomunista. Al comando dei generali Robotti e Roatta sono
in tutto più di 300 mila i soldati italiani nella regione. A
loro viene ordinato di mettere in atto quello che è un vero
e proprio regime di "terrore" contro le popolazioni civili.
Le pratiche usate sono rappresaglie, deportazioni,
confische, cattura di ostaggi, fucilazioni. In un discorso
rivolto ai soldati della Seconda Armata in Dalmazia, nel
1943, Mussolini afferma: "So che a casa vostra siete dei
buoni padri di famiglia, ma qui voi non sarete mai
abbastanza ladri, assassini e stupratori." Si segue la
tattica della terra bruciata, tanto che gli italiani vengono
chiamati dalla popolazione locale con epiteti che
significano "bruciacase" e "mangiagalline". I partigiani
catturati sono sempre fucilati. Spesso basta il semplice
sospetto di essere legati ai partigiani per perdere la vita.
Il tutto vale anche per le donne. In almeno un caso è
attestato che sia stata fucilata anche una donna incinta. La
guerra viene condotta dall'Italia con uno stile che in
passato era stato riservato solo alle popolazioni coloniali
africane. Gli alleati Tedeschi fanno lo stesso e applicano
la regola per cui ogni morto tedesco meriti la fucilazione
di 100 slavi. L'Italia, per ordine del generale Biroli,
ritiene che un soldato semplice valga 10 slavi, ma se si
tratta di un ufficiale allora si debba rispondere con 50
esecuzioni. Mussolini propone di procedere alla nuova
equazione per cui ad ogni semplice ferito seguano 2
fucilati, alzando la quota a 20 slavi per ogni soldato
italiano morto. 100 mila slavi sono deportati in 50 campi di
concentramento presenti nell'Italia centro-meridionale, in
10 campi dell'Italia settentrionale, e nei campi costruiti
sul luogo, come Gonars e Arbe. In quest'ultimo su 10 mila
internati sono 2 mila i morti.
Durante questi anni di repressione e di occupazione il
partito comunista serbo si organizza e già nel 1941 arriva a
contare su 80 mila partigiani. La parola d'ordine lanciata
dai partigiani jugoslavi è "Smrt fazismu - Slaboda narodu"
(Morte al fascismo - Libertà al popolo). Al termine della
guerra l'esercito partigiano guidato da Tito è il più grande
in tutta l'Europa occupata, arrivando a contare circa 800
mila uomini, trasformandosi nella fase finale della guerra
in un vero e proprio esercito regolare capace di liberare
autonomamente il Paese dal nazifascismo senza alcun
contributo militare esterno, con il solo aiuto di due
formazioni partigiane formate dagli ex militari italiani: la
Divisione Garibaldi e la Divisione Italia. La prima opera in
Montenegro e raduna circa 16 mila combattenti. In tutto
saranno 7000 gli italiani morti combattendo tra le fila
partigiane di Tito, andando a riscattare almeno in parte il
nostro popolo che aveva portato il flagello del fascismo e
della guerra.
3) 1943-45 Le foibe
Occorre certamente avere presente tutta questa storia
pregressa per capire il fenomeno delle "foibe", il quale
comunque va spiegato nel dettaglio. I momenti messi in
discussione sono due:
a) il primo riguarda il periodo successivo all'8 settembre
1943, data in cui il generale Badoglio, che ha preso il
potere d'accordo con la monarchia e i fascisti destituendo
Mussolini, annuncia l'armistizio e l'uscita dell'Italia
dalla guerra. Nell'anarchia che colpisce l'esercito privo di
direttive chiare, la nostra penisola viene invasa dai
tedeschi e nella zona dell'Istria si crea un vuoto di potere
di cui approfittano i partigiani, che riescono a liberare
temporaneamente le principali città esercitando un mese di
potere popolare. La rabbia popolare e la denuncia dei
crimini di guerra dei nazifascisti porta a realizzare
centinaia di processi popolari che portano a 500 condanne a
morte eseguite. Di questi solo un centinaio sono "civili",
incriminati per la loro attività di collaborazionismo con le
istituzioni nazifasciste. La stragrande maggioranza sono
giustiziati per fucilazione, e solo una piccola parte dei
cadaveri viene poi gettata nelle foibe, per ragioni di
disorganizzazione, di fretta e di igiene (prevenire
epidemie). Queste grotte d'altronde sono state spesso usate
come "cimiteri", specie in tempo di guerra, tant'è che le
avevano usate anche nella Prima Guerra Mondiale e gli stessi
fascisti italiani negli anni precedenti. Inammissibile che
per l'episodio in questione si possa parlare di "pulizia
etnica". Si può segnalare a tal riguardo come l'8 gennaio
1949 un giornale locale di destra come "Trieste Sera" fosse
costretto ad ammettere: "se consideriamo che l'Istria era
abitata da circa 500mila persone, delle quali oltre la metà
di lingua italiana, i circa 500 uccisi ed infoibati non
possono costituire un atto anti-italiano ma un atto
prettamente anti-fascista. Se i partigiani rimasti padroni
della situazione per oltre un mese avessero voluto uccidere
chi era semplicemente "italiano", in quel mese avrebbero
potuto massacrare decine di migliaia di persone". Chi
commette un vero ed efferato sterminio sono le SS assieme ai
repubblichini di Salò quando nell'inverno del '43 riprendono
il controllo della penisola istriana e massacrano 13mila
persone. La maggioranza dei cadaveri (questi sì) viene
gettata nelle foibe.
b) il secondo caso riguarda 40 giorni di potere partigiano
nel maggio del 1945. In quel periodo scompaiono tra le
2000-3000 persone. Si tratta sempre di uomini e donne
processati per la loro conclamata corresponsabilità in
crimini di guerra e in atti di collaborazionismo con il
nemico oppressore ora sconfitto. I processi politici sono
svolti spesso in maniera sommaria e contro le indicazioni
venute dal centro politico della direzione partigiana titina.
Ad essi seguono fucilazioni, arresti e deportazioni in campi
di prigionia. Pochi sono i cadaveri dei giustiziati che sono
finiti nelle foibe. Le stime complessive parlano di 500
persone in tutto tra il '43 e il '45. È del tutto falso che
fosse pratica usuale quella di giustiziare direttamente i
condannati sull'orlo della foiba. Storiche locali come
Claudia Cernigoi e Alessandra Kersevan parlano di un ordine
di grandezza di alcune decine di infoibati collegati per lo
più alle forze fasciste e di occupazione. Sulle famigerate
foibe in cui si sostiene siano state gettate migliaia di
italiani, le loro ricerche evidenziano che: nella foiba di
Basovizza (che non è nemmeno una foiba ma il pozzo di una
miniera), quando si è scavato alla ricerca di corpi, si sono
trovati i resti di alcuni militari tedeschi risalenti alla
prima guerra mondiale e qualche carcassa di animale; nella
foiba di Opicina (Monrupino) si trovarono solo alcuni corpi
di soldati morti in battaglia gettati lì per evitare che le
carcasse diffondessero epidemie; nella foiba di Fianona non
si è mai trovato nulla e nella zona nessuno ha mai sentito
parlare di corpi ivi gettati. Infine, si è pure parlato
delle foibe di Fiume…c'è solo un piccolo problema: a Fiume
non ci sono foibe! L'unica foiba in cui si rinvennero i
cadaveri di 18 fucilati è l'abisso Plutone. Si tratta in
questo caso di prigionieri fascisti che vennero fucilati
dalla cosiddetta banda Steffè, una banda composta in realtà
da militari della X MAS che commettevano crimini facendosi
passare per partigiani al fine di screditare questi ultimi
agli occhi della popolazione.
Al di là del fenomeno contestato delle foibe occorre
ribadire il bilancio bellico finale nella regione jugoslava,
che ha visto morire 15 mila italiani a fronte di un milione
di slavi.
4) 1945-50s – L'esodo
Con il Trattato di Pace di Parigi siglato il 10 febbraio
1947 la gran parte dell'Istria viene assegnata alla
Jugoslavia, grazie ad accordi che verranno stabilizzati
definitivamente solo con il Trattato di Osimo del 1975. A
questo punto entra in gioco il tema dell'esodo, ossia della
cosiddetta "cacciata" degli italiani dalle terre entrate a
far parte della Jugoslavia. In realtà non c'è mai stata
nessuna cacciata né tantomeno una persecuzione degli
italiani in quanto tali. La presenza italiana in Istria e
Dalmazia è rimasta viva ed attiva da allora fino ad oggi:
sotto la Jugoslavia ha goduto sempre di tutele (scuole,
istituzioni culturali, bilinguismo ecc) ed ancora oggi,
nonostante il nazionalismo croato abbia ripreso vigore, è
rispettata. A parte chi si macchiò di gravi colpe, nessuno
fu costretto a lasciare la propria casa. L'esodo fu
un'iniziativa volontaria, spalmatasi nell'arco di un
decennio, della maggioranza della popolazione italiana
presente in Istria e Dalmazia. Tra le 200 e le 250 mila
persone emigrarono dalla regione, la gran parte verso
l'Italia ma anche verso altri Paesi (Canada, USA,
Australia). Occorre ricordare che agli abitanti delle zone
divenute jugoslave venne data la possibilità di decidere
quale cittadinanza scegliere, tant'è che in questo flusso
migratorio si infilarono anche 30 mila croati e 10 mila
sloveni, che non gradivano l'idea di vivere in uno Stato
socialista. Questa in effetti è stata la principale
motivazione per cui anche migliaia di italiani, in molti
casi insediatisi sul territorio in epoca fascista, decisero
di rientrare in Italia per il timore di essere identificati
come ex fascisti e perdere il posto di lavoro; contano anche
le pressioni del Governo italiano e del CLN di Fiume e Pola,
controllati dalle forze partigiane più moderate e
nazionaliste. L'assenza di una politica esplicitamente
discriminatoria nei confronti degli italiani è confermata
indirettamente dal fatto che 2500 operai italiani della
"Cantieri riuniti" nell'arco del biennio '46-'48 decidono di
trasferirsi a Fiume e Pola per lavorare al servizio del
nuovo Stato socialista.
5) Il revisionismo storico
Dato che questi sono i fatti accertati storicamente, perché
e come si è arrivati ad istituire il 10 febbraio "giornata
del Ricordo"? Per 50 anni in effetti la retorica delle
decine di migliaia di italiani "infoibati" e di altre
centinaia di migliaia "in fuga" ha fatto parte solo della
propaganda neofascista, mentre né lo Stato Italiano né le
principali forze politiche italiane (ma neanche gli storici
seri) hanno mai posto con forza la questione. Ciò è dipeso
da svariati fattori, non ultime le ragioni della Guerra
Fredda che vedeva la Jugoslavia un Paese sì socialista ma
"amico" dell'Occidente, risultando così sconveniente
polemizzare su tali fatti, sapendo peraltro quanto sarebbe
stato facile agli jugoslavi rinfacciare i disastri compiuti
dall'aggressione fascista, mostrando il reale rapporto di
causa e conseguenza. Questi temi trovano nuovo spazio
all'inizio degli anni '90, in un nuovo contesto storico che
ha visto il crollo dell'URSS e della Jugoslavia socialista,
ma anche del forte e radicato PCI. Nel 1994 va al Governo in
Italia Silvio Berlusconi, alla guida di un'alleanza politica
di centro-destra comprendente per la prima volta nella
storia repubblicana forze politiche di origine fascista
(Alleanza Nazionale, ex-MSI, il partito nostalgico del
fascismo durante la Prima Repubblica). In questo periodo
inizia anche in Italia l'accostamento tra fascismo e
comunismo nell'ambito degli opposti totalitarismi criminali
e in tale ottica risulta utile riprendere anche il tema
delle foibe, su spinta della destra italiana, che appoggia e
sostiene pubblicamente una serie di storici e di "testimoni"
di simpatie e trascorsi fascisti, che pubblicano una serie
di lavori su cui è stata espressa una dubbia metodologia
scientifica.[1]
Anche le forze di centro-sinistra, in buona misura
ex-comuniste, appoggiano e sostengono tali processi di
revisionismo, per mostrare di aver tagliato i ponti con le
ideologie passate e per legittimarsi pienamente al Governo
dopo 50 anni di "fattore K" (ostruzione dei comunisti dal
Governo per le ragioni della Guerra Fredda). Hanno poi una
grande responsabilità i presidenti della Repubblica Ciampi e
Napolitano, che inseriscono il "giorno del ricordo" in un
progetto complessivo in cui rientra anche la ripresa delle
celebrazioni in pompa del 4 novembre, "festa delle forze
armate e dell'unità nazionale" tesa a celebrare la vittoria
della Prima Guerra Mondiale, un massacro di contadini e
lavoratori definito "inutile strage" perfino da Papa
Benedetto XV. È un progetto teso a ricostruire un'identità
nazional-patriottica agli italiani che recupera temi
irredentisti e militareschi, legittimando al contempo le
forze politiche che per anni li avevano portati avanti e che
anche per questo erano state considerate una minaccia per la
democrazia. È il periodo in cui il Presidente del Consiglio
Berlusconi nel 2003 afferma testualmente che "Mussolini
non ha mai ammazzato nessuno, Mussolini
mandava la gente a fare vacanza al confino", dichiarazioni
che andavano a gettare ulteriore discredito sul valore della
Resistenza Partigiana Antifascista, base costitutiva della
Repubblica Italiana. I discorsi parlamentari del Presidente
della Repubblica Napolitano hanno peraltro provocato anche
gravi tensioni diplomatiche con i Governi della Croazia e
della Slovenia, i quali hanno protestato vigorosamente per
la nuova narrazione storica proveniente dall'Italia,
improntata al recupero di minacciosi argomenti imperialisti
e razzisti. Argomenti diffusi non solo con discorsi e libri
ma anche nel senso comune: per diffondere la nuova
narrazione delle foibe è stato messo in atto "un progetto
integrato piuttosto articolato e complesso" (Tenca-Montini),
che ha previsto ampi finanziamenti pubblici alle
associazioni dei reduci e un'attenzione particolare alle
potenzialità della televisione, principale strumento di
informazione. Il risultato più evidente di questo processo
di propaganda è stata la fiction televisiva della RAI "Il
cuore nel pozzo", improntata ad un bieco razzismo anti-slavo
e anti-partigiano. Si è giocato poi negli anni
sull'equiparazione tra Shoah e Foibe e si è riusciti con
ampie pressioni mediatiche e politiche organizzate dalle
forze di centro-destra a far intitolare vie, monumenti e
parchi ai "martiri delle foibe", pur non senza ampie
resistenze politiche provenienti da alcune forze politiche
di sinistra oltre che dai settori dell'ANPI e degli
intellettuali.
6) Una lotta storiografico-politica ancora in corso
Tutte queste sono le ragioni principali per cui negli ultimi
anni è stato istituito il "Giorno del Ricordo" e si è messa
in atto una riscrittura della Storia alla quale si sono
opposti gli storici italiani di livello internazionale,
oltre alle organizzazioni politiche rimaste coerentemente
antifasciste. Ad oggi il numero totale dei "martiri
italiani" alla cui memoria sono stati attribuiti i
riconoscimenti pubblici e finanziari previsti dalla Legge n°
92 del 2004, è di appena 323, di cui "infoibati" in senso
stretto una minima frazione, mentre la gran parte di queste
figure sono appartenenti alle forze armate o personale
politico dell'Italia fascista, senza contare gli episodi che
non hanno niente a che fare con la narrazione ufficiale
delle "più complesse vicende del confine orientale" cui si
riferisce la Legge. Tutto ciò considerato, il 2 aprile 2015
la stessa Segreteria Nazionale dell'ANPI ha chiesto di
interrompere quantomeno l'attribuzione di onorificenze e
medaglie della Repubblica, mentre nel 2017 numerose
personalità antifasciste in una Lettera Aperta al MIUR hanno
invocato un drastico cambiamento di rotta rispetto alla
modalità revisionista e rovescista con cui l'argomento è
trattato nelle scuole. Si è arrivati all'assurdo per cui un
partito neofascista come Casapound abbia attaccato l'ANPI
accusandola di "revisionismo storico" (!) e di
"negazionismo", incriminazioni che sono mosse a chiunque
intenda mettere in dubbio pubblicamente la versione
dominante decisa politicamente, in una riscrittura della
Storia di stampo orwelliano. In questo stesso giorno, 10
febbraio 2018, si svolge invece a Torino tra le polemiche un
contrastato convegno (organizzato tra gli altri dalla
illustre rivista di storia critica Historia Magistra), che
si intitola "GIORNO DEL RICORDO, UN BILANCIO", con
l'obiettivo di investigare "le ricadute dell'inserimento del
Giorno del Ricordo nel calendario civile della
Repubblica, che appaiono molto pesanti a livello politico,
culturale e di autopercezione identitaria della Nazione,
nonché a livello didattico-scientifico e financo per le
casse dello Stato." La lotta insomma, sia a livello
storiografico che politico, è su questo tema tuttora in
corso e non è detto che tutti gli studenti futuri abbiano
professori che decidano di far loro una lezione su questi
argomenti con un simile livello di approfondimento. La
scuola è uno degli ultimi baluardi per reagire a questa
offensiva culturale semi-totalitaria.
Tutto ciò non deve comunque impedire il ricordo di quei
pochi italiani innocenti e inconsapevoli che possano essere
incappati in persecuzioni per errore, per vendette personali
o per l'associazione italiano=fascista fatta da settori
minoritari dei popoli slavi, in ogni caso mai legittimati
formalmente dal governo jugoslavo. Serve però a ricordare la
responsabilità primaria imputabile al nazifascismo degli
orrori che hanno colpito in primo luogo i popoli slavi e in
in misura quantitativa assai minore anche quegli italiani
che si sono fidati malamente delle promesse di Mussolini.
[1] Per capire la colossale montatura nascosta dietro
alla favola delle foibe basta sapere chi sono gli
"eminentissimi" storici che sono stati fonte di questa
propaganda. Nell'ordine: Luigi Papo, noto fascista sotto il
regime e a capo della Milizia Montona, responsabile di
eccidi e di rastrellamenti partigiani, considerato dalla
Jugoslavia un criminale di guerra di cui chiese
l'estradizione (senza ottenerla, il che vale anche per molti
altri casi); Padre Flaminio Rocchi, fascista esponente
dell'Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia; Maria
Pasquinelli collaboratrice della X MAS e dei servizi segreti
della RSI; Marco Pirina, incriminato per il tentativo di
golpe Borghese del 1970; Giorgio Rustia, militante di Forza
Nuova; Ugo Fabbri associato al MSI. Il tutto coordinato
dalla regia dell'avvocato Augusto Sinagra, legale di Licio
Gelli ed asserito iscritto alla loggia P2. E che dire
dell'unico sedicente supersite ad una Foiba che si conosca,
Graziano Udovisi? Oggi intervistato con tutti gli onori
dalla RAI, si tratta di un criminale di guerra già
condannato dalla giustizia italiana: la sua pena, ma guarda
un pò, venne attenuata in quanto scampato ad una famigerata
foiba a Fianona.
Lenin (e non Stalin –secondo la
vulgata trotskista) ha enunciato in due celebri articoli: «Sulla
parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa» (LOC XXI pag.311- agosto
1915) e «Il programma militare della rivoluzione proletaria» (LOC
XXIII pag. 77 – agosto 1916) la tesi sulla possibilità che il
socialismo trionfi dapprima in un solo
paese o in un gruppo di paesi come conseguenza
dell’’ineguaglianza dello sviluppo
dei paesi capitalistici nell’epoca dell’imperialismo. Queste
tesi sono state riprese e ulteriormente arricchite anche in un
successivo articolo: «Sulla parola d’ordine del disarmo» (LOC XXIII
pag. 93, ottobre 1916).
Nell’altro famoso opuscolo di Lenin, «L’imperialismo fase suprema
del capitalismo» scritto qualche mese prima della presa del potere,
egli sostenne che l’imperialismo era la
vigilia della rivoluzione proletaria e che
la catena imperialista si sarebbe spezzata nel suo anello debole.
Ora, tutte queste tesi (1-
la possibilità del socialismo in un
solo paese; 2-lo
sviluppo ineguale dei paesi capitalistici
nell’epoca dell’imperialismo; 3-la guerra imperialista come inevitabile
vigilia della rivoluzione proletaria; 4-
la catena imperialista si spezza nel suo anello debole, tutte
queste tesi, dicevamo, si intrecciano fra di loro, sono, per così
dire l’una “complementare” dell’altra e danno vita ad una visione
organica della teoria della rivoluzione nell’epoca storica in cui è
vissuto Lenin, cioè nell’epoca dell’imperialismo.
L’articolo «Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa»
terminava, verso la fine, con queste parole:
«La forma politica della società nella
quale il proletariato vince abbattendo la borghesia sarà la
repubblica democratica che centralizzerà sempre più la forza del
proletariato di una nazione, o di più nazioni, per la lotta contro
gli stati non ancora passati al socialismo. Impossibile è la
soppressione delle classi senza la dittatura della classe oppressa,
del proletariato. Impossibile la libera unione delle nazioni nel
socialismo senza una lotta ostinata, più o meno lunga, fra
repubbliche socialiste e Stati arretrati».
Parole assolutamente profetiche che dimostrano quanto veritiere,
storicamente,si siano dimostrate. Lenin morì nel 1924, quando ancora
la neonata Unione Sovietica, per le distruzioni della guerra civile,
non aveva ancora raggiunto i livelli di produzione della vecchia
Russia zarista. Chi portò a compimento l’opera di edificazione
socialista fu Stalin. Stalin non fu un ordinario discepolo di Lenin,
ma un suo straordinario interprete. L’invasione della Russia
sovietica da parte di Hitler il 22 giugno del
1941 rappresentò una prova tremenda per l’URSS, dalla quale
quest’ultima uscì vittoriosa, al
prezzo dell’olocausto di 27 milioni di cittadini sovietici (militari
e civili, ma soprattutto civili) di tutte le nazionalità,
Si può senz’altro affermare che i pionieri dell’epoca storica del
socialismo furono Marx ed
Engels nel corso del XIX secolo e
Lenin e Stalin
nel corso del XX secolo.
