origini lontane dell'antistalinismo (e antileninismo)
ad oltranza
(Bertinotti e il PRC e
Vedi anche:
Socialismo oltre il
Novecento
Bertinotti)
Stalin di Salvatore Lo Leggio
COSTITUZIONE DELL'URSS 1947 ****
Progetto
Associazione Stalin vedi anche
Foglio di
corrispondenza comunista ***
Intervista a Napolitano
quotidiano Gazeta 6.2012
Capisco che, parlando di
errori, Lei intende il periodo staliniano?
LA FALSA EQUIDISTANZA
DEL FILOSOFO COSTANZO PREVE di Amedeo Curatoli
OSTALGHIA La nostalgia dell'Est
Gaspare Sciortino Eviterei di fare un modello del
"socialismo del XXI sec." trattandosi esclusivamente di grande
opportunità storica sfruttata abilmente e sapientemente da Chavez
e mio commento
anche
qui Ottima analisi *****
"Democrazia" e Dittatura Vladimir Lenin (1918)
ESTRATTO DA
DISCUSSIONE FRA UNO STALINISTA E UN BORDIGHISTA
Stalin e l'Occidente liberale tra rimozioni e miti
"Il
Comunismo, a mio parere, è caduto per i suoi meriti e non per le sue colpe"
di Antonio Murabito su fb
Riabilitare
Stalin? di Roberto Monicchia
Ferrero-Diliberto: affinità
elettive Amedeo
Curatoli
Chi ha commesso il massacro di Katyn? Fulvio
Grimaldi (vedi anche qui):
Le fosse di Katyn e il periodico dell’ANPI “Patria” Lettera inviata alla rivista “Patria” dell’ANPI, rimasta senza risposta e
pubblicata dal n. 6/2009 di Nuova Unità
Stalin e il massacro di Katyn vedi anche
qui e
qui e
qui
Così Pietro Nenni,
in una storica seduta della Camera dei deputati,
rievocava
nel marzo 1953 la figura e l'opera di Giuseppe Stalin subito dopo la sua morte
vedi anche:
qui
qui e
qui
Ode a
Stalin di Pablo Neruda
l'ERNESTO La
NON-VIOLENZA e le sue astratte
agiografie dal «Piccolo gioco» del
PRC al «Grande gioco» internazionale
La “svolta non-violenta” del PRC
e le sue resistenze interne di
Leonardo Pegoraro
A
proposito dei fatti d'Ungheria.
Considerazioni di Alberto Lombardo
Patto Molotov-
Ribbentrop
Che Guevara e Stalin
Ché Guevara 1966
“'Sono
arrivato al comunismo grazie a papà Stalin, sono diventato marxista leggendo le
opere di Stalin e nessuno può dirmi che non devo leggere le sue opere.
Il mio dovere di marxista-leninista e di comunista è quello di smascherare
la reazione occulta che si cela nascosta dietro il revisionismo, l’opportunismo
e il trotskismo e insegnare ai compagni l’insegnamento (sia in atto e in
potenza) che non devono accettare come validi i giudizi contro Stalin formulate
dai borghesi, dai socialdemocratici o altri pseudo comunisti lacche’ della
reazione, il cui vero scopo è distruggere il movimento operaio dall’interno
-1966 Che Guevara
https://paginerosse.wordpress.com/2015/03/22/che-guevara-il-marxista-leninista/
***
NOI SIAMO STALINISTI !!
(da nota pubblicata da Michele Trocini su fb:
"Chi ci vuole condannati a
ripartire dalle urne cinerarie
delle categorie ideologiche ha
sbagliato i conti ! La loro
paura delle reali possibilità
del Socialismo,concretizzate
attraverso la figura di
Stalin, li ha traditi. L'arma
dello antistalinismo gli si è
rivoltata contro : oggi essere
Stalinisti è la prova autentica
e reale dell'essere comunisti.
La storia dei sviluppi
alternativi al "Marxismo
Creativo"di Stalin sono storia
di sconfitte continue e
premeditate delle dirigenze di
partito pseudo-comuniste e tutte
appassionatamente
antistaliniste. La pratica del
Materialismo Dialettico ci
impone di aderire esclusivamente
a balzi dialettici che ci
portano di vittoria in vittoria
fino alla sconfitta totale del
capitalismo e Stalin ha
rappresentato questo : l'attenzio...ne
esclusiva alle vittorie della
classe lavoratrice e non a
quelle della burokratia di
partito o agli intelletualismi
di bottega. Questi nemici del
lavoratori hanno paura di chi li
ha sempre sconfitti . Stalin ha
portato lo scontro finale contro
il capitalismo sul terreno
ultimo della Economia e ormai
eravamo ad un passo dal
passaggio finale dal Socialismo
Reale al Comunismo ( importante
la lettura del "Il marxismo e la
linguistica" e "Questioni
economiche del Socialismo in
URSS"di Stalin) e questo spiega
tutta la forza di reazione a
questa possibilità . Non è
possibile in alcun modo sperare
di condurre una lotta vincente
contro il capitale senza tenere
conto di queste riflessioni e
quindi invito tutti i compagni a
riproporre tutta la questione in
termini nuovi e finalmente
liberi dagli illusionismi dei
maghi della sconfitta. Noi siamo
Stalinisti !"
Marco Angelucci
http://www.facebook.com/groups/161542447270131/189684224455953/#!/groups/161542447270131/
Riabilitare
Stalin? di Roberto Monicchia
Da "micropolis"
del maggio 2009
un articolo di
Roberto Monicchia, che recensendo il libro di Losurdo fa il punto su una
questione storiografica (e non solo) tutt'altro che chiusa.
in
http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/10/riabilitare-stalin-di-roberto-monicchia.html
La collocazione di Stalin tra le “anime nere” del Novecento
riscuote un consenso quasi unanime e il parallelo Urss-nazismo è un tassello
fondamentale della lettura del XX secolo secondo l’onnicomprensiva categoria del
“totalitarismo”, contro il quale le democrazie liberali sarebbero uscite
vittoriose dopo una lunga guerra in più tappe. Mettere in discussione le
fondamenta di questa impostazione è l’arduo compito - di per sé degno di
attenzione - che si assume Domenico Losurdo nel suo Stalin. Storia e critica di
una leggenda nera (Carocci, Roma 2008).
Il discorso muove dalla constatazione che per un lungo
periodo, anche a guerra fredda iniziata, il giudizio positivo su Stalin non era
un’esclusiva della mirabolante propaganda sovietica, ma un tratto diffuso in
occidente: il riconoscimento delle qualità politiche del georgiano, non solo per
la vittoria nella guerra mondiale, ma anche per l’opera di trasformazione della
Russia, coinvolge personaggi come De Gasperi e Thomas Mann. E’ il “rapporto
segreto” di Kruscev che inaugura l’immagine di uno Stalin paranoico e
sanguinario, tutto intento ad issare il proprio culto sopra una montagna di
cadaveri. Provata l’infondatezza di alcune affermazioni (l’impreparazione
militare dell’Urss nel 41, l’organizzazione dell’assassinio di Kirov), Losurdo
riporta la “cattiva storiografia” krusceviana a strumento della lotta per la
successione a Stalin. A suo avviso, per superare le impostazioni
ideologico-strumentali, occorre analizzare lo stalinismo all’interno della
storia del bolscevismo: la tendenza a insistere nei metodi della guerra civile
appare già nel dibattito sull’insurrezione, nelle polemiche sul trattato di
Brest-Litovsk e sulla Nep fino all’opposizione a Stalin di Trockij, che non
avrebbe esitato a usare lo strumento insurrezionale. Losurdo dà credito al
racconto di Malaparte in Tecnica del colpo di stato, per cui il georgiano non
avrebbe affatto ingigantito la minaccia di un possibile rovesciamento violento
del suo potere. Più in generale tutta la vicenda del bolscevismo sembra
riproporre la contraddizione tra universalismo astratto e necessità di fare i
conti con la realtà. L’utopismo astratto vede in qualsiasi realizzazione
l’abbandono degli ideali: la Nep, le relazioni internazionali, i fronti popolari
significano un tradimento, una degenerazione che giustifica qualsiasi forma di
opposizione. Questa dialettica distruttiva, del resto, si innesta sulla
specificità della storia della Russia, ove da decenni la contraddizione tra
spaventosa arretratezza e attese di liberazione faceva prevedere una palingenesi
violenta. Il carattere esplosivo della rivoluzione viene amplificato dalla
inaudita carneficina della prima guerra mondiale: il potere bolscevico – che
pensava doversi preparare a gestirne il “deperimento”– si trova nella necessità
di ricostruire lo Stato.
In questo contesto l’affermazione dello stalinismo segue un
percorso non lineare, segnato dalla dialettica tra stato d’eccezione e
tentativi di “normalizzazione”, frenati tanto dagli scontri interni quanto dalle
tensioni internazionali. Le “accelerazioni”, le svolte repentine del ventennio
staliniano sono dunque molto dentro alla logica tragica della rivoluzione russa
e ben poco attribuibili alla paranoia autocratica di Stalin. Questa ossessiva
(ma non ingiustificata) sindrome dello stato di eccezione illumina la natura
specifica del regime: la ricognizione del clima che accompagna fenomeni come
l’industrializzazione e la collettivizzazione forzata o la stessa organizzazione
del sistema dei Gulag delinea una “dittatura sviluppista”, fondata su una
parossistica mobilitazione popolare, a sua volta riflesso di un immane terremoto
sociale, un rimescolamento di classe che supera di gran lunga l’esempio
francese. Senza questo non si capisce né la grande crescita economico-sociale
degli anni ’30, né la vittoria in guerra. La tragedia dell’Urss staliniana sta
proprio nell’incapacità di passare dall’emergenza alla normalità, dalla
mobilitazione “militare” a una società pacificata.
Estendendo le critiche di Trockij e Kruscev, il discorso
politico e storico su Stalin in Occidente, soprattutto tra guerra fredda e post
’89, ha proceduto ad una sistematica rimozione, sostituita da una leggenda nera
che annulla nel genocidio e nella paranoia sanguinaria la storia del socialismo.
Allargando a dismisura il campo di applicazione della categoria del
totalitarismo si è giunti a costruire l’assurda equiparazione tra l’Urss e il
nazismo. A tal fine si sono compiute forzature pazzesche, con vere e proprie
invenzioni, come quella dell’antisemitismo sovietico, e distorsioni comparative
– come quella tra lager e gulag. La rimozione della storia si avvale anche e
soprattutto della riduzione del confronto ai regimi dittatoriali, escludendo
l’Occidente. Per questa via si è costretti a negare la natura razziale del
progetto di dominio nazista in Europa (il cosiddetto Nuovo Ordine),
evidentemente modellato – sia dal punto di vista ideologico che organizzativo -
sull’esperienza coloniale europea, in particolare britannica. Non a caso una
delle rimozioni più clamorose riguarda l’appello alla liberazione anticoloniale
che l’Urss sostiene fin dalla nascita e sulla cui base viene combattuta dalle
potenze occidentali ancor prima che da Hitler, usando gli stessi argomenti,
compresa l’equiparazione bolscevismo-ebraismo. Certo, è molto più comodo fare
della storia la palestra di insensati, sanguinari dittatori, estranei alla
“civiltà occidentale”.
Decostruire l’immagine paranoica e “impolitica” del
georgiano è un merito del libro e un contributo a far uscire il dibattito sul
socialismo dall’indistinta ermeneutica del totalitarismo e dalla condanna morale
di ogni rivoluzione. Si rimane dubbiosi, invece, quando sembra trasparire una
rivalutazione “in sé” dell’opera di Stalin, di cui si sottolineano il realismo,
la lungimiranza, persino una certa moderazione. Pesa in questo senso la
riduzione della polemica trockijsta (e chrusceviana) a puro espediente di lotta
politica e ad arma fornita ai nemici, secondo un’ottica di equiparazione
“oggettiva” tra critica e tradimento che è tipicamente stalinista.
Non può esservi dubbio sul fatto che la demonizzazione
dell’avversario - diffusa nell’intero movimento operaio - sia impiegata come
arma sistematica di liquidazione fisica e politica proprio dallo stalinismo. Pur
considerando gli stati d’eccezione e le realpolitik del secolo di ferro non si
può negare questo macroscopico elemento di degenerazione, che costituisce uno
dei motivi della sconfitta della scommessa socialista nel XX secolo. Se vogliamo
che quella prospettiva possa riaprirsi, non si può mettere sullo stesso piano la
discussione sulla natura dell’Urss che una parte dello stesso movimento
comunista ha sviluppato fin dagli anni ’20 (certo con errori, ma anche pagando
prezzi terribili) con l’attuale criminalizzazione dell’intera parabola del
movimento operaio novecentesco.
Per comprendere cos’è stato il socialismo sovietico, non
c’è bisogno di “riabilitare” Stalin. Tanto meno di demonizzare i suoi
oppositori.
****
Così Pietro Nenni, in una storica seduta della Camera dei deputati,
rievocava nel marzo 1953 la figura e l'opera di Giuseppe Stalin subito dopo la
sua morte.
Onorevoli colleghi,
nessuno tra i reggitori di popoli ha lasciato dietro di sé, morendo, il vuoto
che ha lasciato Giuseppe Stalin.
Da ieri manca qualcosa all’equilibrio del mondo. In questa connotazione,
comune a tutti, amici e avversari, è il riconoscimento unanime della grande
personalità che è scomparsa.
Stalin è stato il costruttore dello Stato sovietico e del sistema di Stati e di
popoli che idealmente fa capo a Mosca e abbraccia un terzo della terra con 800
milioni di uomini.
Quando 30 anni or sono, Stalin raccolse l’eredità di Lenin, dal cratere della
rivoluzione socialista di ottobre la lava colava ancora per mille rivoli e tutti
i problemi erano ancora aperti, tutte le possibilità.
Il figlio del calzolaio di Gori si trovò di fronte al compito tremendo di
unificare il corso della rivoluzione sovietica per sottrarla al destino che era
toccato alla rivoluzione francese. Le polemiche che egli sollevò da allora nel
mondo pur anco non si sono taciute o placate, e tuttavia si può dire che la
storia ha deciso prima ancora che Stalin affrontasse il giudizio della
posterità.
La guerrra del 1941-45 fu, nel suo barbaro orrore, la prova suprema dei
sistemi e delle civiltà che reggono i popoli.
Non si mente dinanzi alla morte.
E allorchè, nell’inverno 1941-42 e nell’inverno successivo, quando cominciò
la vittoriosa controffensiva dell’esercito rosso, i moscoviti non ebbero che da
salire la collina dei passeri per ascoltare il rombo del cannone tedesco, quando
i leningradesi, per recarsi al lavoro, dovettero sfidare il fuoco delle
mitragliatrici nemiche che colpivano gli operai ai loro torni e i fornai alle
impastatrici dove confezionavano un pane immangiabile, quando Stalingrado per
suprema difesa dovette gittare nelle trincee scavate nella neve financo i suoi
vecchi e le sue donne, allora sulle labbra dei combattenti esangui “Russia” e
“Stalin” ebbero lo stesso significato e fu chiaro che l’uomo e il sistema
avessero ricevuto il collaudo della storia.
Gli eventi di uel tempo a noi tanto vicino permisero a ogni uomo di buonafede di
correggere l’errore di credere che Stalin fosse un dittatore sostenuto da un
sistema di forza, là dove la sua forza vera è stata, fino all’ultimo momento, il
consenso di milioni e milioni di uomini che, in piena coscienza, a lui avevano
delegato i maggiori poteri.
Tuttavia Stalin non ebbe in nessun momento la stolta mania che egli potesse
bastare a tutto.
Il vuoto che egli ha lasciato è quello della sua eccezionale personalità, ma
lascia anche strutture statali, di partito, sindacali, economiche capaci di
resistere ad ogni evento e di superare qualsiasi prova.
Soprattutto lascia popoli i quali hanno fatto passi giganteschi per la via
del progresso tecnico, sociale ed umano e che saranno in ogni momento in grado
di esprimere un gruppo dirigente all’altezza della situazione. Onorevoli
colleghi, quando nell’estate scorsa ebbi modo di incontrare Stalin egli mi disse
parole che mi sembrano oggi racchiudere la lezione della sua vita: non ammettere
mai che non ci sia più niente da fare, non rompere mai il contatto con
l’avversario o con il nemico, non puntare mai su una carta dubbia le sorti dello
Stato, del partito, della collettività.
La sua costante preoccupazione di essere pronto alla guerra se l’avversario
la impone ma di contare sulla pace come sul mezzo e la causa migliore, era la
conseguenza naturale della sua filosofia e della sua politica.
In questo senso noi socialisti italiani ravvisiamo in lui una garanzia di
pace, né minore è la fiducia che poniamo nei suoi successori.
Un evento sciagurato e tristissimo, determinato fuori della volontà del
nostro popolo schierò in guerra l’esercito italiano contro l’Unione Sovietica.
Noi socialisti ci auguriamo che quell’evento venga subito dimenticato e,
associandoci con animo commosso e ansioso al dolore dei popoli sovietici per la
morte del loro grande capo, presentando da questa tribuna le nostre condoglianze
al governo di Mosca, partecipando al lutto del proletariato mondiale, esprimiamo
un augurio di pace per tutto il mondo e di relazioni cordiali e operose del
nostro paese con il paese di Lenin e di Stalin.
da
http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/05/il-figlio-del-calzolaio-marzo-53-nenni.html
****
Ferrero-Diliberto: affinità elettive
.pubblicata su fb da Amedeo Curatoli il giorno venerdì 4 novembre
2011 alle ore 22.33.
Il grande Lenin diceva che non ci si può spiegare
pienamente nessun errore, compreso un errore politico, se non si scoprono le
radici teoriche dell’errore di coloro che lo commettono. Per “coloro” noi
qui intendiamo Diliberto e Ferrero, tanto per semplificare, non certo per
attribuir loro tutto il peso degli errori (che abbiamo denunciato in passato e
che continueremo a denunciare in questo articolo), ma perché ne sono i più
visibili portabandiera essendo essi i segretari di due partiti che si richiamano
ad un comunismo fondato, appunto, su basi teoriche false. Questi due partiti
svolgeranno prossimamente i loro congressi, e i documenti teorico-programmatici
proposti alla discussione contengono l’ennesima illustrazione della critica
distruttiva del comunismo storico e la riproposizione di un comunismo
immaginario, mirifico, fatto di belle parole scelte con cura, ma che in questo
mondo non vedrà mai la luce. L’idea profonda, ancora una volta espressa in tali
ultimi documenti, al di là della diversità degli “stili letterari” ferreriani e
dilibertiani, sta nella eventualità che sia possibile sospingere lo Stato verso
misure di radicali trasformazioni in senso democratico se non addirittura in
senso socialista, senza mai prospettare l’inevitabilità di un rivolgimento
rivoluzionario per conquistare quelle misure. Si tratta del perpetuo, secolare
inganno, più o meno esplicito, più o meno camuffato, di tutti gli opportunismi
revisionisti, che negano il carattere di classe dello Stato borghese e seminano
illusioni fra la gente che sia possibile modificare nel profondo tale Stato,
considerato, in fondo, entità neutrale al di sopra e al di là degli antagonismi
di classe. Nel nostro paese questa visione opportunista dello Stato ha avuto una
sua sistemazione teorica abbastanza organica e complessa nella via italiana al
socialismo poi divenuta eurocomunismo e poi (con argomenti sempre più labili) un
altro mondo possibile o ancora un “immaginario della trasformazione”.
Che cosa c’è di nuovo in questo “immaginario della
trasformazione” rispetto alla teoria revisionista togliattiana della via
italiana al socialismo? Sicuramente un linguaggio più illusorio, evanescente, e
quindi più velleitario e meno credibile rispetto alla rivendicazione, per
esempio, di “riforme di struttura” lanciata dal Pci come viatico al socialismo,
rivendicazione che all’epoca doveva dare l’impressione di un’effettiva,
concreta realizzabilità perché avanzata da un forte partito e da un
altrettanto forte movimento sindacale egemonizzato in grandissima parte da quel
partito. La linea della Cgil di allora era “Un’economia del lavoro contro
l’economia del capitale”, e gli operai credevano in questa possibilità. Ma oggi?
Solo più chiacchiere, più fumo, più illusioni a buon mercato di poter cambiare
le cose con discorsi apparentemente di buon senno e di buon senso. Il
revisionismo si adegua ai tempi: più povero è il bagaglio che si porta dietro in
termini di consensi elettorali e di armamentario teorico e ideologico, più
audace e fantasioso e “moderno” diventa il suo linguaggio. Quindi, con
particolare riferimento al Pdci di Diliberto, più che Marx XXI secolo sarebbe
meglio dire: revisionismo XXI secolo.
Il documento Prc chiede allo Stato di “rilanciare la democrazia”
fino a “superare la proprietà privata dei mezzi di produzione”, chiede allo
Stato una “democrazia sostanziale” che per essere tale deve “intrecciarsi” alla
“socializzazione dei mezzi di produzione”, chiede allo Stato la
“nazionalizzazione delle banche di interesse nazionale” e di sottoporle al
controllo democratico, chiede allo Stato di non farsi più “condizionare” dal
capitale finanziario, e che riacquisti la cosiddetta sovranità sulla moneta. C’è
un punto in cui addirittura si rivendica la demercificazione cioè la produzione
di valori d’uso che siano in grado di soddisfare i bisogni sociali, e dicono che
è possibile, visto che viviamo in una società “avanzata”, superare la forma
merce in ogni ambito sociale: dal lavoro alle cose, alle relazioni sociali.
Quindi l’abolizione delle merci, che è un obiettivo nemmeno socialista ma
comunista, la chiedono allo Stato borghese!
Anche il documento Pdci mette insieme una lista di
obiettivi presentati come di possibile attuazione all’interno della società
classista e dello Stato che di quel classismo ne è la suprema espressione. Essi
chiedono: un nuovo (si potrebbe dire rivoluzionario) rapporto tra Stato e
mercato, tra pubblico e privato, tra proprietà pubblica e proprietà
individuale; chiedono “la centralità del Parlamento come paradigma della
democrazia sostanziale”, il ripristino degli assetti istituzionali e
costituzionali dell’Italia post-fascista….ecc. Tali rivendicazioni -ripetiamo-
alcune delle quali di carattere squisitamente socialiste che i due partiti
richiamantisi al comunismo avanzano all’interno di uno Stato integralmente
capitalista rappresentano la completa capitolazione di fronte alla teoria
marxista dello Stato, e questa capitolazione essi la presentano come un qualcosa
di carattere assolutamente innovativo rispetto ai pessimi tentativi di
socialismo (a giudicare da ciò che ne dicono) apparsi nel mondo. Sono occorsi
secoli prima che le classi oppresse ed espropriate riuscissero a cogliere il
perché dell’esistenza dello Stato e ne definissero teoricamente, in ultima
analisi, la sua natura di macchina repressiva nelle mani di minoritarie élites
dominanti.
Vi è giunto a questa conclusione già il socialismo premarxista, e
successivamente, da Marx a Lenin, sulla base dello studio delle rivoluzioni del
19° secolo e in particolare della Comune di Parigi (Marx) e abbattendo il
vecchio stato per edificarne uno nuovo (Lenin) il concetto di questa macchina
repressiva è stato via via affinato ed arricchito fino a divenire “scienza”. Di
questa scienza nata -ripetiamo- da una ricchissima prassi rivoluzionaria, non
vi è più traccia. Si potrebbe dire che la prima vittima di tutti i
revisionismi, da quello delle socialdemocrazie della II internazionale a quello
togliatto-kruscioviano giù fino agli epigoni con aspirazioni rifondative, sia
stata proprio la teoria dello Stato e il conseguente ritorno indietro alla
vecchia idea mistificatrice dello Stato bene comune di “tutti” e quindi
passibile di poter essere tirato, come una coperta striminzita, anche dalla
parte degli esclusi.
Ciò non significa, ovviamente che un partito comunista debba solo
propagandare l’inevitabilità dell’abbattimento dello Stato borghese: un tale
partito può stare all’opposizione anche cento anni, ma nel far proprie tutte le
rivendicazioni politiche, economiche, di civiltà, di progresso che nascono dal
profondo delle masse popolari contro i governi borghesi, non deve mai, nelle sua
battaglie quotidiane, durassero anche un secolo, raccontar frottole e illudere
le masse sulla possibilità di ottenere cambiamenti radicali (socializzazione dei
mezzi di produzione, sostituzione dei valori d’uso ai valori di scambio!!)
tacendo opportunisticamente sull’inevitabilità storica dello scontro
rivoluzionario con la borghesia monopolistica.
Quando poi i due documenti definiscono una loro
identità di comunisti (la qual cosa è d’obbligo in ogni Congresso), allora si
scatena l’antistalinismo. Ma la differenza fra i due sta nella maggiore astuzia
di Diliberto e dei professori che si sono messi al suo servizio, sta nel fatto
che l’antistalinismo del pdci è un antistalinismo dal volto umano, è un
antistalinismo “dimostrato”, “ragionato”, che mentre sferra micidiali
bastonate a Stalin (senza mai nominarlo), ogni tanto però è anche disposto a
concedere una carota. Quello bertinotto-ferreriano, invece, è assoluto,
implacabile, è un antistalinismo all’ennesima potenza, che forse metterebbe in
imbarazzo anche Trotski; è un antistalinismo divenuto stalinofobia (da curare
con la psicoanalisi) che al grande georgiano non solo non concede nulla ma lo
sovraccarica di crimini mostruosi fino a riecheggiare la famigerata teoria dei
“totalitarismi” della Harendt (dice Ferrero che il il “produttivismo
economicista” di epoca staliniana “non libera il lavoro e non crea una nuova
qualità della vita In questo senso, lo stalinismo è anche stato un modello di
sviluppo subalterno all'idea di crescita quantitativa. E' da questo deficit -
non dal surplus - di socialismo che sono derivate la concezione (e la pratica)
totalizzante e dispotica del Partito, l'arbitrio incontrollabile del leader, la
cancellazione di ogni istanza democratica di base nell'organizzazione e nella
società, la fine della libertà sindacale, la riduzione degli individui e delle
persone ad appendici insignificanti della potere”).
Siamo assolutamente certi che se parlasse di Henry Ford e del destino della
classe operaia nordamericana, Ferrero si servirebbe di un linguaggio meno
violento di quello usato per denunziare l’Unione Sovietica di Stalin, anzi
coglierebbe l’occasione per accreditare, ancora una volta, la favola
revisionista del cosiddetto “compromesso fordista”, e cioè che Ford
(capitalista fascistoide ed autoritario che inchiodò gli operai alla “catena di
montaggio” riducendoli a semoventi macchine scimmiesche) avrebbe trovato un
civile modus vivendi con la classe operaia americana!
Notiamo per inciso quanto infondata sia la
convinzione del filosofo Costanzo Preve sulla presunta inattualità della
“dicotomia” Stalin-Trotski: sono proprio questi signori del Prc e del Pdci che
rendono immancabilmente attuale la “dicotomia”, nel senso che ogni volta che
vanno a congresso, nell’immancabile capitolo sulla loro “identità di comunisti”
pongono al centro l’immancabile attacco distruttivo a Stalin rinnovando in ciò
la tradizione trotskista e kruscioviana e quindi rendendola sempre attuale. Come
si può essere così giulivamente superficiali da dichiarare “superato”
l’antagonismo Stalin-Trotski e insultare i difensori di Stalin (che difendono il
comunismo storico, non una personalità) paragonandoli ai mentecatti di opposte
tifoserie? L’antistalinismo -per usare un termine del compagno
Losurdo- è autofobia, è il prendere le distanze dagli “orrori” della rivoluzione
generatrice di ogni male; è un chiamarsi fuori; è un essere ossessionati
dall’idea di apparire sgraditi alla borghesia monopolistica e di farsela
definitivamente nemica; è agire come Pietro che quando una serva lo riconobbe e
gli disse tu sei discepolo di Cristo! Ma che dici! lui rispose tremante, chi
l’ha mai conosciuto…
INCONGRUENZA
DEL prc
Una evidente INCONGRUENZA tra due affermazioni IN UN IMPORTANTE
DOCUMENTO DEL PRC
In tesi VIII CONGRESSO PRC leggo:
1) la Rivoluzione d’Ottobre
mantiene un valore peculiare: essa è stata uno spartiacque del XX
secolo. Per la prima volta nella storia le masse hanno preso in mano il
loro destino. La Rivoluzione d’ottobre ha permesso al popolo russo di
uscire da una situazione di miseria, servaggio e ignoranza ed ha
modificato in profondità gli equilibri del mondo, rompendo il monopolio
planetario del mercato capitalistico e influenzando l’intero corso
rivoluzionario del ‘900, fino alle liberazioni anticoloniali. Ha
costretto le classi dominanti
dell’Occidente capitalistico a compromessi significativi con il
movimento operaio. Ha contribuito in
termini decisivi alla sconfitta del nazifascismo.
2) si può essere portatori e portatrici credibili di un’ipotesi
rivoluzionaria e comunista solo in quanto essa si definisce in
discontinuità rispetto all’esperienza del “socialismo realizzato”.
DOMANDA:
- Il popolo russo esce da una situazione di miseria, servaggio e
ignoranza;
- si modificano in profondità gli equilibri del mondo, rompendo il
monopolio planetario del mercato capitalistico;
- la Rivoluzione ha influenzato l’intero corso rivoluzionario del ‘900;
- liberazioni anticoloniali;
- la Rivoluzione ha contribuito in termini decisivi alla sconfitta del
nazifascismo.
Tutto questo è socialismo realizzato? Lo è certamente.
Ma allora “cari” compagni revisionisti che significa: IN
DISCONTINUITA' rispetto all’esperienza del “socialismo realizzato”?
perché no IN CONTINUITA’??
Maria Felicia Crapisi I signori del PRC appartengono alla categoria
dei REVISIONISTI, che si opposero, vivo Lenin, ai suoi progetti, e, nel
periodo di Stalin, ostacolarono, per vie più o meno nascoste, la
realizzazione del socialismo. Il REVISIONISMO è un verme velenoso, che
ha insidiato, fin dall'inizio, la storia del SOCIALISMO.
A PROPOSITO DELLA SVOLTA ANTILENINISTA E ANTISTALINISTA
DEL PRC
A Rimini, 9 anni fa si fece un congresso di
Rifondazione, furono presentate 63 tesi, nella n° 51 dal titolo sportivo
“comunismo contro stalinismo” Bertinotti scrisse: “un’identità comunista implica
una rottura radicale con lo stalinismo”. 9 anni dopo Ferrero copia parola per
parola dal suo ex maestro:”Il progetto della rifondazione comunista, di
un'identità comunista adeguata al XXI secolo, implica una rottura radicale con
lo stalinismo”. Di suo Ferrero ci ha messo solo il XXI secolo perché 9 anni fa
non si era ancora presa la pomposa abitudine di dirsi comunisti del XXI secolo,
non era stato neanche inventato ancora Marx XXI. In quella tesi n°51 Bertinotti
scrisse ancora: "Non proponiamo qui un’operazione di bilancio storico, ben
altrimenti impegnativa, ma di verità politica e di identità teorica". 9 anni
dopo (cioè oggi) Ferrero, ridicolmente, facendo la figura dell’ultimo della
classe che copia pedissequamente dal compagno di banco, ripete: “Non proponiamo
qui un'operazione di bilancio storico, ben altrimenti impegnativa, ma di verità
politica e di identità teorica” (VIII Congresso doc.1
http://web.rifondazione.it/viii/?p=60#more-60)
Non proponiamo qui (2002), non proponiamo qui (2011) un bilancio
storico “ben altrimenti impegnativo”: può darsi che tale bilancio vedrà la luce
nel XXII secolo? E cosa dirà mai di bello un bilancio sull’Urss di Stalin ben
altrimenti impegnativo dopo tutte le calunnie borghesi imperialiste che gli
avete vomitato addosso? Per ora a Bertinotti ed al suo ex-discepolo valdese ora
basta questo giudizio analitico a priori di kantiana memoria: lo stalinismo è
incompatibile con il comunismo!
Che conclusione si potrebbe trarre? Una constatazione
ed un augurio. Una constatazione: teoricamente né Prc né Pdci sono abbastanza
forti da fondare un nuovo comunismo. Un augurio: che ad ambedue i Congressi
almeno un coraggioso compagno (meglio sarebbe un nucleo organizzato di compagni)
denuncino e dimostrino il carattere revisionista di Prc e Pdci
Amedeo Curatoli 4:11.2011
http://www.facebook.com/note.php?saved&¬e_id=10150382653554605#!/notes/amedeo-curatoli/ferrero-diliberto-affinit%C3%A0-elettive/271847476192882
origini lontane
dell'antistalinismo (e antileninismo) ad oltranza:
da Wikipedia
Dalla fine del 2002, Bertinotti intesse dialoghi coi leader europei
dei partiti antiliberisti di varia estrazione. L'obiettivo è quello
di fondare «un partito europeo di sinistra alternativa». Non è una
nuova internazionale "europea" di partiti comunisti, visto che è
aperto anche a partiti socialisti massimalisti. Del progetto il
Partito è pressoché all'oscuro e ne avrà piena conoscenza solo il
giorno della fondazione del Partito della Sinistra Europea, il 10
gennaio del 2004 a Berlino, nella stessa stanza dove nella notte di
capodanno del 1918 Rosa Luxemburg fondò con Karl Liebknecht il
Partito Comunista Tedesco.
A
firmare l'appello fondativo saranno 11 partiti su 19 presenti,
compreso Bertinotti per il Prc perché è «una rottura di
continuità con il passato, che non può limitarsi a
rinnegare stalinismo e leninismo,
ma che introduce la nonviolenza come elemento di riforma del
comunismo medesimo». Si decide altresì, su idea di Bertinotti, di
recarsi ad omaggiare la tomba della Luxemburg e di ripetere
l'iniziativa ogni anno nella seconda settimana di gennaio.
Vedi
anche:
Socialismo oltre il
Novecento
Bertinotti
http://lanostralotta.org/?p=283
http://www.facebook.com/note.php?saved&¬e_id=10150382653554605#!/notes/amedeo-curatoli/ferrero-diliberto-affinit%C3%A0-elettive/271847476192882
http://lanostralotta.org/?p=283
"Il
Comunismo, a mio parere, è caduto per i suoi meriti e non per le sue colpe"
di Antonio Murabito su fb
Antonio Murabito Credo
che il Comunismo sia crollato per le brecce aperte da Gorbaciov con la
perestroika e con la glassnost, come dire "nessuna buona azione rimane
impunita". Gli spazi di democrazia, di cui è stato apprezzato il grande
valore, sono stati sfruttati dagli epigoni di Stalin e sopra tutto dai falsi
democratici come Boris Yeltsin, il cui vero scopo non era di ampliare gli
spazi di democrazia, ma di consegnare l'intero apparato produttivo russo
alla "mafia globalizzata". Il Comunismo, a mio parere, è caduto per i suoi
meriti e non per le sue colpe, per non aver esercitato la dovuta democratica
durezza nei confronti degli oppositori stalinisti e integralisti liberisti.
Come amava dire Sandro Pertini: "A brigante, brigante e mezzo"; invece
Gorbaciov è stato troppo gentiluomo nei confronti dei briganti, non ha
esercitato la dura e legittima durezza che avrebbe dovuto adoperare per
difendere nello stesso tempo il Comunismo riformato e la sospirata
democrazia faticosamente raggiunta.
E' avvenuto in URSS qualcosa di simile al golpe cileno; per ostinarsi nel
rigoroso uso degli strumenti democratici si è dato ampio spazio alle
iniziative criminali degli oppositori interni ed esterni: Assai meglio
avrebbe fatto Allende ad armare il popolo contro l'esercito traditore armato
dagli USA e persino ad accettare l'aiuto dei compagni cubani. Le limitazioni
alla sovranità nazionale che ne sarebbero potute scaturire sarebbero
comunque state per il popolo cileno e per lo stesso Allende di gran lunga
meno traumatiche del colpo di stato USA-Pinochet. Con ciò non voglio
affermare che sarebbe da preferire lo stalinismo nel metodo e nel merito, ma
soltanto che il pacifismo e il rigoroso suicida rispetto delle pure e
semplici formalità conduce non di rado alla sconfitta; un uso equilibrato
della forza avrebbe forse evitato la deriva liberista che quasi tutto il
mondo sta attraversando. Sono convinto che
sulla totale identificazione del Comunismo con Stalin e lo stalinismo da
parte delle forze reazionarie si vuole sostenere una presunta superiorità
storico-politico-morale del Capitalismo
(considerato il miglior (anzi l'unico) sistema politico-economico possibile)
rispetto al Comunismo, il che
è storicamente falso (persino nei confronti dello stesso Stalin e dello
stalinismo, pur in presenza degli errori e degli orrori effettivamente
avvenuti nel cosiddetto socialismo-reale). Sicuramente ben maggiori sono gli
orrori del Capitalismo nelle vecchie e nelle nuove forme, dal Colonialismo
al Neocolonialismo e nell'attuale fase ben definita dal prof. Giuseppe Carlo
Marino "Mafia globalizzata".
Stalin di Salvatore Lo Leggio
Il "culto della personalità" tipico di tutte le
dittature? Io eviterei la generalizzazione. Hitler, Mussolini, grazie ad
un uso sapiente del mezzi di comunicazione, riuscirono ad ottenere
l'amore dei propri sottoposti, non solo dei seguaci in senso stretto, ma
anche di una gran parte del proprio popolo. Fu un vero lavaggio del
cervello.
Per il fhurer c'erano ragazzi tredicenni che "si
sacrificavano" felici anche negli ultimi terribili giorni della
sconfitta, nella Berlino messa a ferro e a fuoco.
Per il duce non fu così.
Tante cose ne avevano offuscato la luce: "l'amor di Petacci" e la
collaborazione con i tedeschi occupanti, in primo luogo, oltre che la
colpa suprema di aver condotto l'Italia in una guerra lunga e sanguinosa
dopo aver promesso facile vittoria e pingue bottino. Eppure anche per
lui, il giorno di Piazzale Loreto, non mancò la prova d'amore: a fronte
delle tantissime e dei tantissimi che baciavano la terra che se l'era
ripreso, c'erano altri, pochi ma non pochissimi, che lo piangevano come
si piange un padre.
Tutto uguale dunque? Una dittatura vale l'altra?
Stupidaggini. A piangere Stalin non erano infatti solo i
russi cresciuti e formati nel suo regime: erano davvero i popoli della
terra. Io - ne ho scritto in un racconto autobiografico, un inedito che
un giorno o l'altro posterò - ho un ricordo preciso, forse uno dei più
remoti della vita (avevo 5 anni): nella sezione del Pci, al mio paese,
vedevo piangere uomini e donne con un intensità che m'è rimasta
impressa. E Stalin piansero non solo russi e italiani, ma neri, rossi e
gialli in tutto il mondo. Perché? Perché era l'emblema della speranza
dei poveri e degli oppressi, di una religione che non mobilitava (come
il fascismo o come il nazismo) gli egoismi di nazione e di razza, ma che
affermava l'uguaglianza e la giustizia tra tutte le donne e tutti gli
uomini dell'intero pianeta. Perché era visto come l'uomo che, a
Stalingrado, in condizioni terrificanti e indescrivibili, aveva guidato
la riscossa contro il mostro che si stava impadronendo del mondo intero.
Era illusione? Frutto di una propaganda che usava
l'internazionalismo proletario per avvantaggiare lo Stato russo e
sovietico e l'oligarchia burocratica che lo reggeva? E' possibile, ma
aveva comunque un segno diverso dai nazifascismi che confermavano
l'oppressione. Conteneva un segno di liberazione. E per questo alle
manifestazioni di artisti e poeti (anche a quelle poco riuscite, come
questa di Alberti) con le quali volevano dare voce al dolore dei tanti
operai e contadini che ebbero fede nel Baffone, l'uomo che aboliva
l'ingiustizia, bisogna portare rispetto. (S.L.L.)
E' un
ampio stralcio del commento di Salvatore Lo leggio a una poesia di
Alberti sulla morte di Stalin. Ecco il link
http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/06/stalin-non-e-morto-una-di-rafael.html
________________________________________________________
Stalin: la chiave del secolo di Aldo Bernardini
"La chiave del secolo". Così si è espresso, in modo sorprendente
e inaspettato, Pintor sul "Manifesto", organo dell’antistalinismo
militante: ma nel momento in cui si accavallavano le denegazioni e i
rinnegamenti, come quello dell’ineffabile Veltroni circa il suo mai
essere stato comunista, all’onesto Pintor si deve essere rivoltato
lo stomaco ed egli ha gettato sul piatto una verità che si è voluta
cancellare. L’articolo di Pintor è stato come una stella cadente che
nessuno ha ripreso, nemmeno per contestarlo, forse perchè
incontestabile, ma al tempo stesso imbarazzante: vi si ricorda con
elevate parole che nel periodo tempestoso della seconda guerra
mondiale, e prima e dopo, fu forse Stalin l’unico ad avere le idee
chiare, al punto da suggerire a Pintor, con la parafrasi dei versi
manzoniani del "5 maggio" su Napoleone, che Dio impresse sul
dirigente sovietico in quel momento storico la più forte orma di sé.
La riappropriazione della nostra storia
La ripresa del cammino dei comunisti sino alla ricostruzione di
un autentico partito comunista passa inevitabilmente per la
riappropriazione della propria storia e per l’analisi rigorosa e
senza pregiudizi, se non quelli che ci vengono dai fatti (che
notoriamente hanno la testa dura, mi pare dicesse Lenin), di quanto
è avvenuto nel secolo che è ancora in corso e che termina a fine
2000. In breve, anzi brevissimo, svolgeremo alcune considerazioni,
chiedendo perdono per dimenticanze ed omissioni e magari per la non
eccessiva presa in considerazione di tutti gli elementi critici, che
costituiscono oggetto di esercizio continuo da parte dei nemici ed
in particolare dei revisionisti.
A partire dall’ottobre del 1917 e per decenni abbiamo assistito
al rovesciamento del potere capitalistico in tanta parte del mondo,
all’edificazione, o all’inizio di essa, di società basate su
rapporti strutturali opposti, comunque diversi dal capitalismo
privato, che hanno costituito la base per altre rivoluzioni e, negli
stessi paesi dell’imperialismo, per un freno e un limite del potere
capitalistico verso l’esterno e, all’interno, nei confronti dei
lavoratori. Ciò rappresenta un fatto gigantesco nella storia
dell’umanità che nessuna miseria revisionistica, nessun opportunismo
di partiti istituzionali che si nominano comunisti, nessuna
distorsione o addirittura cancellazione della storia possono neppure
scalfire. Il miserevole tentativo, tra l’altro di livello basso,
anzi penoso, del giornale di RC "Liberazione" nel suo supplemento su
"Chi ha ucciso la rivoluzione?", che ha incontrato la protesta e il
rigetto di tanti compagni di RC stessa, ci porta al centro del
problema.
E questo centro ha un nome preciso: Josip Vissarionovic Stalin,
l’uomo d’acciaio’ il dirigente della vittoria del socialismo, della
disfatta del nazifascismo, dell’estensione rivoluzionaria di un
potere politico di comunisti su almeno un terzo del pianeta, del
rafforzamento della posizione dei comunisti ovunque. Veramente
allora lo spettro del comunismo, non più spettro ma realtà, ha fatto
tremare papi e capi del sistema capitalistico. La demonizzazione di
Stalin, la damnatio memoriae sino alla sparizione delle opere, è
stato il regalo più generoso offerto, dall’interno del campo
socialista, alla borghesia imperialistica, che comprese subito la
portata dei processi aperti dal revisionismo kruscioviano. L’allora
segretario di stato agli esteri americano, John Foster Dulles, dopo
il XX Congresso del PCUS si aprì alla speranza: "La campagna contro
Stalin ed il relativo programma di liberalizzazione hanno provocato
una reazione a catena che a lungo termine non potrà venire
arrestata". Ha avuto ragione lui, e quindi prima di lui aveva avuto
ragione Stalin.
Cancellare Stalin per cancellare Lenin
Cancellato Stalin, è stata la volta di Lenin, ossequiato a parole
dai revisionisti per venire stravolto, e poi picconato dai
liquidatori: la controrivoluzione del 1991 in URSS se l’è presa
essenzialmente con le statue di Lenin e dei suoi più vicini
collaboratori. Gli opportunisti di oggi, a cominciare dalla
dirigenza di RC, sono in realtà antileninisti: se rendono a fior di
labbra omaggio al rivoluzionario, non solo falsificano i caratteri
fondamentali della sua opera, presentandola come un modello che
sarebbe stato deformato e tradito da Stalin, che ne è stato invece
il realizzatore, ma sostanzialmente la svalutano: una presa di
potere senza base popolare, una sorta di putsch, attuato senza
sapere che farsene del potere, come si è azzardato a dire il
segretario Bertinotti; una fiammata senza seguito, sbagliata
in quanto non iscritta in una rivoluzione mondiale (secondo la nota
tesi di Trotzky, riecheggiata oggi dallo stesso Bertinotti che
propone di illuderci con una rivoluzione mondiale: una tesi che
avrebbe comportato all’epoca, a fronte del fallimento delle
rivoluzioni in occidente, l’abbandono dell’impresa rivoluzionaria,
al quale Stalin si oppose con fermezza assoluta: "Dovremmo lasciar
cadere l’Unione Sovietica nella palude di una repubblica borghese?",
disse il grande dirigente e costruttore; una tesi che oggi vuol dire
la non solidarietà, il non appoggio ai punti reali di resistenza
all’imperialismo). All’epoca, un’impresa neppur da
tentarsi, o comunque da liquidarsi subito: di qui la proposta
risibile, antistorica, idealistica del "ritorno a Marx" (e ci si
scorda sempre di Engels!), per ricominciare tutto da capo. (…)
Forse è a quel punto più coerente chi piccona anche Marx.
In realtà, quel che si impone oggi è un "ritorno a Stalin"’ pur
tenendosi presente che l’opera pratica e teorica di questo si
riferisce essenzialmente alla fase di edificazione e difesa del
socialismo dopo la presa del potere, per di più in un paese
(all’inizio) solo e, ancora, non annoverabile fra quelli
capitalistici avanzati e comunque in una condizione di
accerchiamento.
E’ un ritorno indispensabile anzitutto per leggere correttamente
la storia del Novecento: ce lo ha rammentato Pintor. Chi
cancella Stalin crea un enorme buco nero che non permette di
comprendere tutto quel che è avvenuto e di cui in parte
abbiamo fatto cenno, dalla vittoria sul nazifascismo
(che ha fra l’altro smentito la falsa profezia borghese e
trotzkista del crollo del castello di carte e del
manifestarsi di un’assenza di legami della dirigenza e del Partito
sovietici con le masse popolari), alla trasformazione,
incisiva, radicale, solida dei rapporti strutturali della società
(in cui, secondo la previsione corretta di un integrale
antistaliniano come Isaac Deutscher, è impossibile, pur in caso di
controrivoluzione, restaurare "normali" rapporti capitalistici),
alle rivoluzioni successive - incluse quelle,
secondo una corretta valutazione dei comunisti cinesi,
realizzate nei paesi dell’Europa orientale -, con la
costituzione di una comunità di stati socialisti e fino alla
rivoluzione cubana e oltre e alla stessa decolonizzazione,
con il conseguimento di un nuovo equilibrio di forze nei confronti
del campo imperialista: eventi epocali realizzati in una certa
misura anche dopo Stalin, ma inequivocabilmente e indissolubilmente
sulla scia della spinta propulsiva dell’Ottobre di Lenin e
dell’edificazione socialista di Stalin. Rimarrebbero oscuri tanti
altri problemi e fenomeni, ad alcuni dei quali si farà via via
cenno.
Tutto questo è stato invece ben compreso dai grandi dirigenti che
si rifiutarono di accedere al corso revisionistico di Krusciov, da
Mao Tze Tung a Hoxha a Kim II Sung, i quali - anch’essi del resto
ovviamente discutibili in singoli punti della loro opera - nel
complesso, pur dove hanno indicato qualche elemento di critica o di
dissenso, non sempre poi esatto o completamente informato, nei
confronti di Stalin hanno riconosciuto in lui il carattere di "fermo
rivoluzionario proletario" e di punto discriminante di ciò che è
autenticamente comunista rispetto a ciò che non lo è. Lo intendono
oggi dirigenti e studiosi, in occidente (cito solo il belga Ludo
Martens) e ad est (in Germania il compagno Gossweiler, in Russia in
un modo o nell’altro tutti i dirigenti comunisti, in modo fermo e
integrale Nina Andreeva, Victor Anpilov, ma lo stesso Zuganov e
altri, e persino il non comunista presidente Putin ha dovuto rendere
omaggio a Stalin, in Jugoslavia Kitanovic ed altri, nella Corea
popolare qualche anno fa l’attuale dirigente Kim Jong II, a Cuba
Fidel Castro che in un’intervista riconobbe che dopo Gorbaciov ormai
si imponeva una differente valutazione di Stalin, e in modo toccante
Honecker che, dopo la caduta e poco prima di morire, nel suo ultimo
libro, "Der Sturz", riconobbe che era stata erronea la condanna di
Stalin). E lo sanno le masse sovietiche, che issano a
centinaia i ritratti di Stalin nelle manifestazioni comuniste e
fioriscono sempre la sua tomba sotto le mura del Cremlino.
L'odio profondo della borghesia
L’odio della borghesia per Stalin ha inaugurato con lui, in modo
parossistico e perdurante, il sistema indecente delle
criminalizzazioni di dirigenti stranieri che ad essa si oppongono.
Perché Stalin ha in realtà una colpa imperdonabile. Lenin è
in qualche modo riducibile ad un’icona romantica, l’autore
di una rivoluzione contro un mondo ingiusto - questo sono disposti a
riconoscerlo in molti -, ingiusto ma nella sostanza immodificabile,
dunque di una rivoluzione destinata a non durare, come la Comune di
Parigi: e pur se egli gettò le prime fondamenta di una nuova società
e vinse le prime battaglie, sulla base anche di una ineguagliabile
opera teorica, è stato facile, per la sua morte prematura, fra
l’altro avvenuta nel corso di quella sosta o rallentamento, tale
considerata dallo stesso Lenin, sulla via del socialismo che fu la
NEP, predicare che con lui la rivoluzione finì, dunque non dette
nascita a nulla di nuovo e di stabile: il suo successore ne sarebbe
stato il becchino ed avrebbe posto subito i germi della sconfitta,
ma comunque l’avrebbe trasformata immediatamente in qualcosa di
diverso (e di perverso) rispetto al progetto rivoluzionario. La
sconfitta, in realtà, si è realizzata in modo definitivo dopo 70
anni e, quel che più conta, dopo decenni di vittorie e successi e
trasformazioni reali. Anche se i più accorti ed onesti fra
gli avversari riconoscono che pure Lenin, se fosse
vissuto ancora, non avrebbe potuto nell’essenziale agire
diversamente da Stalin, salvo chiudere la serranda della rivoluzione,
e in realtà gettò le premesse dell’opera di questo e dove necessario
non fu meno "spietato" e rigoroso - e di qui dunque la sua
successiva criminalizzazione da parte di liquidatori e altri nemici
-, l’odio per Stalin è più radicale ed incommensurabile,
in quanto egli fu il grande, inesorabile, non pieghevole
realizzatore, estensore e difensore di una durevole realtà
socialista (chiamiamola come vogliamo, comunque anticapitalistica)
nella carne della storia e non nel cielo delle idee.