Ritornando alle previsioni di Lenin di un secolo fa, possiamo dire
che il processo storico di avanzamento progressivo del comunismo nel
mondo si è realizzato attraverso una successione di «rotture della
catena imperialista» mondiale nei suoi «anelli deboli». Falliti,
all’indomani del trionfo dell’Ottobre, i tentativi di rivoluzioni
socialiste in Europa (Germania, Italia, Ungheria), queste rotture si
sono verificate, invece, dopo la
Seconda guerra mondiale, nell’Europa dell’est e poi,
successivamente, in Cina, Corea del Nord, Vietnam (a
Oriente) e Cuba (la rivoluzione cubana che ha resistito a
tutti gli innumerevoli tentativi di distruggerla da parte degli
Stati Uniti), il Cile di Allende, il Venezuela di Chavez-Maduro, il
Perù di Evo Morales (in Occidente) a cui
l’imperialismo ha risposto e sta rispondendo rabbiosamente «con una
lotta ostinata», con tutti i mezzi (Brasile, Argentina,Venezuela,
Cile, Perù).
La borghesia imperialista, che provocò la Prima guerra mondiale per
una nuova spartizione del mondo
(che già era spartito in «sfere d’influenza» tra vari paesi
capitalisti), dove si fronteggiavano, da una parte: gli Imperi
centrali (Germania, Austria-Ungheria, Impero Ottomano e Bulgaria) e
dall’altra: Francia, Gran Bretagna, Impero russo e Italia (e
successivamente gli Stati Uniti), queste potenze imperialiste
accantonarono momentaneamente i contrasti fra loro, e trovarono
l’unità sull’obiettivo di distruggere il potere comunista appena
nato. La Germania, gli Stati Uniti, l’Inghilterra, l’Italia ecc. non
solo invasero la Russia da ogni direzione, ma finanziarono e
armarono i generali russi controrivoluzionari Kolciak, Denikin e
Vrangel.
Tutto lasciava credere che la Russia socialista aveva le ore
contate: l’Armata Rossa, formata all’indomani della presa del potere
da parte dei Soviet, riportò la vittoria sulla controrivoluzione
interna e internazionale dopo una guerra feroce durata due anni che
portò morte e distruzione al popolo russo. La vittoria dell’armata
Rossa sbalordì il mondo. Questa vittoria dimostrò innanzitutto il
prestigio di cui godeva il Partito Bolscevico da parte di
tutte le nazionalità liberate
dall’oppressione nazionale che su di esse esercitava lo zarismo. Ma
quella vittoria dimostrò anche la potenza
internazionale della Russia Sovietica: gli operai
d’Inghilterra, di Francia e degli altri paesi che avevano
partecipato all’intervento, organizzavano scioperi, si rifiutavano
di caricare il materiale bellico destinato agli invasori e ai
generali bianchi, creavano dei “Comitati d’Azione” con la parola
d’ordine «Giù le mani dalla Russia!»
Già la Prima, e poi anche la Seconda guerra mondiale imperialista, a
differenza di moltissimi altri Paesi che subirono distruzioni e
genocidi sui loro territori, hanno costituito un colossale affare
per gli Stati Uniti. Questi ultimi sono diventati di gran lunga la
prima potenza economica e militare del Pianeta e hanno assoggettato
a sé il resto del mondo imperialista (cioè L’Europa e il Giappone).
La potenza termonucleare degli Stati Uniti che sembrava
irraggiungibile fino a qualche decennio fa risiedeva nel fatto che
aveva ed ha basi atomiche in tutto il mondo e flotte militari in
tutti gli Oceani. Gli Stati Uniti vorrebbero controllare e dettar
legge in tutto il globo terraqueo. Di fronte al potere di un
qualsiasi presidente della Casa Bianca, Hitler può essere
considerato un boy scout. La casta militare e i detentori
dell’industria bellica controllano, di fatto, le istituzioni
politiche statunitensi, dalla Casa Bianca al Senato, alla Camera dei
Rappresentanti. Il sistema elettorale che ha ormai una solida
tradizione plurisecolare e rende praticamente impossibile che i due
Partiti (Democratico e Repubblicano) siano insidiati da altri
partiti, produce esso stesso un personale politico che si identifica
totalmente nelle scelte guerrafondaie dei cosiddetti “Poteri forti”.
Per questi motivi gli Stati Uniti sono assimilabili
a una sorta di Quarto Reich che però, a differenza del Terzo Reich, si
manifesta come un sistema fondato sulla democrazia e la libertà. Dal
secondo dopoguerra ad oggi la sua politica bellicista in Corea, Vietnam,
Irak, Libia, Siria ecc. ha già provocato oltre 20 milioni di morti.
Ma l’assoluta novità storica che siamo vivendo
nella nostra epoca, è che si è ri-costituito
un fronte antimperialista mondiale che non ha più la forma del “Campo
socialista” costituito dall’URSS di Stalin e dalla RPC di Mao e dai
Paesi dell’Europa dell’Est. Il ri-costituito
Fronte antimperialista mondiale è oggi guidato dalla Russia di Putin e
dalla Repubblica popolare cinese che hanno dato vita al
BRICS (Brasile Russia India Cina Sud Africa)
attrattivo di tutti i paesi d’Oriente, d’Africa e dell’America Latina
sfruttati e minacciati in ogni modo dall’imperialismo. Ma con
l’apparizione del BRICS (a guida RPC e Russia), il sistema imperialista
(con gli Stati Uniti assolutamente dominanti su Europa e Giappone) è
definitivamente caduto in una crisi irreversibile
sul piani politico, economico e militare, crisi che si
approfondirà sempre di più.
La Russia di Putin non è la Russia di Gorbaciov e
di Eltsin. Questi due ultimi nefandi personaggi, che si apprestavano ad
essere gli esecutori testamentari di Krusciov, erano pronti a svendere
gli interessi del popolo sovietico agli Stati Uniti. Putin, al
contrario, ha interpretato lo stato di frustrazione del popolo e delle
Forze Armate in seguito alla fine ignominiosa dell’URSS. Egli ha rimesso
in piedi la ricerca scientifica e militare di epoca sovietica ed
ha superato di gran lunga, in tecnologia militare,
gli Stati Uniti. La CIA che spia tutto il mondo non si è accorta che
proprio il nemico tradizionale degli Stati Uniti, la Russia, stava
sopravanzando, militarmente, gli Stati Uniti. I missili
intercontinentali ipersonici russi e i suoi sottomarini a propulsione
atomica sono initercettabili, ciò
significa che lo Scudo Spaziale voluto da Reagan per inseguire il sogno
della definitiva invulnerabilità del suo Paese si è rivelato una
chimera. La stretta alleanza politica, economica e militare fra Russia e
Repubblica Popolare Cinese ha reso ancora più potente il fronte
anti-imperialista mondiale.
Per questi motivi, gli Stati Uniti sono in grave
crisi: saranno costretti a sedersi di nuovo
al tavolo delle trattative con la Russia, e il tempo giocherà a
favore dei fattori di rivoluzione (soprattutto negli Stati Uniti) che
fermeranno la guerra. Ma se la Casa Bianca e il Pentagono tenteranno la
carta del first strike (eventualità che
non può essere esclusa) vi saranno
centinaia di milioni di morti, ma l'intera umanità non sarà annientata,
sarà annientato definitivamente l'imperialismo,
e tutto il mondo entrerà nell'epoca della pace perpetua e del comunismo
.
Ripetiamolo ancora una volta: dalla rivoluzione
d’Ottobre del 1917 (non parliamo della Comune di Parigi del 1870
affogata nel sangue, ma delle rivoluzioni che hanno conseguito la
vittoria), si è aperta un’epoca di successive rotture della catena
imperialista mondiale. Tutto questo progressivo avanzamento di
rivoluzioni socialiste e antimperialiste diverse l’una dall’altra
(perché la Storia è infinitamente più creativa di qualsiasi schema
rigido) sono state accompagnate da un revisionismo che si è
anch’esso adattato, per così dire, allo
svolgersi di queste rivoluzioni nel tempo, a partire dall’Ottobre. Il
primo e più criminale detrattore della rivoluzione russa è stato Trotsky,
il quale, proprio perché antagonista irriducibile di Stalin, ha avuto
credito sulla stampa mondiale (soprattutto quella statunitense) alla
quale ha fornito un’infinità di argomenti antisovietici); ciò che ci
induce a ritenere che fu un grave errore dei bolscevichi averlo mandato
in esilio. Un altro che ha offerto su un piatto d’oro argomenti contro
Stalin è stato l’altrettanto criminale Krusciov. E potremmo dire che
tutti i messaggi revisionisti contro le rivoluzioni vittoriose, quale
più quale meno, quale più dichiarato o più guardingo e astuto, hanno
avuto tutti la caratteristica
dell’antistalinismo, di elevare alle stelle Lenin per abbattere Stalin.
Il vecchio (Kautsky) e il nuovo (Krusciov)
revisionismo hanno svolto la funzione di spegnere l’ottimismo
rivoluzionario fra la classe operaia, di disorientarla, di «educarla »
all’inevitabilità della sconfitta. Il revisionismo ancora più «moderno»
e marpione, quello di Togliatti, si è manifestato sotto la forma di un
incensamento assoluto e dissennato della Repubblicanatadallaresistenza;
dello Stato al di sopra delle classi; della Costituzione e dei Padri
costituenti; dell’amnistia ai fascisti; dell’ignominioso voto favorevole
all’articolo 7 della Costituzione che ha accolto in essa tutti i
vergognosi privilegi che il «duce» concesse al Vaticano con i Patti
Lateranensi. Il togliattiano incensamento dell’Unione Sovietica
kruscioviana servì a illudere gli operai sulla possibilità di arrivare
al potere senza guerra civile, ma comodamente, attraverso le cosiddette
«riforme di struttura». Tutta questa schifosa paccottiglia
controrivoluzionaria il «Migliore» l’ha chiamata, senza vergogna «via
italiana al socialismo».
C’è ancora da dire una cosa su Togliatti: egli ha
strumentalizzato Antonio Gramsci per fare del grande rivoluzionario
sardo, il nume tutelare della sua «via italiana al socialismo». Gli
intellettuali che si sono messi al suo servizio (Spriano, Gerratana,
Ragionieri,,…) e sui quali Togliatti deve avere certamente esercitato
uno stretto controllo ideologico (nel senso di non far
mai perdere loro la
finalità politica della ricerca) hanno pescato nel mare magnum
dei Quaderni del Carcere, andando a spulciare tutte le citazioni utili
al loro scopo, e tra queste, massimamente, quelle su cui spesso si
sofferma Gramsci riguardanti «la guerra di
movimento e la guerra di posizione» , per concludere che in
Russia era più facile prendere il potere per via rivoluzionaria di
quanto non lo fosse in un contesto di capitalismo “avanzato” come quello
italiano. Per cui occorreva un’altra
strategia, più «complessa», dove l’egemonia
prendeva il posto della rivoluzione
e i tempi si allungavano indefinitamente. (A tal riguardo scrissi un
articolo nel settembre 2013 che intitolai
«L’obbrobriosa manipolazione ai danni di un
grande rivoluzionario»-reperibile
sul web- in cui illustrai passo dopo passo le mistificazioni escogitate
dai vari Spriano, Gerratana etc. per piegare il pensiero di Gramsci ai
tempi lunghi, indefiniti, secolari di una trasformazione socialista in
situazioni «complesse» come la nostra.)
Con Berlinguer le cose, se possibile, sono
peggiorate: siccome era cessata la cosiddetta «forza propulsiva»
dell’Urss, egli fece la sua scelta di campo imperialista: ritirò la
parola d’ordine fuori la Nato dall’Italia e disse addirittura di«sentirsi più sicuro sotto l’ombrello Nato».
Grazie a questa gente il PCI è scomparso, i loro esecutori testamentari
sono stati tre mostri sotto forma di insetti kafkiani,
ochettodalemaveltroni, che via via hanno prodotto lo sconcio del PD del
cerebroleso Renzi. Sembrò, a molti del popolo comunista votante, che la
coraggiosa svolta di Cossutta salvasse la bandiera rossa con falce e
martello, ma non fu così. Bertinotti a cui Cossutta,
autolesionisticamente offrì la direzione di Rifondazione, si dimostrò un
antistalinista assatanato forse peggio di Trotsky, che scisse il
partito. L’altro partito che nacque dalla scissione, il PdCI, perse
definitivamente credibilità per la partecipazione alla guerra
imperialista alla Yugoslavia (Diliberto dilibomber era Ministro di
Grazia e Giustizia nel governo d’Alema e Rizzo capogruppo alla Camera).
Conclusione: questi due partiti sono definitivamente scomparsi dal
parlamento non perché sequestrati,
processati e mandati al confino (come all’epoca fascista)
ma perché, inorridita e delusa, la classe operaia li ha
abbandonati.
In tempi più recenti, un compagno che acquisì, in
vita, un grande prestigio internazionale come marxista leninista,
Domenico Losurdo, ha finito col dare una mano anche lui, purtroppo, a
smantellare le “certezze” storiche del comunismo contribuendo, alla
stregua dei togliatto-berlingueriani, a diffondere pessimismo a piene
mani sulla prospettiva di una rivoluzione socialista in Italia. Egli,
nel 1997 scrisse un libro: «Antonio Gramsci, dal
liberalismo al “comunismo critico” » (che è possibile acquistare
sul web per meno di 15 euro), un libro che egli non ha mai rinnegato e
che i compagni dovrebbero leggere. A differenza dei revisionisti
«storici» che sono stati più cauti nella «decostruzione» del marxismo
(perché comunque avevano come riferimento milioni di operai quindi erano
obbligati ad essere più cauti e meno espliciti), Losurdo, invece, avendo
una consolidata fama di un rivoluzionario, ha attaccato apertamente uno
dei capisaldi della teoria di Marx ed Engels, quella riguardante
l’estinzione dello stato (per Losurdo lo
Stato esisterà sempre, nei secoli dei secoli).
Dice inoltre che in Marx sono riscontrabili due teorie della
rivoluzione, una «grevemente (!)
meccanicistica»perché «vede la rivoluzione socialista
come conseguenza immediata e automatica (!)
del compiersi del processo di accumulazione
capitalistica»; della seconda presunta teoria marxiana della
rivoluzione dice: «Altrove Marx fa discendereinvece (!)
dall’acutizzarsi della contraddizione tra forze produttive e rapporti di
produzione non una singola rivoluzione, bensì ‘un’epoca di rivoluzione
sociale». Losurdo critica irrimediabilmente anche il leninismo
(accomunandolo al marxismo, ambedue accusati di vicinanza
all’anarchismo) in questi termini: «Oltre al fine
dell’estinzione dello Stato, marxismo leniniano e anarchismo sembrano
avere in comune anche la visione meccanicistica dell’ordinamento
giuridico e politico moderno come semplice (!)
sovrastruttura dell’economia capitalistica e del dominio borghese».
Quando parla di Gramsci, Losurdo va addirittura
oltre l’immagine che ne hanno dato i
togliattiani. Per dare maggior forza alla sua critica al concetto
dell’estinzione dello Stato, eleva Gramsci alle stelle e arriva a dire
che il rivoluzionario sardo, nella polemica contro l’anarchismo «va
ben al di là di Marx e Engels». Tira fuori una citazione dai
Quaderni (avulsa dal contesto in cui Gramsci la scrisse) e sintetizza
così: «Secondo Gramsci,il passaggio dal
capitalismo alla ‘società regolata’, cioè al comunismo, ‘durerà
probabilmente dei secoli’». Ed ecco Gramsci trasfigurato in un
rivoluzionario “concreto” che dice alla classe operaia: perdete ogni
speranza o voi che credete nella rivoluzione, bisogna aspettare ancora
secoli e secoli…(Ho descritto in due parole e in quattro citazioni il
contenuto del suddetto libro di Losurdo, per questo motivo avverto i
compagni che nell’ottobre del 2003 scrissi un lungo articolo polemico,
in cui difendevo Marx, Engels, Lenin e Gramsci da ciò che Losurdo
attribuiva loro. All’articolo diedi il titolo: «Stato
e rivoluzione di Lenin, Stato e trasformazione di Losurdo»che è anch’esso reperibile sul web).
M anche oggi si sta ravvivando (fortunatamente con
scarse -si spera- prospettive di successo) un nuovo revisionismo ancora
un po’ più “moderno” ma sicuramente meno dannoso dei precedenti: quello
di Giulietto Chiesa e di Moreno Pasquinelli. Abbiamo seguito su youtube
un video dove questi due, intervistati, trovano il modo di vomitare
veleno e di lanciare micidiali messaggi di pessimismo catastrofista su
tutte le vicende dei paesi che hanno raggiunto in epoche successive,
dopo lotte eroiche, il socialismo (e fra questi la Russia e la Cina che
insieme, per popolazione ed estensione geografica costituiscono mezzo
mondo). Pasquinelli, ad un certo punto, quasi scusandosi con Chiesa (per
il quale manco a parlarne di socialismo), dice che lui è per il
socialismo, non quello storico, per amor
del cielo! ma per “una nuova idea di socialismo
che non ha nulla a che vederecon tutti
quelli esistenti e esistiti”. Avverte che “un
grande sforzo teorico profondo dobbiamo fare” “dobbiamo trovare una
narrazione (??) o una nuova ideologia”.
Dice di far parte di un “pensatoio”
(sic!) e che “una grande riforma morale e
intellettuale implica uno studio profondo e questo non è consentito a
tutti ma solo a coloro che dedicano una vita allo studio”
(modestia a parte). Giulietto Chiesa (di
cui bisogna diffidare perché è un transfuga del comunismo) è sulla
stessa lunghezza d’onde: “Milioni di persone
avvertono la situazione di inquietudine (allude alle
manifestazioni dei verdi scesi in piazza per manifestare contro i
disastri ambientali prodotti dall’industria ecc. in seguito alle denunce
all’ONU di Greta (che Chiesa definisce una “sub-normale”)
evogliono liberare
se stessi…Un grande pubblico totalmente digiuno delle questioni di cui
stiamo parlando. Quindi un grande pubblico (televisivo e anche del web)
imprigionato dentro una trappola”. Noi dobbiamo indicare quali sono le
strade per uscire dalla gabbia….Se non creiamo un’altra teoria di questa
società…non ci potrà essere nessun cambiamento…occorre una rivoluzione
intellettuale e morale”. Quindi come si vede, anche questi due
“Salvator mundi” giunti fuori tempo massimo ad esorcizzare lo scontro
rivoluzionario fra classi antagoniste, ricorrono a banalità del tipo
“rivoluzioni intellettuali e morali”.
Per concludere. I revisionisti di ogni specie, di
ogni genere e di ogni epoca, nell’iniettare pessimismo e assenza di
prospettive nella storia secolare del comunismo che si è calato nella
realtà della lotta irriducibile tra ricchi (pochissimi) e poveri (masse
sterminate), commettono un crimine propagandistico non dissimile da
quello della propaganda anticomunista che quotidianamente (per ovvi
motivi di convenienza politica e ideologica) la borghesia attua. Questo
tipo di messaggi della necessaria, fatale, inevitabile sconfitta di chi
imbraccia le armi per “mettere le cose a posto” sul nostro pianeta
assomiglia molto da vicino alla religione, la quale contrappone il mondo
inesistente dell’aldilà a quello reale, storico, in cui è immersa
l’umanità. Ma se la religione promette alla povera gente il Paradiso, i
revisionisti, essendo “laici” prospettano un futuro luminoso senza crisi
rivoluzionarie, un futuro che non ha più bisogno della guerra vivile, un
futuro del tipo: via italiana al socialismo” (Togliatti), eurocomunismo
(Berlinguer), rivoluzioni intellettuali e morali (degli ultimi arrivati
Chiesa-Pasquinelli).
A proposito di storia sovietica importanti contributi
sono venuti dai seguenti storici anglosassoni, docenti di prestigiose
università, che hanno attinto alle fonti documentarie, accessibili dopo
la perestroika e il crollo dell’URSS.
Ho letto con qualche fatica in inglese i seguenti volumi
e articoli.
S. Fitzpatrick The cultural front. Power and
revolutionary Russia Cornell University Press 1992
S. Fitzpatrick Educational level and social mobility
in Soviet Union 1921-1934 Cambridge University Press 1979
J A Getty Origin of great purges: the soviet
communist party reconsidered 1933-1938 Cambridge University Press 1999
J A Getty R T Manning Stalinist terror: new
perspectives CambridgeUniversityPress 1993
S G Wheatcroft Toward explaining the changing levels
of Stalinist repression in 1930s. mass killing Europe-Asia studies
51;113-145.1999
S G Wheatcroft Victims of Stalinism and the Soviet
Secret Police. The comparability and reliability of archival data. Not
the last word Europe-Asia Studies 51; 515-545, 1999
R W Davies M Harrison, S G Wheatcroft The economic
transformation in Soviet Union 1914-1945 Cambridge University Press 1994
Poiché è mia abitudine documentarmi in modo imparziale
aggiungo che ho letto i seguenti libri sulle vicende sovietiche di
vittime delle repressioni o di autori anti sovietici o di oppositori di
Stalin:
L’arcipelago gulag di Solzhenitzin, Il
grande terrore di R.Conquest, Lo Stalinismo di R. Medvedev,
Il lungo terrore di F. Bettanin, L’epoca e i lupi di
N. Mandelstam, Ho amato Bucharin di Anna Larina, moglie di
Bucharin, Il redivivo tiburtino di D. Corneli, Viaggio
nella vertigine di Natalia Ginsburg. Ho letto anche la biografia di
Bucharin di Stephen Cohen e buona parte delle opere di Trotzki, in
particolare Lamia vita, La rivoluzione tradita,
Storia della rivoluzione russa.
Va precisato che le opere di Conquest, Medvedev, Bettanin
e Solzhenitsin sono state scritte e pubblicate prima dell’apertura degli
archivi dello stato sovietico e in particolare degli organi giudiziari e
del KGB, responsabili della repressione e delle condanne degli
oppositori veri o presunti del regime; esse, soltanto per questo, sono
largamente inattendibili, in quanto non fondate su adeguata
documentazione.
Prima ancora che si arrivasse ad una corretta
documentazione a me parvero scarsamente fondate le cifre dei suddetti
autori sulle vittime del comunismo in URSS, spesso usate dai corifei del
sistema capitalistico per liquidare, con la condanna dell’esperienza
sovietica, ogni progetto e velleità di proposta alternativa alla società
capitalistica.
Del resto basta riferirsi ai due censimenti, quello
tenuto segreto del 1937 e quello reso pubblico del 1939 per rendersi
conto delle falsità insostenibili dei Conquest, Medvedev ecc.