Ecco dunque che non tanto il pur importante ripristino
della verità storica esige la piena rivalutazione (scientifica, non
apologetica) di Stalin, bensì la necessità di ridare senso alla
vicenda del XX secolo, ad un cammino effettivo e incancellabile dei
comunisti che appartiene a tutti noi, ad una considerazione
che non ci privi delle radici per proporre nuovi cominciamenti
secondo improbabili e non credibili processi e modelli "migliori" di
quelli storicamente realizzati (altro evidentemente sarà il far
tesoro delle esperienze che hanno avuto corso nel secolo) e ci
ricolleghi al tempo stesso alle esperienze socialiste o
anticapitalistiche che vivono ancora e alla stessa lotta dei popoli
ove si è verificato il c.d. crollo, avviandoci all’intelligenza
delle vere, e non idealistiche, ragioni di questo: una lotta, per
quei popoli, che inevitabilmente si lega all’esperienza vissuta del
socialismo reale e pertanto, a partire dalla Russia, al nome di
Stalin. E solo ciò consente oggi di collocarsi nel campo
dell’antimperialismo, senza le reticenze e gli opportunismi che
hanno inficiato le posizioni della sinistra c.d. antagonistica (si
pensi all’atteggiamento nei confronti della Jugoslavia e di
Milosevic).
E’ del tutto evidente che l’opera di Stalin può essere intesa se
non la valutiamo secondo gli schemi astratti, che spesso non ci si
accorge quanto siano subalterni all’ideologia borghese dominante,
propri degli opportunisti e dei trotzkisti, e dunque se si riconosce
che venne allora aperto un percorso drammatico in un contesto di
vera e propria guerra generale interna ed esterna (costante: non
solo quella militare scatenata nel 1941).
"Errori ed orrori?"
Non si tratta di negare i gravissimi costi che questa situazione,
anche in termini umani, dolorosamente impose: pur se sono benemeriti
gli studi che si vanno facendo per ridimensionare in termini
quantitativi tali costi, gonfiati a dismisura dai vari "libri neri",
non è la conta dei morti che può dare una risposta appagante: che va
cercata invece nello spregiudicato esame dell’immane massacro umano
e sociale perpetrato da sempre e ancor oggi dal capitalismo al fine
di tener sottomessa la maggior parte dell’umanità alle proprie
esigenze di profitto, laddove i mali rimproverati a Stalin e
al suo gruppo furono nel complesso misure aspre che portarono al
risveglio e all’inizio dell’emancipazione di masse immense non solo
in Russia, ma in tutto il mondo. Si trattò di una
navigazione a vista, senza esempi precedenti, e sterile è la caccia
agli "errori" (quali i parametri e i paradigmi?) e agli "orrori" (si
pensi piuttosto a quelli del capitalismo, senza cadere
nell’infantilismo per cui, predicandosi il socialismo come superiore
al capitalismo, esso dovrebbe presentarsi ed agire in forme
angelicate ed offrendo l’altra guancia). Ciò è ovviamente cosa
diversa da una seria critica storica che rilevi eventuali eccessi,
ma tenga sempre presente la foresta prima del singolo albero, e
dalla considerazione per cui certi rigori complessivamente
inevitabili ebbero senza dubbio successivamente un peso negativo.
Va dunque tenuto presente che l’opera di Stalin avvenne
secondo le condizioni possibili in un paese, certo immenso, ma
arretrato anche nella situazione culturale delle masse e sottoposto
a un duro accerchiamento capitalistico.
Chiusura della NEP (che certo anche per Lenin non sarebbe stata
eterna), industrializzazione accelerata e collettivizzazione delle
campagne con vasto coinvolgimento di masse, inesorabile e
inevitabile - come allora riconobbero anche molti avversari -
operazione di ferrea unità del Partito, pur con i mezzi di un
Terrore rivoluzionario in cui certo non mancarono eccessi e vittime
anche innocenti (qualunque guerra ne ha), ma che impedì fra l’altro
la formazione di quinte colonne nel conflitto armato internazionale
che Stalin sapeva, e che effettivamente fu, imminente: tutto ciò
costituì barriera insormontabile per evitare ed estirpare in radice
la controrivoluzione e vincere la guerra, schiacciando il mostro
nazifascista (e l’enorme abilità tattica di Stalin, pur nella
fermezza dei principi e degli obiettivi finali, venne dimostrata dal
Patto Molotov-Ribbentrop, che sollevò tanto scandalo fra le
anime belle, ma impedì che l’Unione Sovietica si trovasse sola
contro quel mostro, come le potenze imperialistiche occidentali
avrebbero auspicato)
Se non vogliamo sempre, secondo la moda buonista di oggi, rendere
omaggio solo agli sconfitti (alcuni dei quali grandi e generosi, e
totalmente nostri, da Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht a Gramsci, a
Lumumba, a Che Guevara, allo stesso Allende) e arrivare alla
conclusione che le rivoluzioni (magari mondiali...), per chi ancora
ne parla, possono essere solo pacifiche ed incruente e non devono
far centro sulla presa del potere e comunque dopo di questa devono
presentarsi conciliatorie e misericordiose, è necessario che
ci rendiamo conto come la vera rivoluzione si realizza dopo la
(ineludibile) presa del potere con la trasformazione radicale dei
rapporti sociali attraverso la soppressione della proprietà privata
capitalistica dei mezzi di produzione (e oggi anche di
comunicazione) e che tutto ciò va attuato e difeso con volontà
ferrea e inesorabile. Che occorre, dunque, anche "sporcarsi le
mani". Questo è uno dei lasciti fondamentali di Stalin.
La lotta di classe nel socialismo
Prosecuzione della lotta di classe nel socialismo
con passaggi rivoluzionari successivi sino al comunismo, attraverso
un ferreo partito basato sul centralismo democratico nelle
condizioni storiche possibili, esercizio attraverso il Partito della
dittatura del proletariato sino alla fase superiore (con il massimo
possibile coinvolgimento di massa: si rimprovera a Stalin, e questo
va verificato, che negli ultimi anni tale coinvolgimento sarebbe
stato ridotto); partito del proletariato e dei lavoratori,
non "di tutto il popolo", con forte controllo e anche repressione
della burocrazia e sulle tendenze borghesi sempre
risorgenti; rifiuto di una concezione tecnocratica dello sviluppo
verso il comunismo, basato esclusivamente sull’espansione delle
forze produttive e la loro razionalizzazione, dovendosi invece con
la prosecuzione della lotta di classe modificare i rapporti di
produzione e dunque con la sottolineatura della necessità di
affermare una tendenza, che non escludeva temperamenti provvisori,
persino piccoli passi indietro per poi riprendere il cammino, verso
la soppressione della circolazione mercantile e l’unificazione della
proprietà in proprietà di tutto il popolo per arrivare alla
generalizzazione della pianificazione (questi elementi vanno
tenuti presenti nella valutazione delle situazioni di paesi che,
data l’arretratezza di partenza e l’attuale situazione di predominio
imperialistico nel mondo, introducono elementi di mercato nel
socialismo, considerati necessari all’espansione delle forze
produttive, ma che richiedono un fermo controllo del Partito, una
battaglia ideologica costante, con la consapevolezza della sempre
possibile risorgenza di forze borghesi antisocialiste e
controrivoluzionarie); elevazione delle condizioni
materiali e culturali dei lavoratori (mirabile è la Costituzione
staliniana del 1936, che non si limita a proclamare
astratti diritti, ma li sostanzia con l’indicazione delle relative
basi economiche nella proprietà socialista); sul piano
internazionale coesistenza pacifica nel senso dello sforzo di
evitare la guerra ma sempre mirando all’avanzamento del socialismo e
alla lotta contro l’imperialismo (esemplare fu la guerra di Corea) e
non nel senso della competizione economica e della tendenziale
conciliazione e compromesso con l’imperialismo stesso;
affermazione del doppio mercato mondiale e non di un unico mercato
con due sistemi; per i paesi capitalistici, svalutazione delle vie
parlamentari, utilizzabili solo tatticamente: ecco alcuni caposaldi
della posizione di Stalin, del gruppo dirigente attorno a lui, del
Partito.
La fermezza contro l'imperialismo
Valga ancora qualche esempio. La posizione di Stalin
rispetto al problema della bomba atomica, di cui egli dotò l’Unione
Sovietica, anticipa quella di Mao ed è ben contraria a quella di
Krusciov e di Togliatti. Non per sottovalutare il pericolo, ma per
affrontarlo correttamente senza cedere al ricatto, Stalin
non considerava "la bomba atomica una forza così seria quale alcuni
uomini politici sono propensi a crederla. Le bombe atomiche hanno lo
scopo di spaventare gli uomini dai nervi deboli, ma non possono
decidere le sorti della guerra, dato che per questo le bombe
atomiche sono assolutamente insufficienti. Certo il monopolio del
possesso della bomba atomica crea una minaccia, ma contro questo
fatto esistono per lo meno due rimedi: a) il monopolio del possesso
della bomba atomica non può durare a lungo; b) l’impiego della bomba
atomica può essere interdetto" (va posto in rilievo che Stalin
rifiutò comunque la prospettiva di una indiscriminata corsa al
riarmo, sottolineando che questa avrebbe impedito lo sviluppo
economico e sociale della società sovietica, anche qui mostrando una
lungimiranza che mancò ai suoi successori revisionisti). E
vale la pena citare ancora il nostro grande filosofo Ludovico
Geymonat che valutò la politica staliniana in quell’epoca in questi
termini: "La minaccia di utilizzare la bomba atomica fu in realtà
una minaccia enorme e ci volle tutta la durezza del governo
sovietico per non cedere a questa minaccia... questo fu uno dei
punti caratterizzanti della posizione di Stalin, che non si piegò
mai di fronte alla minaccia del bombardamento atomico dell’Unione
Sovietica e continuò pertanto a trattare con gli Stati Uniti da pari
a pari. Questo è un carattere della politica staliniana che
non può essere assolutamente dimenticato poiché in quel momento si
poteva pensare che la guerra era finita con la vittoria assoluta
degli Stati Uniti e quindi l’Unione Sovietica non avrebbe altro da
fare che arrendersi... non ho mai avuto la tentazione di
giustificare l’atteggiamento di resa senza condizioni (da molti
cortesemente suggerito all’Unione Sovietica)... per la verità questo
atteggiamento non è scomparso improvvisamente proprio perchè per
vincerlo fu necessario che anche l’Unione Sovietica fosse in grado
di produrre armi altamente sofisticate (atomiche incluse) pari a
quelle americane". Giustamente Geymonat sottolinea
l’autentico eroismo di questa posizione e dobbiamo confrontarlo con
i cedimenti di Krusciov e la capitolazione di Gorbaciov, che tanto
piace agli attuali opportunisti.
La fermezza di Stalin nella lotta contro l’imperialismo
scaturisce non solo dalla sua irremovibile fede nel socialismo, ma
dalla convinzione che la lotta mortale con l’imperialismo è
tutt’altro che vinta. Anche qui Stalin anticipa Mao e si pone
all’opposto dello stolto ottimismo di maniera di Krusciov, secondo
il quale nel giro di uno o due decenni si sarebbe avuto il passaggio
al comunismo. In diversi scritti Stalin
manifesta l’idea che il socialismo può anche soccombere: per chi gli
rimprovera insufficiente attenzione alle contraddizioni della
società anche socialista e inadeguata applicazione della dialettica,
ritengo opportuno citare una sua lettera poco nota del 12 febbraio
1938 (quindi successiva al discorso sulla Costituzione del 1936, che
di quelle inadeguatezze sarebbe stato espressione), diretta a un
militante di base, Ivan Ivanov, nella quale sostiene che se
all’interno la vittoria sulla borghesia può considerarsi compiuta,
permane la minaccia derivante dalla compresenza prevalente di Stati
capitalistici, i quali creano il pericolo di un intervento
e di una restaurazione, ciò che lo porta ad affermare che "la
vittoria del socialismo nel nostro paese non è ancora definitiva" e
che occorre "rafforzare e consolidare i legami proletari
internazionali della classe operaia dell’URSS con la classe operaia
dei paesi borghesi". Stalin qui si ricollega al pensiero di Lenin ed
anche al proprio "Questioni del leninismo": "Un tentativo un
po’ serio di restaurazione può aver luogo solo con il serio appoggio
dal di fuori, solo con l’appoggio del capitale internazionale". E’
ciò a cui abbiamo assistito nell’episodio della liquidazione
gorbacioviana. Ma va richiamato anche quanto Stalin
ammoniva nel suo ultimo scritto importante, "Problemi economici del
socialismo nell’URSS" del 1952, sulla possibilità che le
contraddizioni della società socialista, di per se non più
antagonistiche, potessero diventare tali a seguito di scelte
politiche sbagliate. Anche questo è quanto avvenuto da Krusciov sino
alla liquidazione di Gorbaciov.
La questione nazionale
Un altro tratto della concezione staliniana va qui da ultimo
sottolineato, come del resto risulta dalle ultime citazioni. Stalin
è stato probabilmente il maggior teorico della questione nazionale e
del problema dell’autodeterminazione dei popoli. E’ mia opinione che
egli abbia superato la concezione un po’ astratta di Lenin - forse
congrua con i compiti della rivoluzione iniziale nel quadro di una
guerra interimperialistica - ponendo in forte intreccio dialettico
l’internazionalismo con la difesa dei caratteri nazionali dei popoli
e con la loro indipendenza. Nell’epoca della c.d. globalizzazione,
cioè di una sottofase particolarmente velenosa dell’imperialismo, il
suo appello al XIX Congresso del 1952 risulta quantomai attuale,
quando sostiene che la bandiera dell’indipendenza nazionale e delle
libertà democratiche - che io riferisco soprattutto alla sovranità
popolare - è stata lasciata cadere nel fango dalla borghesia e deve
essere ripresa dai comunisti. Anche qui, una concezione ben
differente da quella trotzkista oggi dominante nei gruppi dirigenti
anche di RC..
Il rovesciamento radicale operato dal XX Congresso
Da quanto detto finora si comprende come il XX Congresso e gli
altri successivi di Krusciov abbiano rappresentato un rovesciamento
radicale. Il revisionismo moderno andò al potere. Non travolse la
possente costruzione di Stalin (la funzione positiva dell’Unione
Sovietica, pur tra contraddizioni e divisioni ed arretramenti, sulla
scena internazionale permase e lo stesso vale per la tutela dei
lavoratori, pur se in graduale degrado e impoverimento ideologico),
ma cessò la vigilanza rivoluzionaria, elementi borghesi e tendenze
di stesso segno si riaffacciarono, vennero introdotte riforme
economiche in senso opposto a quanto indicato da Stalin alla sua
ultima opera. Se errata ed eccessiva è la tesi del
socialimperialismo, non vi è dubbio che si affermò in Unione
Sovietica e negli altri paesi socialisti, tranne le eccezioni
antirevisionistiche per allora, un mutamento regressivo di classe.
Certo le cause della vittoria del revisionismo moderno
vanno meglio esplorate, ma può dirsi che l’egemonia e la
direzione furono prese dalla piccola borghesia, terreno eminente, da
sempre, delle tendenze revisionistiche del marxismo-leninismo. E la
radice materiale di queste va riscontrata nella circolazione
mercantile, in quella piccola circolazione mercantile in cui Stalin
aveva da sempre indicato il pericolo di base di una restaurazione, e
nell’eccessivo, crescente peso attribuito agli incentivi materiali
fuori da una lotta ideologica, nonché nelle forme di ripristino di
ricerca del profitto aziendale, nei trattamenti privilegiati dei
dirigenti di azienda e della burocrazia, nelle modifiche economiche
di relativa liberalizzazione che in qualche modo andavano verso
forme autogestionarie (precursore era stato Tito in Jugoslavia). Il
tutto condito, come accennato, dall’abbassamento della guardia,
dall’assenza di battaglia ideologica e culturale.
Colpisce come in quasi tutti i partiti comunisti, anche in
occidente, la piccola borghesia sia assurta al ruolo dirigente. Essa
era stata nel complesso il referente, soprattutto nella componente
contadina, delle posizioni di destra di Bukharin (di cui sono stati
rivitalizzatori Krusciov e compari e in definitiva, in modo estremo,
il liquidatore Gorbaciov) e, non sorprenda, anche delle posizioni
trotzkiste oggi prevalenti, come detto, anche in RC. L’odio
della piccola borghesia per Stalin, il quale non ha concesso spazi
alle illusioni conciliatoristiche tipiche di quella classe e ha
invece avuto come proprio orizzonte sempre le esigenze dei proletari
e della classe operaia, è dunque un odio parossistico, estremo. Ce
lo ricordano e spiegano talune pagine molto belle di Franco Molfese.
La piccola borghesia ha dunque plaudito alla condanna,
criminale e catastrofica per le conseguenze nel movimento comunista
internazionale, di Stalin da parte di Krusciov; ha considerato
troppo timide e parziali le infauste misure di destalinizzazione
inaugurate da questo; ha reso e rende ancora omaggio al rinnegato e
traditore Gorbaciov, che nel 1999 ha dichiarato apertamente
all’Università americana di Ankara come il fine della propria vita
fosse stato l’annientamento del comunismo. La concezione
generale che viene così portata avanti è quella per cui la storia
sovietica sarebbe un tutto unitario e indifferenziato, con
l’attribuzione a Stalin dei fenomeni degenerativi che sono invece da
ricondursi alla frattura del 1956: se taluni elementi possono essere
sorti prima, la politica di Stalin li aveva tenuti sempre sotto
controllo. Forse, quel che è mancato è stata la predisposizione di
anticorpi per impedire la degenerazione successiva del Partito.
In realtà, è proprio la liquidazione del potere sovietico
operata ignominiosamente da Gorbaciov, il quale ha omaggiato persino
il papa e i capi dell’imperialismo, che ha aperto gli occhi a molti
e costituito spinta formidabile per una comprensione imparziale
dell’opera formidabile di Stalin, non apologetica, come detto, ma
partecipe delle esigenze oggettive che lo hanno mosso e dei rigorosi
principi e al tempo stesso delle necessità tattiche entro i quali
egli ha agito.
O Gorbaciov o Stalin: nel mondo dell’imperialismo, sia pure in
condizioni in parte nuove ma nell’essenza immutate, la scelta è fra
il cedimento e l’azione rigorosa e intransigente dei comunisti,
capaci di muoversi tatticamente, ma saldi nell’obiettivo
rivoluzionario e nella indisponibile difesa delle conquiste del
socialismo, ove realizzate.
http://www.pasti.org/bernardi.html
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Stalin: la chiave del secolo
di Aldo Bernardini
"La chiave del secolo". Così si è espresso, in modo sorprendente
e inaspettato, Pintor sul "Manifesto", organo dell’antistalinismo
militante: ma nel momento in cui si accavallavano le denegazioni e i
rinnegamenti, come quello dell’ineffabile Veltroni circa il suo mai
essere stato comunista, all’onesto Pintor si deve essere rivoltato
lo stomaco ed egli ha gettato sul piatto una verità che si è voluta
cancellare. L’articolo di Pintor è stato come una stella cadente che
nessuno ha ripreso, nemmeno per contestarlo, forse perchè
incontestabile, ma al tempo stesso imbarazzante: vi si ricorda con
elevate parole che nel periodo tempestoso della seconda guerra
mondiale, e prima e dopo, fu forse Stalin l’unico ad avere le idee
chiare, al punto da suggerire a Pintor, con la parafrasi dei versi
manzoniani del "5 maggio" su Napoleone, che Dio impresse sul
dirigente sovietico in quel momento storico la più forte orma di sé.
La riappropriazione della nostra storia
La ripresa del cammino dei comunisti sino alla ricostruzione di
un autentico partito comunista passa inevitabilmente per la
riappropriazione della propria storia e per l’analisi rigorosa e
senza pregiudizi, se non quelli che ci vengono dai fatti (che
notoriamente hanno la testa dura, mi pare dicesse Lenin), di quanto
è avvenuto nel secolo che è ancora in corso e che termina a fine
2000. In breve, anzi brevissimo, svolgeremo alcune considerazioni,
chiedendo perdono per dimenticanze ed omissioni e magari per la non
eccessiva presa in considerazione di tutti gli elementi critici, che
costituiscono oggetto di esercizio continuo da parte dei nemici ed
in particolare dei revisionisti.
A partire dall’ottobre del 1917 e per decenni abbiamo assistito
al rovesciamento del potere capitalistico in tanta parte del mondo,
all’edificazione, o all’inizio di essa, di società basate su
rapporti strutturali opposti, comunque diversi dal capitalismo
privato, che hanno costituito la base per altre rivoluzioni e, negli
stessi paesi dell’imperialismo, per un freno e un limite del potere
capitalistico verso l’esterno e, all’interno, nei confronti dei
lavoratori. Ciò rappresenta un fatto gigantesco nella storia
dell’umanità che nessuna miseria revisionistica, nessun opportunismo
di partiti istituzionali che si nominano comunisti, nessuna
distorsione o addirittura cancellazione della storia possono neppure
scalfire. Il miserevole tentativo, tra l’altro di livello basso,
anzi penoso, del giornale di RC "Liberazione" nel suo supplemento su
"Chi ha ucciso la rivoluzione?", che ha incontrato la protesta e il
rigetto di tanti compagni di RC stessa, ci porta al centro del
problema.
E questo centro ha un nome preciso: Josip Vissarionovic Stalin,
l’uomo d’acciaio’ il dirigente della vittoria del socialismo, della
disfatta del nazifascismo, dell’estensione rivoluzionaria di un
potere politico di comunisti su almeno un terzo del pianeta, del
rafforzamento della posizione dei comunisti ovunque. Veramente
allora lo spettro del comunismo, non più spettro ma realtà, ha fatto
tremare papi e capi del sistema capitalistico. La demonizzazione di
Stalin, la damnatio memoriae sino alla sparizione delle opere, è
stato il regalo più generoso offerto, dall’interno del campo
socialista, alla borghesia imperialistica, che comprese subito la
portata dei processi aperti dal revisionismo kruscioviano. L’allora
segretario di stato agli esteri americano, John Foster Dulles, dopo
il XX Congresso del PCUS si aprì alla speranza: "La campagna contro
Stalin ed il relativo programma di liberalizzazione hanno provocato
una reazione a catena che a lungo termine non potrà venire
arrestata". Ha avuto ragione lui, e quindi prima di lui aveva avuto
ragione Stalin.
Cancellare Stalin per cancellare Lenin
Cancellato Stalin, è stata la volta di Lenin, ossequiato a parole
dai revisionisti per venire stravolto, e poi picconato dai
liquidatori: la controrivoluzione del 1991 in URSS se l’è presa
essenzialmente con le statue di Lenin e dei suoi più vicini
collaboratori. Gli opportunisti di oggi, a cominciare dalla
dirigenza di RC, sono in realtà antileninisti: se rendono a fior di
labbra omaggio al rivoluzionario, non solo falsificano i caratteri
fondamentali della sua opera, presentandola come un modello che
sarebbe stato deformato e tradito da Stalin, che ne è stato invece
il realizzatore, ma sostanzialmente la svalutano: una presa di
potere senza base popolare, una sorta di putsch, attuato senza
sapere che farsene del potere, come si è azzardato a dire il
segretario Bertinotti; una fiammata senza seguito, sbagliata
in quanto non iscritta in una rivoluzione mondiale (secondo la nota
tesi di Trotzky, riecheggiata oggi dallo stesso Bertinotti che
propone di illuderci con una rivoluzione mondiale: una tesi che
avrebbe comportato all’epoca, a fronte del fallimento delle
rivoluzioni in occidente, l’abbandono dell’impresa rivoluzionaria,
al quale Stalin si oppose con fermezza assoluta: "Dovremmo lasciar
cadere l’Unione Sovietica nella palude di una repubblica borghese?",
disse il grande dirigente e costruttore; una tesi che oggi vuol dire
la non solidarietà, il non appoggio ai punti reali di resistenza
all’imperialismo). All’epoca, un’impresa neppur da
tentarsi, o comunque da liquidarsi subito: di qui la proposta
risibile, antistorica, idealistica del "ritorno a Marx" (e ci si
scorda sempre di Engels!), per ricominciare tutto da capo. (…)
Forse è a quel punto più coerente chi piccona anche Marx.
In realtà, quel che si impone oggi è un "ritorno a Stalin"’ pur
tenendosi presente che l’opera pratica e teorica di questo si
riferisce essenzialmente alla fase di edificazione e difesa del
socialismo dopo la presa del potere, per di più in un paese
(all’inizio) solo e, ancora, non annoverabile fra quelli
capitalistici avanzati e comunque in una condizione di
accerchiamento.
E’ un ritorno indispensabile anzitutto per leggere correttamente
la storia del Novecento: ce lo ha rammentato Pintor. Chi
cancella Stalin crea un enorme buco nero che non permette di
comprendere tutto quel che è avvenuto e di cui in parte
abbiamo fatto cenno, dalla vittoria sul nazifascismo
(che ha fra l’altro smentito la falsa profezia borghese e
trotzkista del crollo del castello di carte e del
manifestarsi di un’assenza di legami della dirigenza e del Partito
sovietici con le masse popolari), alla trasformazione,
incisiva, radicale, solida dei rapporti strutturali della società
(in cui, secondo la previsione corretta di un integrale
antistaliniano come Isaac Deutscher, è impossibile, pur in caso di
controrivoluzione, restaurare "normali" rapporti capitalistici),
alle rivoluzioni successive - incluse quelle,
secondo una corretta valutazione dei comunisti cinesi,
realizzate nei paesi dell’Europa orientale -, con la
costituzione di una comunità di stati socialisti e fino alla
rivoluzione cubana e oltre e alla stessa decolonizzazione,
con il conseguimento di un nuovo equilibrio di forze nei confronti
del campo imperialista: eventi epocali realizzati in una certa
misura anche dopo Stalin, ma inequivocabilmente e indissolubilmente
sulla scia della spinta propulsiva dell’Ottobre di Lenin e
dell’edificazione socialista di Stalin. Rimarrebbero oscuri tanti
altri problemi e fenomeni, ad alcuni dei quali si farà via via
cenno.
Tutto questo è stato invece ben compreso dai grandi dirigenti che
si rifiutarono di accedere al corso revisionistico di Krusciov, da
Mao Tze Tung a Hoxha a Kim II Sung, i quali - anch’essi del resto
ovviamente discutibili in singoli punti della loro opera - nel
complesso, pur dove hanno indicato qualche elemento di critica o di
dissenso, non sempre poi esatto o completamente informato, nei
confronti di Stalin hanno riconosciuto in lui il carattere di "fermo
rivoluzionario proletario" e di punto discriminante di ciò che è
autenticamente comunista rispetto a ciò che non lo è. Lo intendono
oggi dirigenti e studiosi, in occidente (cito solo il belga Ludo
Martens) e ad est (in Germania il compagno Gossweiler, in Russia in
un modo o nell’altro tutti i dirigenti comunisti, in modo fermo e
integrale Nina Andreeva, Victor Anpilov, ma lo stesso Zuganov e
altri, e persino il non comunista presidente Putin ha dovuto rendere
omaggio a Stalin, in Jugoslavia Kitanovic ed altri, nella Corea
popolare qualche anno fa l’attuale dirigente Kim Jong II, a Cuba
Fidel Castro che in un’intervista riconobbe che dopo Gorbaciov ormai
si imponeva una differente valutazione di Stalin, e in modo toccante
Honecker che, dopo la caduta e poco prima di morire, nel suo ultimo
libro, "Der Sturz", riconobbe che era stata erronea la condanna di
Stalin). E lo sanno le masse sovietiche, che issano a
centinaia i ritratti di Stalin nelle manifestazioni comuniste e
fioriscono sempre la sua tomba sotto le mura del Cremlino.
L'odio profondo della borghesia
L’odio della borghesia per Stalin ha inaugurato con lui, in modo
parossistico e perdurante, il sistema indecente delle
criminalizzazioni di dirigenti stranieri che ad essa si oppongono.
Perché Stalin ha in realtà una colpa imperdonabile. Lenin è
in qualche modo riducibile ad un’icona romantica, l’autore
di una rivoluzione contro un mondo ingiusto - questo sono disposti a
riconoscerlo in molti -, ingiusto ma nella sostanza immodificabile,
dunque di una rivoluzione destinata a non durare, come la Comune di
Parigi: e pur se egli gettò le prime fondamenta di una nuova società
e vinse le prime battaglie, sulla base anche di una ineguagliabile
opera teorica, è stato facile, per la sua morte prematura, fra
l’altro avvenuta nel corso di quella sosta o rallentamento, tale
considerata dallo stesso Lenin, sulla via del socialismo che fu la
NEP, predicare che con lui la rivoluzione finì, dunque non dette
nascita a nulla di nuovo e di stabile: il suo successore ne sarebbe
stato il becchino ed avrebbe posto subito i germi della sconfitta,
ma comunque l’avrebbe trasformata immediatamente in qualcosa di
diverso (e di perverso) rispetto al progetto rivoluzionario. La
sconfitta, in realtà, si è realizzata in modo definitivo dopo 70
anni e, quel che più conta, dopo decenni di vittorie e successi e
trasformazioni reali. Anche se i più accorti ed onesti fra
gli avversari riconoscono che pure Lenin, se fosse
vissuto ancora, non avrebbe potuto nell’essenziale agire
diversamente da Stalin, salvo chiudere la serranda della rivoluzione,
e in realtà gettò le premesse dell’opera di questo e dove necessario
non fu meno "spietato" e rigoroso - e di qui dunque la sua
successiva criminalizzazione da parte di liquidatori e altri nemici
-, l’odio per Stalin è più radicale ed incommensurabile,
in quanto egli fu il grande, inesorabile, non pieghevole
realizzatore, estensore e difensore di una durevole realtà
socialista (chiamiamola come vogliamo, comunque anticapitalistica)
nella carne della storia e non nel cielo delle idee.
Ecco dunque che non tanto il pur importante ripristino
della verità storica esige la piena rivalutazione (scientifica, non
apologetica) di Stalin, bensì la necessità di ridare senso alla
vicenda del XX secolo, ad un cammino effettivo e incancellabile dei
comunisti che appartiene a tutti noi, ad una considerazione
che non ci privi delle radici per proporre nuovi cominciamenti
secondo improbabili e non credibili processi e modelli "migliori" di
quelli storicamente realizzati (altro evidentemente sarà il far
tesoro delle esperienze che hanno avuto corso nel secolo) e ci
ricolleghi al tempo stesso alle esperienze socialiste o
anticapitalistiche che vivono ancora e alla stessa lotta dei popoli
ove si è verificato il c.d. crollo, avviandoci all’intelligenza
delle vere, e non idealistiche, ragioni di questo: una lotta, per
quei popoli, che inevitabilmente si lega all’esperienza vissuta del
socialismo reale e pertanto, a partire dalla Russia, al nome di
Stalin. E solo ciò consente oggi di collocarsi nel campo
dell’antimperialismo, senza le reticenze e gli opportunismi che
hanno inficiato le posizioni della sinistra c.d. antagonistica (si
pensi all’atteggiamento nei confronti della Jugoslavia e di
Milosevic).
E’ del tutto evidente che l’opera di Stalin può essere intesa se
non la valutiamo secondo gli schemi astratti, che spesso non ci si
accorge quanto siano subalterni all’ideologia borghese dominante,
propri degli opportunisti e dei trotzkisti, e dunque se si riconosce
che venne allora aperto un percorso drammatico in un contesto di
vera e propria guerra generale interna ed esterna (costante: non
solo quella militare scatenata nel 1941).
"Errori ed orrori?"
Non si tratta di negare i gravissimi costi che questa situazione,
anche in termini umani, dolorosamente impose: pur se sono benemeriti
gli studi che si vanno facendo per ridimensionare in termini
quantitativi tali costi, gonfiati a dismisura dai vari "libri neri",
non è la conta dei morti che può dare una risposta appagante: che va
cercata invece nello spregiudicato esame dell’immane massacro umano
e sociale perpetrato da sempre e ancor oggi dal capitalismo al fine
di tener sottomessa la maggior parte dell’umanità alle proprie
esigenze di profitto, laddove i mali rimproverati a Stalin e
al suo gruppo furono nel complesso misure aspre che portarono al
risveglio e all’inizio dell’emancipazione di masse immense non solo
in Russia, ma in tutto il mondo. Si trattò di una
navigazione a vista, senza esempi precedenti, e sterile è la caccia
agli "errori" (quali i parametri e i paradigmi?) e agli "orrori" (si
pensi piuttosto a quelli del capitalismo, senza cadere
nell’infantilismo per cui, predicandosi il socialismo come superiore
al capitalismo, esso dovrebbe presentarsi ed agire in forme
angelicate ed offrendo l’altra guancia). Ciò è ovviamente cosa
diversa da una seria critica storica che rilevi eventuali eccessi,
ma tenga sempre presente la foresta prima del singolo albero, e
dalla considerazione per cui certi rigori complessivamente
inevitabili ebbero senza dubbio successivamente un peso negativo.
Va dunque tenuto presente che l’opera di Stalin avvenne
secondo le condizioni possibili in un paese, certo immenso, ma
arretrato anche nella situazione culturale delle masse e sottoposto
a un duro accerchiamento capitalistico.
Chiusura della NEP (che certo anche per Lenin non sarebbe stata
eterna), industrializzazione accelerata e collettivizzazione delle
campagne con vasto coinvolgimento di masse, inesorabile e
inevitabile - come allora riconobbero anche molti avversari -
operazione di ferrea unità del Partito, pur con i mezzi di un
Terrore rivoluzionario in cui certo non mancarono eccessi e vittime
anche innocenti (qualunque guerra ne ha), ma che impedì fra l’altro
la formazione di quinte colonne nel conflitto armato internazionale
che Stalin sapeva, e che effettivamente fu, imminente: tutto ciò
costituì barriera insormontabile per evitare ed estirpare in radice
la controrivoluzione e vincere la guerra, schiacciando il mostro
nazifascista (e l’enorme abilità tattica di Stalin, pur nella
fermezza dei principi e degli obiettivi finali, venne dimostrata dal
Patto Molotov-Ribbentrop, che sollevò tanto scandalo fra le
anime belle, ma impedì che l’Unione Sovietica si trovasse sola
contro quel mostro, come le potenze imperialistiche occidentali
avrebbero auspicato)
Se non vogliamo sempre, secondo la moda buonista di oggi, rendere
omaggio solo agli sconfitti (alcuni dei quali grandi e generosi, e
totalmente nostri, da Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht a Gramsci, a
Lumumba, a Che Guevara, allo stesso Allende) e arrivare alla
conclusione che le rivoluzioni (magari mondiali...), per chi ancora
ne parla, possono essere solo pacifiche ed incruente e non devono
far centro sulla presa del potere e comunque dopo di questa devono
presentarsi conciliatorie e misericordiose, è necessario che
ci rendiamo conto come la vera rivoluzione si realizza dopo la
(ineludibile) presa del potere con la trasformazione radicale dei
rapporti sociali attraverso la soppressione della proprietà privata
capitalistica dei mezzi di produzione (e oggi anche di
comunicazione) e che tutto ciò va attuato e difeso con volontà
ferrea e inesorabile. Che occorre, dunque, anche "sporcarsi le
mani". Questo è uno dei lasciti fondamentali di Stalin.
La lotta di classe nel socialismo
Prosecuzione della lotta di classe nel socialismo
con passaggi rivoluzionari successivi sino al comunismo, attraverso
un ferreo partito basato sul centralismo democratico nelle
condizioni storiche possibili, esercizio attraverso il Partito della
dittatura del proletariato sino alla fase superiore (con il massimo
possibile coinvolgimento di massa: si rimprovera a Stalin, e questo
va verificato, che negli ultimi anni tale coinvolgimento sarebbe
stato ridotto); partito del proletariato e dei lavoratori,
non "di tutto il popolo", con forte controllo e anche repressione
della burocrazia e sulle tendenze borghesi sempre
risorgenti; rifiuto di una concezione tecnocratica dello sviluppo
verso il comunismo, basato esclusivamente sull’espansione delle
forze produttive e la loro razionalizzazione, dovendosi invece con
la prosecuzione della lotta di classe modificare i rapporti di
produzione e dunque con la sottolineatura della necessità di
affermare una tendenza, che non escludeva temperamenti provvisori,
persino piccoli passi indietro per poi riprendere il cammino, verso
la soppressione della circolazione mercantile e l’unificazione della
proprietà in proprietà di tutto il popolo per arrivare alla
generalizzazione della pianificazione (questi elementi vanno
tenuti presenti nella valutazione delle situazioni di paesi che,
data l’arretratezza di partenza e l’attuale situazione di predominio
imperialistico nel mondo, introducono elementi di mercato nel
socialismo, considerati necessari all’espansione delle forze
produttive, ma che richiedono un fermo controllo del Partito, una
battaglia ideologica costante, con la consapevolezza della sempre
possibile risorgenza di forze borghesi antisocialiste e
controrivoluzionarie); elevazione delle condizioni
materiali e culturali dei lavoratori (mirabile è la Costituzione
staliniana del 1936, che non si limita a proclamare
astratti diritti, ma li sostanzia con l’indicazione delle relative
basi economiche nella proprietà socialista); sul piano
internazionale coesistenza pacifica nel senso dello sforzo di
evitare la guerra ma sempre mirando all’avanzamento del socialismo e
alla lotta contro l’imperialismo (esemplare fu la guerra di Corea) e
non nel senso della competizione economica e della tendenziale
conciliazione e compromesso con l’imperialismo stesso;
affermazione del doppio mercato mondiale e non di un unico mercato
con due sistemi; per i paesi capitalistici, svalutazione delle vie
parlamentari, utilizzabili solo tatticamente: ecco alcuni caposaldi
della posizione di Stalin, del gruppo dirigente attorno a lui, del
Partito.
La fermezza contro l'imperialismo
Valga ancora qualche esempio. La posizione di Stalin
rispetto al problema della bomba atomica, di cui egli dotò l’Unione
Sovietica, anticipa quella di Mao ed è ben contraria a quella di
Krusciov e di Togliatti. Non per sottovalutare il pericolo, ma per
affrontarlo correttamente senza cedere al ricatto, Stalin
non considerava "la bomba atomica una forza così seria quale alcuni
uomini politici sono propensi a crederla. Le bombe atomiche hanno lo
scopo di spaventare gli uomini dai nervi deboli, ma non possono
decidere le sorti della guerra, dato che per questo le bombe
atomiche sono assolutamente insufficienti. Certo il monopolio del
possesso della bomba atomica crea una minaccia, ma contro questo
fatto esistono per lo meno due rimedi: a) il monopolio del possesso
della bomba atomica non può durare a lungo; b) l’impiego della bomba
atomica può essere interdetto" (va posto in rilievo che Stalin
rifiutò comunque la prospettiva di una indiscriminata corsa al
riarmo, sottolineando che questa avrebbe impedito lo sviluppo
economico e sociale della società sovietica, anche qui mostrando una
lungimiranza che mancò ai suoi successori revisionisti). E
vale la pena citare ancora il nostro grande filosofo Ludovico
Geymonat che valutò la politica staliniana in quell’epoca in questi
termini: "La minaccia di utilizzare la bomba atomica fu in realtà
una minaccia enorme e ci volle tutta la durezza del governo
sovietico per non cedere a questa minaccia... questo fu uno dei
punti caratterizzanti della posizione di Stalin, che non si piegò
mai di fronte alla minaccia del bombardamento atomico dell’Unione
Sovietica e continuò pertanto a trattare con gli Stati Uniti da pari
a pari. Questo è un carattere della politica staliniana che
non può essere assolutamente dimenticato poiché in quel momento si
poteva pensare che la guerra era finita con la vittoria assoluta
degli Stati Uniti e quindi l’Unione Sovietica non avrebbe altro da
fare che arrendersi... non ho mai avuto la tentazione di
giustificare l’atteggiamento di resa senza condizioni (da molti
cortesemente suggerito all’Unione Sovietica)... per la verità questo
atteggiamento non è scomparso improvvisamente proprio perchè per
vincerlo fu necessario che anche l’Unione Sovietica fosse in grado
di produrre armi altamente sofisticate (atomiche incluse) pari a
quelle americane". Giustamente Geymonat sottolinea
l’autentico eroismo di questa posizione e dobbiamo confrontarlo con
i cedimenti di Krusciov e la capitolazione di Gorbaciov, che tanto
piace agli attuali opportunisti.
La fermezza di Stalin nella lotta contro l’imperialismo
scaturisce non solo dalla sua irremovibile fede nel socialismo, ma
dalla convinzione che la lotta mortale con l’imperialismo è
tutt’altro che vinta. Anche qui Stalin anticipa Mao e si pone
all’opposto dello stolto ottimismo di maniera di Krusciov, secondo
il quale nel giro di uno o due decenni si sarebbe avuto il passaggio
al comunismo. In diversi scritti Stalin
manifesta l’idea che il socialismo può anche soccombere: per chi gli
rimprovera insufficiente attenzione alle contraddizioni della
società anche socialista e inadeguata applicazione della dialettica,
ritengo opportuno citare una sua lettera poco nota del 12 febbraio
1938 (quindi successiva al discorso sulla Costituzione del 1936, che
di quelle inadeguatezze sarebbe stato espressione), diretta a un
militante di base, Ivan Ivanov, nella quale sostiene che se
all’interno la vittoria sulla borghesia può considerarsi compiuta,
permane la minaccia derivante dalla compresenza prevalente di Stati
capitalistici, i quali creano il pericolo di un intervento
e di una restaurazione, ciò che lo porta ad affermare che "la
vittoria del socialismo nel nostro paese non è ancora definitiva" e
che occorre "rafforzare e consolidare i legami proletari
internazionali della classe operaia dell’URSS con la classe operaia
dei paesi borghesi". Stalin qui si ricollega al pensiero di Lenin ed
anche al proprio "Questioni del leninismo": "Un tentativo un
po’ serio di restaurazione può aver luogo solo con il serio appoggio
dal di fuori, solo con l’appoggio del capitale internazionale". E’
ciò a cui abbiamo assistito nell’episodio della liquidazione
gorbacioviana. Ma va richiamato anche quanto Stalin
ammoniva nel suo ultimo scritto importante, "Problemi economici del
socialismo nell’URSS" del 1952, sulla possibilità che le
contraddizioni della società socialista, di per se non più
antagonistiche, potessero diventare tali a seguito di scelte
politiche sbagliate. Anche questo è quanto avvenuto da Krusciov sino
alla liquidazione di Gorbaciov.
La questione nazionale
Un altro tratto della concezione staliniana va qui da ultimo
sottolineato, come del resto risulta dalle ultime citazioni. Stalin
è stato probabilmente il maggior teorico della questione nazionale e
del problema dell’autodeterminazione dei popoli. E’ mia opinione che
egli abbia superato la concezione un po’ astratta di Lenin - forse
congrua con i compiti della rivoluzione iniziale nel quadro di una
guerra interimperialistica - ponendo in forte intreccio dialettico
l’internazionalismo con la difesa dei caratteri nazionali dei popoli
e con la loro indipendenza. Nell’epoca della c.d. globalizzazione,
cioè di una sottofase particolarmente velenosa dell’imperialismo, il
suo appello al XIX Congresso del 1952 risulta quantomai attuale,
quando sostiene che la bandiera dell’indipendenza nazionale e delle
libertà democratiche - che io riferisco soprattutto alla sovranità
popolare - è stata lasciata cadere nel fango dalla borghesia e deve
essere ripresa dai comunisti. Anche qui, una concezione ben
differente da quella trotzkista oggi dominante nei gruppi dirigenti
anche di RC..
Il rovesciamento radicale operato dal XX Congresso
Da quanto detto finora si comprende come il XX Congresso e gli
altri successivi di Krusciov abbiano rappresentato un rovesciamento
radicale. Il revisionismo moderno andò al potere. Non travolse la
possente costruzione di Stalin (la funzione positiva dell’Unione
Sovietica, pur tra contraddizioni e divisioni ed arretramenti, sulla
scena internazionale permase e lo stesso vale per la tutela dei
lavoratori, pur se in graduale degrado e impoverimento ideologico),
ma cessò la vigilanza rivoluzionaria, elementi borghesi e tendenze
di stesso segno si riaffacciarono, vennero introdotte riforme
economiche in senso opposto a quanto indicato da Stalin alla sua
ultima opera. Se errata ed eccessiva è la tesi del
socialimperialismo, non vi è dubbio che si affermò in Unione
Sovietica e negli altri paesi socialisti, tranne le eccezioni
antirevisionistiche per allora, un mutamento regressivo di classe.
Certo le cause della vittoria del revisionismo moderno
vanno meglio esplorate, ma può dirsi che l’egemonia e la
direzione furono prese dalla piccola borghesia, terreno eminente, da
sempre, delle tendenze revisionistiche del marxismo-leninismo. E la
radice materiale di queste va riscontrata nella circolazione
mercantile, in quella piccola circolazione mercantile in cui Stalin
aveva da sempre indicato il pericolo di base di una restaurazione, e
nell’eccessivo, crescente peso attribuito agli incentivi materiali
fuori da una lotta ideologica, nonché nelle forme di ripristino di
ricerca del profitto aziendale, nei trattamenti privilegiati dei
dirigenti di azienda e della burocrazia, nelle modifiche economiche
di relativa liberalizzazione che in qualche modo andavano verso
forme autogestionarie (precursore era stato Tito in Jugoslavia). Il
tutto condito, come accennato, dall’abbassamento della guardia,
dall’assenza di battaglia ideologica e culturale.
Colpisce come in quasi tutti i partiti comunisti, anche in
occidente, la piccola borghesia sia assurta al ruolo dirigente. Essa
era stata nel complesso il referente, soprattutto nella componente
contadina, delle posizioni di destra di Bukharin (di cui sono stati
rivitalizzatori Krusciov e compari e in definitiva, in modo estremo,
il liquidatore Gorbaciov) e, non sorprenda, anche delle posizioni
trotzkiste oggi prevalenti, come detto, anche in RC. L’odio
della piccola borghesia per Stalin, il quale non ha concesso spazi
alle illusioni conciliatoristiche tipiche di quella classe e ha
invece avuto come proprio orizzonte sempre le esigenze dei proletari
e della classe operaia, è dunque un odio parossistico, estremo. Ce
lo ricordano e spiegano talune pagine molto belle di Franco Molfese.
La piccola borghesia ha dunque plaudito alla condanna,
criminale e catastrofica per le conseguenze nel movimento comunista
internazionale, di Stalin da parte di Krusciov; ha considerato
troppo timide e parziali le infauste misure di destalinizzazione
inaugurate da questo; ha reso e rende ancora omaggio al rinnegato e
traditore Gorbaciov, che nel 1999 ha dichiarato apertamente
all’Università americana di Ankara come il fine della propria vita
fosse stato l’annientamento del comunismo. La concezione
generale che viene così portata avanti è quella per cui la storia
sovietica sarebbe un tutto unitario e indifferenziato, con
l’attribuzione a Stalin dei fenomeni degenerativi che sono invece da
ricondursi alla frattura del 1956: se taluni elementi possono essere
sorti prima, la politica di Stalin li aveva tenuti sempre sotto
controllo. Forse, quel che è mancato è stata la predisposizione di
anticorpi per impedire la degenerazione successiva del Partito.
In realtà, è proprio la liquidazione del potere sovietico
operata ignominiosamente da Gorbaciov, il quale ha omaggiato persino
il papa e i capi dell’imperialismo, che ha aperto gli occhi a molti
e costituito spinta formidabile per una comprensione imparziale
dell’opera formidabile di Stalin, non apologetica, come detto, ma
partecipe delle esigenze oggettive che lo hanno mosso e dei rigorosi
principi e al tempo stesso delle necessità tattiche entro i quali
egli ha agito.
O Gorbaciov o Stalin: nel mondo dell’imperialismo, sia pure in
condizioni in parte nuove ma nell’essenza immutate, la scelta è fra
il cedimento e l’azione rigorosa e intransigente dei comunisti,
capaci di muoversi tatticamente, ma saldi nell’obiettivo
rivoluzionario e nella indisponibile difesa delle conquiste del
socialismo, ove realizzate.
http://www.pasti.org/bernardi.html
http://mixzone.myblog.it/stalin-la-chiave-del-secolo-di-aldo-bernardini/
http://scintillarossa.forumcommunity.net/?t=25134013
___________________________________________
E' un
invito alla lettura di questo libro,
certamente lettura critica, e alla
riflessione.
Giuseppina
(inguaribilmente comunista).
Dall'introduzione di Adriana Chiaia al
libro di Ludo Martens STALIN Un altro
punto di vista
Adriana
Chiaia nella sua prefazione al libro ci
ricorda tre questioni che ci sembrano
dirimenti.
La
risposta a certi critici
Nell’individuare nel revisionismo
moderno la causa della temporanea
sconfitta del socialismo, come fa anche
l’autore del libro che presentiamo, non
si intende affatto - come ci viene
attribuito - affermare che la svolta
impressa ad ogni aspetto della vita
dell’URSS da Chruscev e dalla sua cricca
revisionista rappresenti il subitaneo
passaggio dal “paradiso all’inferno”. Si
intende invece indicare, nella presa del
potere dopo la morte di Stalin da parte
della componente revisionista del PCUS,
la vittoria di quest’ultima. Vittoria
resa irreversibile anche dalla mancata
reazione e mobilitazione della sinistra
del PCUS. Il sistema socialista era
talmente forte che dovettero trascorrere
più di trent’anni perché, attraverso le
riforme frettolosamente varate da
Chruscev (che per questo perse il
potere), attraverso il periodo di
stagnazione economica e di paralisi
politica sotto Breznev, attraverso
l’inganno della perestrojka
gorbacioviana, attraverso la conquista
delle principali leve del potere da
parte di Eltsin (l’uomo prescelto dagli
Stati Uniti per portare a termine il
lavoro), si arrivasse alla catastrofe
finale con lo scioglimento del PCUS, la
dissoluzione dell’URSS, la nascita della
Comunità degli Stati Indipendenti e la
completa restaurazione del capitalismo.
Sono
dunque pretestuosi gli argomenti dei
nostri critici. Sono piuttosto essi
stessi che dovrebbero rivedere la loro
analisi del processo che ha portato agli
esiti rovinosi che nemmeno loro mettono
in discussione. Essi, rifiutando
l’interpretazione della realtà mediante
la categoria del revisionismo (che
addirittura banalizzano ponendolo alla
stregua del “burocratismo”, chiave
interpretativa di ogni male da parte dei
trockijsti), fanno invece risalire le
cause dell’attuale catastrofica
situazione dell’ex URSS all’arretratezza
atavica della società russa, agli
errori, ai limiti della transizione al
socialismo, “incompiuta”, secondo alcuni
di loro o addirittura mai realizzata,
secondo altri. Essi stabiliscono cioè
una continuità, tra il prima e il dopo
XX Congresso, invece di individuare in
esso un punto di rottura della linea
politica difesa dalla Direzione del
Partito sotto la guida di Lenin e di
Stalin attraverso aspre lotte, linea
politica che ha permesso lo
straordinario sviluppo dell’Unione
Sovietica nel campo economico, politico
e culturale e la sua vittoria sul
nazismo. Nella loro concezione
evoluzionistica, essi negano di fatto
l’esistenza della lotta di classe
durante il socialismo, lo scontro tra le
due vie, tra le due opposte concezioni,
teoria che ha trovato la sua forma più
compiuta nell’elaborazione di Mao Zedong,
grazie anche alla lezione
dell’esperienza dell’Unione Sovietica.