Nel 1937 (gennaio) il censimento indicò in 162.000.000 la
popolazione dell’URSS; nel 1926 (dicembre) il censimento dette la cifra
di 147.000.000.
Questo significa che in quel periodo la popolazione
crebbe dello 1,02 %° l’anno, incremento identico a quello italiano e
superiore al contemporaneo incremento medio annuale di Francia,
Inghilterra e Germania.
Il censimento del gennaio 1939 indicò in 170.000.000 la
popolazione dell’URSS; secondo attendibili fonti la cifra è tropo alta e
va ricondotta a 168-169.000.000.
Anche accettando le cifre più base abbiamo un incremento
medio rispetto al 1926 (dicembre) del 1,42%°, nettamente superiore a
quello degli altri paesi dell’Europa occidentale.
La popolazione dell’URSS nel 1939, sempre accettando la
cifra più bassa, incideva sul totale della popolazione mondiale per il
7,77 % (1919 7,50%); nello stesso periodo (1919-39) la Francia passa dal
2,17 al 1,91, la Germania dal 3,33 al 3,13, il Regno Unito dal 2,39 al
2,13, l’Italia dal 2,11 al 2 ( malgrado la campagna demografica del
fascismo), gli USA dal 5,84 al 6 e il Giappone dal 3,03 al 3,05.
Le cifre sono tratte dal I volume dell’opera di Mario
Silvestri La decadenzadell’Europa occidentale Einaudi
ed.
Bastava leggere i numeri per rendersi conto che le cifre
dei repressi e delle vittime sono state addirittura decuplicate, in
alcuni casi, nei vari libri neri, al punto che lo stesso coautore del
Libro nero del comunismo, Nicholas Werth, ha dovuto rettificare
al forte ribasso le cifre gonfiate presenti nell’opera, come
riconosciuto da lui stesso in un articolo dei primi annni ’90 sulla
rivista L’Histoire
Sia chiaro: nessuno vuole giustificare quanto di
eccessivo e di arbitrario vi fu nelle repressioni che accompagnarono il
primo tentativo di costruzione di una società socialista. Più in
generale, da un punto di vista laico, che non concede illusioni,
speranze o timori di vite diverse da quella che viviamo su questa terra,
il bene più prezioso è la vita. Aggiungo che la consapevolezza del suo
valore aumenta con la vecchiaia, quando le delusioni hanno smorzato
molti eroici furori e la meta finale è sempre più vicina, fermo restando
che esistono valori e principi per i quali comunque la vita può e deve
essere messa in gioco.
Resta il fatto che la storia è percorsa ininterrottamente
dalla violenza, costantemente impiegata dalle classi dominanti sulle
classi oppresse, e che le vittime delle rivoluzioni sono a conti fatti
ben poca cosa rispetto alle tragedie di massa e plurisecolari provocate
dalle guerre, dalla povertà, dalla sottoalimentazione, dalle inumane
condizioni di lavoro, dalle emigrazioni, dal colonialismo e dalle
conquiste a spese di intere popolazioni, che hanno costellato la lunga
storia delle società divise in classi.
E’ lecito chiedersi se i colpi , peraltro spesso
inefficaci, dei catenacci garibaldini a Calatafimi fossero meno omicidi
delle fucilate borboniche o se i colpi molto più efficaci delle
artiglierie nordiste fossero meno violenti delle repliche sempre più
fioche dei soldati della confederazione sudista: certo è che, anche
sfrondando quelle vicende dalla retorica inevitabilmente connessa, non
posso fare a meno di schierarmi con i garibaldini e con Lincoln; senza
quelle violenze i neri sarebbero rimasti schiavi e l’ottusa monarchia
borbonica avrebbe continuato a tenere fuori dal consorzio civile le
genti del meridione d’Italia, checchè dicano i nostalgici di Re Bomba e
di Franceschiello.
Questo non ci impedisce di guardare con rispetto ed
ammirazione agli ultimi difensori di Gaeta o al bravo generale Lee, che
con forze nettamente inferiori tenne in scacco e battè più volte i
generali nordisti.
Va detto anche che libri neri furono scritti anche sul
Risorgimento (De Sivo, Buttà) e sulla fine del regno delle Due Sicilie e
ovviamente non senza dati di fatto e qualche buona ragione. Anche in
questo caso le cifre furono usate per attribuire ai vincitori orrori e
nefandezze di ogni genere; storici borbonici parlano di un milione di
morti su una popolazione di 9.000.000 di abitanti del regno,
comportandosi come i Pansa e i Conquest a proposito della Resistenza e
della storia dell’URSS.
Si tratta evidentemente di cifre inaccettabili; tuttavia
è certo, e documentato dagli stessi proclami e bandi dei vari Pinelli,
Cialdini, La Marmora, dalle leggi eccezionali emanate dal neonato Regno
d’Italia, dalla sospensione delle garanzie costituzionali, dal brutale
trattamento dei prigionieri di guerra napoletani, che la repressione
delle insorgenze delle popolazioni del sud contro lo stato italiano,
sbrigativamente classificate come brigantaggio, fu durissima e feroce.
Episodi come la fucilazione degli ultimi difensori di Civitella del
Tronto, dove dopo Gaeta si ammainò l’ultima bandiera borbonica, da parte
dei vincitori sono una delle tante pagine nere del nostro risorgimento:
E se non ci fu 1.000.000 di vittime, certamente il numero dei fucilati
superò i 100.000.
Dopo questa lunga ma non inutile digressione è tempo di
tornare alla storia delle repressioni che accompagnarono la
contraddittoria e complessa vicenda sovietica, cercando di rispondere ai
seguenti quesiti: quanti furono i condannati dagli organi giudiziari di
vario tipo (troike, tribunali ordinari, polizia politica, tribunali
militari), quali categorie furono particolarmente colpite e quali furono
le dinamiche politiche, istituzionali, sociali alla base delle
repressioni.
Gli storici russi Zemskov, Dugin e Klevniuk hanno potuto
disporre dei dati di archivio, e comunicarli in numerosi articoli e
libri; specialmente informato e rigoroso il primo, membro dell’Istituto
di storia dell’Accademia delle Scienze Russa; egli ha pubblicato le sue
ricerche nei primi anni ’90, alla fine e dopo il crollo dell’URSS,
avendo accesso agli archivi del Ministero dell’interno (MVD-KGB), del
precedente commissariato del popolo agli interni (NKVD), della polizia
di stato (OGPU-NKVD), degli organi giudiziari.
Le cifre complessive furono pubblicate da Zemskov, Getty
e Rittesporn in AmericanHistorical Revue. giugno 1994
Dal 1921 al 1953 furono condannate per attività
controrivoluzionaria circa 4.000.000 di persone, delle quali 780.000
furono fucilate; nei campi di lavoro, colonie penali e prigioni morirono
600.000 detenuti politici. Si possono calcolare pertanto in 1.400.000 i
morti per motivi politici nell’URSS dalla fine della guerra civile alla
morte di Stalin.
Sono come è evidente cifre pesanti, ma ben lontane da
quelle riferite dai vari Conquest, Medvedev, Solzhenitzin, che oscillano
tra 10.000.000 e 40.000.000 milioni di esecuzioni.
Nel sistema penale sovietico i condannati potevano, nei
casi più gravi, essere inviati nei campi di lavoro forzato (Gulag), per
reati meno gravi nelle colonie di lavoro, dove i condannati erano
impiegati nelle fabbriche o nell’agricoltura e percepivano un regolare
salario, o in particolari zone di residenza con proibizione di risiedere
in alcune città, in genere Mosca o Leningrado. In quest’ultimo caso
godevano in genere dei diritti politici; in attesa della sentenza gli
accusati erano tenuti nelle prigioni.
Il totale dei condannati nei Gulag oscillò tra un minimo
di 510.000 nel 1930 a un massimo di 1.711.202 nel 1952.
I condannati presenti nei Gulag, colonie di lavoro e
prigioni oscillarono fra 1.335. 032 del 1944 e 2.561.351 del 1950.
Mancano i dati complessivi fino al 1939, quando si raggiunse la cifra
generale di 2.000.000.
Le cifre, drammatiche, ma di gran lunga inferiori a
quelle proposte da “storici” di parte e privi di documentazione, debbono
essere completate dai dati sulla mortalità e meritano qualche commento.
La mortalità generalmente oscillante intorno al 3% annuo toccò punte
elevate nel 1942 e 1943, 17%, durante il periodo bellico, quando anche
le condizioni alimentari, igieniche, di salute della popolazione civile
peggiorarono drammaticamente. Al tempo stesso la popolazione dei Gulag
diminuì drasticamente, perché molti condannati furono arruolati
nell’esercito.
Il forte incremento degli anni postbellici è in parte da
attribuire alla presenza di prigionieri di guerra, condannati per
diserzione e collaborazione con gli occupanti tedeschi
E’ comunque interessante notare che la popolazione
detenuta nel suo complesso arrivò a toccare al massimo il 2,4% della
popolazione adulta; nel 1996 erano detenuti negli USA 5.500.000 persone
cioè il 2,8% della popolazione adulta.
E’ appena il caso di sottolineare che si tratta di due
situazioni completamente diverse: da una parte un paese uscito da una
guerra mondiale e civile, combattute sul suo territorio, sede di un
drammatico rivolgimento sociale, impegnato in una lotta mortale per la
sopravvivenza, prima con un gigantesco sforzo di edificazione economica
e culturale , poi in una guerra vittoriosa a prezzo di immense perdite
materiali e umane; dall’altra il paese più ricco e tecnologicamente del
mondo , che pur partecipando alle due guerre mondiali, non ebbe un
centimetro quadrato toccato dal nemico, soffrì perdite umane di gran
lunga inferiori e trasse non pochi vantaggi economici dalle guerre
stesse.
Le statistiche, finalmente disponibili, ci dicono anche
che la grande maggioranza dei condannati (80-90%) riceveva pene
inferiori a 5 anni, meno del 1% superiori a 10.
Vanno anche ricordati i provvedimenti di amnistia, i più
larghi dei quali, che interessarono oltre un milione di detenuti, nel
1945 e nel 1953.
Credo che qualunque paragone con i campi di
concentramento nazisti sia un offesa alla verità; lì i deportati erano
destinati, se ebrei, rom o di razze considerate inferiori, a morte
certa; nessun tribunale aveva decretato la loro condanna; le pene non
prevedevano un termine, non c’erano amnistie; non c’era la possibilità
di revisione della condanna e di riabilitazione, come, anche in epoca
staliniana avvenne per non pochi condannati: per quanto dure potessero
essere le condizioni nei campi sovietici, e mi riferisco alle memorie di
Ginsburg, Larina, Corneli, Solzhenitsin, non erano paragonabili a quelle
dei lager nazisti.
Non era infrequente che condannati che avevano scontato
la pena restassero a lavorare come liberi nelle strutture produttive dei
campi o nelle colonie di lavoro.
Infine i politici rappresentarono costantemente non più
del 25-30% dei condannati.
Prima di procedere ulteriormente nella nostra analisi
credo necessaria qualche premessa.
La rivoluzione russa scoppia nell’anello più debole del
sistema capitalista-imperialista, nel mezzo di una guerra mondiale,
caratterizzata da immani perdite umane e materiali; alla fine del I
conflitto mondiale si contarono 10.000.000 di caduti, ai quali si
debbono aggiungere almeno il doppio di feriti e mutilati. Come
conseguenza della guerra e delle precarie condizioni igieniche e
alimentari di larga parte della popolazione mondiale oltre 20.000.000 di
persone morirono per la pandemia influenzale “spagnola”.
Fu una rivoluzione contro “il Capitale”, secondo la
definizione che ne dette acutamente Gramsci, intendendo con ciò che la
rivoluzione, vincitrice in un paese con poche isole proletarie in un
paese in gran parte contadino, aveva smentito le previsioni marxiste di
vittoria del socialismo nei paesi industrialmente più avanzati e
tecnologicamente progrediti con un numeroso ed evoluto proletariato.
Nella stessa Russia la rivoluzione d’ottobre, malgrado la
vulgata e la mitologia sovietiche, non fu maggioritaria, anche se fu
genuinamente proletaria.
I bolscevichi ebbero la maggioranza nei soviet degli
operai e dei soldati, ma non nell’intera popolazione, come
testimoniarono le elezioni per l’assemblea costituente tenutesi nel
gennaio 1918, pochi mesi dopo la presa del potere dei bolscevichi.
Questi ebbero circa il 25% dei voti, contro circa il 50%
dei socialisti rivoluzionari (in gran parte) e menscevichi ; il resto
andò a partiti di destra e partiti delle minoranze nazionali.
Lenin dedicò un’analisi attenta alle elezioni, rilevando
che nelle due capitali, Mosca e Pietrogrado e in generale nei centri
industriali i bolscevichi avevano la maggioranza assoluta dei voti,
nell’esercito circa il 40-45% pressappoco come i socialrivoluzionari, a
loro volta divisi in una sinistra, che si alleò con i bolscevichi e una
destra contraria al potere sovietico, uscito dalla rivoluzione
dell’ottobre 1917. La gran massa contadina votò per i socialisti
rivoluzionari.
La guardia rossa sciolse l’Assemblea costituente alla
fine della sua unica seduta.
Dunque fin dall’inizio il potere si dovette confrontare
con una realtà se non ostile certamente con molte riserve; i contadini
avevano avuto la terra con l’Ottobre e durante la guerra civile finirono
con appoggiare o comunque non osteggiare i rossi, ma non di rado
distinguevano nella loro confusione tra bolscevichi che avevano dato le
terre e comunisti che requisivano con la forza il grano per nutrire
operai e soldati rossi.
Altro elemento di debolezza e fonte di problemi e
difficoltà fu il carattere sostanzialmente russo dell’ottobre; in
Ucraina i bolscevichi ebbero il 10% dei voti; in Georgia la maggioranza
era menscevica; nell’oriente musulmano i bolscevichi erano rappresentati
in gran parte da operai e intellettuali russi.
In sostanza le basi del potere erano operaie e, dal punto
di vista nazionale, russe, anche se nel partito bolscevico erano
presenti ai vertici molti esponenti delle nazionalità non russe dai
georgiani (Stalin, Ordzhonikidze), ai polacchi (Dzerzhinski) agli armeni
(Mikoian), ai Lettoni (Latsis, Peterson, Kollontaj) agli ebrei (Trotzki,
Zinoviev, Kamenev, Kaganovich).
Ovviamente non mi scandalizzo: rivoluzioni altrettanto
decisive nella storia mondiale ebbero il sostegno di minoranze più o
meno numerose e la neutralità diffidente, se non l’ostilità, della
maggioranza; basti pensare alle fragili basi popolari del nostro
Risorgimento (i plebisciti furono non meno falsi delle elezioni pro URSS
nei paesi baltici nel 1939), o al sostegno sostanzialmente minoritario
di Kemal Ataturk o al contrasto fra la Parigi dei giacobini e dei
comunardi e il resto di buona parte della Francia. Purtroppo bisogna
ammettere che, sia pure in un clima di violenze, i nazisti nel 1933 e
Mussolini nel 1924 godettero di un consenso elettorale spontaneo
superiore a quello dei bolscevichi nel 1918.
Come disse Robespierre la virtù è stata sempre minoranza
e i “virtuosi” non possono venir meno al dovere di esercitare (spesso
rudemente) le loro virtù.
Mi sono molto allontanato dal tema delle repressioni
nella lunga vicenda dello stato sovietico ma ritengo utile questa
premessa per cercare di capire, che non significa giustificare ciò che è
stato e che, in non pochi casi, non può essere giustificato.
La rivoluzione aveva vinto in un paese dove
l’analfabetismo toccava mediamente il 70%, la produzione industriale era
nel 1926 inferiore ai bassi livelli prebellici del 1913, in alcuni casi
(acciaio, petrolio) inferiore del 50% e le illusioni su una prossima
rivoluzione in occidente definitivamente svanite.
Ancora una volta si poneva il drammatico interrogativo
che per altri motivi si era posto Lenin:”Che fare?”
La scelta del gruppo dirigente, e in particolare di
Stalin, come nell’ottobre, fu un atto di volontà e di fede, cioè la
rapida, forzata industrializzazione con il proposito di modernizzare il
paese, di garantirne la potenza militare e il progresso tecnico,
culturale, scientifico: il tutto, malgrado i buoni propositi e le
enunciazioni ufficiali, a spese di una cospicua componente della classe
contadina.
Il processo fu tumultuoso e disordinato, largamente
caratterizzato da volontarismo e inesperienza; il fine fu
complessivamente raggiunto, con una conclusione che vide
contemporaneamente l’ascesa di vecchi e nuovi operai, di un’intellighentsia
di origine operaio-contadina, che affiancò e sostituì la vecchia
intellighentsia prerivoluzionaria, e che costituì la base di consenso,
insieme con operai vecchi e nuovi, del regime. Diversa fu la sorte della
classe contadina, che , seppure godette di alcuni vantaggi (istruzione,
sanità), e per la parte povera anche economici, nell’insieme pagò il
tributo fondamentale al rapido, tumultuoso balzo in avanti dei due primi
piani quinquennali 1929-1938.
Il cammino percorso può essere indicato dalle seguenti
cifre tratte da Huntington “Lo scontro delle civiltà”; la produzione
manifatturiera della Russia incideva nel 1913 su quella mondiale per
circa l’8%, nel 1928 per circa il 5%, nel 1938 per il 9%.
Al tempo stesso si ebbe una rapida ascesa della classe
operaia verso posizioni di direzione politica, tecnica, amministrativa:
nel partito gli operai passarono dal 56 al 65% dal 1927 al 1932 (Rigby
Il partito comunista sovietico Feltrinelli 1977), mentre i
meccanismi promozionali rappresentati dalle rabfak (facoltà operaie),
dalle scuole di fabbrica e professionali, dai tecnicum, che bypassavano
le scuole medie superiori, portarono all’assunzione di ruoli dirigenti,
soprattutto nelle attività produttive, da parte di una neonata
intellighentsia operaia.
L’idea generalmente diffusa di un partito ferreo,
monolitico, perfettamente organizzato, diretto con fredda determinazione
dall’alto e in particolare da Stalin deve cedere il passo ad una diversa
realtà. Si deve allo studioso americano M.Fainsod, in possesso degli
archivi della federazione di Smolensk del PCUS, pervenutigli dai
tedeschi, uno studio di quella, che con ogni probabilità era la
situazione organizzativa generale del partito. Il disordine era grande:
tessere non consegnate, trasferimenti di iscritti non registrati,
elenchi degli iscritti incompleti o tenuti in modo negligente, tessere
di defunti ancora in possesso dei familiari, che le utilizzavano per
fini privati, quote di iscrizione non riscosse, e frequenti denunce di
abusi e malversazioni dei boss locali.
Nelle periodiche epurazioni, incruente e generalmente
attuate in pubbliche riunioni davanti alle assemblee di cellula, la
causa più frequente di espulsione era l’ubriachezza, seguita da reati di
natura penale e amministrativa.
Il mitico ferreo partito di Lenin era piuttosto lontano
dal modello preconizzato dal suo fondatore e di un metallo molto più
molle di quello evocato dal nome di battaglia del suo segretario.
Tra gli elementi di tensione, a parte le latenti o
manifeste rivalità al vertice drammaticamente aumentate con il
tumultuoso balzo in avanti nel settore industriale e la contemporanea
crisi nel settore agricolo in seguito alla campagna di
collettivizzazione, c’era lo scontro tra nuova intellighentsia operaia e
vecchio personale tecnico prerivoluzionario, tra gli ultrainnovatori in
campo scolastico e culturale e la linea prudente del commissariato
all’istruzione, tra quadri emergenti del partito ed establishment
politico, tra una base spesso scontenta dell’autoritarismo dei vecchi
dirigenti, detentori del potere e dei poteri (talvolta dei privilegi) ai
vari livelli. Tutto ciò è ben documentato da molti degli autori citati
all’inizio, Getty e FItzpatrick in particolare, e dalla documentazione
pervenuta a Fainsod.
Tutto questo per dire che le purghe e le conseguenti
repressioni furono solo in parte il risultato di un premeditato piano
calato dall’alto, mentre una parte non secondaria deve essere attribuita
a movimenti e spinte incontrollate che partirono dal basso, nel partito
e nella società.
Un altro elemento di tensione fu determinato dalla
nascita del movimento stachanovista, quando operai cosiddetti
d’avanguardia misero in discussione l’organizzazione del lavoro e le
norme di produzione nell’industria; appoggiati da Stalin gli
stachanovisti entrarono in conflitto, con parte dei quadri tecnici in
alto, e con una parte dei lavoratori di base, elevando i ritmi di lavoro
e innalzando i traguardi e gli obiettivi da raggiungere. Con il
movimento stachanovista si accentuarono le differenze retributive nel
mondo del lavoro, con qualche tensione all’interno della stessa classe
operaia.
Forti erano anche i timori di una guerra imminente, dopo
l’affermazione del nazismo in Germania e per la sua politica aggressiva,
mentre ai confini orientali minacciava il Giappone, con il quale ci fu
una guerra non dichiarata sul finire degli anni’30, vinta dai sovietici
con le battaglie di Kalchin Gol e del lago Khassan. Forti sospetti
destava l’atteggiamento remissivo e talvolta complice delle maggiori
potenze democratiche, Francia, Inghilterra, USA nei confronti della
politica di aggressione e di conquista degli stati fascisti.
Nel partito, obbligato ad una forzata unanimità
operativa, una volta prese le decisioni dagli organi dirigenti, in nome
del centralismo democratico, permanevano vaste aree di dissenso,
testimoniate dalla comparsa di piattaforme politiche alternative
clandestine, in genere elaborate da dirigenti non di primissimo piano,
ma vicini al vertice. Tali furono nei primi anni ‘30 le piattaforme di
Riutin, di Syrtsov e Lominadze, di Tolmacev ed Eismont, senza contare l’atttività
dei gruppi rimasti in collegamento con Trotzki, esiliato ma che poteva
contare, per sua stessa ammissione, su un discreto numero di seguaci
all’interno del partito e dello stato.
Fu su questo partito che si abbattè non una delle
periodiche, incruente epurazioni, ma la durissima Ezhovscina, dal nome
di N.I. Ezhov commissario del popolo agli interni e capo della polizia
politica, detto per la sua bassa statura e per la sua ferocia il nano
sanguinario, che travolto dallo stesso meccanismo da lui diretto, finì
probabilmente fucilato nel 1939.