La
sconfitta del revisionismo
La storia
ha decretato la sconfitta del
revisionismo moderno. Ha decretato la
sconfitta dei revisionisti (cioè della
nuova borghesia) installatisi al potere
nei paesi ex socialisti, nei quali si è
dimostrata l’impossibilità di restaurare
il capitalismo per via pacifica, senza
provocare il disastro politico,
economico e sociale in cui sono
sprofondate le loro popolazioni. Ha
decretato la sconfitta dei revisionisti
alla guida dei partiti comunisti nei
paesi capitalisti. Malgrado il loro peso
numerico e la loro influenza nella
società, si è dimostrata l’impossibilità
del passaggio al socialismo “per via
parlamentare e pacifica” e non solo, con
l’accentuarsi della crisi economica
generale del capitalismo che ha esaurito
la fase dello sviluppo produttivo delle
imprese (il boom economico del
dopoguerra), si sono chiuse le strade
riformiste per l’ottenimento di
concessioni economiche e sociali per i
lavoratori. Per questi ultimi si è
verificata, al contrario, la perdita
delle principali conquiste strappate
alla borghesia capitalista.
La nostra
epoca quindi ha sancito non la sconfitta
del comunismo, come viene proclamato ai
quattro venti, ma il fallimento
definitivo del revisionismo moderno.
Concetto
basilare, sostenuto da Ludo Martens
nella sua introduzione e ribadito nel
suo libro, dove si dimostra come le
posizioni delle forze revisioniste, che
hanno preso il potere in Unione
Sovietica dopo la morte di Stalin,
vengano da lontano, discendano da quelle
del vecchio revisionismo dei Bernstein e
dei Kautsky e siano le stesse sostenute
dalle correnti socialdemocratiche e
mensceviche che hanno avversato le idee
e la pratica politica di Lenin, prima e
durante la Rivoluzione d’Ottobre. Sono
le stesse idee che, dopo la vittoria di
questa, sotto le varie forme
dell’opposizione di destra (buchariniani,
zinov’evisti) e di pseudo-sinistra (trockijsti,
socialisti-rivoluzionari) hanno
reiteratamente tentato di deviare dalla
giusta strada le scelte politiche del
Partito Bolscevico, l’esercizio del
potere proletario nella Repubblica
socialista sovietica, e la costruzione
del socialismo negli anni Venti e Trenta
Un invito
ai lettori più giovani
Qui ci
sembra opportuno aprire una parentesi
rivolta ai nostri lettori, specialmente
ai più giovani, per invitarli a non
respingere con un senso di fastidio
quelle che possono sembrar loro noiose
diatribe tra personaggi del passato. Il
loro rifiuto deriva dal disinteresse e
spesso dal disgusto che essi giustamente
provano nei confronti del “teatrino
della politica”, sul palcoscenico del
quale si agitano, in polemica tra loro,
i soliti personaggi, mossi da interessi
personali, di parte o da esigenze
elettorali. Personaggi e polemiche che
appaiono anni luce distanti dai bisogni,
sentimenti e aspirazioni della
stragrande maggioranza della
popolazione. Questa estraneità nei
confronti della “politica” è la
conseguenza del fatto che, negli Stati
ad ordinamento democratico borghese, le
ferree leggi insite nella natura (nel
modo di produzione) del sistema
capitalista nazionale ed internazionale
pongono limiti e vincoli invalicabili
all’agire delle forze politiche, sia
governative che parlamentari, comprese
quelle delegate a rappresentare gli
interessi dei lavoratori e delle masse
popolari. La componente parlamentare di
“sinistra” nei paesi capitalisti è
quindi stretta nella morsa tra
l’opportunistica collaborazione e la
sterile opposizione nei confronti dei
cosiddetti “poteri forti”.
Profondamente diversa è l’importanza
delle lotte ideologiche, dei contrasti e
degli scontri politici di cui ci stiamo
occupando. Si tratta del confronto di
teorie che si materializzano nel
movimento rivoluzionario delle masse e
che ne condizionano il cammino. In un
contesto rivoluzionario e di esercizio
del potere proletario è determinante che
prevalga una teoria o l’altra, che si
imbocchi l’una o l’altra via.
I due
capitoli del libro che presentiamo,
dedicati all’industrializzazione e alla
collettivizzazione in Unione Sovietica
negli anni Trenta fanno comprendere il
senso di questi contrasti, innervati
nella realtà di classe e nello scontro
tra le classi. I nostri giovani lettori
capiranno allora che quelle che
consideravano vane diatribe tra
personaggi in gara per il potere sono in
realtà lo specchio, sul piano teorico,
dei diversi e spesso opposti interessi
delle classi di cui gli individui
(soprattutto interni alla direzione del
Partito e dello Stato) sono,
consapevolmente o no, i rappresentanti e
che il prevalere dell’una o dell’altra
posizione politica, dell’una o
dell’altra concezione del mondo è di
interesse vitale per l’una o l’altra
classe.
Per questo
motivo li invitiamo ad una lettura
particolarmente attenta dei suddetti
capitoli. Essi riguardano l’arco di
tempo successivo alla ricostruzione, il
periodo dell’attuazione del primo piano
quinquennale, della realizzazione delle
grandi infrastrutture, base
indispensabile dello sviluppo
industriale, del ritmo accelerato
impresso allo sviluppo dell’industria e
del primo movimento di massa dei
contadini verso l’agricoltura
collettiva.
Nel suo
discorso per il XII anniversario della
Rivoluzione d’Ottobre, Stalin disse:
«L’anno
trascorso ha dimostrato che, malgrado il
blocco finanziario, ammesso o nascosto,
dell’URSS, noi non ci siamo consegnati
alla mercé dei capitalisti, e che noi
abbiamo risolto con successo, con le
nostre proprie forze, i problemi
dell’accumulazione, gettato le basi
dell’industria pesante. È ciò che ormai
non possono negare anche i nemici
giurati della classe operaia.»
Ed ecco
come descrive questa svolta decisiva
dell’economia sovietica l’insigne
economista di Cambridge Maurice Dobb:
«La
situazione che l’economia sovietica
aveva raggiunto era caratteristica di
una di quelle fasi cruciali del processo
storico nelle quali, qualora si voglia
andare avanti, rapidamente o no, lungo
una determinata linea di sviluppo,
bisogna farlo nell’impeto di uno slancio
iniziale; in questi momenti le forze
d’inerzia che si sono accumulate e
cristallizzate nel corso di un’intera
epoca storica devono essere superate
dall’urto di questo improvviso
movimento; altrimenti esse ritarderanno
e devieranno il corso del movimento
stesso per molti decenni. In quel
momento il processo di escavazione deve
lasciare il passo a un assalto
improvviso e subitaneo.» Il 1929 segnava
infatti la fine del periodo 1926-1929
nel quale si erano dovute superare le
principali difficoltà relative
all’accumulazione in un paese che non
poteva evidentemente contare sullo
sfruttamento delle colonie, fonte
principale dell’accumulazione primaria
dei paesi capitalisti, né su prestiti a
lungo termine da parte di questi o del
sistema bancario mondiale. Inoltre
quegli anni, come già detto, erano stati
segnati da aspre lotte di classe nella
società e dal loro riflesso all’interno
del Partito, che aveva dovuto combattere
contro le posizioni capitolarde del
blocco trockijsta-zinov’evista e le
posizioni opportunistiche della destra
buchariniana. Il sostegno determinante
al Partito era venuto dalla classe
operaia. Dai lavoratori d’assalto: gli
udarniki e gli stachanovisti, i quali,
nell’agricoltura e nell’industria, si
erano impegnati nell’emulazione
socialista e che, con il loro slancio e
il loro entusiasmo, avevano sostenuto il
titanico sforzo.
Abbiamo
ritenuto importante richiamare
l’attenzione dei nostri lettori sul
contenuto di questi capitoli, per la
completezza e la complessità del vasto
affresco, con le sue luci e le sue
ombre, attraverso cui l’autore dipinge
l’epica impresa della trasformazione di
un paese arretrato, la cui economia era
essenzialmente basata su un’agricoltura
frammentata e primitiva, su un’industria
sottosviluppata, priva di tecnologie
moderne, di un paese ricco di risorse
energetiche, ma privo di capitali e
infrastrutture per poterle sfruttare, in
un paese industrialmente avanzato. In
questi capitoli è puntualmente descritta
quella che chiamiamo fase di transizione
di una società socialista, cioè del
passaggio dalla società capitalista alla
società comunista. In essi, con il
metodo marxista del materialismo
dialettico, si illustra l’essenza di
questa fase, non lineare e pacifica, ma
segnata da dure lotte di classe nella
società e all’interno del Partito, da
aspre contrapposizioni tra
inconciliabili concezioni teoriche e
politiche. Dalla lettura di queste
pagine si ricava un resoconto puntuale e
non agiografico della realtà. Si mettono
in rilievo, da un lato, la
partecipazione entusiasta della classe
operaia e dei contadini poveri, ma anche
le contraddizioni al suo interno: i
volontarismi, gli eccessi, i ritardi,
gli errori e le relative rettifiche, lo
spontaneismo delle masse e il ruolo di
direzione del Partito. E, dal lato
opposto dello schieramento di classe, si
evidenziano i sabotaggi, i delitti, la
corruzione, il formalismo e
l’inefficienza. Ci viene offerta cioè la
descrizione “sul campo” di una fase in
cui sono presenti sia i “germi di
comunismo”, come li chiamava Lenin, che
le tare della vecchia società
capitalista. Nel quadro delle
contraddizioni tra i nuovi e i vecchi
rapporti di produzione, viene messa in
risalto l’accanita resistenza della
borghesia che non vuole morire e che -
con le armi, gli intrighi, puntando
sull’ignoranza, sulla forza delle
abitudini, sui pregiudizi e sulle
superstizioni delle masse più arretrate
- cerca di soffocare lo sviluppo
economico, sociale e morale della nuova
società che nasce, ancora imperfetta, ma
che prelude alla società comunista.
Nei
capitoli dedicati al “genocidio della
collettivizzazione” e a “l’olocausto
degli Ucraini”, Ludo Martens affronta
due temi, che furono e sono il cavallo
di battaglia della propaganda della
borghesia imperialista e di quella
revisionista per descrivere gli “orrori”
del comunismo ed in particolare del
“terrore” staliniano. Con un paziente e
puntuale lavoro di ricerca delle fonti e
delle testimonianze, l’autore smonta le
operazioni di intossicazione
dell’informazione e ne svela i
meccanismi perversi. Una tra tutte, a
mo’ di esempio, la montatura riguardante
la carestia degli anni 1931-32 per mezzo
della quale Stalin (c’è sempre una
personalizzazione in queste accuse)
avrebbe volontariamente sterminato gli
Ucraini. Si legga (alle pp. 141-143)
l’ignobile vicenda di un falso reportage
di un falso giornalista e dell’uso
truffaldino delle immagini della
carestia del 1921-22.
Già allora
quella sciagura, che aveva colpito la
giovane Repubblica sovietica russa, era
stata addebitata al “fallimento” del
socialismo, come ricorda Lenin: «... Poi
abbiamo avuto la carestia. E questa per
i contadini è stata la prova più dura. È
ben naturale che allora tutti all’estero
gridassero: “Eccoli, i risultati
dell’economia socialista!”. Ed è del
tutto naturale che essi tacessero che la
carestia, in realtà, era un orribile
risultato della guerra civile.»
È del
tutto naturale che il nemico ci
attacchi, ma non possiamo esimerci
dall’alzare la nostra voce per
ristabilire la verità. Puntigliosamente
e scientificamente l’autore dimostra la
falsità delle cifre sparate dai
detrattori professionali del socialismo,
del genere di Robert Conquest, denuncia
le origini naziste della propaganda
anticomunista maccartista (nel secondo
dopoguerra, gli USA raccolsero il
testimone della propaganda nazista),
ridimensiona il numero dei kulaki
fucilati in seguito alle condanne per
atti di terrorismo nelle campagne e dei
morti in conseguenza della deportazione
nei campi di lavoro. Per quanto riguarda
il “genocidio” degli Ucraini, dimostra
come i dati statistici possano essere
manipolati, applicando lo stesso metodo
alle variazioni della popolazione in una
provincia del Canada (p. 148). Infine
rivela la vera origine della carestia
del biennio 1931-1932, dovuta a cause
naturali (siccità) e a nuove difficoltà
nel processo di collettivizzazione.
Carestia che peraltro fu affrontata con
grande efficienza e con un sollecito
aiuto alle popolazioni colpite, da parte
del governo sovietico che disponeva di
ben altre risorse rispetto al 1921.
http://www.pasti.org/stalin11.html
http://www.facebook.com/groups/161542447270131/189684224455953/#!/notes/giuseppina-ficarra/la-nostra-epoca-ha-sancito-non-la-sconfitta-del-comunismo-ma-il-fallimento-defin/10150446109959605
vedere
anche: Intervento di Aldo Bernardini
alla presentazione del libro di Martens
a Roma il 7 novembre 2005
http://www.pasti.org/bernar27.html
Lenin e la democrazia Lettere agli operai d’Europa e d’America
Lenin e la democrazia
Lettere agli operai d’Europa e
d’America
Lasciate che i pedanti o
coloro che sono inguaribilmente
imbevuti di pregiudizi democratici
borghesi o parlamentaristici
scuotano la testa, perplessi,
davanti ai nostri Soviet,
indugiando, per esempio,
sull'assenza di elezioni dirette!
…..
Il parlamento borghese, sia
pure il più democratico nella
repubblica più democratica, nella
quale permanga la proprietà dei
capitalisti e il loro potere, è la
macchina di cui un pugno di
sfruttatori si serve per schiacciare
milioni di lavoratori. I socialisti,
lottando per emancipare i lavoratori
dallo sfruttamento, hanno dovuto
utilizzare i parlamenti borghesi,
come una tribuna, come una delle
basi per la propaganda, per
l'agitazione, per l'organizzazione,
fino a che la nostra lotta è
rimasta entro i limiti del regime
borghese. Ma oggi che la storia
mondiale ha posto all'ordine del
giorno il compito di distruggere
tutto questo regime, di abbattere e
schiacciare gli sfruttatori, di
passare dal capitalismo al
socialismo, oggi, limitarsi al
parlamentarismo borghese, alla
democrazia borghese, abbellire
questa democrazia come "democrazia"
in generale, celarne il carattere
borghese, dimenticare che
il suffragio universale, sino a che
perdura la proprietà dei
capitalisti, è solo una delle armi
dello Stato borghese, significa
tradire vergognosamente il
proletariato, passare dalla parte
del suo nemico di classe, dalla
parte della borghesia, significa
essere un traditore e un rinnegato.
(n.d.r. dedicato a chi
pensava "che era un obbiettivo
legittimo costruire, da parte di
soggetti terzi, diversi dal popolo
libico, una Libia
“democratica”", ignorando
volutamente l'esistenza della
Jamahirya libica della quale si
poteva e si doveva parlare,
anche per evidenziarne aspetti
positivi. Dedicato a chi anche a
sinistra ha manifestato a Roma sotto
la bandiera del re Idris)
Lettera agli operai
d'Europa e d'America
Pubblicato il 24 gennaio
1919 sull'Izvestia n° 16 e
sulla Pravda n° 16
http://www.marxists.org/italiano/lenin/1919/americani/americani.htm#p2 -
Lettera agli operai
americani
Pravda n° 178, 22
agosto 1918.
A PROPOSITO DI NON VIOLENZA
http://www.facebook.com/#!/notes/giuseppina-ficarra/a-proposito-di-non-violenza/10150469691989605
_______________________
Da Losurdo, Domenico, La non-violenza. Una storia fuori dal
mito
Laterza (Biblioteca Universale Laterza 635), Roma-Bari 2010, pp. 287, € 22,00
[ISBN 978-88-420-9246-9]
Recensione di Maurizio Brignoli – 02/01/2011
Filosofia
politica
Se per tutto un periodo storico la critica della violenza si è
intrecciata alla critica dell'espansionismo coloniale,
oggi "la proclamazione dell'ideale della non-violenza va di pari passo con la
celebrazione dell'Occidente, che si erge a custode della coscienza morale
dell'umanità e si ritiene pertanto autorizzato a scatenare destabilizzazioni e
colpi di Stato, nonché embarghi e guerre 'umanitarie', in ogni angolo del mondo"
(pp. 239-40).
Sul tema della violenza tre 'grandi narrazioni' si sono scontrate
nel corso del novecento: l'intervento degli Usa nella prima guerra mondiale come
strumento per la diffusione universale della democrazia e la realizzazione della
pace perpetua secondo la dottrina di Wilson; l'abbattimento rivoluzionario
dell'imperialismo che avrebbe posto fine alle guerre teorizzato da Lenin; la
creazione di un mondo privo di violenza a partire dal trionfo del principio
morale e religioso proclamato da Gandhi. Oggi, secondo Losurdo, l'unica 'grande
narrazione' ancora vitale sul piano politico, capace al contempo di utilizzare
il tema di Gandhi in funzione completamente subordinata, è quella di Wilson. Con
la sconfitta della rivoluzione francese e poi di quella d'ottobre si è
verificato un fenomeno di riduzione dell''universalità', ristretta oggi
all'ideologia della missione imperiale. La categoria di 'nazione eletta da Dio'
che caratterizza l'ideologia imperiale statunitense non è però
universalizzabile. (Puoi leggere tutto l'articolo qui: http://www.recensionifilosofiche.it/crono/2011-02/losurdo.htm)FOIBE
https://www.resistenze.org/sito/os/ip/osipib10-020032.htmVEDI
DOCUMENTI
N.52
Dall'intervento
di Fausto Bertinotti
(prima della grande svolta!!!!) a
Venezia il 13 dicembre 2003 in occasione del
Convegno sul problema storico e politico delle Foibe
(http://www.spazioamico.it/terrorismo%20scheda%201.htm)
Raniero La Valle Roma, 9 gennaio 2004 da "Liberazione"
La guerra è sempre stata un orrore. Ma perché oggi apre una crisi
di civiltà e può risolversi in catastrofe? Perché la guerra oggi è rimasta
prerogativa di una parte sola, anzi di una sola potenza. Gli Stati Uniti, per
stabilire la loro sovranità universale, si sono riappropriati della guerra, ma
nello stesso tempo l'hanno resa a tutti gli altri impossibile. Creando e
gloriandosi di avere una potenza militare senza pari e quale mai si è avuta
nella storia, inventandosi una guerra dove si dovrebbe morire da una parte sola,
affidandosi ad armi intelligenti e maneggiate da lontano, e sprigionando una
superiorità schiacciante su qualsiasi avversario, hanno reso la guerra,
fatto di per sé essenzialmente dialettico,
per chiunque altro impossibile. Chi osa resistere loro in guerra fa la fine
della Yugoslavia, dell'Afghanistan, dell'Iraq. Le sole guerre che sono ancora
possibili sono quelle tra poveracci, le cosiddette guerre dimenticate. Ma con
l'America non c'è partita, se la partita è la guerra.
E allora se la guerra è stata resa impossibile, il suo surrogato
è il terrorismo. Non potendo ricorrere al terrorismo principale, che è la
guerra, che si combatte con armi pubbliche (publicorum armorum contentio), si
ricorre al terrorismo secondario, che si combatte con "armi private". Il
terrorismo è la guerra degli sconfitti, che non vogliono continuare ad essere
sconfitti, e che sperano di non essere più oltre sconfitti.
La
svolta:
"Dalla fine del 2002, Bertinotti intesse dialoghi coi leader europei dei partiti
antiliberisti di varia estrazione. L'obiettivo è quello di fondare «un partito
europeo di sinistra alternativa». Non è una nuova internazionale "europea" di
partiti comunisti, visto che è aperto anche a partiti socialisti massimalisti.
Del progetto il Partito è pressoché all'oscuro e ne avrà piena conoscenza solo
il giorno della fondazione del Partito della Sinistra Europea, il 10 gennaio del
2004 a Berlino, nella stessa stanza dove nella notte di capodanno del 1918 Rosa Luxemburg fondò con Karl Liebknecht il Partito Comunista Tedesco.
A
firmare l'appello fondativo saranno 11 partiti su 19 presenti, compreso
Bertinotti per il Prc perché è «una rottura di continuità con il passato, che
non può limitarsi a rinnegare stalinismo e leninismo,
ma che introduce la nonviolenza come elemento di riforma del comunismo medesimo».
Si decide altresì, su idea di Bertinotti, di recarsi ad omaggiare la tomba della
Luxemburg e di ripetere l'iniziativa ogni anno nella seconda settimana di
gennaio.(http://it.wikipedia.org/wiki/Partito_della_Rifondazione_Comunista)
============================
da nota pubblicata su fb da Amedeo Curatoli il giorno venerdì 4 novembre
2011 alle ore 22.33.
Ferrero-Diliberto: affinità elettive (e
riportata più avanti):
A Rimini, 9 anni (n.d.r.
2002) fa si fece un congresso di
Rifondazione, furono presentate 63 tesi, nella n° 51 dal titolo sportivo
“comunismo contro stalinismo” Bertinotti scrisse: “un’identità comunista
implica una rottura radicale con lo stalinismo”. 9 anni dopo Ferrero
copia parola per parola dal suo ex maestro:”Il progetto della
rifondazione comunista, di un'identità comunista adeguata al XXI secolo,
implica una rottura radicale con lo stalinismo”. Di suo Ferrero ci ha
messo solo il XXI secolo perché 9 anni fa non si era ancora presa la pomposa
abitudine di dirsi comunisti del XXI secolo, non era stato neanche inventato
ancora Marx XXI. In quella tesi n°51 Bertinotti scrisse ancora: "Non
proponiamo qui un’operazione di bilancio storico, ben altrimenti
impegnativa, ma di verità politica e di identità teorica". 9 anni dopo (cioè
oggi) Ferrero, ridicolmente, facendo la figura dell’ultimo
della classe che copia pedissequamente dal compagno di banco, ripete:
“Non proponiamo qui un'operazione di bilancio storico, ben altrimenti
impegnativa, ma di verità politica e di identità teorica” (VIII
Congresso doc.1
http://web.rifondazione.it/viii/?p=60#more-60)
Non proponiamo qui (2002), non proponiamo qui (2011) un bilancio
storico “ben altrimenti impegnativo”: può darsi che tale bilancio vedrà la
luce nel XXII secolo? E cosa dirà mai di bello un bilancio sull’Urss di
Stalin ben altrimenti impegnativo dopo tutte le calunnie borghesi
imperialiste che gli avete vomitato addosso? Per ora a Bertinotti ed al suo
ex-discepolo valdese ora basta questo giudizio analitico a priori di
kantiana memoria: lo stalinismo è incompatibile con il comunismo!
Che conclusione si potrebbe trarre?
Una constatazione ed un augurio. Una constatazione: teoricamente né Prc né
Pdci sono abbastanza forti da fondare un nuovo comunismo. Un augurio: che ad
ambedue i Congressi almeno un coraggioso compagno (meglio sarebbe un nucleo
organizzato di compagni) denuncino e dimostrino il carattere revisionista
di Prc e Pdci
Amedeo Curatoli 4:11.2011
http://www.facebook.com/note.php?saved&¬e_id=10150382653554605#!/notes/amedeo-curatoli/ferrero-diliberto-affinit%C3%A0-elettive/271847476192882
http://lanostralotta.org/?p=283
============================
Come ho ricordato
altrove oggi
Liberazione non usa più ricordare la Rivoluzione d‘ottobre.
Inoltre nel documento approvato dell'VIII congresso di
Rifondazione comunista nessun riferimento a Marx e
Lenin.
Tutto in nome della non violenza???!!!! vedi anche
La “svolta non-violenta” del PRC
Da L'ERNESTO
La
non-violenza e le sue astratte
agiografie dal «Piccolo gioco» del PRC al «Grande gioco» internazionale
La
“svolta non-violenta” del PRC e le sue resistenze interne di Leonardo
Pegoraro
Nel corso
degli ultimi anni abbiamo assistito all’interno della sinistra radicale e in
particolare, del PRC ad un aspro dibattito sulla non-violenza che vale la pena
ripercorrere brevemente. Come si ricorderà, il dibattito si sviluppò a partire
dalle dichiarazioni che Fausto Bertinotti rilasciò in occasione di un convegno
sulle foibe svoltosi a Venezia nel dicembre del 2003. Per la maggioranza del PRC
si trattava di imprimere al partito una una vera e propria “svolta”
non-violenta, a ribadire la quale sarebbe intervenuto poi un altro convegno ad
hoc, tenutosi il 28 e 29 febbraio del 2004 sempre a Venezia, nell’isola di San
Servolo1. Ma non tutti i compagni del PRC apprezzarono questa “innovazione”.
Essa sarebbe infatti assurta a oggetto di critica da parte delle minoranze
interne del partito, a partire da quella de l'Ernesto che si impegnò così a
promuovere nel giro di un mese un terzo convegno (plurale e aperto a diverse
posizioni) presso la Casa della Cultura di Milano2.