Nel corso della purga del 1937-38 furono fucilate circa
700.000 persone ed espulsi oltre 100.000 membri del partito, in buona
parte finiti davanti al plotone di esecuzione.
Contro chi fu diretta la purga?
Non vi è dubbio che essa colpì in gran parte membri
dell’establishment politico e statale, mentre i precedenti provvedimenti
repressivi colpirono nel paese appartenenti alle classi sconfitte, kulak
e parte dei contadini medi, in alcuni casi esponenti
dell’intellighentsia prerivoluzionaria e, nel partito, prevalentemente
la base.
Nel volume di Getty e Mannings in due capitoli si cerca
di tipizzare i soggetti più frequentemente colpiti.
Si trattava in genere di dirigenti a livello alto-medio
del partito, per lo più entrati nel partito prima e soprattutto durante
la rivoluzione e la guerra civile, membri dell’apparato statale sia a
livello pansovietico che delle singole repubbliche, maschi, di elevato o
medio livello di istruzione; ovviamente furono colpiti quasi al completo
i membri delle vecchie opposizioni di destra e di sinistra; nell’ambito
delle professionalità i più colpiti furono gli ingegneri e in genere i
tecnici impiegati in attività produttive, più facilmente imputabili di
sabotaggio; relativamente immuni furono medici, artisti, letterati,
insegnanti.
Meno colpiti furono anche i rappresentanti superstiti
della vecchia intellighentsia.
Altro settore investito dalla purga fu l’esercito, ai
suoi livelli più alti.
La grande purga del 1937-38 fu preannunciata dal primo
dei tre grandi processi pubblici del’agosto 1936, che vide sul banco
degli imputati i vecchi oppositori Kamenev e Zinoviev insieme ad altre
figure minori.
Essa fu preceduta da due eventi: la nuova costituzione
che estendeva il suffragio a tutti i cittadini dell’URSS, eliminando le
precedenti esclusioni per gli appartenenti alle classi sconfitte o
comunque considerati elementi alieni (preti, ex guardie bianche, ex
kulak, ex nepman), e nel 1936 una stagnazione nel settore industriale e
il peggior raccolto degli anni trenta.
L’inizio ufficiale si ebbe con una risoluzione del
Comitato Centrale del febbraio 1937 che invitava “a smascherare e
identificare senza pietà e rapidamente i mimetizzati nemici del popolo”.
Un’ ondata di denunce , di arresti e di condanne investì
l’intero partito; l’impulso partito dall’alto fu raccolto e amplificato
alla base per vari motivi: il desiderio di sbarazzarsi di dirigenti
considerati troppo autoritari o colpevoli di favoritismi, abusi o
semplicemente ritenuti ostacolo all’ascesa di elementi più giovani, la
spinta a trovare capri espiatori per insuccessi da ascrivere a
incompetenza, difficoltà obiettive di funzionamento degli impianti,
improvvisazione ed eccessiva fretta nel realizzare obiettivi di
produzione spesso fissati senza tener conto delle reali possibilità, la
scarsa preparazione e cultura delle leve politiche e manageriali ascese
durante il I piano quinquennale, l’atmosfera di paura e di sospetto che
pervadeva l’intero paese.
Non mancavano certamente reali colpevoli di cospirazioni
e di complotti, soprattutto se consideriamo la responsabilità politica
di quanti, convinti che la direzione staliniana avrebbe condotto al
disastro il paese e il partito, si muovevano in modo più o meno
organizzato o concertato per rovesciarla, come dall’esterno incitava a
fare Trotzki.
Alla fine si trattava in ogni caso di comunisti, che da
una parte o dall’altra, avrebbero impiegato ogni mezzo, legale o
illegale, per attuare la linea ritenuta più adatta per la vittoria del
socialismo o impedirne la sconfitta.
Secondo una non sospetta testimonianza di Humbert-Droz (L’Internazionalecomunista tra Lenin e Stalin Feltrinelli), amico di Bucharin,
dirigente del Comintern e uscito dalle fila comuniste nel secondo
dopoguerra, nel 1928 Bucharin e gli oppositori di destra d’accordo con
gli oppositori di sinistra (Bucharin aveva incontrato clandestinamente
Kamenev nel 1928) progettavano l’eliminazione fisica di Stalin.
I contatti tra Bucharin e Kamenev sono confermati nelle
memorie della vedova di Bucharin , Anna Larina.
E’ verosimile che il corso degli eventi andò oltre le
intenzioni del vertice, tanto è vero che nel gennaio del 1938
l’assemblea plenaria del comitato centrale intervenne per invertirne la
direzione, denunciando gli eccessi e gli abusi della purga, con
conseguente diminuzione degli arresti e la riabilitazione di molti
membri radiati o espulsi; tuttavia il processo non poteva essere
facilmente arrestato ed ebbe fine realmente negli ultimi mesi del 1938.
Al congresso del PCUS del febbraio 1939 Stalin, Molotov,
Mechlis, soprattutto responsabile del versante militare della purga,
denunciarono gli eccessi: Il più purtroppo era fatto, in un drammatico
turnover, che spesso vedeva nello stesso luogo di detenzione accusati e
inquirenti, man mano che, soprattutto a livello degli organi di
sicurezza, si poteva essere colpiti per scarsa vigilanza o al contrario
per eccessi ed abusi nel portare avanti la grande purga.
La grande maggioranza del popolo non fu toccata e forse
non furono in pochi a rallegrarsi per i colpi subiti da un’elite
ritenuta responsabile delle difficoltà della vita quotidiana, dalle
quali era sostanzialmente esente.
Alcuni miti , alimentati dagli storici antisovietici e
trotzkisti, vanno smentiti.
Contrariamente a quanto affermato la maggioranza dei
vecchi bolscevichi non fu colpita: dei 24.000 iscritti prima del 1917 ne
sopravvivevano 12.000 nel 1922, 8.000 nel 1927, meno di 5.000 (cioè tra
4.500 e 5.000 n.d.r.) nel 1939, dopo la grande purga. Dei 420.000 membri
del PCUS nel 1920 ne rimanevano 225.000 nel 1922, 115.000 nel 1927,
90.000 nel 1939 ( Rigby IL PCUS 1917/1976). Altri dati forniti
da JA Getty indicano in 182.600 gli iscritti prima del 1920, dei quali
125.000 erano presenti nel 1939.
Considerando che una parte morì per cause naturali e una
parte fu solamente radiata o espulsa senza ulteriori conseguenze è
ragionevole pensare che circa il 20% dei vecchi bolscevichi fu vittima
dell’ezhovscina. La percentuale fu probabilmente più elevata ai livelli
più alti e certamente superiore a quella della popolazione in generale e
del personale tecnico e amministrativo non iscritto.
La purga investì l’esercito, ma non nella misura indicata
dai vari Conquest, Medvedev ecc. Dei 144.300 ufficiali e commissari
dell’Armata Rossa 34.300 furono espulsi per ragioni politiche; di questi
11.586 entro il maggio 1940 furono reintegrati nel posto e nel grado; le
vittime della purga nell’esercito furono pertanto 22.705, cioè il 7,7%
del totale. Anche in questo caso furono gli alti gradi ad essere più
colpiti.
In particolare furono fucilati comandanti di stato
maggiore come Tuchacevski e altri in un processo segreto.
Molto si è scritto sull’affare Tuchacevski; una versione
è che falsi documenti attestanti il tradimento furono fabbricati e
passati dai servizi segreti nazisti a Benes, presidente cecoslovacco, e
che questi li trasmise, credendoli autentici, ai servizi sovietici.
Stalin potrebbe averne approfittato per decapitare il vertice
dell’esercito per prevenire tentazioni bonapartiste da parte dei
militari in caso di guerra e difficoltà dell’URSS sul terreno militare;
è noto che legami abbastanza stretti si erano stabiliti tra i vertici
militari e russi dopo la pace di Versailles, quando i tedeschi, non
potendo riarmarsi a casa loro, approfittarono della collaborazione e
dell’ospitalità dei militari sovietici.
La collettivizzazione delle campagne aveva avuto echi
particolarmente sfavorevoli, raccolti anche ai vertici, tra i soldati in
gran parte contadini; storici non stalinisti, come Deutscher e
recentemente Getty ritengono probabile una cospirazione a livello dei
vertici militari per rovesciare un potere ritenuto impopolare e incapace
di affrontare una guerra moderna.
Come sempre dobbiamo capirci e pensare a uno scontro di
natura politica, portato alle estreme conseguenze, in cui fu il
successivo svolgimento dei fatti, in particolare la vittoria nella
grande guerra patriottica, a stabilire le ragioni e i torti in termini
politici.
Ancora due parole sull’ assassinio di Kirov, il
segretario della federazione di Leningrado, collaboratore stretto di
Stalin e suo fedele seguace, ucciso con un colpo di pistola da un
giovane studente, Nikolaiev, nel suo ufficio il 1 dicembre 1934.
A seguito del rapporto segreto di Krustsciov fu diffusa
la voce che dietro l’assassinio ci fosse la mano di Stalin; numerose
commissioni nominate dal partito furono incaricate di far luce
sull’episodio. In nessun caso fu evidenziata la responsabilità di
Stalin; l’ultima presieduta da Jakovlev, gorbacioviano e poi passato
all’antisovietismo, l’ha esclusa.
Credo che meglio di ogni commento personale valga citare
la conclusione di JA Getty sulla grande purga del ’37-38: ”I dati
concreti indicano che la ezhovscina deve essere ridefinita. Non era
stata il prodotto di una burocrazia fossilizzata che eliminava dei
dissidenti e distruggeva dei vecchi rivoluzionari radicali. In realtà è
possibile che le purghe fossero tutto il contrario. Non è incompatibile
con i dati disponibili argomentare che le purghe fossero una reazione
radicale contro la burocrazia. I funzionari ben sistemati erano
eliminati dal basso e dall’alto in un’ondata caotica di volontarismo e
di puritanesimo rivoluzionario.” JA Getty Origin of the great purges;
the soviet communist party 1933-38.”
Un dato è certo e fu rilevato dopo la guerra
dall’ambasciatore USA Davies che era a Mosca negli anni della grande
purga: i nazisti, che avevano trovato appoggio e collaborazione da parti
cospicue delle classi dirigenti dei paesi invasi, Petain e Laval in
Francia, De Grelle in Belgio, Quisling in Norvegia, Mussert in Olanda,
Monsignor Tiso in Slovacchia, non li trovarono nell’URSS invasa e
mortalmente minacciata.
L’URSS dal 1928 al 1940 attraversò un periodo, denso di
luci ed ombre tra la collettivizzazione delle campagne, i due piani
quinquennali, la grande purga del 1937-38.
Alcune cifre desunte da Dobbs- L’economia sovietica,
e sostanzialmente coincidenti con quelle di altri AA. (M.Silvestri,
Davies- Harrison- Wheatcroft già citati) testimoniano dello sforzo
compiuto.
La produzione dell’acciaio passò da 4,3 a 18,3 milioni di
tonnellate, del carbone da 15,5 a 135,9, del petrolio da da 11,6 a 31,1,
del cemento da 1,5 a 5,7, dell’elettricità da 5 a 18,3 miliardi di kwh,
la produzione di cereali da 73,6 a 77,9 milioni di tonnellate, il
livello del bestiame ritornò, dopo il crollo conseguente alla
collettivizzazione, ai livelli del 1926.
Fu sconfitto l’analfabetismo, fu garantito un livello
generale, anche se non elevato, di assistenza sanitaria a tutta la
popolazione, aumentarono grandemente docenti e discenti nei vari gradi
dell’istruzione, conquiste notevoli furono realizzate in campo
scientifico, particolarmente in fisica, chimica, matematica; ma
soprattutto emerse una nuova classe dirigente, di origine operaia e in
misura minore contadina e una nuova intellighentsia tecnico-produttiva.
Erano gli homines novi emersi dai piani quinquennali, che non avevano
partecipato ai dibattiti e alle divisioni del gruppo dirigente del
vecchio partito, non conoscevano l’occidente, non avevano ascoltato i
travolgenti discorsi di Trotzki, non avevano letto i dotti saggi
filosofici di Bucharin e individuavano nella direzione staliniana la
causa e la garanzia della loro ascesa; essi si identificavano con il
gruppo dirigente staliniano e in particolare in un leader, che come
loro, si vantava di essere un praktik, che insieme agli altri praktiki,
aveva tenuto in piedi il partito durante i duri anni della repressione
zarista tra il 1905 e il ’17, che si esprimeva con uno stile forse
monotono, ma chiaro, talvolta infiorato da vecchi proverbi russi, e non
privo di un certo buon senso contadino. Senza questa base di consenso e
lo sviluppo culturale e tecnico connesso non potremmo spiegarci la
capacità che ebbe il paese di organizzarsi, affrontare e vincere la
guerra. Non sarebbe bastata tutta la polizia politica moltiplicata per
10 a spiegare le vittorie di Mosca, di Stalingrado, di Leningrado, di
Kursk e infine di Berlino.
Fu la generazione che combattè e vinse al grido di
battaglia.”Za rodina, za Stalina” (per la patria per Stalin), e che
sotto l’occupazione tedesca, quando vennero riaperti molti luoghi di
culto chiusi dal regime, cantava a bassa voce:”Doloi zerkov, doloi chram
- Doloi Hitlera i trista gram - Davai klubo i kino- Davai staliskoie
kilo" (al diavolo la chiesa - al diavolo la cattedrale - al diavolo
Hitler e i trecento grammi - dateci circoli e cinema - e il chilo (di
pane) di Stalin.
Credo di aver dato un piccolo contributo di conoscenze a
quella che fu parte essenziale, nel bene e nel male, della storia del
movimento comunista, senza assoluzioni e giustificazioni per quanto non
può essere assolto e giustificato.
Penso che sia comunque giusto ricercare e ristabilire la
verità contro tutti i tentativi di farne una storia di ininterrotti
delitti, mentre fu storia drammatica, e anche gloriosa, di un immenso
sforzo di emancipazione umana.
I DISORDINI DI HONG KONG Amedeo
Curatoli·Mercoledì
20 novembre 2019·Tempo di
lettura: 3 minuti
I ributtanti anchor men della stampa borghese, servi
consapevoli del sistema imperialista (ma che fanno finta di parlare in nome
della civiltà, della democrazia e dei cosiddetti diritti umani) versano
lacrime di coccodrillo sui ‘poveri studenti’, sui ‘ragazzi’che sono
picchiati dalla polizia (e fra loro vi sono anche dei minorenni -oh che
obbrobrio!) a Hong Kong.
Federico Rampini di Repubblica che in un lontano
reportage dalla Cambogia disse di aver visto l’albero su cui Pol Pot
fracassava il cranio dei neonati, così si esprime stamattina 20 settembre
sui disordini di quella città:
“Da sei mesi il mondo segue con
ansia la rivolta libertaria di Hong Kong. C'è il timore che da un giorno
all'altro possa essere spenta da un bagno di sangue, se Xi Jinping dovesse
decidere di mandare in piazza l'esercito cinese. Ma perché finora Hong Kong
non è stata un'altra Tienanmen?”
Si ferma qui la citazione perché, per leggere il resto
dell’articolo bisognerebbe abbonarsi a questo giornalaccio, cosa che non
faremmo mai. Ma è quanto basta. L’ansia, di
cui parla costui non è altro che il timore, per l’Occidente imperialista che
questa rivolta libertaria (!!) non duri nel
tempo in modo che si posa continuare a smerdeggiare la Repubblica Popolare
Cinese, ciò che è il primo compito che la CIA
obbliga di svolgere ai pennivendoli borghesi.
C’è un modo doppio, strumentale e opposto di presentare
le rivolte giovanili: quando avvengono in Occidente e hanno un segno
antimperialista, l’implacabile macchina propagandistica dei mass media
dipingono i giovani a fosche tinte, inventano per loro ogni sorta di termini
dispregiativi. Quando invece avvengono in qualsiasi altro paese del mondo e
hanno un segno reazionario, filo-occidentale (terreno ci coltura dei futuri
Quisling), allora i toni si addolciscono.
Citando un proverbio, Mao Zedong disse che l’albero ama
al quiete ma non per questo il vento cesserà di soffiare. La Cina comunista
è un possente albero che ha profonde radici nel popolo. Ma attenzione: su
mille e trecento milioni di cinesi sicuramente ci sono ancora nostalgici
dell’ancien regime, di gente che non sopporta il comunismo e gradirebbe una
democrazia a stelle e strisce.
Nella rivolta di piazza Tien Anmen del 1989 gli
studenti inneggiavano alla famosa Statua della Libertà. Il vento soffiava
dunque, e l’albero dovette fronteggiare la tempesta. Quante lacrime versò
l’Occidente per quei poveri studenti repressi dalla polizia…
La stessa cosa potrà avvenire a Hong Kong. La
meravigliosa politica fissata dal Partito Comunista Cinese per Taiwan e
cioè: una Cina due sistemi vale anche per Hong
Kong e Macao. E il vento controrivoluzionario che spira oggi nell’ex-colonia
di “sua maestà britannica” in terra cinese come quello che spirò nel 1989 a
Pechino, sarà fronteggiato se non si estinguerà naturalmente. Ne sia pur
certo Federico Rampini.
Papadopulos
Quali caratteristiche avrà il socialismo nel XXI secolo?
Makis Papadopoulos, Partito Comunista di Grecia (KKE) * |
bilimveaydinlanma.org
Traduzione per
Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
17/02/2020
A nome del Comitato Centrale del KKE, desidero ringraziarvi [TKP, Partito
Comunista di Turchia, ndt.] per il cortese invito e congratularmi per il
tema da voi scelto per la conferenza - un tema che dimostra il costante
sforzo del vostro Partito di svolgere il proprio ruolo di avanguardia
rivoluzionaria.
Allo scopo di esaminare i tratti caratteristici del socialismo nel XXI
secolo è necessario, sulla base dei principi teorici del marxismo-leninismo,
analizzare da un lato l'esperienza storica del Novecento e, dall'altro, le
nuove opportunità oggettive e i nuovi problemi derivanti dal progresso
scientifico e tecnologico, nelle nuove circostanze dell'economia digitale e
della cosiddetta «quarta rivoluzione industriale».
In particolare, è necessario esaminare, sulla base dei principi del
materialismo dialettico e storico e del metodo logico-storico, le
contraddizioni che determinano lo sviluppo della società socialista. Occorre
esaminare il processo dell'evoluzione storica della costruzione del
socialismo nel corso del Novecento. Occorre studiare gli sforzi e il livello
di applicazione consapevole da parte del potere sovietico della legge
economica di base del socialismo, cioè il coordinamento di tutti gli
obiettivi di produzione in funzione della completa soddisfazione dei bisogni
sociali. Esaminare cioè in quale misura tale legge fondamentale abbia
funzionato come forza motrice della risoluzione della contraddizione tra il
livello di sviluppo della produzione e la continua e ininterrotta espansione
dei bisogni della società. Esaminare in quale misura l'organizzazione
pianificata e programmata della produzione sociale sia stata sviluppata allo
scopo di garantire il benessere e il libero sviluppo di tutti i membri della
società.
In seguito agli sviluppi della controrivoluzione, il KKE ha avviato nei
primi anni Novanta - e prosegue tuttora - uno sforzo determinato mirante a
contribuire allo studio di questo tema complesso e difficile.
Nel breve intervento di oggi ci concentreremo su alcuni punti-chiave.
La vittoria della Rivoluzione Socialista dell'Ottobre 1917 in Russia
dimostrò il carattere liberatore dei rapporti di produzione socialisti per
lo sviluppo delle forze produttive. L'ottobre 1917 evidenziò la superiorità
della pianificazione scientifica centralizzata per lo sviluppo delle forze
produttive, poggiante sulle solide basi del potere della classe operaia,
della proprietà sociale dei mezzi di produzione. L'eliminazione della
disoccupazione e dell'analfabetismo, l'istruzione diffusa, obbligatoria e
gratuita, la giornata lavorativa di otto ore, la reale uguaglianza tra
uomini e donne nel lavoro e nella vita, la liberazione dai pregiudizi
razziali, l'epica conversione dell'industria del tempo di pace in industria
di guerra prima e durante la seconda guerra mondiale - sono questi alcuni
esempi caratteristici offerti dai primi decenni del potere sovietico, così
come in seguito il balzo verso l'esplorazione dello spazio.
Durante questo particolare periodo storico fu evidenziata la capacità della
direzione mirata e pianificata in modo centralizzato della produzione
sociale di assumere un carattere sempre più scientifico, e di migliorare
l'organizzazione e il coordinamento degli sforzi collettivi di milioni di
lavoratori sovietici. Trovarono conferma la necessità - per
l'implementazione del piano statale unificato - del principio del
centralismo democratico e dell'utilizzazione dello spirito di emulazione
socialista come metodo direttivo, con l'obiettivo di accrescere l'efficienza
della pianificazione centralizzata dell'economia.
Per comprendere l'importanza di questi risultati nell'Unione Sovietica
occorre tenere conto delle circostanze storiche in cui essi furono
conseguiti. Le conquiste del potere sovietico furono realizzate in una
situazione di invasione imperialista, di accerchiamento imperialista, di
costanti minacce internazionali e di sabotaggio della produzione
dall'interno. Furono realizzate in una situazione di grave carenza di
risorse materiali e di esperti scientifici specializzati, e nell'ambito di
una corsa contro il tempo in cui era necessario far progredire lo sviluppo
dei settori di importanza strategica in un contesto di competizione tra
l'URSS e il sistema imperialista internazionale. Per di più, il potere
sovietico recuperò rapidamente il forte ritardo che divideva la Russia
zarista pre-rivoluzionaria dagli Stati capitalisti più forti, quali Stati
Uniti, Gran Bretagna e Germania.
Il balzo in avanti realizzato dall'Unione Sovietica nei suoi primi decenni
di esistenza dimostra che, grazie all'espansione della proprietà sociale dei
mezzi di produzione e alla pianificazione scientifica centralizzata
dell'economia, la produttività del lavoro e l'applicazione di tecnologie
innovative in campo economico aumentarono in misura decisiva. Le finalità e
il ritmo dello sviluppo delle forze produttive mutarono. Il lavoratore,
principale forza produttiva, fu liberato dalle sue catene, poiché non doveva
più cercarsi un padrone a cui vendere la sua forza-lavoro nella giungla del
mercato capitalista. Fu creato un nuovo esercito di scienziati tra i figli
della classe operaia e della classe contadina povera.