In questa
sede molti compagni sollevarono anzitutto un problema di metodo, in relazione al
fatto che il convegno di San Servolo era stato organizzato “a senso unico” e
aveva volutamente rifiutato un confronto tra tesi diverse3. Misero poi in luce
la confusione derivante da un continuo cambiamento dell’oggetto del dibattito
che, a seconda dell’esigenza della polemica, passava da un’assolutizzazione nel
tempo e nello spazio dell’ideologia e della pratica non-violente a
«considerazioni politiche abbastanza ovvie sulla necessità di rifiutare l’uso
della violenza “qui ed ora”». Il tutto accompagnato da un confuso intreccio tra
il tema della violenza e quello del potere, come se l’una coincidesse
automaticamente con l’altro e viceversa4.
Ma a
risultare, se possibile, ancora più oscuro e surreale era l’urgenza con cui la
maggioranza del PRC voleva imprimere al partito questa “innovazione” culturale,
come se in Occidente fosse all’ordine del giorno la presa del “Palazzo
d’inverno” da parte degli oppressi. E rivendicando oltretutto «come originali»
risultati che in realtà erano stati «da tempo acquisiti» e «come proprie
pensate» temi che erano ormai «a dir poco classici», da tempo ampiamente
metabolizzati «dalla cultura del movimento operaio» grazie anche alla preziosa
lezione gramsciana5.
Al convegno de l'Ernesto, l’urgenza di questa “svolta” ideologica
veniva così interpretata da molti interventi come il frutto di una strumentale
esigenza politica: la maggioranza
bertinottiana stava cercando di operare da un lato un «aggiustamento della
collocazione» del partito rispetto al movimento no global e, dall’altro, di
lanciare ai settori moderati del paese un visibile segnale di «omologazione»,
«in vista di un accordo organico di governo nel 2006» (con la conseguente
integrazione subalterna del partito nell’Ulivo).
Finalità tattiche, queste, che avrebbero però
potuto sconfinare sul piano della dimensione strategica, con il rischio di
aprire la strada ad un cambiamento genetico del partito e, di conseguenza, ad
una «nuova identità, con tutto ciò che ne deriva in termini di interlocutori
sociali, modalità di lotta politica e retroterra culturale». Un’identità
politica non più volta a un radicale superamento del capitalismo ma
compatibilmente volta, tutt’al più, a contrastarne gli effetti, per così dire,
più «odiosi» e selvaggi6. Insomma, questa “innovazione” si preannunciava come
una tappa fondamentale di un (forzato) processo di decomunistizzazione in atto nel PRC ad opera della sua
stessa maggioranza.
Due
diverse scuole di pensiero a confronto: idealismo vs. materialismo storico
CONTINUA
vedi anche qui
http://domenicolosurdo.blogspot.com/2010/11/una-recensione-della-non-violenza.html
http://www.sinistrainrete.info/archivio-documenti/1110-leonardo-pegoraro-la-non-violenza-e-le-sue-astratte-agiografie-dal-lpiccolo-giocor-del-prc-al-lgrande-giocor-internazionale
(*)
Lo Leggio Salvatore
la Rivoluzione d'Ottobre
fu una tra le meno violente della storia. La violenza venne dopo: soprattutto
dai Bianchi, in parte consistente mercenari stranieri, e dal loro terrore
anticomunista. L'Armata Rossa condusse una guerra eminentemente difensiva.
PER
LA RICOSTITUZIONE DELL'UNIONE SOVIETICA di
Michele Trocini
I bolscevichi si preparano in Russia!
L'oratore è il dirigente del movimento di massa "Il giudizio del tempo" Notate
fin dall'inizio lo stile politico dei bolscevichi, l'oratore arriva accompagnato
da elementi paramilitari, notate anche la formazione delle prime fila del
pubblico. Che cosa dice grosso modo l'oratore? Il suo intervento è di appena 1
giorno dopo le elezioni e denuncia che è in atto un piano Libia in Russia. Per i
bolscevichi esiste la distinzione tra avversario politico e traditori. Il
compito principale di oggi è quello di sconfiggere con qualsiasi mezzo il
tentativo imperialista in combutta con i traditori della Patria. Hanno per
l'operazione già investito un miliardo e mezzo di dollari nel piano nel quale
gli arancioni dovranno avere un ruolo importante. L'ambasciatore americano a
Mosca, il signor Mc Faul, coordina il criminale piano che prevede di far
penetrare bande armate nel paese che dovranno far da spalla agli arancioni che
provocheranno rivendicazioni regionali per smembrare la Russia e creare le
condizioni di un controllo dell'arsenale atomico nelle mani imperialiste. I
Bolscevichi presenti anche nelle sfere militari con proprie organizzazioni sono
pronti e si preparano a sventare il piano criminale. La partita con Putin si
giocherà nel corso di questa lotta a seconda del suo atteggiamento nei confronti
del piano criminale imperialista. Alla fine l'oratore, il compagno Kurghinian,
invita a trasferirsi nel vicino teatro dell'esercito per il freddo pungente.
Invitiamo inoltre la compagna di mano da estrarre altre importanti argomenti dal
discorso del compagno oratore.
Митинг "Суть Времени" 05.03.12 Суворовская площадь Москва - Красное ТВ
________
ESTRATTO DA
DISCUSSIONE FRA UNO STALINISTA E UN BORDIGHISTA
martedì 7 febbraio 2012
LA VERITA’ SUI CRIMINI DI STALIN
Ciao XY ti chiedo scusa per
il ritardo ma, come tu capirai, le questioni affrontate richiedevano una
risposta seria ed argomentata. E’ stata una faticaccia lo riconosco ma ha
permesso anche a me di approfondire molte cose di cui avevo solo una vaga idea
per cui ritengo che ne è valsa la pena.
Devo dire che sono un po’
deluso ; mi aspettavo qualcosa del genere ma non queste che sono le cose trite e
ritrite che la borghesia democratica oltre a quella fascista e nazista ripetono
da 70 anni. Sono le stesse cose che Robert Conquest ( famoso e viscerale
anticomunista) scrive nel suo libro nero sul comunismo edito da Berlusconi ma
pazienza.
Innanzitutto pretendi di
argomentare l’essenza anticomunista dello stalinismo sostenendo la natura
precapitalistica dei rapporti da cui esso sorge. ( devo ammettere che come idea
è interessante e merita un approfondimento). A parte il fatto che logica vuole
che se il Bordighismo e il Trotzkismo hanno fallito nel loro tentativo di
dimostrare che in Urss non c’era il socialismo questo compito rimane non assolto
e tocca magari a voi o a chiunque ne abbia la voglia e gli strumenti risolvere
il quesito. E’ sbagliato fare passi in avanti
(a) per cercare di spiegare che
cos’era se non era socialismo perché non avete ancora dimostrato che non era
tale. Poi se, da quello che tu stesso dici, non avete le idee chiare perché
siete all’inizio, bene! Buon lavoro. Vedremo cosa viene fuori. Per adesso rimane
una cosa buttata lì senza significato teorico giusto? Quindi non mi può
bastare. E passiamo agli altri argomenti.
Andrò in ordine cronologico
per cui vediamo il primo:
1)… La politica di Stalin
nei confronti della Georgia…(omissis)…i compagni georgiani,che non si vedranno
solo invadere il proprio territorio bensì anche sterminare quasi tutto il
proprio C.C….
Per quanto riguarda
l’invasione del territorio Georgiano se ti riferisci al febbraio del ’21 quando,
Lenin era ancora saldamente al suo posto di comando e in piena guerra civile,
dopo aver ottenuto l’indipendenza il governo Georgiano ( menscevico,
nazionalista e anticomunista) aveva attaccato l’ Armenia, proceduto alla pulizia
etnica degli osseti e bruciato villaggi abkhazi e quindi aveva messo fuorilegge
ed incarcerato tutti i comunisti della repubblica, dopo che il paese minacciava
di diventare una base per l’intervento straniero contro il paese dei Soviet
ebbene sì; truppe russe insieme a forze georgiane sono effettivamente entrate
nel paese. E’ vero che Lenin si disse molto dispiaciuto ma ,si sa, lui era un
buono. Ma cosa centra Stalin?
Sullo sterminio del C.C.
Georgiano ( se è vero che è stato sterminato) penso che ti riferisci alle purghe
del ’38 ma di questo ne parlo più avanti.
2)……Lenin….carcerato nel
letto del suo appartamento dalla vigilanza medica stalinista…
Semplicemente Lenin era
stato colpito da un attacco nel maggio del ’22. A dicembre dello stesso anno ha
un nuovo grave attacco peggiora il suo stato. Il 24 /12 i medici dissero a
Stalin, Kamenev e Bucharin che qualsiasi controversia politica in cui L. fosse
stato coinvolto avrebbe potuto essere fatale. Essi stabilirono che:” ha facoltà
di dettare ogni giorno per un tempo da 5 a 10 minuti. Non può ricevere
visitatori politici. I suoi amici e coloro che lo circondano non possono
informarlo delle questioni politiche”. Inoltre l’Ufficio Politico del partito
aveva incaricato Stalin di tenere i rapporti con L. ed i medici (allora Stalin
non aveva ancora la preminenza che ebbe più avanti). Ovviamente L. cercava in
ogni modo di aggirare il divieto aiutato in questo dalla moglie. Da questo
nascevano frizioni e tensioni comprensibilissime che attestano comunque oltre
al desiderio di Stalin di non affrettare la fine di L. anche la fedeltà al
compito assegnatogli dall’ufficio politico .
3) …collettivizzazioni
forzate degli anni 30…
Quello della
collettivizzazione dell’agricoltura in Urss è un eccellente esempio (un modello
direi) di come si trasforma in senso socialista un economia difficile da
trattare come quella agricola.
Contrariamente a quello che
ti prefiggi è un argomento forte a favore di chi, come noi, sostiene che il
socialismo stava facendo dei passi giganteschi in Urss.
Sintetizzando molto:
L’agricoltura in Russia era da sempre il settore più arretrato non solo nei
confronti di altri settori dell’economia Russa ma anche nel confronto
internazionale. Famosa era la miseria e l’ignoranza del contadino russo il quale
andava a dormire alle 5 del pomeriggio perché non aveva nemmeno l’olio per la
lampada.
La rivoluzione socialista
aveva portato molti vantaggi al contadino russo; I contadini senza terra avevano
ricevuto tutti un appezzamento, le imposte dirette e gli affitti erano
nettamente inferiori al vecchio regime e finalmente dopo secoli i contadini
riuscivano a conservare e consumare una parte molto più grande dei loro
raccolti. Nel 1927 però c’era ancora molto poco di socialismo nelle campagne
dove la maggioranza di produttori erano individuali.
Infatti nel ’27 in seguito
allo sviluppo spontaneo delle leggi di mercato il 7% dei contadini si trovarono
di nuovo senza terra. Ogni anno 250.000 contadini poveri perdevano il loro
terreno. In sostanza aumentava la differenziazione sociale. La grande
maggioranza era costituita da contadini medi ma si rafforzava la fascia di
quelli cosiddetti ricchi che costituiva tra il 5 e il 7% del totale.
Il problema era anche il
controllo del mercato del grano che era importante per lo sviluppo
dell’industrializzazione e per il rifornimento delle città. Questo rifornimento
diminuiva. E perché diminuiva? Per 2 fenomeni: 1) aumentando il benessere dei
contadini questi consumavano di più del passato e quindi ce n’era meno per il
mercato e 2) i contadini ricchi lo conservavano per speculare sul rialzo dei
prezzi.
Questo fatto non poteva
durare e portava allo scontro con i contadini ricchi, i famosi kulaki.
Il PC(b) ( Il partito quindi
non Stalin; e smettiamola di personalizzare le lotte politiche! ) si rende conto
che questo è una minaccia per il socialismo e punta quindi sulle fattorie
collettive: i Kolkhozy.
Il partito si impegnava a
far sì che le piccole, isolate e poco produttive fattorie singole si unissero
volontariamente in cooperativa, non con il metodo delle pressioni ma con
l’esempio e la convinzione, in unità più grandi ed estese. Il movimento per la
collettivizzazione si estese impetuoso in ogni angolo del paese e portò ad
ottimi risultati e , come sempre succede nella vita reale, ci furono degli
errori e delle esagerazioni. Ci furono burocrati ed attivisti troppo zelanti
che per incomprensione o per troppo entusiasmo arrivarono anche a fare
pressione ma questo non cambia il segno generale di tutta l’operazione. I
Kulaki invece vennero espropriati e, a volte esiliati, ma a farlo non fu
l’apparato del partito o dello stato ma gli stessi contadini poveri! E sapete
perché ? perché nelle campagne il partito era molto debole. Basti pensare che il
1 Ottobre 1928 su 1.360.000 membri e candidati del partito solo 198.000 erano
contadini e lavoratori agricoli cioè il 14,5 % del totale. Al 1 Gennaio del 1930
si contavano 339.000 comunisti su una popolazione rurale di 120 milioni di
persone.
Quindi la parola d’ordine
era Dekulakizzazione. Il 5 Gennaio 1930 una risoluzione del comitato centrale
affermò: “ bisogna passare da una politica di limitazione delle tendenze
sfruttatrici dei kulaki ad una politica di liquidazione dei Kulaki in quanto
classe”.
Dopo questa risoluzione i
Kulaki si lanciarono in una lotta a morte: incendiavano raccolti, appiccavano il
fuoco ai fienili, alle case e ai fabbricati; uccidevano militanti bolscevichi.
Per non dover cedere il loro bestiame alla collettività l’abbattevano e
incitavano i contadini medi a fare altrettanto con il risultato che nel ’32, dei
34 milioni di cavalli esistenti nel paese nel 1928, solo 15 milioni erano quelli
rimasti. Del danno provocato all’agricoltura è sufficiente pensare che il
cavallo allora era ancora lo strumento principale di
lavoro.
La resistenza dei Kulaki continuò ma alla fine la maggior parte di loro erano
stati espropriati. E che fine fecero? La maggior parte furono inserite nei
Kolkhozy e un piccola parte fu esiliata. Questa è la verità sulla
collettivizzazione forzata che, sottolineo, fu forzata solo nei confronti dei
contadini ricchi ( d’altronde se una collettivizzazione non è forzata che
collettivizzazione è? e se questo non è socialismo che avanza verso il comunismo
che cos’è?)
(b)
Per quanto riguarda il
genocidio legato alla collettivizzazione bisogna dire che l’espressione:
“liquidare i Kulaki in quanto classe” fu subito sottolineata da uomini senza
scrupoli come Ernest Nolte e Conquest per parlare di sterminio degli stessi
tacendo il fatto che con quell’espressione si indicava solamente la necessità di
liquidare socialmente i Kulaki e cioè come classe e non fisicamente come
individui. Robert Conquest parla di 6.500.000 vittime ma nel 1990 Zemskov e
Dugin, due storici russi pubblicarono le statistiche dettagliate dei Gulag da
cui risulta che nel periodo più violento della collettivizzazione , negli anni
’30 e ’31, i contadini espropriarono 381.026 Kulaki con le loro famiglie e li
costrinsero all’esilio nelle terre vergini dell’Est della Russia; si trattava di
1.803.392 persone. Al 1 gennaio 1932 un censimento ne contò 1.317.022. La
differenza era di 486.000; una parte di questi fuggirono durante il viaggio,
un’altra parte tornò nel luogo di residenza. La stima di 100.000 persone
decedute è ritenuta molto vicina alla realtà e la causa della loro morte è per
la maggior parte dovuta ad epidemie dovute alle precarie condizioni igieniche
dell’epoca in particolare all’assenza di acqua bollita. Dal 1932 al 1940 si può
stimare che 200.000 kulaki siano morti nelle colonie per cause naturali. Di
tutte queste morti la colpa viene attribuita a Stalin. D’altronde, visto il
deficit di forza-lavoro che c’era in Siberia e Kazhakastan non si capisce perché
il regime dovesse eliminare tutta questa forza lavoro. Per odio al socialismo
alcuni intellettuali occidentali hanno diffuso le calunnie di Conquest sui
Kulaki sterminati ma quanti sanno che in Mozambico, la Renamo, organizzata dalla
CIA e dai Servizi Segreti del regime razzista del Sudafrica hanno massacrato ed
affamato, dal 1980, 900.000 abitanti dei villaggi con lo scopo di impedire che
il Mozambico emergesse come paese indipendente a orientamento socialista.
L’Unita, anch’essa sostenuta da CIA e Sudafrica, ha ucciso più di un milione di
angolani durante la guerra civile contro il MPLA. In Mozambico e in Angola non
occorreva inventarsi dei cadaveri bisognava solo contarli ma, come dice Mao, ci
sono morti che pesano come piombo e morti che pesano come piume.
4) … dei processi di Mosca,
….il fatto dello sterminio dell’intero Comitato Centrale formato dai
rivoluzionari bolscevichi della prima ora……, del riciclo a sistema dei Gulag
zaristi…,
Qui è necessario fare una
premessa che cercherò di sintetizzare molto. La società socialista, come tutti i
comunisti sanno, è una fase di transizione tra il Capitalismo e il Comunismo
quindi tende verso quest’ultimo ma porta ancora i segni della vecchia società
sotto ogni aspetto: economico, morale ed intellettuale. Nella società socialista
continuano a sussistere le differenze tra operai e contadini, tra città e
campagna, tra lavoro manuale ed intellettuale, tra dirigenti e diretti e infine
la distribuzione del prodotto sociale viene fatta in base alla quantità del
lavoro svolto e non in base ai bisogni, come sarà nella società comunista. Di
conseguenza continuano ad esistere differenze in fatto di ricchezza e queste
differenze possono scomparire solo lentamente, il che comporta necessariamente
la possibilità di un lungo periodo prima che la transizione si compia.
Già dopo la rivoluzione
d’ottobre Lenin aveva osservato che: 1) gli sfruttatori spodestati cercano
sempre ed in tutti i modi di riconquistare il loro paradiso perduto. 2)
l’ambiente piccolo borghese genera ogni giorno, ogni ora, nuovi elementi
borghesi. 3) Nei ranghi della classe operaia e tra i funzionari statali possono
spuntare degli elementi degeneri e dei nuovi elementi borghesi a causa
dell’influenza borghese, dell’ambiente piccolo borghese e dalla corruzione che
esso esercita. 4) le condizioni esterne che determinano la continuazione della
lotta di classe nei paesi socialisti sono: l’accerchiamento da parte del
capitalismo internazionale, la minaccia dell’intervento armato e le manovre di
disgregazione pacifica cui fanno ricorso gli imperialisti. Cito solo: “ Il
passaggio dal capitalismo al comunismo copre tutta un epoca storica. Finchè essa
non è conclusa, gli sfruttatori conservano inevitabilmente la speranza di una
restaurazione, speranza che si traduce in tentativi di restaurazione”
(c) e
poi: “L’abolizione delle classi è il risultato di una lotta di classe lunga,
difficile, ostinata, che, dopo l’abbattimento del potere del capitale, dopo la
distruzione dello stato borghese, dopo l’instaurazione della dittatura del
proletariato, non cessa… (omissis)… ma non fa che cambiare di forma per divenire
sotto molti aspetti persino più accanita
(d).La storia dell’Urss conferma questa
tesi di Lenin. La borghesia e le altre classi reazionarie conservano per un
certo periodo la loro forza e mille legami la collegano alla borghesia
internazionale. Non rassegnate alla sconfitta esse scatenano in tutti i campi
lotte dissimulate o aperte col proletariato. Atteggiandosi ovviamente a fautori
del socialismo, dei soviet e del partito comunista ( loro sono i veri comunisti
dicono) sabotano il socialismo e preparano la restaurazione del capitalismo.
Esse cercano di insinuarsi negli organismi dello stato, nelle organizzazioni di
massa, nelle istituzioni economiche e, sul piano economico, sabotano in tutti i
modi l’apparato produttivo. In una situazione del genere sono particolarmente
nocivi gli elementi degeneri che si insediano negli organi dirigenti perché
sostengono e proteggono gli elementi borghesi presenti negli organi inferiori.
Se si considera che le forze di cui sopra trovavano un terreno favorevole
proprio tra i piccoli produttori privati dell’agricoltura , che questi ultimi
hanno potuto esistere liberamente per molti anni e che questo settore è stato
per lungo tempo il settore predominante dell’economia si capisce bene che la
lotta di classe in Urss non era affatto terminata. Ma, in generale, la lotta tra
il Marxismo-Leninismo e l’opportunismo di ogni genere e quindi anche il
revisionismo è qualcosa di inevitabile all’interno dei partiti comunisti dei
paesi socialisti e durante il periodo socialista.
Mao tse Tung, che ha
approfondito in modo particolare la dialettica delle contraddizioni ha
sottolineato che la legge universale della natura e della società umana, che è
l’unità e la lotta dei contrari, si applica anche alla società socialista. Lungo
tutta la fase socialista c’è sempre lotta tra le due vie: il socialismo ed il
capitalismo. (e)
Non solo, Mao ha messo in luce che le contraddizioni sociali
resteranno la forza motrice della trasformazione e della vita sociale non solo
nel socialismo ma anche nel comunismo ( ovviamente ad un livello superiore).
Infatti Lenin e i
Bolscevichi si sono sempre battuti contro questo pericolo e in particolare
contro le deviazioni burocratiche dell’apparato statale e soprattutto degli
organi dirigenti. Subito dopo la rivoluzione, i bolscevichi furono costretti a
recuperare una parte del vecchio apparato statale zarista. Da una parte i Kulaki,
i vecchi ufficiali zaristi e tutti i reazionari riuscivano facilmente ad
infiltrarsi nel partito, poiché tutti coloro che avevano una certa capacità
organizzativa, venivano ammessi d’ufficio nelle sue file, talmente grande era la
sua mancanza di quadri. Dall’altra parte, la prima generazione rivoluzionaria di
contadini si era formata nell’esperienza della guerra civile ed aveva
assimilato la mentalità del comunismo di guerra e cioè comandare e dare ordini
di tipo militare.
In generale poi, in regime
di partito unico, per gli opportunisti, i profittatori e i carrieristi quale
posto migliore per trovarsi un posticino adeguato che il partito stesso? Questa
gente poi riusciva facilmente ad inserirsi soprattutto nei quadri intermedi e
negli apparati delle repubbliche.
Uno dei metodi più
collaudati per la lotta contro la degenerazione burocratica era la
verifica-epurazione necessaria anche perché gli iscritti al partito, dopo la
rivoluzione, crebbero esponenzialmente. Se nel ’17 gli iscritti al partito erano
30.000, nel ’21 600.000 , nel ’29 1.500.000 nel ’32 erano diventati 2.500.000.
La prima campagna di verifica fu fatta nel ’21 quando il 25% dei militanti
furono espulsi, nel ’29 fu espulso l’11% e nel ’33 il 18%. Gli espulsi erano
quelli che un tempo erano stati kulaki, ufficiali bianchi e controrivoluzionari
e poi anche corrotti, arrivisti e burocrati incorreggibili. Era un lavoro
difficile e faticoso perché, come abbiamo visto sopra, questi elementi si
riproducevano in continuazione.
Arch Getty nel suo studio:
“Origins of the Great Purges” dimostra che negli anni ’30, a livello regionale,
che era il livello principale di decisione sul terreno, erano cambiate poche
cose. Ai livelli regionali, si erano formati clan e gruppi di potere che era
stato difficile sloggiare ma, alla fine, saranno distrutti durante la grande
purga del 37-38.
L’assassinio di Kirov nel
’34 a Leningrado, il nr.2 del partito, fu un campanello d’allarme per la
dirigenza bolscevica.
Il processo al blocco
Zinovievista-Trotzkista del ’36 fu la conferma che l’opposizione Trotzkista
stava diventando il coagulo di tutte le forze ostili al socialismo nonché V
colonna potenziale per minacce esterne e agenzia al servizio di servizi segreti
stranieri.
Il 23 settembre del ’36 una
serie di esplosioni in miniere siberiane causarono 12 morti e comunque,a parte
gli attentati, continuavano i sabotaggi in tutto il paese. Nel ’36 fu arrestato
Bucharin perché complottava per organizzare un colpo di stato il quale confessò.
Per chi avesse dubbi sulla sincerità delle confessioni sentite un po’ cosa
scrisse in un messaggio confidenziale al Segretario di Stato a Washington,
nientedimeno che l’Ambasciatore degli Stati Uniti in Urss Joseph Davies,
presente ai processi un quanto questi erano pubblici:” Sebbene io nutra un
pregiudizio nei confronti dell’acquisizione di prove attraverso la confessione e
nei confronti di un sistema giudiziario che non accorda , per così dire, nessuna
tutela all’accusato, dopo aver ben osservato ogni giorno i testimoni e il loro
modo di testimoniare, dopo aver notato le conferme inconsapevoli che si sono
evidenziate e altri fatti che hanno contrassegnato il processo, io penso,
d’accordo in questo con altri il cui giudizio può essere accettato che, per ciò
che riguarda gli accusati, essi abbiano commesso abbastanza crimini secondo la
legge sovietica, crimini stabiliti dalle prove e senza che siano possibili
ragionevoli dubbi sul verdetto che li dichiara colpevoli di tradimento e sulla
sentenza che li condanna alla pena prevista. E’ sensazione generale dei
diplomatici che hanno assistito al processo che l’accusa abbia provato
l’esistenza di un complotto estremamente grave”.
Ma la cosa che impressionò
di più e rese urgente la necessità di una pulizia radicale fu la cospirazione
anticomunista nell’esercito che collegata all’opposizione opportunista
all’interno del partito provocò il panico e diede il via alla grande purga.