Il potere della classe operaia sovietica fu edificato negli anni Venti sulle
solide basi dei soviet, i consigli generali dei lavoratori presenti in ogni
luogo di lavoro, che eleggevano rappresentanti inviati ai livelli superiori
di potere in ogni settore - rappresentanti che potevano essere revocati dai
loro elettori. Questo fu un passo importante per l'esercizio effettivo del
potere della classe operaia.
Fu evidenziata la superiorità della pianificazione centrale nell'ambito del
potere della classe operaia rispetto al mercato capitalista, in cui i gruppi
monopolistici pianificano e competono tra loro per assicurarsi una
percentuale più elevata di profitti, una quota maggiore.
L'esperienza storica sovietica ha altresì dimostrato che, oggettivamente, il
processo della costruzione del socialismo non è una passeggiata; esso non
procede in modo agevole e lineare. Una serie di problemi reali che si
manifestarono - come i ritardi nella modernizzazione tecnologica
dell'industria, che ebbe conseguenze negative sulla qualità e
sull'adeguatezza dei prodotti - furono interpretati erroneamente come
debolezze insite nei rapporti di produzione socialisti. Secondo stime
sovietiche, il volume della produzione industriale dell'URSS nei primi anni
Cinquanta ammontava a meno di un terzo della corrispondente produzione USA -
per non parlare del ruolo-guida degli USA in campo militare, nello sviluppo
degli armamenti nucleari.
Soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, l'Unione Sovietica dovette
migliorare la sua produzione e i suoi servizi in funzione di un livello
nuovo e più elevato di bisogni sociali. E dovette risolvere questo problema
in un contesto segnato da terrificanti perdite umane durante il conflitto,
concentrate nelle fasce di età più produttive.
Si trattava di un problema particolarmente complesso, che investiva la
capacità di garantire uno sviluppo proporzionale di tutti i settori della
produzione, il miglioramento qualitativo dei prodotti di consumo, la
priorità della produzione di mezzi di produzione, l'ampliamento
dell'automazione in numerosi settori dell'economia e le misure necessarie a
prevenire un inasprimento della contraddizione tra lavoro direttivo ed
esecutivo.
Più in generale, il problema riguardava la capacità di garantire la priorità
dello sviluppo di moderni mezzi di produzione rispetto ai mezzi di consumo,
il mantenimento dei livelli proporzionali di base di tutte le componenti e
gli elementi dell'economia, il miglioramento della qualità e dell'efficienza
della produzione, la rapida applicazione dei nuovi sviluppi scientifici e
tecnici e l'innalzamento della coscienza socialista e dell'iniziativa
creativa dei lavoratori.
In questo cruciale frangente storico era necessario trovare una soluzione
guardando avanti, attraverso l'espansione pianificata dei rapporti di
produzione comunisti.
A giudicare dai risultati, negli anni Cinquanta divenne chiaro che non
esisteva un potenziale teorico collettivamente conseguito in grado di
risolvere in modo efficace questi problemi.
Durante la vicenda storica dell'Unione Sovietica ebbero luogo seri dibattiti
e controversie teoriche nel campo della filosofia e dell'economia politica.
Particolare importanza assunsero i dibattiti teorici del periodo 1927-1929
sulla relazione dialettica e l'interazione tra le forze produttive e i
rapporti di produzione. Il dibattito evidenziò il ruolo attivo dei rapporti
di produzione socialisti per lo sviluppo delle forze produttive. Il ruolo
attivo dei rapporti di produzione si consegue attraverso gli sforzi del
potere operaio atti a eliminare i residui di proprietà privata e a orientare
lo sviluppo delle forze produttive in direzione della piena soddisfazione
dei bisogni sociali.
Purtroppo, tuttavia, il contenuto del dibattito teorico si concentrò
soprattutto sulla necessità di definire il tema scientifico dell'economia
politica nell'ambito più generale del materialismo dialettico e storico, e
non indirizzò la ricerca teorica in direzione di una più profonda
comprensione della questione cruciale dell'interazione tra rapporti di
produzione e sviluppo delle forze produttive.
Nello stesso periodo (1924-1929), il dibattito filosofico tra «dialettici» e
«meccanicisti» fu importante per la comprensione del concetto di
contraddizione dialettica e del suo ruolo nello sviluppo dei fenomeni
naturali e sociali. Nei primi anni Trenta si era ormai sviluppato il
concetto teorico di «contraddizioni non antagonistiche».
Il filosofo sovietico Ilenkov avrebbe successivamente evidenziato l'impatto
di questo approccio filosofico sulla discussione dei problemi dell'economia
politica del socialismo, sulla necessità di definire con chiarezza i
rapporti merce-denaro come elemento estraneo alla pianificazione
centralizzata. In luogo di una lotta decisiva per l'abolizione dell'economia
di mercato e delle merci, avrebbe progressivamente prevalso la percezione di
una possibilità di diffusione, limitata integrazione e utilizzo delle
funzioni del mercato da parte della pianificazione centralizzata del potere
operaio.
Negli anni Cinquanta Stalin avrebbe sintetizzato questa controversia nella
sua opera «Problemi economici del socialismo nell'URSS». In conclusione, vi
fu un dibattito teorico all'interno del Partito bolscevico, in cui le forze
rivoluzionarie si contrapposero ai sostenitori del mercato. Ma le misure
intese a favorire lo sviluppo dell'economia politica marxista del socialismo
furono insufficienti a fare fronte ai problemi legati all'assegnazione della
priorità ai bisogni sociali e a una pianificazione efficiente mirante alla
loro soddisfazione. Furono insufficienti a consentire la fissazione di
obiettivi, metodi e indici chiari per il calcolo e la valutazione dello
sviluppo e delle prestazioni dell'industria e della produzione agricola
socialiste, in un contesto di espansione dei bisogni sociali e di nuove
esigenze della produzione socializzata.
Naturalmente, alla radice della difficoltà di porre rimedio ai limiti
teorici, così come del conflitto ideologico in seno al PCUS e agli altri
partiti comunisti, vi era l'esistenza di forze sociali diverse e di
interessi materiali diversi nell'ambito dei Paesi socialisti.
In molti Paesi socialisti la proprietà privata dei mezzi di produzione
agricoli non era ancora stata abolita. E nemmeno il diritto di assumere
manodopera a pagamento era stato del tutto eliminato. Nella stessa Unione
Sovietica, in aggiunta al mantenimento della proprietà collettiva nei
kolchoz nel settore agricolo, si verificarono un indebolimento della
partecipazione e del controllo da parte dei lavoratori, nonché un
mantenimento delle differenze salariali. La contraddizione tra lavoro
direttivo ed esecutivo si intensificò.
Nel dopoguerra, e in particolare dopo il XX Congresso del PCUS del 1956, si
aprì la strada verso la controrivoluzione e l'arretramento del progresso
storico. I dibattiti economici del 1960 furono dominati dalla concezione
opportunistica del «socialismo di mercato», il cui esito fu la riforma
economica di Kosygin del 1965.
Nello stesso periodo, la concezione marxista-leninista dello stato operaio
fu modificata. Il XXII Congresso del PCUS (1961) definì l'Unione Sovietica
uno «Stato di tutto il popolo» e il PCUS un «Partito di tutto il popolo».
Invece di andare alla ricerca di soluzioni guardando avanti, in direzione di
un'espansione e di un rafforzamento dei rapporti di produzione socialisti,
si optò per soluzioni che guardavano indietro, ricorrendo agli strumenti e
ai rapporti di produzione del capitalismo. La gestione centralizzata
dell'economia pianificata si indebolì. Ogni unità di produzione fissava i
propri obiettivi di efficienza in modo indipendente, il che determinò
sostanzialmente una frammentazione degli obiettivi generali della produzione
sociale. Il mercato e la produzione di merci ripresero vigore; le
diseguaglianze salariali aumentarono, e la proprietà individuale e di gruppo
si rafforzò, soprattutto nel settore agricolo.
La controrivoluzione non avrebbe trionfato se fosse stata presente per tempo
una preparazione collettiva teorica e politica atta a rispondere ai
complessi problemi posti dal nuovo livello di sviluppo della produzione
sociale.
Le esperienze storiche del Novecento all'indomani della Rivoluzione
Socialista dell'Ottobre 1917, tanto nei loro aspetti positivi quanto in
quelli negativi, dimostrano il carattere liberatorio dei rapporti di
produzione socialisti nello sviluppo delle forze produttive, con l'obiettivo
di soddisfare i bisogni della società.
La vicenda storica che va dalla Rivoluzione Socialista dell'Ottobre 1917
alla vittoria della controrivoluzione e ai rovesci dei primi anni Novanta
evidenzia e sottolinea l'importanza dell'applicazione creativa dei principi
leninisti della costruzione socialista.
Si tratta di un'esperienza storica preziosa che fa luce, da un lato, sugli
effetti benefici che possono essere conseguiti quando l'avanguardia
rivoluzionaria conosce e applica adeguatamente le leggi della costruzione
socialista, e dall'altro sulle conseguenze negative devastanti che si hanno
quando ciò non avviene, a causa di inadeguatezze collettive di ordine
teorico e politico e del prevalere di concezioni opportuniste nell'ambito
del Partito comunista, sotto la pressione di una correlazione negativa di
forze e delle principali difficoltà che possono sopraggiungere.
Essa evidenzia inoltre i limiti e le difficoltà oggettive che ostacolano gli
sforzi di una direzione pianificata dell'economia, in funzione del livello
di sviluppo delle forze produttive, del progresso tecnico e della
produttività del lavoro in ciascuna fase.
In breve: che cosa ci ha insegnato l'esperienza del Novecento?
In generale, ha confermato che la costruzione del socialismo non è un
percorso facile, lineare e ininterrotto, e implica il rischio di
arretramenti. Ha confermato una serie di elementi e precondizioni
essenziali, tra loro interconnessi, che determinano l'esito di questo
difficile compito. Più in particolare:
1. Ha confermato l'importanza di un orientamento coerente e solido del
Partito comunista e del potere della classe operaia in direzione
dell'espansione e del prevalere assoluto della proprietà sociale, dei
rapporti di produzione socialisti e dell'eliminazione di tutte le forme di
produzione individuale e di gruppo. Ha evidenziato il fallimento storico del
«socialismo di mercato» come transizione tra la fase immatura e quella
matura del comunismo.
Per mantenere un orientamento rivoluzionario nella costruzione del
socialismo è necessaria la comprensione teorica del fatto che la legge del
valore non è una legge dell'economia socialista, che essa non può regolarne
i rapporti proporzionali. È necessaria la comprensione teorica del fatto che
sino a quando vengono mantenuti i rapporti merce-denaro, sussiste il rischio
di un rafforzamento delle forze sociali controrivoluzionarie. Gli effetti
della legge del valore sulla vita economica sono in contraddizione con la
pianificazione centralizzata e devono essere eliminati in modo decisivo
attraverso la trasformazione pianificata di tutta la produzione in
produzione sociale diretta.
La limitazione dell'impatto della legge del valore mediante determinate
misure intraprese dallo stato socialista, quali le limitazioni dei prezzi e
dei piani di produzione, non costituisce una soluzione radicale e definitiva
che consenta di controllare a lungo termine il rischio di un indebolimento
del potere della classe operaia.
2. Questa esperienza ha inoltre evidenziato la cruciale importanza dello
sforzo di pianificazione centralizzata per il progresso scientifico e il
costante adattamento creativo della pianificazione centralizzata alle nuove
esigenze imposte dai nuovi livelli di sviluppo della produzione sociale.
La pianificazione centralizzata è una relazione sociale, determinata dalla
proprietà sociale dei mezzi di produzione. Essa esprime una modalità
radicalmente diversa di unione dei lavoratori con i mezzi di produzione,
senza l'intermediazione del mercato. Permette il controllo dei lavoratori su
quanto viene prodotto, sulla sua modalità di produzione e sulla sua modalità
di distribuzione nei vari settori produttivi.
Essa deve fronteggiare limiti oggettivi, dal momento che il livello di
sviluppo delle forze produttive in ogni dato momento non permette di
accedere in modo uniforme all'intera produzione sociale sulla base del
principio dei bisogni, né consente di eliminare direttamente la
contraddizione tra lavoro direttivo ed esecutivo, e in generale la
contraddizione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale.
Di fronte alla pressione esercitata dalle difficoltà oggettive, dalla
diversità di interessi materiali sociali e dalle inadeguatezze teoriche e
scientifiche, è sempre presente il rischio di commettere gravi errori
soggettivi nell'elaborazione del piano, in relazione agli obiettivi di
produzione, alle priorità di uno sviluppo proporzionale dei settori della
produzione, alla formazione e alla specializzazione della forza lavoro e al
tentativo di eliminare la differenziazione di classe.
3. L'esperienza storica del Novecento ha evidenziato il ruolo
insostituibile della dittatura del proletariato nella costruzione del
socialismo, nonché il fallimento storico della concezione opportunista dello
«Stato di tutto il popolo».
L'esperienza sovietica, sia nel suo sviluppo ascendente sia nel suo declino,
ha dimostrato che la dittatura del proletariato può svolgere la sua missione
soltanto quando si fonda sulla mobilitazione dei lavoratori, in modo tale
che direzioni e obiettivi siano fatti propri in modo attivo e militante
dalle masse popolari nel loro complesso.
Per questo è fondamentale che i suoi organi, dal livello più basso sino agli
organi centrali del potere, operino in modo sostanziale e non formale. Che
l'assemblea generale in ogni luogo di lavoro operi in modo efficiente, cioè
sulla base dei principi del controllo, della responsabilità e della revoca
dei rappresentanti eletti ai livelli decisionali più elevati. In tal modo è
possibile dare vita a diritti elettivi sostanziali, contrapposti ai diritti
elettivi formali, all'eguaglianza formale della democrazia borghese e della
dittatura del capitale.
Questa funzione può mettere al riparo il cammino della costruzione del
socialismo dagli errori e dalle deviazioni soggettive nell'elaborazione e
nell'implementazione del piano in ogni momento, nel contesto della
pianificazione centralizzata.
Questo rischio evidenzia il ruolo che il potere rivoluzionario della classe
operaia, la dittatura del proletariato, deve svolgere. Il rafforzamento dei
rapporti di produzione comunisti presuppone l'azione consapevole dei
lavoratori. È necessaria una forma più alta di democrazia, con la
partecipazione attiva dei lavoratori all'elaborazione, all'attuazione e al
controllo delle decisioni. La trasformazione del luogo di lavoro in nucleo
organizzativo del potere operaio costituisce un elemento centrale di questa
forma più alta di democrazia. Ma la vittoria della rivoluzione non implica
di per sé il consolidamento della coscienza socialista all'interno del
popolo. Per questo la funzione di avanguardia del Partito comunista svolge
un ruolo decisivo.
Il Partito comunista rappresenta il nucleo direttivo del potere
rivoluzionario operaio, poiché è la sola forza in grado di agire in modo
consapevole secondo le leggi di sviluppo della società socialista-comunista.
Per questo esso deve essere in grado, in ogni circostanza, di guidare la
classe operaia nello svolgimento della sua missione storica.
Lo Stato socialista, in quanto strumento della lotta di classe che prosegue
in forme nuove e in condizioni nuove, deve svolgere sia la sua funzione
difensiva-repressiva, sia la sua funzione creativa economica e culturale.
Lo Stato dei lavoratori, in quanto meccanismo di dominio politico, è
necessario sino alla trasformazione di tutti i rapporti sociali in rapporti
comunisti, sino alla formazione della coscienza comunista all'interno della
grande maggioranza dei lavoratori, e sino al prevalere dei rapporti di
produzione socialisti nella maggior parte del mondo.
4. L'esperienza sovietica ha dimostrato che, perché siano soddisfatte le
suddette condizioni, il Partito comunista deve mantenere la capacità di
formulare la sua politica in modo scientifico e di classe. In altre parole,
il Partito comunista deve costantemente riaffermare il proprio ruolo di
vettore dell'unità dialettica tra teoria e prassi rivoluzionaria. Deve
contribuire allo sviluppo creativo della visione marxista-leninista del
mondo, nel momento stesso in cui l'oggetto di studio di questa teoria - la
vita in tutte le sue forme - si sviluppa. Non deve cioè considerare la
teoria alla stregua di una raccolta di dogmi e posizioni di carattere
religioso, separate dal tempo della storia. Lo sviluppo creativo è
necessario per prevenire la revisione opportunista dei principi teorici e
delle leggi messi in luce dalla visione marxista del mondo. Non
dimentichiamo che il revisionismo teorico viene perlopiù avanzato con il
falso pretesto di fare fronte a nuovi problemi e fenomeni complessi.
Lo sviluppo creativo della teoria è senz'altro un compito complesso. La
ricerca teorica sulle leggi e sull'evoluzione delle strutture dell'economia
del socialismo presenta particolari difficoltà oggettive, rispetto alla
formulazione teorica marxista dell'economia politica del capitalismo.
Teniamo presente che quando Marx studiava le leggi e il funzionamento
dell'economia capitalista, erano trascorsi secoli dall'emergere della
produzione capitalista dal grembo della società feudale. I rapporti
capitalistici fecero la loro prima comparsa già nel XVI secolo. Al termine
del XVI secolo era ormai sorto il primo Stato capitalista nei Paesi Bassi, e
nel XVII secolo ebbe luogo la rivoluzione borghese in Inghilterra. Alla fine
del XVIII secolo, il modo di produzione capitalista prese il sopravvento
nell'Europa occidentale con la vittoria della Rivoluzione francese.
Marx ed Engels analizzarono il sistema capitalista come tema di studio in un
periodo in cui esso aveva raggiunto uno stadio relativamente maturo e
avanzato, e in cui era possibile definire scientificamente tutte le
condizioni realmente necessarie per l'emergere e lo sviluppo del
capitalismo, i processi interni fondamentali per il suo sviluppo,
differenziandoli dagli eventi storici occasionali e dalle forme storiche
specifiche da esso assunte. Marx ed Engels discussero, utilizzarono e
rovesciarono gli studi teorici borghesi di Smith e Ricardo che li avevano
preceduti.
Il tentativo di Lenin di formulare l'economia politica marxista del
socialismo esordì con risorse limitate: l'economia politica marxista del
capitalismo, i principi teorici e il metodo del materialismo dialettico e
storico.
Lenin dovette misurarsi con un rilevante problema oggettivo, successivamente
evidenziato dalle analisi condotte sul tema dal pensiero filosofico
sovietico (Ilenkov, Vazjulin ecc.). Ebbe modo di studiare soltanto sul piano
concreto gli esordi dei rapporti di produzione socialisti che fecero seguito
alla rivoluzione socialista in Russia. Poté studiare soltanto le basi del
nuovo modo di produzione, il socialismo. Al tempo stesso, dovette scoprire
le sue leggi e tentare di prevedere i problemi-chiave che il tentativo di
costruzione del socialismo avrebbe dovuto fronteggiare nel futuro, in un
contesto internazionale in cui il ruolo dei rapporti di produzione
capitalisti rimanevano potenti e determinanti.
In altre parole, la ricerca scientifica poté concentrarsi specificamente
soltanto sullo stadio immaturo del nuovo modo di produzione, mentre
l'economia politica marxista del capitalismo si occupava del suo stadio di
maturità, in cui i rapporti di produzione capitalisti erano già dominanti e
svolgevano un ruolo decisivo nei processi di sviluppo mondiali.
La maggiore difficoltà dell'indagine teorica sullo sviluppo della
costruzione del socialismo, rispetto allo studio del modo di produzione
capitalista, ha un carattere oggettivo, dal momento che - diversamente dalla
rivoluzione borghese, che trova già pronte le forme di rapporto capitaliste
- il potere operaio non eredita rapporti di produzione precostituiti. I
rapporti socialisti-comunisti di proprietà sociale emergono soltanto come
esito delle azioni politiche rivoluzionarie del potere della classe operaia.
La ricerca teorica che deve supportare in ogni fase la prassi rivoluzionaria
- allo scopo di plasmare, espandere e approfondire i nuovi rapporti di
produzione sociali - ha come principale oggetto di studio qualcosa che sta
appena nascendo. In assenza di vigilanza teorica e determinazione
collettiva, questa difficoltà oggettiva può favorire il prevalere
dell'empirismo, il metodo positivista basato su «tentativi ed errori».
Oggi, tuttavia, noi comunisti abbiamo di fronte maggiori opportunità e
responsabilità, poiché possiamo studiare l'esperienza storica del Novecento.
Siamo in grado di studiare e analizzare i problemi dell'economia politica
del socialismo esaminando decenni di sviluppi storici.
Al tempo stesso, possiamo trarre vantaggio, per la costruzione del
socialismo, delle nuove e grandi possibilità oggettive create dalla moderna
era dell'economia digitale e della «quarta rivoluzione industriale».
Vale la pena di evidenziare come molti dei limiti tecnici e scientifici che
nella Russia del 1917 e nell'Unione Sovietica degli anni Cinquanta si
opponevano al successo della pianificazione centralizzata e del
consolidamento dei rapporti di produzione socialisti oggi non esistano più.
Pensiamo alle opportunità che l'attuale aumento della produttività del
lavoro offre all'aumento del tempo libero e del contenuto creativo del
lavoro per i lavoratori, che costituiscono in ogni epoca la principale forza
produttiva. Dobbiamo inoltre tenere presente l'esercito di scienziati
salariati che fanno oggettivamente parte della classe operaia o sono
prossimi a essa - un esercito che nell'ottobre del 1917 non esisteva.
Pensiamo alle nuove possibilità di pianificazione scientifica, alla
possibilità di prendere decisioni rapide e ottimali su problemi complessi,
utilizzando i moderni strumenti per la raccolta rapida e l'elaborazione
intensiva di vaste moli di dati e informazioni relative alla totalità dei
bisogni sociali. Pensiamo alle nuove possibilità tecnologiche e scientifiche
di garantire non soltanto l'adeguatezza dei prodotti, ma anche il
miglioramento della loro qualità; alle nuove possibilità di migliorare e
controllare rapidamente la produzione, di prevenire e fronteggiare gli
incidenti industriali «gravi» che rappresentano un rischio per migliaia di
persone.
Un altro aspetto riguarda le nuove possibilità di ricerca interdisciplinare,
che sarà liberata dalle catene della competizione di mercato e
dall'obiettivo di salvaguardare il profitto capitalista. La ricerca
interdisciplinare ha la capacità di prevedere in modo tempestivo e accurato
le future esigenze della società e di individuare le priorità per
l'economia.