L’esercito era l’ambiente in
cui l’opposizione di “sinistra” era quasi totalmente assente ciononostante fu lì
che si abbatté in percentuale il maggior numero di epurati. C’e chi ha definito
isterico e paranoico il modo in cui sono stati colpiti i militari proprio nel
momento in cui ci si aspettava un attacco da parte della Germania nazista ma è
proprio questo che dimostra il sangue freddo e il coraggio di chi ha deciso
questo: Il partito non poteva permettersi degli elementi infidi nel corpo
dell’esercito, ne andava dell’esistenza stessa dello stato sovietico. Il fatto
poi che il partito colpisse soprattutto le forze armate che erano indispensabili
ai fini della difesa esterna non può essere spiegato che dalla fondatezza delle
accuse di complotto. L’altro modo per spiegarlo è che tutti i dirigenti
sovietici fossero dei pazzi.
Infatti il trotzkista Isaac
Deutscher che non perdeva mai occasione per denigrare Stalin scrive:” tutte le
versioni non staliniane concordano su un punto: alcuni generali progettarono
veramente un colpo di stato. Lo fecero per ragioni personali e su loro propria
iniziativa…”(f)
Il capofila del complotto
era il Maresciallo Tuchacevskij che fu giustiziato il 12 Luglio 1937 insieme ad
alti ufficiali.
La Grande Purga cominciò con
un decreto legge firmato da Stalin e Molotov e andò avanti per 2 anni.
Ci sono state sempre molte
polemiche sulla quantità di persone colpite dalla grande purga e questo è stato
uno dei soggetti preferiti per l’intossicazione della propaganda anticomunista (
e Trotzkista) la quale confonde spesso gli epurati con i giustiziati. Mentre i
giustiziati sono stati 75.950, gli espulsi dal partito nel biennio furono
secondo Rittersporn, 278.818 persone che è un numero inferiore alle espulsioni
degli anni precedenti. Niente di simile a quanto “stimato” da Robert Conquest
che parla di 7-9 milioni di arresti fra il ’37 e il ’38.
Una delle calunnie più
ricorrenti afferma che l’epurazione mirava ad eliminare la vecchia guardia
bolscevica. Bisogna solo intendersi su cosa si intende per vecchia guardia. Se
consideriamo i 30.000 militanti del ’17, l’aumento esponenziale degli iscritti
al partito dopo la rivoluzione e le perdite subite da quel primo nucleo durante
la guerra civile ridimensionò notevolmente il loro peso percentuale nel partito.
Se invece prendiamo gli iscritti del 1920 che erano 182.600 risulta che nel ’39
( cioè vent’anni dopo !) se ne contavano 125.000. Mancavano all’appello 57.000
persone cioè il 31%. Considerato che alcuni erano morti per cause naturali,
altri erano stati espulsi, alcuni reclusi,altri ancora giustiziati non si può
sostenere che sia stata colpita la vecchia guardia in quanto tale.
Se invece ci si riferisce
all’opposizione trotzkista risulta che nel ’27 quando fu espulso Trotzky per
frazionismo, questa raccolse 6000 voti su 725.000, meno dello 0,9% dei voti
congressuali.
Sempre il Professor J. Arch
Getty nell’opera citata sopra scrive: “ I dati concreti indicano che la
Ezovscina ( La grande Purga) deve essere ridefinita. Non era stata il prodotto
di una burocrazia fossilizzata che eliminava dei dissidenti e distruggeva dei
vecchi rivoluzionari radicali. In realtà, è possibile che le purghe fossero
proprio il contrario. Non è incompatibile con i dati disponibili argomentare che
le Purghe fossero una reazione radicale, anche isterica, contro la burocrazia. I
funzionari ben sistemati erano eliminati dal basso e dall’alto in un ondata
caotica di volontarismo e puritanesimo rivoluzionario”.
Rilevo solo che i dati che
fornisco io sono più completi di quelli che fanno riferimento solo ai Comitati
Centrali e Regionali dove, ovviamente, essendo un epurazione contro gli alti
burocrati , questi si annidavano nelle alte sfere.
(g)
Per quanto detto sopra è
chiaro che c’erano le carceri e i campi di lavoro come del resto ce ne sono in
tutti i paesi “democratici” del mondo ( perché tu dove li metteresti i
controrivoluzionari, i sabotatori e i membri resistenti delle vecchie classi
dominanti? ). La differenza però la fanno le cifre. Secondo Conquest c’erano 5
milioni di internati nel ’34 più 7 milioni durante la grande purga e fanno 12. E
su questi livelli si mantengono più o meno tutti, trotzkisti compresi. Poi
l’URSS crollò e gli storici veri hanno avuto modo di controllare le vere cifre
degli internati. Nel 1990 sempre Zemskov e Dugin pubblicarono le statistiche
inedite tratte dai registri degli arrivi e delle partenze dai campi. Nel 1934 il
numero esatto di tutti i detenuti era di 510.307 di cui tra 127.000 e 170.000
politici. Il numero di detenuti politici oscillò tra un minimo di 127.000 nel
’34 e un massimo di 500.000 durante gli anni di guerra, nel ’41 e ’42. Conquest
e gli altri anticomunisti avevano moltiplicato le cifre reali da 16 a 26 volte.
Considerato che la
popolazione dell’URSS era nel 1939 di 170 milioni di abitanti si vede come il
tasso di popolazione carceraria ( 0,3%) era molto più bassa che nel paese più
democratico del mondo, gli USA, dove attualmente il tasso di carcerazione è del
0,75 % mentre in Italia è del 0,1 %.
5) la guerra civile spagnola
è stato forse il più grande esempio della politica internazionale dello
stalinismo; grande lezione di come non far dilagare la rivoluzione ma
soprattutto come reprimerla.
Lo studio delle vicende
della guerra di Spagna è stata una cosa molto interessante ed istruttiva che mi
ha confermato la unilateralità e superficialità delle interpretazioni (malevoli)
degli anticomunisti e dei loro galoppini, i trotzkisti e gli anarchici. Essendo
quell’episodio un concentrato di esperienze da cui trarre insegnamenti utili
ancora oggi, non me la sento ( ed è anche difficile) di concentrare in poche
righe una sintesi. Ti basti sapere che il PCE, lungi dall’affossare la
rivoluzione fu quello che diede il maggior contributo, insieme all’URSS, alla
difesa della Repubblica Spagnola e che la sua sconfitta fu dovuta ( in ordine di
importanza) : 1) ai rapporti di forza sfavorevoli sul terreno internazionale 2)
allo squilibrio nel rapporto di forze militari 3) alle divisioni nel campo
repubblicano e 4) agli errori e limiti del PCE. Va detto che, nonostante questi
limiti, il PCE fu quello che meglio interpretò i bisogni e le esigenze delle
masse al punto che partito come forza minoritaria rispetto ai socialdemocratici
ed anarcosindacalisti, divenne poco a poco ma irresistibilmente la forza
principale della rivoluzione spagnola.
Ho letto poi su siti
trotzko-bordighisti che gli “stalinisti” avrebbero ammazzato degli anarchici e/o
dei trotzkisti. Io non so se è vero o no e non mi interessa neanche. Devo dirti
sinceramente che trovo ridicoli questi atteggiamenti piagnoni e candidi, da
anime belle. Voi, e quelli come voi, accusate gli “ stalinisti “ di ogni
nefandezza ma quello che è più grave ancora, nei momenti cruciali della storia
dimostrate quello che siete passando armi e bagagli dalla parte del nemico e poi
quando giustamente loro fanno i conti con voi gridate allo scandalo. Vi
lamentate che le prendete sempre ma vi siete mai chiesti perché? Perché siete
degli “intellettuali” ( si fa per dire) slegati dalle masse, disorganizzati ed
incapaci di combinare alcunché.
(h)
Per approfondire seriamente
la questione ti invito perciò a leggere il libro: LA GUERRA DI SPAGNA, IL PCE E
L’INTERNAZIONALE COMUNISTA, libro scritto dai compagni del PCE(r) dove (r) sta
per ricostituito. Il libro è stato pubblicato in Italia dalla nostra casa
editrice, le Edizioni Rapporti Sociali che si può avere richiedendolo
direttamente a noi.
6) Alleanza diplomatica con
il nazionalsocialismo tedesco…
Quando Hitler andò al potere
nel gennaio ’33 solo l’Unione Sovietica comprese tutti i pericoli che tutto ciò
comportava. Nel 1931 il Giappone invase la Cina del nord e le sue truppe
arrivarono fino alle frontiere sovietiche. Nel 1935 l’Italia fascista occupò
l’Etiopia. Il governo sovietico propone quindi un sistema di sicurezza
collettivo in Europa , in questa prospettiva firmò dei trattati di mutua
assistenza con Francia e Cecoslovacchia. Nel 1936 L’Italia e la Germania inviano
truppe in Spagna a sostegno del golpe di Franco mentre solo i sovietici aiutano
la repubblica. Francia ed Inghilterra dichiarano la loro neutralità mostrando
qui e anche dopo quello che è il loro vero obiettivo: spingere la Germania
nazista ad attaccare ad Est. Sempre nello stesso anno Germania e Giappone
firmano il Patto AntiKomintern al quale si aggiunse più tardi anche l’Italia.
L’URSS si trovò circondata. Nel 1938 la Germania si annette l’Austria e minaccia
la Cecoslovacchia ma a Monaco le grandi “democrazie” le danno via libera. Il
vero obiettivo di Francia ed Inghilterra è sempre più chiaro. Solo l’Unione
Sovietica propose il suo aiuto alla Cecoslovacchia ma questo venne rifiutato.
Nel marzo 1939 la Wehrmacht si impadronì di Praga Nuovamente Mosca propose un
alleanza antifascista ma i destinatari delle proposte , Francia ed Inghilterra
trascinarono le trattative per le lunghe mostrando ad Hitler, con questo
atteggiamento, che aveva le mani libere ad oriente e non doveva preoccuparsi ad
Ovest. Neanche 2 mesi dopo il Giappone attacca la Mongolia, legata ad un
trattato di assistenza militare con l’URSS la quale interviene e costringe i
giapponesi a ritirarsi. Dal giugno all’agosto ’39 si tennero trattative segrete
nel corso delle quali gli Inglesi, in cambio del rispetto dell’integrità
dell’Impero britannico, lasciavano ai tedeschi libertà d’azione contro l’URSS.
Intanto le trattative Anglo-Franco-Sovietiche erano ferme a causa della
manifesta volontà degli occidentali di non concluderle. Mosca propose allora un
accordo di mutua difesa alla Polonia la quale rifiutò.
La minaccia di un attacco
tedesco all’ Unione Sovietica era sempre più incombente quando successe una cosa
imprevista: l’arrendevolezza Inglese e Francese alle aggressioni tedesche e,al
contrario, la decisione sovietica di opporvisi avevano convinto Hitler che le
democrazie occidentali avessero minori capacità e volontà di resistenza e decise
quindi di attaccare loro invece che i russi e quindi il 20 agosto propose un
patto di non aggressione ( non un’alleanza ma un patto circoscritto e
temporaneo) in cui in sostanza chiedeva ai Russi di lasciarlo tranquillo mentre
lui attaccava ad Ovest. Stalin coglie la palla al balzo e firma il patto.
Gli occidentali erano
caduti nella loro stessa trappola; ora erano obbligati a dichiarare guerra alla
Germania senza che ne avessero la minima intenzione, cosa che fecero quando la
Polonia fu invasa dai tedeschi.
Quella che gli storici
contemporanei chiamano la viltà delle potenze occidentali di fronte alle
aggressioni naziste non era altro che un cinico calcolo.
Successivamente fu
riconosciuto che il patto tedesco-sovietico fu la chiave della vittoria della
guerra antifascista.
L’altra calunnia collegata a
questa e cioè che Hitler e Stalin si fossero spartiti la Polonia non regge
semplicemente guardando una cartina. Se tu guardi i confini della Polonia agli
inizi della 1° Guerra Mondiale,quando era ancora una provincia dell’Impero
Russo, e nel 1921 quando era ormai indipendente noterai che è tutta spostata a
destra. Cosa vuol dire? Semplice: nel 1920 il maresciallo Pilsudski, uomo forte
della Polonia e rappresentante dei grandi proprietari fondiari decide di
approfittare della situazione difficile in Russia ( c’era ancora la guerra
civile) e decide di attaccare ed invadere l’Ucraina. L’Armata rossa reagisce ,
contrattacca ed arriva fino a Varsavia. I polacchi reagiscono e contrattaccano a
loro volta. Alla fine si arriva ad un compromesso e la nuova Polonia ingloberà
territori russi, abitati cioè da popolazioni Bielorusse ed Ucraine. Quando
Hitler invade la Polonia nel ’39 i Russi non faranno che ritornare sui loro
territori ed infatti saranno accolti festosamente dai loro connazionali. I
confini giusti cioè quelli etnici sono più o meno quelli di adesso e che erano
anche quelli dove arrivarono le truppe russe nel 1939.
Conclusioni
Come vedi caro XY la realtà
è un po’ più complessa di quanto si immaginano gli anticomunisti e i loro
delfini, gli antistalinisti.
Quello che io trovo
straordinario è la capacità della borghesia di riconoscere i suoi nemici, a
differenza di tanti intellettuali di sinistra. Basti pensare all’odio feroce che
essa (la borghesia) riversa su Stalin e, viceversa, di come Trotzky venga tenuto
su un palmo di mano.
(i) Penso anche a Gramsci ( lo stalinista Gramsci !) che è
morto in carcere mentre Bordiga si dedicava tranquillamente alla sua
professione.
Ciononostante io penso
sinceramente che anche tra i gruppi trotzkisti o bordighisti o, semplicemente,
tra gli antistalinisti, vi siano sinceri comunisti che, come me, hanno creduto
in buona fede alle favole che gli raccontavano.
Quello che, viceversa, trovo
incomprensibile è come sia stato possibile che questi sinceri comunisti non
abbiano sentito il dovere di verificare e controllare cosa c’era di vero e di
falso in tutto il mare di fango che almeno da 50 anni il nemico di classe ha
riservato a colui che è diventato il simbolo stesso del comunismo.
Infine, per rispondere alla
tua velata insinuazione, il mio atteggiamento “ecumenico” Non è buonismo nel
senso che debba farmi perdonare qualcosa anche perché caro XY tu non sei una
vittima dello stalinismo come io non sono responsabile di quelli che secondo te
sono stati i suoi crimini. Queste sono polemiche tutte libresche, da
intellettuali e la classe operaia disprezza giustamente i “ comunisti “ capaci
solo di litigare ma incapaci di costruire qualcosa di concreto.
Torino
12/6/2007
Umberto
Ruggiero
Note:
(a
) Che poi non sono nemmeno passi avanti ma indietro ! Che senso ha tornare a Marx se non avete capito cosa è successo dopo la sua morte? Forse che Marx era
un dio che vi può spiegare cos’è stato lo stalinismo? Questo si chiama
dogmatismo. Il modo migliore di applicare Marx è, sulla base della concezione
materialistica della storia, fare l’analisi concreta della situazione concreta e
non cercare di fare rientrare una realtà in uno schema
preconfezionato.
(b)
quello che non capisco caro xy è quel meccanismo mentale per cui si nega il
carattere socialista di un programma di transizione e poi ci si scandalizza per
le vittime che questo processo inevitabilmente porta con sé. Oppure: si
accettano le vittime di una rivoluzione e di una guerra civile perché è
comprensibile ma non quelle successive alla stabilizzazione del potere
rivoluzionario. E perché mai? Non sai che la lotta di classe nel socialismo
prosegue? Non solo, diventa anche più acuta. ( vedi punto 4)
( c ) vedi: La rivoluzione
proletaria e il rinnegato Kautsky (Lenin)
( d ) vedi: saluto agli
operai ungheresi (Lenin)
( e ) la lotta tra le due
vie nei partiti si manifesta come lotta tra le due linee, quella di destra e
quella di sinistra; Questa visione dialettica è un contributo di Mao tse Tung
al materialismo dialettico che si è dimostrato molto utile ai fini della
comprensione dei movimenti politici.
( f ) vedi: Staline (I.
Deutscher)
( g ) Una cosa su cui
riflettere è questa: non trovate strana una controrivoluzione che si abbatte sui
veri rivoluzionari vent’anni dopo la rivoluzione?
( h ) Su questo ci sarebbero
altre riflessioni da fare. Per esempio se vai a vedere tutto quello che è
successo dopo la Rivoluzione d’ottobre ti renderai conto che tutti i movimenti
politici di un certo rilievo nel mondo hanno visto protagonisti quelli che tu
chiami gli stalinisti; dalla rivoluzione cinese a quella vietnamita passando per
Cuba arriviamo a oggi: Le FARC Colombiane sono staliniste; SENDERO LUMINOSO è
Maoista; la forza principale della rivoluzione di nuova democrazia in Nepal è il
Partito Comunista nepalese Maoista. Chavez non si può definire un trotzkista e
poi i movimenti di lotta armata in India, Turchia e nelle Filippine e così via.
Se tu volessi citarmi degli episodi di lotta di classe promossi, organizzati,
guidati o diretti dai Trotzkisti e dai Bordighisti te ne sarò grato.
( i ) A proposito lo sapevi
che l’unico autore di “ sinistra “ pubblicato in Italia durante il Fascismo è
stato proprio lui ?
fonte:
http://ftp.wexell.altervista.org/PARTITOCOMUNISTAPIEMONTE/POLITICHE_DELLA_FORMAZIONE/Voci/2012/2/7_ESTRATTO_DA_DISCUSSIONE_FRA_UNO_STALINISTA_E_UN_BORDIGHISTA.html
****
In ricordo di Ludo Martens
a cura di Adriana Chiaia, della redazione della Casa editrice
Zambon
giugno 2011
* * *
«Sono stato antistalinista convinto dall’età di
diciassette anni. L’idea di un attentato contro Stalin occupava i miei
pensieri e i miei sentimenti. Abbiamo studiato la possibilità “teorica” di
un attentato. Siamo passati alla preparazione pratica.»
«Se mi avessero condannato a morte nel 1939, questa
decisione sarebbe stata giusta. Avevo concepito il piano di uccidere Stalin
e questo era un crimine, non è vero?
Quando Stalin era ancora in vita, avevo una diversa
visione delle cose, ma ora che posso avere una visione d’insieme di questo
secolo, dico: Stalin è stato la più grande personalità del nostro secolo, il
più grande genio politico. Assumere un atteggiamento scientifico nei
confronti di un personaggio è cosa diversa dal manifestare un’opinione
personale.»
Aleksandr Zinov’ev, 1993
Premessa
di Ludo Martens
«Che un celebre dissidente sovietico, residente nella
Germania “unificata”, un uomo che nella sua gioventù aveva spinto
l’antistalinismo al punto di preparare un attentato terroristico contro
Stalin, che ha riempito dei volumi per esporre tutte le malvagità che
pensava sulla politica staliniana, che un simile uomo si senta obbligato,
nella sua vecchiaia, a rendere omaggio a Stalin, ecco qualcosa che fa
riflettere.
Molte persone che si proclamano comuniste non hanno dato
prova di altrettanto coraggio. In effetti, non è facile alzare la propria
debole voce contro l’uragano della propaganda antistalinista.
D’altra parte un buon numero di comunisti si sente fortemente
a disagio su questo terreno. Tutto quello che i nemici del comunismo avevano
affermato per trentacinque anni, è stato confermato da Chruščëv nel 1956. Da
allora l’unanimità nella condanna di Stalin, che va dai nazisti ai
trockijsti, e dal tandem Kissinger-Brzezinski al duo Chruščëv-Gorbačëv,
sembra imporsi come prova della verità. Difendere l’opera storica di Stalin
e del Partito Bolscevico diventa impensabile, diventa una cosa mostruosa. E
molte persone, che si oppongono senza esitazioni all’anarchia micidiale del
capitalismo mondiale, si sono piegate davanti all’intimidazione.
Oggi la constatazione della follia distruttiva che si è
impadronita dell’Unione Sovietica, con gli strascichi di carestia,
disoccupazione, criminalità, miseria, corruzione, aperta dittatura e guerre
interetniche, ha portato un uomo come Zinov’ev a rimettere in discussione i
pregiudizi radicati in lui fino dall’adolescenza.
Senza dubbio, coloro che vogliono difendere gli ideali del
socialismo e del comunismo, dovrebbero almeno fare altrettanto. Tutte le
organizzazioni comuniste e rivoluzionarie in tutto il mondo sentiranno
l’obbligo di riesaminare le opinioni e i giudizi che esse hanno formulato
sull’opera di Stalin dopo il 1956. Nessuno può sottrarsi a questa evidenza:
quando, dopo trentacinque anni di denunce virulente dello “stalinismo”,
Gorbačëv aveva realmente eliminato tutte le realizzazioni di Stalin, si è
constatato che Lenin era diventato di colpo “persona non grata” in Unione
Sovietica. Seppellendo Stalin, anche il leninismo è stato sotterrato.
Riscoprire la verità rivoluzionaria sul periodo dei pionieri
è un compito collettivo che compete a tutti i comunisti del mondo. Questa
verità rivoluzionaria scaturirà dal confronto delle fonti, delle
testimonianze e delle analisi. Il contributo dei marxisti-leninisti
sovietici che possono, essi soltanto, aver accesso a certe fonti e
testimonianze, sarà di capitale importanza. Tuttavia, essi oggi devono
lavorare in condizioni particolarmente difficili.
Pubblichiamo le nostre analisi e riflessioni sull’argomento
con il titolo Un autre regard sur Staline. La classe il cui
interesse fondamentale consiste nel mantenere il sistema di sfruttamento e
di oppressione ci impone quotidianamente il suo punto di vista su Stalin.
Adottare un altro punto di vista su Stalin significa guardare il personaggio
storico di Stalin con gli occhi della classe opposta, quella degli sfruttati
e degli oppressi.
Questo libro non è concepito come una biografia di Stalin. Il
suo scopo è di affrontare gli attacchi contro Stalin ai quali siamo più
abituati: il “testamento di Lenin”, la collettivizzazione imposta, la
burocrazia soffocante, lo sterminio della vecchia guardia bolscevica, le
grandi purghe, l’industrializzazione forzata, la collusione di Stalin con
Hitler, la sua incompetenza nella guerra, eccetera. Noi ci siamo proposti di
smontare alcune “grandi verità” su Stalin, quelle che sono riassunte
migliaia di volte in alcune frasi sui giornali, nei libri di storia, nelle
interviste e che sono, per così dire, entrate nel subcosciente.
“Ma com’è possibile – ci diceva un amico – difendere un uomo
come Stalin?”
C’erano stupore e indignazione nella sua domanda. Mi
ricordava quello che mi aveva detto alcuni giorni prima un vecchio operaio
comunista. Mi parlava del 1956, quando Chruščëv aveva letto il suo famoso
rapporto segreto. Questo fatto aveva provocato dei dibattiti burrascosi
all’interno del Partito Comunista. Nel corso di uno di questi alterchi, una
donna anziana, comunista, appartenente ad una famiglia ebrea comunista, che
aveva perduto due figli durante la guerra e la cui famiglia era stata
sterminata in Polonia, aveva gridato:
“Ma come potremmo non sostenere Stalin, colui che ha
costruito il socialismo, colui che ha sconfitto il nazismo, colui che ha
incarnato tutte le nostre speranze?”
Nella tempesta ideologica che irrompeva sul mondo, a cui
altri avevano ceduto, quella donna restava fedele alla rivoluzione. E per
questa ragione aveva un altro punto di vista su Stalin. Una nuova
generazione di comunisti condivide il suo punto di vista.»
* * *
Così, nella sua premessa, Ludo Martens presentava i contenuti
e le finalità del suo libro Un autre regard sur Staline, pubblicato
dalle edizioni EPO nel 1993 e nel 1994 (seconda edizione).
Il libro ha avuto larga diffusione ed è stato stampato nelle
lingue inglese, tedesca, neerlandese, ceca, araba, portoghese e greca.
La casa editrice Zambon ne ha pubblicato nel 2005 e nel 2006
(seconda edizione) la traduzione in lingua italiana e nel 2006 in quella
spagnola.
Nella nostra prefazione scrivevamo:
«… Per affrontare e approfondire ognuno dei temi sopra
citati, l’autore si serve di una vastissima documentazione, presentando le
testimonianze e i punti di vista dei sostenitori della politica della
maggioranza del Partito (e quindi di Stalin), degli oppositori interni al
partito, dei nemici del socialismo, di testimoni imparziali, e di coloro
che, pur non condividendo gli ideali e le pratiche del sistema socialista,
ne riconoscevano onestamente i successi. Indiscutibile quindi la rigorosità
della sua ricerca storica. A questa qualità Ludo Martens unisce la passione
della sua militanza comunista, apertamente rivendicata. Polemico e
sarcastico nei confronti dei nemici di classe, non conosce lo stile
distaccato, “leggero” e auto-ironico che sembra diventato indispensabile per
chi si avventura in argomenti così seri e “spinosi”; anzi i suoi punti
esclamativi dimostrano la sua indignazione, sottolineano il suo
coinvolgimento. A tratti troppo didascalico? Qualcuno se ne lamenta. Noi
crediamo invece che, in questi tempi di sguaiato clamore televisivo, di
frenetica navigazione in Internet, di sincopato linguaggio degli SMS, non
sia così male che qualcuno metta il rallentatore e, con qualche
sottolineatura, induca a soffermarsi, a riflettere su tematiche tanto
importanti e complesse.»
Sono qui messe in risalto le qualità di rigoroso storico e di
militante comunista, convinto sostenitore della causa del socialismo e del
comunismo di Ludo Martens, del quale lamentiamo la scomparsa. Ma perché il
nostro omaggio alla sua memoria non sia soltanto rituale, esso deve
sostanziarsi nella nostra gratitudine per il seme che è stato gettato e nel
nostro impegno a raccoglierne il testimone.