Consideriamo inoltre, nel contesto della costruzione del socialismo,
l'impulso che lo sviluppo creativo del marxismo può imprimere alla moderna
ricerca e, più in generale, ai processi di conoscenza.
Il progresso della ricerca scientifica marxista in tutti i settori della
scienza e la collaborazione interdisciplinare contribuiranno al
miglioramento della documentazione scientifica relativa agli specifici piani
quinquennali nell'ambito dello sviluppo pianificato dell'economia
socialista. Sarà possibile superare gli ostacoli di natura epistemologica
che pregiudicano una piena corrispondenza della pianificazione alle esigenze
delle leggi della costruzione del socialismo.
Il progresso scientifico contribuirà a determinare con maggiore precisione i
rapporti quantitativi necessari a mantenere una crescita equilibrata tra i
settori-chiave dell'economia e tra le diverse regioni di un Paese, nonché le
questioni della divisione del lavoro tra gli Stati, qualora sia un gruppo di
Paesi a imboccare nuovamente il cammino della costruzione del socialismo.
Naturalmente, accanto all'emergere di nuove opportunità, si stanno già
presentando nuovi problemi determinati da questi mutamenti intervenuti nella
produzione, nel contenuto di molte attività di lavoro specifiche e,
naturalmente, nei relativi contenuti educativi.
Di fronte ai nuovi grandi problemi creati dalla nuova era della quarta
rivoluzione industriale, la necessità e l'inevitabilità storica del
socialismo appaiono ulteriormente confermate, poiché soltanto il potere
della classe operaia può fornire risposte coerenti a questi problemi nella
prospettiva del benessere della società.
Il socialismo è in grado di rispondere ai necessari mutamenti nel contenuto
del lavoro, al necessario passaggio dei lavoratori a nuovi compiti e
obiettivi di lavoro e a nuovi settori, senza che i lavoratori corrano rischi
e debbano vivere nel timore di rimanere privi di lavoro, assicurazione e
assistenza, come avviene nel regime capitalista.
In un contesto di proprietà sociale, la pianificazione centralizzata,
diversamente dalla giungla del mercato, è in grado di determinare e
modificare, in modo scientifico e programmato, la distribuzione del lavoro,
delle risorse scientifiche e dei mezzi di produzione in tutto il Paese, in
ciascuna regione e in ciascun settore.
Il socialismo può garantire la necessaria continua specializzazione e
formazione, il potenziamento delle conoscenze e delle capacità dei
lavoratori. È in grado di sbloccare e mettere a frutto le loro capacità
creative, poiché li pone collettivamente all'avanguardia dello sviluppo
storico finalizzato alla liberazione sociale. È in grado di sfruttare la
potenza dello sforzo collettivo, l'impulso dell'emulazione socialista.
Tutto ciò evidenzia l'importanza dello studio e della ricerca per lo
sviluppo creativo del marxismo-leninismo che dobbiamo compiere per poter
agire efficacemente come avanguardia rivoluzionaria nel XXI secolo. I nostri
partiti, il KKE e il Partito Comunista di Turchia, cooperano in modo
decisivo e creativo in tale direzione. La capacità della classe operaia di
comprendere e cambiare il mondo, la sua capacità di svolgere il suo compito
storico e di guidare la lotta rivoluzionaria per il socialismo-comunismo, è
destinata a essere riaffermata.
*) Makis Papadopoulos, KKE, Partito Comunista di Grecia, Membro
dell'Ufficio Politico del Comitato Centrale
In
questi ultimi giorni ha avuto particolare risalto sui mezzi di informazione
l’incontro di stato a Palm Beach tra Donald Trump e Xi Jinping. In
particolare suscita l’interesse di molti la posizione della Cina riguardo
questioni quali la guerra in Siria e la Corea del Nord.
Potrebbe dunque essere legittimo chiedersi se in questa fase la Cina possa
assumere un ruolo di argine all’imperialismo e di speranza per i
popoli del mondo. Per dare una risposta occorre analizzare la situazione
cinese in relazione al concetto di imperialismo, un punto centrale per
l’analisi marxista della società, spesso frainteso anche da una parte del
movimento comunista.
Per una
chiara ed esatta chiave di lettura dell’imperialismo occorre rifarsi alla
definizione che Lenin diede nel suo saggio del 1916, “L’imperialismo,
fase suprema del capitalismo“:
«Quindi noi […] dobbiamo dare una definizione
dell’imperialismo, che contenga i suoi cinque principali contrassegni, e
cioè:
1) la concentrazione della produzione e del
capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i
monopoli con funzione decisiva nella vita economica;
2) la fusione del capitale bancario col capitale
industriale e il formarsi, sulla base di questo “capitale finanziario”, di
un’oligarchia finanziaria;
3) la grande importanza acquistata
dall’esportazione di capitale in confronto con l’esportazione di merci;
4) il sorgere di associazioni monopolistiche
internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo;
5) la compiuta ripartizione della terra tra le più
grandi potenze capitalistiche.
L’imperialismo è dunque il capitalismo giunto a
quella fase di sviluppo, in cui si è formato il dominio dei monopoli e del
capitale finanziario, l’esportazione di capitale ha acquistato grande
importanza, è cominciata la ripartizione del mondo tra i trust
internazionali, ed è già compiuta la ripartizione dell’intera superficie
terrestre tra i più grandi paesi capitalistici» (cfr. V. Lenin
L’imperialismo (1916), Editori Riuniti, 1974, pag.
128).
Secondo questa definizione il militarismo e l’aggressività nei
confronti di altre nazioni non sono caratteristiche preponderanti
dell’imperialismo, ma soltanto sue possibili manifestazioni. Alla luce della
teoria leninista è possibile individuare quali stati, nel corso della storia
recente, abbiano effettivamente assunto un ruolo di argine all’imperialismo.
L’Unione Sovietica è senz’altro uno degli esempi più lampanti di potenza
antimperialista in quanto priva di esportazione di capitale (la grande
maggioranza del commercio estero sovietico era con altri stati socialisti).
Infatti anche dopo il 1956, anno in cui le politiche di Chruščёv iniziarono
a compromettere l’impianto socialista dello stato e i cui sviluppi furono la
restaurazione del capitalismo con Gorbačëv nel 1991, nonostante l’aumento
delle esportazioni, l’URSS non esportò capitale.
Non è
invece di immediata interpretazione la situazione dell’attuale Repubblica
Popolare Cinese. Per un’adeguata valutazione è necessario comprendere come
si è giunti all’odierna condizione economico-sociale del paese. A seguito
del XX Congresso del PCUS del 1956, il Partito Comunista Cinese, sotto la
guida di Mao Zedong, criticò, coerentemente con la teoria
marxista-leninista, il revisionismo chruscioviano in URSS, che fu definito
revisionismo moderno per distinguerlo dal
revisionismo bernsteiniano-kautskiano. Tuttavia,
subito dopo la morte di Mao nel 1976, un nuovo tipo di revisionismo si
manifestò in Cina a seguito della presa del potere dell’ala destra del PCC,
che faceva capo a Deng Xiaoping, dopo la condanna della cosiddetta Banda dei
Quattro, un gruppo di dirigenti del Partito che aveva avuto un ruolo
determinante nella Rivoluzione Culturale.
Contrariamente a quanto avvenuto in Unione Sovietica, in cui la figura di
Stalin fu criminalizzata, il revisionismo denghista, che potrebbe essere
definito come revisionismo contemporaneo, non
attaccò mai apertamente Mao, ma continuò a celebrarlo e a rivendicare una,
peraltro inesistente, continuità con la sua politica. Al contempo Deng
elaborò la teoria del socialismo di mercato, o socialismo
con caratteristiche cinesi, una soluzione strategica di media o lunga
durata, in attesa di un non meglio definito ritorno al socialismo. Molti
sostenitori delle attuali politiche della Cina paragonano le riforme di Deng
con la Nuova Politica Economica (NEP), applicata
da Lenin nell’URSS reduce dal conflitto mondiale e dalla guerra civile.
Questo rappresenta tuttavia una valutazione fallace: la NEP prevedeva delle
limitate concessioni al capitalismo al fine di ripristinare l’industria
nazionale, devastata dalla guerra, nella prospettiva dell’accumulazione di
forze necessarie per esser superata e si realizzava nel quadro della
dittatura del proletariato (non vi erano capitalisti e miliardari nel
Partito e il settore privato consentito non coinvolgeva i grandi mezzi di
produzione ma solo i piccoli come il commercio interno) basata sul
rafforzamento della classe operaia, mentre, come ad oggi è stato possibile
constatare, in Cina il socialismo di mercato è stato una manovra di
transizione dal socialismo al capitalismo vero e proprio, con reintroduzione
dei rapporti di produzione tipici del capitalismo.
Conferma di quanto detto è la creazione delle Zone
Economiche Speciali (ZES), nelle quali, a partire dal 1979,
specifiche legislazioni economiche favoriscono e incoraggiano l’afflusso di
capitale proveniente da multinazionali straniere attraverso una fiscalità
vantaggiosa e una larga indipendenza per le imprese (è da sottolineare come
il governo cinese abbia approvato recentemente un piano per la creazione di
una nuova ZES, che porterà alla fondazione di un’imponente città chiamata
Xiongan, e che ha visto immediatamente dopo l’annuncio governativo
l’afflusso massiccio di speculatori intenzionati ad acquistare immobili
nelle aree interessate da rivendere a prezzi raddoppiati). Merita inoltre di
essere menzionata la cosiddetta teoria delle tre
rappresentanze, dottrina ideata nel 2000 da Jiang Zemin, successore
di Deng, che di fatto forniva all’imprenditoria ancora maggior
riconoscimento politico e sociale e permetteva l’ingresso sempre più palese
di elementi borghesi all’interno del Partito, ormai definitivamente
deideologizzato, seppur già compromesso dalla gestione di Deng.
È bene
chiarire a questo punto il seguente concetto: il socialismo prevede
relazioni di produzione nelle quali la classe operaia ha il potere e, di
conseguenza, detiene nelle sue mani i mezzi di produzione.
In
questo senso, ha come condizione necessaria il dominio della proprietà
statale su quella privata e la scomparsa progressiva di ogni mezzo di
produzione privato, compresa la piccola proprietà. È inevitabile che ci
siano differenze tra i vari paesi nella costruzione del socialismo, ma
queste non possono esser mai di principio, ossia
contraddicendone quelli universali che nel caso cinese rappresentano
relazioni di produzione dove predomina il capitale privato con una tendenza
al maggiore sviluppo dello stesso.
È
dunque evidente come in Cina il ritorno al capitalismo sia pressoché
completo, ma bisogna prendere in considerazione alcuni dati economici per
convincersi del fatto che il paese sia ormai giunto anche alla fase
imperialista.
Secondo
la rivista Forbes, stimando il patrimonio in
dollari,
attualmente in Cina sono presenti ben 400 miliardari,
che detengono circa 947,03 miliardi. Questi dati pongono la Cina al secondo
posto tra gli stati al mondo con più miliardari, seconda solo agli Stati
Uniti,che nel 2016 ne contavano 540, e testimoniano
come l’accumulazione della ricchezza nel paese abbia raggiunto livelli
impressionanti, tali da creare un’oligarchia finanziaria, a ulteriore
riprova di come la forma statale socialista sia ormai solo una definizione
de iure.
Secondo
il Center for China and Globalization
l’esportazione cinese di capitale nel 2015 aveva superato il capitale
straniero nel paese; gli investimenti diretti esteri (OFDI) ammontavano a
145,6 miliardi di dollari, mentre il
capitale estero in Cina era di 135,6 miliardi di dollari.
A tale proposito, secondo il Finantial Times, nel
2017la Cina risulta essere il più grande esportatore di
capitale in Africa, per la maggior parte al fine estrattivo di
risorse naturali, proseguendo la depredazione del continente a cui secoli di
colonialismo e imperialismo ci hanno tristemente abituato. Proprio in
Africa, a Gibuti, sorge una base militare cinese con circa 10.000 soldati
cinesi e navi da guerra veloci.
Per
quanto riguarda l’energia, come anche in altri settori, quali ad esempio le
comunicazioni, va segnalata la presenza di monopoli, tra cui la
China Petroleum and Chemical Corporation (Sinopec,
4ª società al mondo per ricavi nel 2015) e la
China National Petroleum Corporation (CNPC,
3ª società al mondo per ricavi nel 2015), che rappresentano due
società internazionali tra le maggiori al mondo nel campo del petrolio e del
gas.
Infine
il settore bancario cinese vanta ben 4 delle 10 banche più potenti al mondo,
tra cui
le 5 maggiori sono la
Industrial and Commercial Bank of China (la più grande banca al mondo
per capitale), la China Construction Bank, la
Bank of China, la Agricultural
Bank of China e la China Development Bank.
Tutte queste banche possiedono sedi all’estero (Asia, Europa, Africa e
America), ma quella più presente a livello internazionale è la BOC.
In
aggiunta a quanto detto bisogna anche considerare il ruolo della Cina nel
blocco dei BRICS, alleanza imperialista, in cui svolge un ruolo da
protagonista. Fa parte dell’Organizzazione per la
Cooperazione di Shanghai, di cui sono membri anche la Russia e vari
stati dell’Asia Centrale, e che si occupa non solo di sicurezza, ma anche di
cooperazione economica (è importante il ruolo della SCO
Interbank Association, che riunisce rappresentanze della banche delle
nazioni aderenti all’organizzazione). Uno dei possibili sbocchi economici
dell’Organizzazione, peraltro più volte suggerito dalla stessa Cina,
potrebbe essere la creazione di un’area di libero mercato tra gli stati
membri, ma già ad oggi sono previste norme che facilitino gli scambi
commerciali interni.
La Cina
ha annunciato inoltre di aver sospeso per il 2017 i suoi acquisiti di
carbone dalla Repubblica Democratica Popolare di Corea in applicazione delle
sanzioni decise, su richiesta degli Stati Uniti, dal Consiglio di Sicurezza
delle Nazioni Unite (e che la Cina ha accettato). Ciò priva lo Stato
socialista nordcoreano di 1 miliardo di dollari. La Cina sta anche lavorando
per la creazione di un’area di libero scambio con Giappone e Corea del Sud.
L’imperialismo, il capitalismo monopolista, ha le sue leggi e ogni membro si
muove sulla base della sua forza economica, militare e politica, nella
direzione di rafforzare la propria posizione e la reddittività e
competitività dei propri monopoli all’estero, a volte con “la pace” e, a
volte, con mezzi militari. E’ su questa base che possiamo e potremo
comprendere meglio gli eventi e alcune delle mosse cinesi che, in apparenza,
seguono un approccio diverso rispetto a quello di altre potenze economiche
capitaliste.
Appurato come anche la Russia svolga un ruolo di
prim’ordine nella piramide imperialista internazionale, è
necessario per i comunisti avere massima consapevolezza della natura
imperialistica dei paesi BRICS, che si pongono in aperto contrasto con le
potenze imperialiste tradizionali USA (al vertice della piramide) e UE
soltanto nel tentativo di imporre la propria egemonia, in uno scontro
inter-imperialistico nel quale si intensifica
la tendenza alla guerra imposta dal capofila statunitense
(che oltre contro la Russia procede nella concentrazione di potenza di fuoco
anche intorno alla Cina nel mar cinese meridionale e orientale) che rischia
di gettare i popoli del mondo in una nuova guerra generale alla quale tutte
le potenze si stanno preparando.
Va a
tale proposito ricordato come i lavoratori abbiano soltanto da perdere da un
conflitto di questo tipo, e che, come insegna Lenin, i comunisti non devono
schierarsi dalla parte di nessuno dei contendenti in gioco, disarmando
politicamente, organizzativamente e ideologicamente la classe lavoratrice,
ma al contrario devono stabilire una posizione indipendente di classe per
sfruttare attivamente queste contraddizioni nella piramide imperialista al
fine di indebolire le “proprie” borghesie nella direzione di rovesciare nei
propri paesi il capitalismo, il potere della borghesia con le sue alleanze
imperialiste, come l’UE e la NATO, rifiutando al contempo sia la guerra
imperialista, sia la pace imperialista. Solo la lotta per un diverso modello
di società potrà dare ai popoli la liberazione dallo sfruttamento e dal
capitale, e questa lotta ha come artefici e alleati i proletari di ogni
paese.
Dal PCI, dov’era referente
torinese della componente ‘filosovietica’ che faceva capo ad Armando
Cossutta a Rifondazione Comunista al Partito dei Comunisti Italiani fino
alla sua ultima iniziativa, il Partito Comunista, di cui è segretario.
Questa, in sintesi, la biografia di Marco Rizzo, candidatosi alle
amministrative di Torino per il prossimo anno, segretario che abbiamo voluto
intervistare spaziando su vari temi, dalla politica italiana, alla crisi
dell’odierna sinistra radicale e dei suoi molti paradigmi, passando alla
politica internazionale: Grecia, Siria, Russia, imperialismo americano e
l’affermazione dei partiti di destra e trasversali in tutta Europa. Ma
passiamo al vivo dell’intervista.
1) Signor Rizzo, lei è di sinistra?
No. Affatto. Sono comunista.
2) Che ci dice su Tsipras e la Grecia? Uno dei miti della sinistra radicale
‘politically correct’ che lei critica duramente, tanto che per le elezioni
europee del 2014, a sostegno della sua candidatura a presidente della
Commissione europea, gli hanno dedicato addirittura una lista unica, L’Altra
Europa con Tsipras.
Non casualmente noi del PC siamo vicinissimi al KKE, il Partito Comunista di
Grecia, non solo disposto a non stare nell’UE, ma con la nostra stessa
identità marxista-leninista e i nostri stessi obiettivi: l’abbattimento
della società capitalista e l’instaurazione di una società socialista e
veramente egualitaria. Alexis Tsipras, invece, è il paradigma di una
sinistra radicale che prima urla, ma poi, quando si tratta di fare la scelta
finale, si piega ai diktat della troika e dell’UE. Non voglio affatto
insinuare che fosse tutto stato pianificato a tavolino, ma quando prima il
governo mette sul piatto misure per circa 13miliardi, quindi invoca il
referendum, poi, appena questo passa, il giorno immediatamente successivo
sarà di 18miliardi, la troika rilancia di 21 e lui infine accetta. È
evidente che la categoria del ”tradimento”, se si è lucidi, passa eccome
nella mente dei più.
3) Questo significa che, secondo lei, riformare l’UE è utopico?
La domanda è un’altra: questa UE è riformabile? Ci sono stati degli errori
casuali di progettazione presenti nella sua struttura, come l’aver prima
fatto l’unione monetaria ed economica e solo dopo un’unione politica? No: io
dico l’esatto contrario. Quello che stiamo vivendo è stato sin dall’inizio
il programma del ceto dirigente e della classe capitalista, dato che l’idea
era quella di creare una zona di libero scambio legata agli Stati Uniti
d’America, e a lei assoggettata tramite la NATO, a vantaggio del grande
capitale, e non dei cittadini.
4) Passiamo alla politica estera, ma rimanendo in Europa: in Francia e un
po’ ovunque si affermano vari partiti come il Front National di Marine Le
Pen. Da marxista-leninista, come giudica il fatto che questo partito – e i
suoi epigoni europei – vengano votati oramai da larghe fette dell’elettorato
popolare, quello che tradizionalmente dovrebbe votare a sinistra?
La sinistra si è ormai trasformata ed è emersa una sinistra “confusa” nei
valori, che accetta ed elogia la globalizzazione, il cosmopolitismo e
l’europeismo scambiandoli per l’internazionalismo operaio, che sposa il
liberalismo, l’individualismo sfrenato, l’edonismo godereccio, l’ideologia
dei diritti umani, che non mette in discussione il capitalismo ripiegando
sui diritti civili (matrimonio gay, femminismo, meticciato, culto per i
migranti ecc.) ma dimentica battaglie più importanti, come il conflitto di
classe e l’ottenimento della parità di diritti sul lavoro per tutti, per
l’autoctono e lo straniero, mentre ha ripudiato ogni idea di portare al
potere i lavoratori. La sinistra ha lasciato Marx e Gramsci (per non parlare
di Lenin e Stalin) alla Le Pen, che ora li cita senza scrupoli, e la cosa la
reputo orrida. Parlando del caso francese – simile al caso italiano –,
questa sinistra composta da un PCF eurocomunista che sta col massone
progressista Jean-Luc Mélenchon nel Front de Gauche, essendo radical chic,
fighetta e totalmente diversa dalla vera classe lavoratrice, porterà
quest’ultima a guardare dall’altra parte. Bisogna ripartire dalla nostra
cultura, oltre che dalla politica, per creare un’alternativa.
5) Parla quindi di intraprendere una battaglia culturale?
Certo, visto che l’ideologia è importante, checché ne dica chi dice che le
ideologie sono finite. Ecco perché noi del PC proponiamo il ritorno ad una
teoria certa (il marxismo-leninismo) e un progetto di controffensiva
culturale e storiografica relativo alla storia del movimento operaio,
facendo nostra tutta la storia del comunismo mondiale, esaltando figure come
quella di Karl Marx, Friederich Engels, Vladimir Lenin, Iosif Stalin,
Antonio Gramsci e Pietro Secchia, condannando il revisionismo tout court, da
Kruscev a Gorbaciov. Non a caso sulla nostra tessera – nella prossima ci
sarà il volto di Secchia – è riportato “Non è fallito il socialismo ma la
sua revisione”.
6) La maggioranza delle sinistre che lei contesta hanno sposato uno dei temi
identificabili come il paradigma stesso del ‘politicamente corretto’, la
quinta essenza dell’ideologia dominante, ovvero il femminismo. I mezzi di
informazione e noti volti della politica – si pensi a Laura Boldrini –
sbandierano la retorica vittimista del ”femminicidio” come un’arma di
distrazione di massa per parlar d’altro – si veda il silenzio sulle ”morti
bianche” –, utilizzando però un’ideologia che risulta essere sessista e
interclassista, capace di indirizzare strali contro la figura del maschio,
al di là della classe sociale d’appartenenza. Che ne pensa lei, da
comunista?
Concordo in pieno. Si parla di quello per non parlare di cose molto più
importanti. Pensi ad esempio a quello che è successo in Grecia con Tsipras
al governo, che approva le unioni civili dopo aver fatto passare la peggior
macelleria sociale, dimostrando che per la socialdemocrazia la concessione
dei diritti civili viene utilizzata come strumento di distrazione da
problemi ben più evidenti, dato che la contraddizione non è fra etero e gay,
ma fra l’omosessuale e l’etero povero contro l’omosessuale ed etero ricco,
dato che chi potrà sposarsi saranno coloro che appartengono alle classi
agiate, mentre chi appartiene alle classi popolari avrà soltanto sulla carta
questa possibilità, visto che una famiglia la si crea solo con un reddito
stabile, e le recenti privatizzazioni, licenziamenti ecc. non facilitano la
cosa. E adesso, per calmierare il tutto, fanno una riforma ”laterale” per
buttar fumo negli occhi. Come se per ricostruire una casa partissimo dalle
maniglie, e non dalle fondamenta. Ben vengano i diritti civili, ma se non
sono accompagnati a quelli sociali saranno sempre una presa in giro.
Insomma, questo episodio conferma ulteriormente cos’è l’odierna sinistra,
che ha sposato le battaglie individualiste nate dall’Illuminismo e dalla
Rivoluzione francese del 1789 abbandonando quelle collettive di tipo
sociale, diffuse dalla Rivoluzione d’Ottobre del 1917.
7) Abbiamo recentemente assistito all’invito da parte dei ministri degli
Esteri della NATO, del Montenegro a diventare il 29mo stato membro
dell’Alleanza Atlantica. È il terzo stato balcanico, dopo Croazia e Albania,
che vi aderisce. La Russia di Vladimir Putin si è opposta, dato che tale
evento minerebbe alla stabilità dei Balcani. Lei, da comunista, come
interpreta la reazione di Mosca? Che giudizio ha di Putin?
Da una parte stiamo assistendo ad un accerchiamento dell’ex URSS da parte
dell’imperialismo americano: i paesi baltici sono nella NATO, l’Ucraina è
stata scippata platealmente con un colpo di stato per farla passare in area
americana. Insomma, è in corso una nuova fase dell’espansionismo
statunitense. Il Montenegro – come il Kosovo – è in mano ai
narcotrafficanti. Lo vogliono nella NATO per accerchiare la Russia e chi
vuole esser indipendente dal disegno egemonico americano, come il Venezuela,
Cuba, la Corea del Nord, la Cina, l’Iran, la Siria, ecc.
Ecco perché noi comunisti, pur non condividendo i regimi di quei paesi,
siamo loro alleati quando essi sono presi di mira dall’imperialismo
americano. Siamo stati solidali con la Libia di
Gheddafi, così come siamo solidali con la Siria di
Assad e con l’Iran, nonostante questa sia diversissima da noi, essendo un
regime teocratico; questo perché devono esser indipendenti e sovrani.
Tornando alla Russia, essa non è affatto l’Unione Sovietica, neanche quella
revisionista di Breznev, che noi critichiamo, ma è un paese capitalista
pieno di contraddizioni, dove il potere economico è in mano agli oligarchi.
Certo, meglio Putin che l’ubriacone Eltsin. È però stupido esaltare il
“compagno” Vladimir Putin.
In
Siria il locale Partito Comunista appoggia il Ba’th di Bashar al Assad e la
sua lotta ad oltranza contro il fondamentalismo islamico, ieri quello dei
“ribelli”, oggi quello dell’ISIS. Ammar Bagdash, segretario comunista, ha
detto che la Siria è paragonabile alla Spagna repubblicana, riferimento alla
lotta antifascista contro l’invasore nazifascista. Come mai, se si eccettua
il suo partito e qualche piccola realtà marxista, il grosso della sinistra
italiana fa fatica ad appoggiare Assad, sostenendo addirittura, in un primo
momento, le ‘primavere arabe’? È un’ulteriore sintomo di crisi culturale?
Ferrero e Ferrando hanno sostenuto in Libia e in Siria i ribelli contro i
legittimi governi, foraggiati dalla CIA? Noi siamo stati sempre con Gheddafi
e Assad. Ecco cosa ci differenzia da questa sinistra radicale.
9) Voi intrattenete ottimi rapporti con la Corea del Nord e la Cina
Popolare, entrambi guidati da partiti comunisti. Non è però una
contraddizione, visto che la Corea sembra retta da una sorta di ”monarchia
comunista”, il cui potere si passa da padre in figlio, mentre in Cina, col
nome di ”Economia socialista di mercato”, si perpetra un modello economico
ultracapitalista. Che ne pensa?
Per quanto riguarda la Corea del Nord le ragioni sono prettamente
strategiche. Il socialismo coreano non è il nostro modello per l’Italia e
l’Europa. Rispetto la loro scelta, che però è diversa dalla nostra.
Solidarizziamo con lei quando invece è vilipesa da tutti a sinistra e e non:
vedi i famosi reportage e scoop del Corriere della Sera che poi si rivelano
platealmente falsi e smentiti in due righe. Per quanto riguarda la Cina
Popolare, è una situazione diversa dalla Corea del Nord. Quando chiedi alla
Ferrari e sai che vende la maggioranza di autovetture in Cina, che finiscono
in mano ai rampolli della nomenklatura, senz’altro non penso all’ascetismo
di Lenin, di Stalin o di un Mao Tse-Tung.
10) Perché fondare un altro partito comunista?
Perché, come le dicevo, noi abbiamo un’ideologia, il marxismo-leninismo,
mentre gli altri sono eclettici, sono trockjisti, libertari, progressisti.
Pensi a Ferrero: che c’entra esaltare come comunista la sua fede valdese?
Inoltre, oltre alla nostra ideologia, abbiamo un progetto politico concreto
e forte, privo di derive correntiste, rafforzato attraverso la stabile e
crescente relazione internazionale fra partiti fratelli, come l’Iniziativa
dei Partiti Comunisti ed Operai Europei, con ben 29 partiti comunisti
dell’Europa continentale, un minimo di leadership anche mediatica ed un
gruppo dirigente coeso e aperto ai giovani. Insomma, siamo comunisti!
L’immigrazione dalla Libia coinvolge da
vicino il nostro Paese: la rotta libica infatti, porta lungo le coste italiane
buona parte dei migranti che arrivano in Italia. La tratta
riguarda soprattutto cittadini dell’Africa sub sahariana e del corno d’Africa,
mentre sono storicamente molto pochi i cittadini libici che mirano a raggiungere
l’Italia.
L’inizio del fenomeno migratorio dalla
Libia
La rotta libica inizia ad essere molto frequentata dai
migranti intorno alla metà degli anni Novanta. Prima di allora, il numero di
persone sbarcate in Italia dalla Libia appare molto ridotto. In realtà, sul
fronte dell’immigrazione, a destare maggiore preoccupazione all’epoca è la
tratta albanese: nel 1997 in particolare, il caos in Albania
porta centinaia di cittadini di quel paese balcanico in Italia.
I primi viaggi della speranza che solcano dalla Libia
vedono l’utilizzo di barchini di legno di fortuna e, il più delle volte,
culminano in sbarchi a Lampedusa.
L’immigrazione durante la Libia di Gheddafi
Il fenomeno migratorio dalla Libia inizia ad avere
dimensioni importanti nel 2002: quell’anno, complice la destabilizzazione del
corno d’Africa e l’apertura di corridoi attraverso il Sahara nel sud della
Libia, sono centinaia coloro che raggiungono il paese retto in quel periodo
storico dal rais Muhammar Gheddafi.
Ma occorrono fare dei distinguo: se da un lato aumenta
il numero di migranti presenti in Libia, dall’altro non si assiste ad una decisa
impennata di sbarchi verso l’Italia. Pur tuttavia, da questo punto di vista la
strada sembra aperta. Se prima infatti si contano poche decine di sbarchi
all’anno, dal 2002 in poi il numero è di decine al mese soprattutto durante la
stagione estiva.
Un altro fattore che porta numerosi migranti in Libia, è
l’uscita del paese di Gheddafi dal limbo delle sanzioni internazionali. Questo
fatto avviene, in una prima tranche, nel 1999 e viene poi certificato con
l’abbandono del programma nucleare da parte del rais nel 2004. Sono circostanze
politiche sbloccano investimenti in Libia per miliardi di Dollari, dove Gheddafi
riesce ad investire gli ingenti proventi del petrolio.
La Libia diventa un cantiere a cielo aperto e ad
alimentare l’economia è la manodopera proveniente dai paesi africani limitrofi.
In questi anni, Tripoli è una sorta di hub africano a cui migliaia di cittadini
del continente nero guardano come speranza per un futuro lontano dai propri
paesi poveri o in guerra.
Ma tra le migliaia che arrivano in Libia, ci sono anche
gruppi che spingono per andare in Europa ed in Italia in particolar modo. Alcune
organizzazioni criminali, fiutando l’affare dell’immigrazione illegale, iniziano
ad organizzare sempre più traversate del Mediterraneo centrale. Il boom in
questo decennio si registra nel 2008, quando in Italia arrivano dalla Libia
circa 38mila migranti africani. Una situazione che inizia a generare nel nostro
Paese un certo allarme di natura sociale.
Mappa
di Alberto Bellotto
Il ruolo del trattato di amicizia italo –
libico
Ma il 2008 è anche l’anno del cosiddetto “Trattato di
amicizia italo-libico”: si tratta di un grande accordo su diversi strategici
settori che segna il superamento delle tensioni dovute al periodo coloniale.
Siglato a Bengasi con le firme del presidente del consiglio Silvio
Berlusconi per l’Italia e di Muhammar Gheddafi per la Libia, il
documento tocca anche la spinosa questione dell’immigrazione.
Roma, in particolare, si impegna a versare cinque
miliardi di euro all’anno per vent’anni alla Libia come risarcimento del periodo
coloniale. In cambio, tra le promesse che Tripoli si impegna a mantenere, vi è
anche quella riguardante il contrasto alle organizzazioni criminali che
gestiscono la rotta libica dell’immigrazione.
Ed in effetti già nel 2009 gli sbarchi in Italia
appaiono calati del 90% rispetto al 2008: questo perché le autorità libiche
arrestano scafisti e boss dei gruppi criminali, così come smantellano le
fabbriche dei barchini di legno disseminate lungo la costa ed iniziano una
sorveglianza costante dei porti da cui partono la gran parte dei viaggi della
speranza. La guardia costiera libica viene inoltre armata ed equipaggiata grazie
a numerosi investimenti da parte italiana, anch’essi previsti dal trattato di
amicizia. Il pattugliamento del mare in questa porzione del Mediterraneo
centrale appare costante.
La fine dell’era di Gheddafi e le conseguenze
sull’immigrazione
Una situazione che però dura il breve volgere di due
anni. All’inizio del 2011 infatti, il mondo arabo viene sconvolto da un’ondata
di proteste in molti paesi che ben presto coinvolge anche la stessa Libia specie
dopo la caduta dei governi di Ben Ali in Tunisia e
Hosni Mubarack in Egitto.
Le istituzioni libiche appaiono quindi fragili ed in
difficoltà ed iniziano a non poter più far fronte agli impegni presi con
l’Italia. Per di più, quando soprattutto da Francia e Gran Bretagna si profila
la spinta verso un intervento armato contro Gheddafi, il rais prova a sfruttare
l’immigrazione come arma di pressione politica verso l’Europa. Una tattica che
si accentua quando l’Italia si accoda alle velleità belliche di Parigi e Londra.
In Tripolitania le autorità libiche liberano molti degli
arrestati negli anni precedenti, promettendo loro un lavoro ed in tal modo
assoldando ex boss della tratta libica che tornano ad immettere barchini nel
Mediterraneo. La situazione precipita con la sconfitta militare di Gheddafi ad
opera dei cosiddetti “ribelli” e la morte del rais, avvenuta
nell’ottobre del 2011. Da quel momento in poi, a Tripoli non siederà più alcuna
autorità in grado di affrontare in modo strutturale il problema
dell’immigrazione.
Le tratte che portano i migranti in Libia
Fin qui dunque la storia della tratta libica, dalle sue
prime manifestazioni per via dei primi sbarchi negli anni Novanta fino
all’impennata di approdi dovuta alla caduta di Gheddafi. Ma quali sono le rotte
che contraddistinguono la tratta che porta centinaia di migranti dalla Libia
all’Italia?
La prima e più importante, riguarda l’Africa occidentale
sub sahariana. Da qui verso la Libia arrivano i migranti provenienti dai paesi
dell’Ecowas, ossia l’unione economico – doganale tra Stati sia francofoni che
anglofoni che compongono gran parte di questa regione del continente nero.
Nigeria in primis, ma anche Mali, Burkina Faso, Senegal, Costa d’Avorio, Liberia
ed altri paesi della regione che fanno parte di questa organizzazione vedono,
anno dopo anno, accrescere il numero dei propri cittadini che si dirigono verso
la Libia per provare a partire in direzione Europa.
Mappa
di Alberto Bellotto
Facendo parte dell’Ecowas, da questi paesi raggiungere
il Niger è molto semplice: non esistendo grossi controlli doganali, si può
giungere a Niamey, la capitale del Niger, senza molte difficoltà. Da qui poi, si
risale verso il nord di questo paese per raggiungere il confine con la Libia. Da
qui in poi entrano in gioco le organizzazioni criminali operanti nel paese
nordafricano.
Un’altra tratta molto attiva riguarda il corno d’Africa.
Si parte da Eritrea, paese con molte difficoltà economiche, e dalla Somalia che,
a partire dal 1993, risulta come un vero e proprio “Stato fallito”. Dal corno
d’Africa si giunge quindi in Sudan, Paese che confina con la parte più
meridionale della Cirenaica. Ed è lungo questi confini desertici con la Libia
che avviene il passaggio dei migranti nel paese nordafricano.
Infine, pur se meno frequentata, un’altra rotta
importante che riguarda la Libia è quella orientale: numerosi migranti partono
dal medio oriente per giungere in Egitto e, da qui, percorrere tutta la costa
della Cirenaica per giungere poi nei porti di partenza delle città della
Tripolitania.
Le città protagoniste della rotta libica
Gran parte delle partenze dalla Libia avvengono dalla
Tripolitania e, in particolare, lungo un fascia che va dal confine tunisino fino
alla cittadina di Al Khums, a 50 km ad est di Tripoli. Dalla Cirenaica invece le
partenze appaiono storicamente molto più ridotte e questo per un fattore
prettamente geografico. Le località sopra citate infatti, si trovano a circa 300
km da Lampedusa ed in una posizione che permette a molti barconi di imboccare la
via verso il canale di Sicilia.
Ma la rotta libica non ha nella Tripolitania l’unica
regione dove si sviluppano gli affari delle associazioni criminali. Tutto parte,
in primis, dal confine con il Niger: qui, come detto in precedenza, entrano in
azione i gruppi che prendono in consegna i migranti che risalgono dall’Africa
sub sahariana. In questa fase i gruppi sfruttano le esperienze dei carovanieri
del deserto per risalire lungo la regione impervia del Fezzan.
La prima tappa riguarda la città di Sebha. Si tratta del capoluogo della regione
più a sud della Libia: qui convergono tutti i vari gruppi che arrivano dal
Niger.
Diverse associazioni criminali hanno in questa città
campi e strutture dove, avvalendosi anche di gruppi locali, avviene una sorta di
primo smistamento dei migranti diretti verso la costa. Successivamente, la
marcia prosegue sempre nel deserto fino a giungere nell’entroterra della
Tripolitania. Qui hanno sede diversi campi gestiti dalle stesse associazioni
criminali ed è proprio all’interno di questi spazi che avvengono gli orrori
documentati nel corso degli ultimi anni. A gestire questa fase della rotta
libica, sono il più delle volte gruppi non libici: bande collegate alla mafia
nigeriana, interessate soprattutto alla tratta della prostituzione, mercenari
provenienti da altri paesi africani sono i principali protagonisti della
risalita verso la costa.
Dopo aver aspettato anche per mesi, i migranti
raggiungono quindi le località portuali da cui materialmente partono i barconi.
Zuwara fino al 2015 risulta essere la cittadina in cui i gruppi criminali che
gestiscono l’immigrazione appaiono più radicati. Successivamente gran parte
delle partenze avviene da Sabratha, cittadina storica ad ovest di Tripoli e non
lontana dal confine tunisino. Ad est della capitale libica invece, vengono
utilizzati soprattutto i porti di Garabulli ed Al Khums. Si
calcola che, in queste ultime località, l’indotto dell’immigrazione clandestina
coinvolge la metà della popolazione e rappresenta la più importante attività
economica.
In Cirenaica invece, le rotte che arrivano dal corno
d’Africa sfruttano soprattutto la provincia meridionale di Al Kufra e la città
costiera di Adgabiya.
Il naufragio del 3 ottobre 2013
L’impennata degli sbarchi, dal 2011 in poi, non si
attenua. La caduta di Gheddafi lascia mano libera a molti gruppi criminali che
vedono nell’immigrazione l’unica grande fonte di reddito. A gestire le partenze
dalle coste sono scafisti spesso del luogo, collegati a gruppi o tribù che
sfruttano i proventi della tratta libica per imporre il proprio dominio in un
determinato territorio.
In questo contesto, a riportare sotto la luce dei
riflettori il fenomeno migratorio è senza dubbio la strage del 3 ottobre 2013
avvenuta dinnanzi le coste di Lampedusa. Un barcone, con più di 400 migranti a
bordo, si ribalta a poche miglia dall’isola più grande delle Pelagie a causa di
un incendio scoppiato a bordo che scatena il panico tra i migranti. Le vittime
sono 366, una tragedia considerata tra le più gravi dell’immigrazione. I morti
risultano in gran parte di origine eritrea.
L’episodio viene considerato spartiacque in quanto, come
descritto in un articolo di Limes, l’Italia inizia a muoversi da sola
sul fronte libico e nel contrasto all’immigrazione, dato soprattutto
l’immobilismo dell’Unione europea.
L’emergenza del 2017
Ma negli anni il problema non lo si riesce ad
affrontare: la Libia rimane senza Stato ed in balia delle milizie, l’Italia
continua a vedere crescere il numero degli sbarchi lungo le proprie coste.
Vengono avviate le missioni Frontex e Sophia
in sinergia con l’Ue, ma il fenomeno migratorio non si attenua. Si assiste a
nuovi record di approdi anche con i governi di Letta (il cui esecutivo è in
carica durante la strage di Lampedusa) e di Matteo Renzi. Anche perché nel
frattempo in Libia si assiste all’emersione dell’Isis, il quale
per alcuni mesi controlla nel 2015 la località di Sabratha e prova ad avere
sempre più introiti dall’immigrazione.
L’apice però lo si tocca nel 2017: la continua
destabilizzazione della Libia fa sì che i gruppi criminali e le milizie
impegnate nella tratta dei migranti prendano sempre più potere lungo la costa
traghettando migliaia di persone verso la Sicilia. Si assiste anche all’ingresso
nel Mediterraneo di numerose navi di organizzazioni non governative, le quali
vanno a prendere i migranti in prossimità della costa libica per farli poi
sbarcare in Italia.
Per mettere un freno a questa situazione, il ministro
dell’interno del governo Gentiloni, Marco Minniti, si muove sul fronte libico in
chiave anche diplomatica: dopo aver mediato un accordo con le tribù libiche del
sud della Libia volto a migliorare il controllo dei confini con il Niger, nel
mese di agosto del 2017 sigla un accordo con il governo di Al Sarraj in cui in
cambio di soldi e potenziamento della guardia costiera Tripoli si impegna al
controllo delle coste. Un accordo non molto diverso rispetto a quanto previsto,
su questo fronte, dal trattato di amicizia del 2008.
Il trattato con Al Sarraj riceve alcune critiche a
seguito di reportage della Reuters secondo cui, di fatto, in realtà i
soldi italiani finirebbero dentro le tasche delle milizie che controllano il
traffico di migranti. Appare certo comunque che, anche all’interno del contesto
libico, la “torta” relativa ai proventi dell’immigrazione verso l’Italia fa gola
a molti gruppi e causa frizioni tra le milizie che controllano la costa.
La situazione attuale
Dopo i picchi del 2017, tra il 2018 e l’inizio del 2019
si assiste ad un calo complessivo intorno al 90% degli sbarchi lungo la tratta
libica. Ad influire sono i maggiori controlli attuati dalla Guardia Costiera
libica, che riesce in diverse occasione a bloccare i barconi quando si trovano
ancora all’interno delle proprie acque internazionali.
Risulta variato anche il contesto politico italiano, con
l’insediamento del governo “gialloverde” di Giuseppe Conte ed
in cui al ministero dell’interno siede il leader della Lega Matteo Salvini. Il
nuovo esecutivo ingaggia in più occasioni un braccio di ferro con le navi delle
ong che vogliono sbarcare in Italia.
A giugno del 2019, a preoccupare maggiormente è la
guerra in corso a Tripoli tra le milizie di Al Sarraj e l’esercito del generale
Khalifa Haftar. Il bel tempo una volta entrata la bella
stagione inoltre, sta favorendo la partenza di diversi migranti dai porti della
Tripolitania.
Migranti, “patto criminale tra Italia e
Libia: nei lager sul Mediterraneo torture, stupri e schiavi. L’Europa apra gli
occhi”
L’inferno esiste ed è in Libia.
Dove centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini
vengono ogni giorno torturati nel fisico e annientati nella
mente. Proprio come nei campi di concentramento nazisti.
Sepolti vivi e dimenticati in quell’enorme buco nero che è diventata la
Libia dopo gli accordi dell’estate 2017 tra il governo italiano guidato
da Paolo Gentiloni e quello di Fayez Al Sarraj.
Quell’intesa, definita “disumana” dalle Nazioni Unite, ha
trasformato il paese africano in una trappola mortale: i migranti
che vogliono arrivare in Europa, ma anche quelli che sono stati
respinti, vengono portati nei centri di detenzione, i nuovi
lager. In Libia attualmente ce ne sono 34,
controllati dal Ministero dell’Interno di Tripoli e, di questi, solo una ventina
sono quelli che le agenzie OnuOim e
Unhcr hanno potuto visitare. Quello che accade in quei luoghi è atroce.
Da quando le partenze verso l’Italia sono rallentate, qui i tempi di permanenza
dei migranti si sono notevolmente allungati.
La vicenda della nave Aquarius, ora diretta a
Valencia, in Spagna, è l’ultimo atto di una tragedia
senza fine.
A testimoniarlo nel libro “Non lasciamoli soli”,
scritto dai giornalisti di La RepubblicaFrancesco Viviano
e Alessandra Ziniti in collaborazione con Medici senza
Frontiere ed edito da Chiarelettere, è stato chi da
quei lager è riuscito a fuggire. E ha raccontato di donne e bambine violentate
da decine di uomini, costrette a prostituirsi e di ragazzi che, arrivati in
Libia per poi cercare di raggiungere l’Europa, hanno scelto di diventare loro
stessi torturatori. Tutto questo mentre l’Italia ha deciso di
addestrare, finanziare e dotare di motovedette
la guardia costiera libica, che non fa altro che riportare
quelle persone nei centri di detenzione. Hanno fatto il giro
del mondo le immagini registrate dalle telecamere della nave della ong
Sea Watch in acque internazionali in cui si vedono
i miliziani della guardia costiera libica maltrattare e gettare
in mare i migranti che cercano aiuto. Quel giorno, il 6
novembre 2017, hanno perso la vita 50 persone. ilfattoquotidiano.it ha
chiesto a Francesco Viviano quali effetti ha avuto il patto
stretto con la Libia e di chi sia la responsabilità di ciò che
sta avvenendo.
Nel 2016 ci sono stati 180mila arrivi di
migranti, l’anno dopo 119 con una flessione del 35% arrivata anche al 70, con la
diminuzione degli sbarchi nei primi mesi del 2018 e il loro quasi azzeramento
nelle settimane prima del voto. Meno sbarchi, però, non significa meno morti.
Cos’è che Italia ed Europa non vogliono ammettere?Fanno tutti finta di
non vedere, ma sono costretti a farlo, perché milioni di morti non si possono
dimenticare. Solo pochi di loro hanno un nome e un cognome, altri sono numeri e
sulla loro pelle si fanno strategie, propaganda, affari. I governi di destra e
di sinistra hanno giocato e continuano a farlo. Il primo respingimento, quello
del maggio 2009, me lo ricordo ancora. Fu deciso dal governo di centrodestra di
allora e dal ministro dell’Interno, il leghista Roberto Maroni. L’obiettivo era
bloccare i flussi migratori, ma non servì a nulla visto che le partenze hanno
toccato numeri epocali nel 2016 e nel 2017. Furono soccorsi un centinaio di
migranti. A bordo delle motovedette italiane, convinti di essere diretti a
Lampedusa, si accorsero invece che i loro salvatori li stavano riportando
all’inferno, in Libia. Le donne violentate e gravide dei figli degli stupratori
riconsegnate ai torturatori. Quello che sta accadendo oggi non è molto diverso
ed è il risultato della strategia dell’ex ministro dell’Interno Marco Minniti
(e del governo Gentiloni), che oggi critica il comportamento di Matteo Salvini,
ma che non mi sembra abbia fatto di meglio con i ‘respingimenti concordati’ con
questi trafficanti.
È stato un patto criminale quello stretto con
Fayez Al Sarraj e alcune tribù del Sud della Libia?
Eppure quando l’Onu l’ha denunciato, l’ex governo e la maggioranza sono rimasti
in silenzio. Certamente è stato un patto criminale, perché gli sbarchi sono stati
ridotti, ma hanno intrappolato in Libia centinaia di migliaia di migranti,
ridotti a schiavi e soggetti a ogni tipo di tortura. La verità è che nessun
accordo potrà arrestare il flusso migratorio epocale di questi ultimi anni,
perché le cause sono da ricercare nelle drammatiche condizioni di vita di buona
parte dei paesi dell’Africa. Dopo che li abbiamo sfruttati da sempre, non
possiamo far finta che non esistano, ancora più perché oggi l’Africa è un nuovo
campo di semina della jihad. Sono, invece, d’accordo con il sindaco di Palermo
Leoluca Orlando che ha denunciato i mancati soccorsi in mare ai migranti alla
Corte penale internazionale dell’Aja, alla Procura nazionale antimafia italiana
e alla Procura di Roma, competente per i crimini commessi all’estero.
Pochi giorni fa, per la prima volta, il
Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato delle sanzioni
individuali contro sei trafficanti di esseri umani in Libia. Tra loro ci sono anche esponenti della guardia costiera libica o personaggi
con cui l’Italia avrebbe trattato per fermare i flussi migratori. Tra le persone
sanzionate e inserite nella blacklist dell’Onu anche Abd al Rahman al Milad, che
è il capo della Guardia costiera di Zawiya, tra l’altro finanziata anche con i
fondi dell’Unione europea.
Cosa accade nei campi di detenzione? Accade che Ahmed venga scelto per fare il becchino del mare, raccogliendo
migliaia di corpi di uomini, donne e bambini, senza gambe, braccia, a volte
senza testa e che tutti i giorni sia costretto a riempire le fosse comuni sotto
le dune di sabbia del deserto. In tre anni di corpi ne ha raccolti tremila.
Accade, ad esempio, che nel ‘ghetto’ del generale Alì, a Sabha, un migrante come
tanti altri, arrivato dalla Nigeria e di nome John Ogais si venda ai suoi
carcerieri diventando uno di loro. Il più feroce, ‘Rambo’. Rambo di giorno
uccideva e di notte stuprava. Un giorno scelse un ragazzino di quindici anni
pelle e ossa, stretto al fratello maggiore, per mostrare ai nuovi arrivati cosa
li attendeva. Lo costrinse a strisciare a pancia in giù, gli legò i piedi e li
sollevò e poi iniziò ad alternare il cavo elettrico al tubo di plastica,
picchiando duro sulle piante dei piedi. Dopo un tempo infinito di torture, gli
tirò addosso un secchio d’acqua e gli attaccò i cavi elettrici sul petto. Il
fratello chiese pietà, ma Rambo lo costrinse a chiamare a casa per chiedere ai
suoi familiari di mandare altri soldi ed evitare così di fargli fare la stessa
fine del fratello.
Oggi Rambo è sotto processo. Grazie ad Hamed Bakayoco, migrante che ha studiato legge nel suo Paese e ad
altri sei sopravvissuti all’inferno del ghetto di Alì che, invece di lasciare
subito l’Italia e cercare di raggiungere il Nord Europa, hanno deciso di
rimanere e cercare di portare in carcere i torturatori. La storia è incredibile:
quando Hamed fugge da Sabha si porta dietro il numero di telefono del ghetto di
Alì e una volta a settimana chiama alla ricerca di Rambo, fino a quando gli
dicono che ormai è in Italia. Così, quando Hamed sbarca a Lampedusa, bussa alla
porta della polizia, dicendo di sapere che Rambo è arrivato in Italia e di
essere in grado di riconoscerlo.
“Ci davano un unico piatto di riso pieno di
vermi per tutti una volta al giorno e quando non ci davano acqua, dovevamo bere
urina”. È il racconto dei compagni di viaggio di Segen. Chi era? Un giovane eritreo di 22 anni e 35 chili. Era tra i cento e passa tirati su
dall’acqua a quaranta miglia dalle coste libiche in una mattina del marzo 2018.
È morto di stenti meno di 24 ore dopo, a causa di un anno e mezzo di torture e
schiavitù in una prigione libica. Perché il patto criminale tra Italia e Libia
ha avuto come conseguenza quella di allungare i tempi di permanenza nei lager.
Oscar Camps, fondatore della ong spagnola
Proactiva Open Arms, ha detto che ci sono più schiavi ora che in qualsiasi altro
momento della storia. Nel libro dedicate un capitolo a quello che definite
‘l’assalto alle ong’. Quali effetti hanno avuto nel Mediterraneo le inchieste e
le accuse alle organizzazioni non governative?
Tutto è partito da alcune procure e dalle parole del procuratore di Catania
Carmelo Zuccaro che ha delegittimato le ong. Le organizzazioni sono state
accusate di costituire un fattore di attrazione in grado di calamitare i barconi
nel Mediterraneo e di favorire i trafficanti, essendo disponibili a soccorrere
i migranti quasi ‘a casa’ e consentire agli scafisti di riportare indietro le
imbarcazioni. Poi ci sono le accuse che riguardano i finanziamenti poco
trasparenti. Di fatto le due inchieste aperte dalle procure di Catania e Trapani
finora non hanno portato alla luce alcuna prova e, nel frattempo, la decisione
del Viminale, a giugno 2017, di imporre un codice di autoregolamentazione alle
navi umanitarie ha finito per restringere ancora di più una strada già difficile
da percorrere. Alla fine in mare sono rimaste pochissime navi, tra cui proprio
l’Aquarius. Che ora va in Spagna, a Valencia, per ritornare chissà quando. Il
progetto Minniti, perché così lo chiamo, era quello di far sparire tutte
le navi delle ong e ha trovato il sostegno di alcune procure. Invece
bisognerebbe ricordare, lo ha fatto l’ex ammiraglio Felice Angrisano, che se non
ci fossero state le navi, e soprattutto i mercantili, oggi il Mediterraneo
sarebbe un tappeto di morti.
Parliamo di responsabilità. Chi si prende la
briga di decidere se lasciare andare i migranti? L’Italia deve rinegoziare i
termini di un nuovo accordo? L’Italia deve in primis costringere l’Europa a intervenire direttamente e
insieme agli altri Paesi deve andare all’origine del problema, cercando di
eliminare le dittature e tutte quelle condizioni che rendono alcuni Paesi
invivibili. Un caso è quello del Niger, Paese che sulla carta dovrebbe essere
ricchissimo, se solo si pensa alla presenza di petrolio, invece la popolazione
viene ridotta alla fame. Francia, Inghilterra, Spagna, Belgio e tutti gli altri
devono aprire gli occhi. Per quanto riguarda l’emergenza in atto, non c’è
alternativa. Nessuno può stabilire a bordo delle motovedette libiche o italiane
chi ha diritto o meno a ottenere lo status di rifugiato o di profugo. L’Italia
deve intervenire concretamente in mare per poi fare da ponte con gli altri
Paesi, stabilendo quante persone verranno accolte da ciascuna nazione. Malta non
vuole i migranti, ma prende più soldi dall’Unione europea. Capisco che l’impatto
è forte, perché lì ci sono 500mila abitanti, metà della città di Palermo, ma
nessuno può sottrarsi a questa emergenza umanitaria.
L’Italia dovrebbe fare da ponte, come sta
accadendo in Niger? Sì. Nel libro parliamo dell’avvio dei corridoi umanitari, unica strada
praticabile per una gestione legale ed efficace dei flussi migratori. Dalla fine
del 2017, infatti, il Viminale, l’Agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr)
e l’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) sono riusciti a
entrare in molti centri di detenzione ufficiali, individuando tra gli aventi
diritto a richiedere asilo quelli in condizione di maggiore vulnerabilità,
soprattutto bambini e donne, e a liberarli.
Dove vengono portate queste persone? Sono state salvate grazie a un ponte aereo verso il Niger, paese tra i più
poveri che sta dando lezioni di umanità e di accoglienza al mondo intero, avendo
aperto le porte a 800mila persone in arrivo da varie rotte migratorie. Questa è
l’unica strada percorribile, insieme a quella dei rimpatri volontari assistiti
che consentono a chi non ha diritto allo status di rifugiato di tornare a casa
con un supporto economico che consentirà loro di avviare un’attività. Quello che
non si può fare è decidere chi ha diritto a continuare a vivere in Europa e chi
può essere abbandonato al suo destino, mentre la gente annega e tende le mani
verso i soccorritori implorando di non riportarli all’inferno.
C'è qualcosa di
malato nella fuga da se stessi, dagli ideali per i quali si è combattuto magari
tutta la vita, negli allontanamenti e nelle tristi e squallide abiure dal
comunismo o dal socialismo e cioè di quanto di meno immanente ci possa essere
oggi nella realtà italiana ed europea in preda a spinte di segno assolutamente
reazionario di destra. Ed è singolare che i ravvedimenti i ripensamenti
avvengano mentre si chiede la resa incondizionata ai lavoratori e la
cancellazione di ogni seppur minimo tratto di socialismo nel welfare delle
legislazioni europee. Perchè personaggi autorevoli della "sinistra" maestri di
pensiero si affannano a comunicare che tutto ciò in cui avevano creduto è
sbagliato e spesso anche abominevole?
Sono rimasto assai
colpito della spiegazione che Rossana Rossanda, un vero e proprio mostro sacro
per diverse generazioni di intellettuali comunisti, ha dato ieri alla crisi di
vendite del "Manifesto" che oramai non raggiunge più le quindicimila copie
giornaliere. Rossanda si domanda: se non possiamo più dirci comunisti che cosa
siamo? Io credo che la crisi di lettori del Manifesto non nasca da una crisi
della idea del comunismo nella gente ma dal progressivo spretamento di gruppi
dirigenti storici della sinistra italiana e dal loro abbandono di ciò che
Rodolfo Morandi chiamava le" latitudini dottrinarie del socialismo". Questa
crisi di "spretamento", di perdita della fede e delle ragioni della scelta
politica è stata visibile in tutta la vicenda della aggressione e della
distruzione della Libia. Rossanda riteneva che fosse condivisibile la rivolta
armata contro la Jamaria e la dittatura di Gheddafi ed ha dato spiegazioni
assurde per l'intervento dello Occidente dicendo che derivava da ragioni
elettorali interne alle Francia. Il Manifesto ha tirato la volata da sinistra ad
una sanguinaria guerra colonialista che ha sfasciato la Libia e l'ha trasformato
in un inferno in cui la legge è scomparsa e si è in balia degli odi tribali.
Credo che rispetto la questione siriana si sta ripetendo lo stesso "errore" di
valutazione. Ma si tratta proprio di un errore oppure di un cambiamento radicale
di prospettiva, in una condivisione della idea che l'Occidente sia la democrazia
e la Siria la Libia l'Iraq siano tirannidi da estirpare anche con il bisturi
della guerra e dei bombardamenti? Rossanda si ripara come Berlinguer sotto
l'ombrello della Nato e sotterra l'analisi comunista della realtà mondiale?
A questo punto
quale differenza tra Rossanda e Veltroni che criminalizza l'art.18 e D'Alema che
dopo avere bombardato Belgrado si dichiara pronto ad arruolarsi per la Siria?
Che c'è di diverso nelle abiure e nei ripensamenti di questi personaggi? Che
cosa resta di sinistra se non di comunista nel "Manifesto"? Perchè i compagni
dovrebbero continuare a distinguere Rossanda da Bersani?
E' singolare che
più la realtà precipita verso il peggio della crisi sociale ed economica e più
si fa insopportabile e stringente la presa autoritaria di un capitalismo sempre
più feroce e sempre più portato alla distruzione della civiltà europea come
l'abbiamo conosciuta da cinquanta anni a questa parte e più i gruppi dirigenti e
singole personalità della sinistra comunista e radicale rinculano a destra,
sempre più a destra. Qualcosa di simile si verificò alla vigilia del nazismo
quando importanti gruppi e personaggi della socialdemocrazia si convertirono al
fascismo. Potrei capire che un capitalismo keinesiano progressista tollerante ed
aperto al benessere dei ceti medi e dei lavoratori possa indurre un dirigente di
sinistra a moderare, ad attenuare al massimo la propria intransigenza di
oppositore. Ma come si fa a diventare di destra quando abbiamo avuto la tatcher
e Reagan e quando il potere delle banche è diventato terroristico verso le
famiglie e le nazioni ed i salari sono stati abbassati brutalmente in tutto
l'Occidente?
Nella fase storica
che si è aperta sarebbe auspicabile piuttosto che l'abiura una riscoperta
integrale del comunismo da Carlo Marx e Federico Engels alla Rosa luxemburg, a
Lenin ed a Stalin. Lenin spiega alla perfezione il fallimento e la vacuità dei
regimi parlamentari e Stalin potrebbe offrire il modello sovietico della
accumulazione collettiva e della trasformazione di un popolo di 160 milioni di
contadini poveri ed analfabeti in un popolo di scienziati, ingegneri,
professori, medici, tecnici capaci di vincere Hitler e di competere nella sfida
spaziale. Ecco, mentre la crisi della società spinge a destra la Rossanda,
Bersani ed a tantissimi altri, la classe operaia che c'è sempre e la lotta di
classe che non è mai finita ripropongono la riscoperta integrale del Comunismo
oggi più che mai attuale e corrispondente agli interessi generali della umanità.
Per questo, io che sono stato socialista tutta la vita credo che oggi essere
socialisti non vuol dire convincersi delle buone ragioni di Friedman e di Monti
ma diventare fino in fondo comunisti. Comunisti come potevano esserlo i
bolscevichi. La Grecia, la Libia, l'Iraq ci indicano tutto quello per cui
dobbiamo lottare....Le scelte sono diventate radicali e discriminanti.
I processi di Mosca e il “Grande Terrore” del 1937-1938: ciò che le prove mostrano.
Grover Furr
31 LUGLIO 2010
Dalla redazione (2004/5) del mio saggio in due parti “Stalin e la lotta per la riforma democratica” una grande messe di prove circa l’opposizione, i processi di Mosca del 1936, 1937 e 1938, le pueghe contro i militari o ” Tukhachevsky Affair “, e la successiva “Ezhovshchina “, spesso chiamato ” il Grande Terrore ” dopo il titolo del libro estremamente disonesto di Robert Conquest pubblicato la prima volta nel 1968.
Le nuove prove confermano le seguenti conclusioni:
* Gli imputati ai processi di Mosca di agosto 1936, gennaio 1937 e marzo 1938, erano colpevoli di almeno quei crimini che hanno confessato. Il “blocco dei diritti e dei trotskisti” effettivamente esisteva. Fu pianificato l’assassinio di Stalin, Kaganovic, Molotov e altri in un coup d’état, quello che si chiama una “congiura di palazzo” (dvortsovyi perevorot). Il “blocco” assassinò Kirov.
* Sia il gruppo dei “Diritti” che i trotzkisti stavano cospirando con i tedeschi e giapponesi, come fecero i cospiratori militari. Se la “congiura di palazzo” non avesse funzionato, speravano di arrivare al potere, mostrando fedeltà alla Germania o al Giappone in caso di invasione.
* Anche Trotsky era direttamente coinvolto nella cospirazione con i tedeschi e giapponesi, così come un certo numero di suoi sostenitori.
* Anche Nikolai Ezhov, capo della NKVD dal 1936 a fine 1938, cospirava con i tedeschi.
Ezhov
Ora abbiamo molte più prove circa il ruolo del capo della NKVD Nikolai Ezhov di quelle che avevamo a disposizione nel 2005. Ezhov, capo del NKVD (Commissariato del popolo per gli affari interni), svolgeva una personale attività cospirativa contro il governo sovietico e la leadership del partito. Ezhov era stato reclutato dai servizi segreti tedeschi.
Come il gruppo dei “Diritti” e i trotzkisti, Ezhov ed i suoi uomini migliori dell’NKVD facevano affidamento su un’invasione dalla Germania, dal Giappone, o da un altro grande paese capitalista. Hanno torturato molte persone innocenti per spingerli a confessare crimini di passibili di pena capitale in modo da fucilarli. Sottoposero a esecuzioni sommarie un gran numero di persone utilizzando prove falsificate o addirittura senza nessuna.
Ezhov sperava che queste esecuzioni di massa di persone innocenti avrebbe fatto schierare gran parte della popolazione sovietica contro il governo. Questo avrebbe creato le basi per lo scoppio di ribellioni interne contro il governo sovietico nel caso di attacco da parte della Germania o del Giappone.
Ezhov mentì a Stalin, al partito e ai capi del governo. Le esecuzioni di massa veramente orribili del 1937-1938 di circa 680.000 persone, sono state in gran parte ingiustificate esecuzioni di innocenti effettuate deliberatamente da Ezhov e dai suoi uomini migliori per seminare il malcontento tra la popolazione sovietica.
Anche se Ezhov fece fucilare un numero molto elevato di persone innocenti, è chiaro che, dalle prove ora disponibili, vi erano anche vere e proprie cospirazioni. Il governo russo continua a conservare ogni cosa ma purtroppo alcuni documenti utili per questa investigazione rimangono top -secret. Non possiamo sapere con certezza esattamente le dimensioni delle cospirazioni reali senza tali prove. Pertanto, non sappiamo quante di queste 680.000 persone erano cospiratori reali e quanti sono stati vittime innocenti.
Come ho scritto nel 2005, Stalin e la direzione del partito cominciarono a sospettare già dall’ ottobre 1937 che la maggior parte della repressione fosse effettuata in modo illegale. All’inizio nel 1938, quando Pavel Postiscev fu aspramente criticato, poi rimosso dal Comitato Centrale, poi espulso dal partito, processato e giustiziato per l’ingiustificata repressione di massa, questi sospetti crebbero.
Quando Lavrentii Beria venne nominato come il vice di Ezhov, questi e i suoi uomini compresero che Stalin e la direzione del partito non si fidavano più di loro. Fecero un ultimo complotto per assassinare Stalin il 7 novembre 1938, in occasione della celebrazione del 21 ° anniversario della Rivoluzione bolscevica. Ma gli uomini di Ezhov furono arrestati in tempo.
Ezhov venne convinto a dimettersi. Un’intensa attività investigativa venne avviata e un enorme numero di abusi del NKVD vennero scoperti. Un gran numero di casi di coloro che furono giudicati o puniti a causa di Ezhov vennero rivisti. Oltre 100.000 persone vennero rilasciate dal carcere e dai campi. Molti uomini del NKVD vennero arrestati e confessarono di aver torturato, processato e giustiziato persone innocenti,. Molti altri membri del NKVD furono condannati al carcere o licenziati.
Sotto Beria il numero delle esecuzioni nel 1938 e il 1940 scese a meno dell’1% del numero raggiunto sotto il comando di Ezhov nel 1937 e 1938; e molti di quelli giustiziati erano uomini dell’NKVD, tra cui Ezhov stesso, colpevoli di una massiccia repressione ingiustificata e di aver sottoposto ad esecuzione persone innocenti.
Alcune delle prove più evidenti e impressionanti pubblicate a partire dal 2005, sono le confessioni di Ezhov e di Mikhail Frinovsky, il secondo in comando di Ezhov. Ho messo alcuni di questi documenti su Internet sia nel loro originale russo che in traduzione inglese. Abbiamo anche un gran numero di confessioni e gli interrogatori, per lo più parziali, di Ezhov, in cui fa molte altre confessioni. Questi sono stati pubblicati nel 2007 in un semi-ufficiale account da Aleksei Pavliukov.
Parziale traduzione dell’articolo reperibile all’URL
http://msuweb.montclair.edu/~furrg/research/trials_ezhovshchina_update0710.html
http://msuweb.montclair.edu/~furrg/research/trials_ezhovshchina_update0710.html