Siamo grati a Ludo Martens per averci dotato, con la sua
opera, di un’arma di straordinaria efficacia per condurre la nostra lotta
contro il revisionismo, in difesa dei principi del marxismo e del leninismo
e delle realizzazioni del socialismo.
Ed è su questa strada che ci impegniamo a proseguire.
In un momento in cui il sistema capitalista si dibatte
tentando di superare l’ennesima crisi economica strutturale dalla quale non
sa uscire che scatenando guerre e distruzioni e, sull’altro fronte di
classe, le masse lavoratrici e popolari in tutto il mondo si ribellano
contro lo sfruttamento, la miseria, l’oppressione e l’ingiustizia, il nostro
compito, più che mai necessario, accanto alla denuncia dei crimini
dell’imperialismo, è quello di alzare la voce contro “l’uragano”, per dirla
con Ludo Martens, della propaganda anticomunista.
La criminalizzazione del comunismo e del socialismo è
diventata un’arma sempre più imprescindibile da parte delle classi dominanti
per garantirsi il potere, un messaggio terroristico amplificato con l’aiuto
dei revisionisti al loro servizio, istillato capillarmente nella coscienza
delle masse perché non osino liberarsi dalle loro catene e dare l’assalto al
cielo. Sembra a volte troppo arduo opporsi alla falsificazione, allo
stravolgimento della storia che si serve di ogni mezzo di comunicazione, che
tende a diventare senso comune, pregiudizio inconsapevole.
Eppure tutte le teorie della “fine della storia”, della “fine
del comunismo” hanno i piedi d’argilla e non resistono al confronto con i
fatti.
Già da un ventennio, con la dissoluzione dell’Unione
Sovietica e la caduta dei paesi socialisti europei, l’obiettivo di
cancellare tutte le conquiste del socialismo e di restaurare il capitalismo,
perseguito da Chruščëv con il suo “rapporto segreto”, e portato a termine da
Gorbačëv, è stato raggiunto. Le condizioni di miseria, di decadimento
sociale, di corruzione dei governi, di capitalismo sfrenato e di
sfruttamento dei lavoratori di quei paesi dimostrano che è il revisionismo e
non il socialismo che è fallito, e questa verità non c’è bisogno di
dimostrarla alle loro popolazioni.
Ogni giorno i fatti smentiscono le teorie della superiorità
del capitalismo e della democrazia borghese. Sempre più forte, tra gli
sfruttati e gli oppressi si fa strada l’aspirazione ad “un mondo migliore”.
Nei paesi ex socialisti la chiamano “nostalgia”, in quelli capitalisti
“utopia”.
Nostro compito è ricordare che il capitalismo non è eterno,
che costruire delle società basate sulla fratellanza dei popoli e
sull’uguaglianza di tutti gli uomini, che hanno abolito lo sfruttamento
dell’uomo sull’uomo non solo è stato possibile, ma ha permesso di conseguire
traguardi inimmaginabili in tutti i campi: della produzione, della cultura,
della salute, del benessere. È quindi fondamentale far conoscere
l’esperienza dei paesi socialisti e documentare le loro conquiste, senza
nascondere le immani difficoltà che essi hanno incontrato e superato e gli
errori che hanno compiuto e corretto nella difficile fase del socialismo,
transizione dal capitalismo al comunismo.
Il nostro impegno di lavoro qui sopra brevemente tratteggiato
è il modo migliore di far vivere il ricordo di Ludo Martens e di tutti
coloro che hanno aperto la strada.
Adriana Chiaia della redazione della Casa editrice Zambon
Alexandre Zinoviev, Les confessions d’un
homme en trop, Ed. Olivier Orban, 1990, pp. 104, 120. Interview
Humo, 25 février 1993, pp. 48 – 49.
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Nasce "Sinistra
europea'' e Rifondazione rinnega non solo Stalin, ma anche Lenin
A Berlino Nasce "Sinistra europea'' e Rifondazione
trotzkista si rifonda a destra Bertinotti fra i principali artefici. è composta
da trotzkisti, comunisti revisionisti di destra, no-global, pacifisti,
ecologisti, femministe. Il PdCI e altri partiti simili per ora stanno a
guardare. Nello Statuto un attacco a Stalin e alla sua opera La sua stella
polare sono la non violenza e l'anticomunismo Il 10 gennaio 2004, a Berlino,
all'interno di un grigio "Preussische Landtag'', nella stessa stanza dove nella
notte di capodanno del 1918 Rosa Luxemburg assieme a Karl Liebknecht fondò il
partito comunista tedesco, è nato il nuovo partito della "sinistra europea'', l'European
Left (EL, in sigla). Alla riunione erano presenti gli esponenti di 19 partiti
europei di cui undici hanno sottoscritto subito l'appello fondativo. Ci sono gli
spagnoli di Izquierda Unida, i francesi del PCF, i tedeschi della PDS, i greci
di Sinapsymos e gli austriaci del KPO, la "sinistra'' lussemburghese, il partito
comunista della Slovacchia, il partito socialdemocratico estone e due partiti
cechi, il partito comunista della Boemia e della Moravia e infine, c'è
Rifondazione di Bertinotti che è stato tra i principali artefici del nuovo
partito. Altri partiti, come il PdCI di Cossutta e Diliberto, che era presente
solo come "osservatore'', i portoghesi, i greci del KKE e gli svedesi del PDS,
potranno aderire in un secondo momento. Ad aprile, data e luogo ancora da
definire, ci sarà il congresso di fondazione. Per ora il nuovo partito sarà
visibile solo nei simboli dei singoli partiti nazionali alle prossime elezioni
europee. Si tratta di un'accozzaglia di trotzkisti, comunisti revisionisti di
destra, no-global, pacifisti, ecologisti, femministe pronti a sposare quello che
è stato definito il "modello Bertinotti'', ossia un partito che di comunista non
ha più niente, neanche il nome. Un partito "pluralista'', rivolto anche ai "non
comunisti'' e aperto ai movimenti, all'ambientalismo e al femminismo. Insomma un
nuovo partito della "sinistra'' borghese europea che si pone l'obiettivo di
imbrigliare i fautori del socialismo, le nuove generazioni e il movimento
no-global all'interno del capitalismo e dell'imperialismo europeo attraverso le
sue istituzioni. Ancora permangono dei contrasti, perché, come ha spiegato
Bertinotti "In Italia siamo andati ancora più avanti di quanto accade nel resto
d'Europa'', ossia la svolta a destra di Rifondazione è più avanzata e gli
strappi con la tradizione del movimento operaio nazionale e internazionale hanno
ormai aperto una voragine. Bertinotti è comunque assai soddisfatto che nello
statuto di EL (preambolo e 26 articoli) alla fine sia stato inserito il richiamo
"contro lo stalinismo''. "Non è la proiezione di un nostalgico `da dove veniamo'
- ha commentato da Berlino il segretario di Rifondazione - ma l'inizio di un
nuovo percorso''. Il nuovo partito della "sinistra europea'' è infatti "una
rottura di continuità con il passato, che non può limitarsi a rinnegare
stalinismo e leninismo, ma che introduce la non violenza come elemento di
riforma del comunismo medesimo''. La stella polare di EL sarà insomma la non
violenza e l'anticomunismo. Un partito che non solo rompe con lo "stalinismo'',
ma anche con Lenin e quindi con tutto il pensiero e l'opera di questo grande
maestro del proletariato come l'analisi dell'imperialismo, la rivoluzione
proletaria, la dittatura del proletariato, la concezione bolscevica del partito.
Dietro l'attacco a Stalin, in realtà si è sempre nascosto l'attacco a tutta
l'ideologia del proletariato rivoluzionario, alla Rivoluzione d'Ottobre, alle
guerre rivoluzionarie e di liberazione, insomma all'essenza stessa del
comunismo. Il richiamo a Marx non significa nulla, dal momento che tale linea e
strategia negano i principi fondamentali espressi da Marx ed Engels nel
"Manifesto del Partito comunista'' e nelle loro opere successive. Anche Saragat,
che pure stava a destra di Nenni e di Craxi, compì nel 1947 la scissione a
destra del PSI (dando vita al PSLI, poi PSDI) proprio in nome di Marx e
dell'anticomunismo.
A LEZIONE
DALL'ANTILENINISTA ROSA LUXEMBURG A sottolineare simbolicamente la rottura del
nuovo partito con la tradizione bolscevica c'è anche il pellegrinaggio che tutti
i suoi leader, con in testa Bertinotti, hanno fatto il giorno successivo alla
tomba di Rosa Luxemburg che com'è noto si oppose a Lenin principalmente su due
questioni fondamentali, ossia la concezione del Partito - e in particolare sul
suo ruolo di avanguardia del proletariato e il centralismo democratico - e la
dittatura del proletariato, arrivando a teorizzare una democrazia al di sopra
delle classi e persino la non violenza in nome dell'antimilitarismo e del
pacifismo. "è difficile trovare un'immagine più pulita e indiscutibile, priva di
ogni elemento negativo, di quella di Rosa Luxemburg'', ha dichiarato commosso il
segretario di Rifondazione. Il nuovo partito della "sinistra europea'', che pure
è ancora sulla carta, si è già dato un appuntamento fisso: si riunirà ogni
seconda domenica di gennaio per partecipare al tradizionale omaggio alla
Luxemburg. L'idea, manco a dirlo, è di Bertinotti.
LE TAPPE
DELL'ABIURA DEL COMUNISMO La nascita di EL sembra essere l'epilogo della ricerca
della "nuova identità'' del PRC, ossia la sua rifondazione a destra, come da
tempo Bertinotti va predicando e sta preparando. Un processo iniziato in
particolare a partire da Livorno, il 21 gennaio 2001 in occasione della
celebrazione dell'80° anniversario del PCI revisionista organizzata da
Rifondazione. In quell'occasione Bertinotti, infatti, liquidò come "tragedie'' i
capisaldi fondamentali del comunismo come la Rivoluzione d'Ottobre, la dittatura
del proletariato e Stalin e dichiarò "davvero conclusa'' l'esperienza del
socialismo realizzato. Secondo questo imbroglione cacasotto, l'"ipotesi di
conquista del potere statale'' non era "né plausibile né attuabile''. E questo
non era che l'assaggio. La "svolta'' fu sancita ufficialmente al 5° Congresso
nazionale del PRC, nell'aprile 2002. Il Congresso taglia i ponti con
l'esperienza storica del socialismo e con i grandi maestri del proletariato
internazionale. Getta fango su Stalin, ma inizia a prendere le distanze anche da
Lenin. Viene tolto dallo statuto l'obiettivo della "trasformazione in senso
socialista della società e dello Stato'' al posto del quale viene posta la
generica "trasformazione della società capitalistica''. La democrazia, ossia la
democrazia borghese, viene assunta come "strategia''. Il "nuovo soggetto
politico'' del cambiamento non è più la classe operaia, ma il "movimento dei
movimenti''. Il partito diventa una componente del movimento, si subordina ad
esso, si spoglia di ogni connotato bolscevico per assumere quelli del
movimentismo, del femminismo, dell'ambientalismo. Il partito è solo il "trade
union'' fra il movimento e le istituzioni, ossia il laccio per tenere legate le
nuove generazioni e il movimento noglobal al capitalismo e alle istituzioni
rappresentative borghesi. Questa "svolta'' si riflette in tutta la politica
interna e internazionale. Mentre le bombe e i missili mettono a ferro e fuoco
l'Iraq, Bertinotti dichiara che occorre "bandire dall'interno del movimento per
la pace ogni forma di protesta violenta'', e che va considerato "legittimo'' il
governo Berlusconi, la cui eventuale crisi va "determinata'' in sede politica
(Liberazione del 21 marzo 2003). L'approdo pacifista e non violento spinge
Bertinotti a prendere le distanze anche dalle guerre giuste e di liberazione,
come quella palestinese e la resistenza irachena. Va alle sinagoghe, grida dalla
tribuna del 5° congresso, "siamo tutti ebrei'', piange i morti di Nassiriyah
riconducendo ogni violenza al binomio guerra-terrorismo. Senza contare gli elogi
al papa nero Wojtyla nell'anniversario del suo pontificato e la riabilitazione
della religione che secondo Liberazione, per la penna della trotzkista
lussemburghiana Rina Gagliardi (una delle principali supporter del segretario),
"non è più l'oppio dei popoli''. Durante il suo viaggio elettorale in
Friuli-Venezia Giulia, nel giugno dell'anno scorso, va su tutte le furie vedendo
in una sede del PRC di Udine un ritratto di Stalin: "Se c'è una cosa che mi fa
imbestialire - commenta - è vedere nelle nostre sedi l'effige di Stalin, non
dobbiamo nulla a lui e non dobbiamo prendere nulla da lui''. Questo episodio fa
rilevare a Bertinotti che il "processo di innovazione'' non è stato compiuto
fino in fondo. Nel Cpn del giugno 2003, quello che sancirà la svolta del PRC
verso l'alleanza governativa con l'Ulivo e Di Pietro, si dice ancora
insoddisfatto dei passi compiuti dopo il 5° congresso. Prospetta "una nuova
forma organizzativa'' che possa colmare il "deficit di innovazione'' e portare a
"un partito che stia al di là dell'esperienza del '900''.
L'APPRODO
ALLA NON VIOLENZA E ALL'ANTICOMUNISMO Bertinotti inizia così a infilare una dopo
l'altra le perle del suo rosario anticomunista fino a giungere a sposare le tesi
dei fascisti sulle foibe e ad attaccare la Resistenza e i partigiani in un
convegno organizzato dal PRC veneto a Venezia il 13 dicembre scorso. In quella
sede afferma che "le foibe sono una tragedia terribile che non ha
giustificazioni'' e passa quindi ad attaccare la Resistenza: "Abbiamo vissuto
per tanti anni pensando che la nostra parte fosse quella giusta. L'abbiamo
angelicata pensandola come la guerra dei giusti. Invece ci sono delle zone
d'ombra che oggi è necessario rimediare in maniera critica''. Concludendo quel
famigerato convegno Bertinotti sancisce l'abiura del comunismo e assume
definitivamente la non violenza assoluta come strategia. Un'abiura documentata
anche da un'intervista rilasciata a la Repubblica del 27 dicembre 2003 che non a
caso l'ha titolata "La Bad Godesberg di Bertinotti''. Il riferimento è al
Congresso di Bad Godesberg, nel 1959, in cui il partito socialdemocratico
tedesco ruppe definitivamente col marxismo e con il socialismo proclamandosi non
più partito di classe ma popolare. L'addio di Bertinotti al comunismo viene
salutato e incoraggiato dalla "sinistra'' borghese e per primo viene benedetto
dal suo maestro trotzkista Ingrao in un'intervista rilasciata il 7 gennaio 2004
a Liberazione che la titola così: "Ingrao: Bertinotti rompe uno schema''.
Bertinotti ripercorre nella sostanza la strada dei rinnegati del comunismo.
Anche la svolta della Bolognina di Occhetto fu preparato da una campagna
revisionistica di criminalizzazione della Resistenza e dei partigiani. Allora
questo rinnegato trotzkista utilizzò il cosiddetto "triangolo della morte'',
oggi Bertinotti usa le foibe. Quest'ultimo, che peraltro aveva partecipato alla
liquidazione del PCI e alla fondazione del PDS, uscendone solo dopo due anni,
celebrando i suoi dieci anni di segreteria del PRC e annunciando che non farà
"il segretario a vita'' (dando a intendere che altre potrebbero essere ora le
sue ambizioni), vuole arrivare a lasciare un partito completamente spogliato di
qualsiasi connotato anche solo formalmente comunista. Proprio il giorno dell'80°
anniversario della scomparsa di Lenin, Bertinotti ha rilasciato al compiacente
il manifesto e a un ossequioso Valentino Parlato, trotzkista storico e
antimarxista-leninista, un'intervista che rivela completamente e apertamente la
natura della svolta del PRC. "Penso - ha detto Bertinotti - che non solo Lenin,
ma tutti i grandi leader del movimento operaio del '900, siano morti e non solo
fisicamente. Oggi sarebbe grottesco richiamarsi all'uno o all'altro''. E ancora:
"Vorrei vederlo in faccia uno che oggi dica: voglio fare un partito marxista o
leninista e che voglia mettere questa definizione nel suo statuto''. Bertinotti,
ovviamente, fa subdolamente finta di non sapere che questo partito in Italia c'è
già, ed è il PMLI. E che ci ha visti bene in faccia. La rinuncia al partito
bolscevico è connessa alla rinuncia al socialismo. Se l'obiettivo non è più la
conquista del potere politico da parte della classe operaia, che per noi
marxisti-leninisti resta la madre di tutte le questioni, a cosa serve un partito
bolscevico? E infatti Parlato, a proposito della società futura che prospetta
Bertinotti domanda: "Una società diversa dentro la stessa forma di Stato?'';
risposta: "Esattamente e che svuota dall'interno il potere arbitrario dello
Stato. è la questione dell'immissione nella società di elementi di socialismo''.
Ma questo prima di Bertinotti non lo avevano detto Kautzki, Bernstein, Turati,
Gramsci, Togliatti, Saragat e Berlinguer, senza parlare di Cossutta e Diliberto?
E siamo così all'accettazione della democrazia borghese come valore assoluto.
Siamo alla trasformazione del PRC in un partito liberale di "sinistra''. Se ne è
accorta persino la destra borghese che plaude a questa netta trasformazione. Il
Giornale berlusconiano del 26 gennaio 2004 ha titolato un fondo di prima pagina
di Massimiliano Lussana (tirapiedi di Berlusconi e grande estimatore di
Bertinotti), "Rifondazione anticomunista'' ripercorrendo una per una le tappe
dell'abiura del comunismo. Quando nel 1991 nacque il PRC noi marxisti-leninisti,
analizzando da un punto di vista di classe la sua natura ideologica, la sua
linea politica e pratica sociale, il suo gruppo dirigente, lo denunciammo come
un'operazione controrivoluzionaria e antimarxista-leninista, una trappola per
catturare le forze che si erano liberate a sinistra con la liquidazione del PCI
e impedirne l'incontro con il partito del proletariato, il PMLI (vedi Il
Bolscevico n. 46/1991). Allora molti fautori del socialismo credettero davvero
che quello sventolio di bandiere rosse e quel nome fosse garanzia di poter
proseguire la lotta contro il capitalismo e per una nuova società socialista.
Purtroppo non avevano compiuto, e il PRC ha impedito loro di compiere, un
bilancio profondo dell'esperienza della storia del PCI revisionista e di tutta
la storia del movimento operaio nazionale e internazionale per trarne i dovuti
insegnamenti. Sono stati quindi di nuovo ingannati e strumentalizzati e oggi a
ragione in gran parte stanno esprimendo alla direzione del proprio partito la
propria contrarietà e avversione. Ma non basta. Come hanno avuto il coraggio di
non seguire i rinnegati del comunismo nella deriva del PDS, essi devono fare
altrettanto con la deriva anticomunista a cui li sta conducendo il PRC. Un
partito che già nel 1991 avvertimmo essere presumibilmente "un partito
temporaneo che finirà presto o tardi con l'autoliquidarsi''. Il che sta
puntualmente avvenendo come dimostra la nascita stessa della "Sinistra
europea''.
http://www.pmli.it/sinistraeuropea.htm
Katyn
www.resistenze.org - segnalazioni resistenti - lettere - 24-11-09 - n. 296
Le fosse di Katyn e il periodico dell’ANPI “Patria”
Lettera inviata alla rivista “Patria” dell’ANPI, rimasta senza risposta e
pubblicata dal n. 6/2009 di Nuova Unità
Mi sarei aspettato almeno da “Patria”, altri contenuti e commenti storici sul
film “KATYN” del regista polacco Andrzey Wayda. Con l’articolo di Serena D’Arbela
del febbraio 2009, invece vi accordate al più bieco revisionismo storico,
all’ingiuriosa falsificazione della propaganda fascista sulla questione Katyn.
Oltre alle parole di Roosevelt, anche il processo di Norimberga, che non
ricordate, stabilì chiaramente che il massacro fu ordinato dai nazisti e la
macabra speculazione antisovietica.
Non rammentate neanche che i sovietici ordinarono, quando il territorio
polacco venne liberato, la riesumazione di tutte le vittime delle fosse di Katyn
e venne stabilito in presenza della autorità politiche e religiose polacche, fra
le quali vi erano gli uomini del cattolico ex presidente del governo polacco
Mikolaycik, che il massacro avvenne durante l’occupazione tedesca della Polonia.
Anche tutto ciò, visto il tono dell’articolo, è da considerare opportunismo
politico?
Ma se non bastasse tutto ciò lo stesso Goebbels scriveva nel suo diario il
giorno dell’8 maggio 1943: “Sfortunatamente, munizioni tedesche sono state
trovate nelle fosse di Katyn (…) E’ essenziale che questa circostanza rimanga
segretissima. Se dovesse venire a conoscenza del nemico, l’intero affare di
Katyn dovrebbe essere lasciato cadere”.
Invece di affidarvi alle fonti borghesi mi permetto di consigliarvi la
documentata ricostruzione storica su Katyn di Ella Rulle, apparsa sulla rivista
“Teoria&Prassi” n.17.
Nell’articolo non vi discostate dalla proposta di due deputati europei della
messa al bando dei simboli “svastica” e di “Falce e martello” perché, hanno
spiegato, “comunismo e nazismo” sono entrambi basati sull’odio.
Io penso che non si possa mai dimenticare il tributo che ha dato il popolo
sovietico con la guida di Stalin per la sconfitta del nazifascismo, con oltre 22
milioni di morti, con 3 milioni e mezzo di prigionieri sovietici sterminati nei
lager nazisti.
Per la ricerca di una verità storica e per la difesa dei valori ideali che si
oppongono al sempre più frequente risorgere del fascismo e del razzismo, che
dovrebbero essere le fondamenta della rivista “Patria” e dell’ANPI. Attendo una
vostra risposta.
Stefano Valsecchi - Milano
Patto
molotov-Ribbentrop
http://www.facebook.com/groups/176237975720014/438355689508240/?notif_t=group_activity
Danila Cucurnia Per quanto riguarda il patto Molotov -
Ribbentrop diciamo anzitutto una cosa: si trattò di un patto tattico e non
strategico. Ovvero Stalin, facendo un'operazione tattica, che teneva conto della
condizione di povertà economica e di arretratezza industriale dell'Urss, accettò
il patto di non aggressione. Questa operazione consentì a Stalin di rinviare
l'aggressione nazista all'Urss e guadagnare il tempo necessario a prepararsi a
dare la risposta militare necessaria. Non fu dunque un patto strategico. Cioè
l'Urss socialista e la Germania nazista non avevano in comune alcun obbiettivo
da raggiungere unitamente tramite questo patto. è abbastanza chiaro. Comunque è
necessario conoscere anche i retroscena di quel patto. Non si dice mai ad
esempio che Stalin, prima di firmare il patto, tentò di costruire un fronte di
potenze anti-naziste e che i suoi tentativi furono sistematicamente osteggiati
da Francia ed Inghilterra, le quali anzi sobillavano la Germania nazista ad
attaccare l'Urss. Il fine della borghesia francese e inglese era quello di
distruggere l'odiatissima Unione Sovietica socialista. Stalin, considerato
l'isolamento in cui era relegata l'Urss, poteva giocare solo la carta del patto
tattico con la Germania. L'enorme levatura di capo di Stato rivoluzionario di
Stalin sta poi nell'avere usato tale patto per rovesciare la situazione
sfavorevole in cui si trovava l'Urss, riuscire a dare il colpo definitivo al
nazi-fascismo e per conseguenza liberare l'Europa ed il mondo dalla bestia
nazista.
Stalin è il comunismo
le tesi
dell'ottavo congresso del PRC condannano senza alcuna indulgenza
lo stalinismo e lo considerano una malattia, una corruzione del
comunismo. Io credo che in questa condanna ci sia un errore
derivante dalla voglia di ripulirsi della storia spesso tragica
del comunismo mondiale e di ripararsi, come disse Berlinguer,
sotto l'ombrello della Nato. Se guardiamo lo stalinismo
riferendoci al periodo storico in cui Stalin diresse l'URSS
parliamo del comunismo come si è realizzato dopo la morte di
Lenin. Condannando Stalin si condanna il comunismo e lo stesso
Lenin, cioè la rivoluzione d'ottobre alla quale il PRC dice di
riferirsi. Il comunismo non poteva essere diverso da quello
realizzato da Stalin e difeso dall'invasione degli eserciti del
mondo capitalistico ed infine trasfuso della Costituzione del
1947 dell'URSS che è una delle più avanzate del mondo. Se si
condanna soltanto l'opera dottrinaria e teorica di Stalin non si
sa bene di che cosa si parla perchè niente c'è di più elevato
del pensiero sulle nazionalità e sulla lingua di Stalin. Un
rispetto profondo per i popoli della URSS e di tutto il mondo
che veniva avvertito dal mondo oppresso dal colonialismo e
dall'imperialismo anglosassone ed europeo che avevano in lui un
punto di riferimento nella lotta per il loro riscatto.
Pietro Ancona
ricevo da Antonino Briguglio Tatiana Bogdanova
Per
una riflessione critica su Stalin pubblicata
29 gennaio 2012
Trattare oggi della figura di Stalin, in una fase molto problematica per la
ripresa della lotta per il socialismo e il comunismo, stante ancora il panico e
il disorientamento del proletariato a seguito della fine ingloriosa di
importanti paesi socialisti, di fronte alla tracotanza della borghesia, che
nonostante lo sfacelo di cui è artefice si sente ebbra della vittoria della
controrivoluzione ed infierisce senza ritegno contro le conquiste del movimento
operaio, comporta necessariamente il pericolo di esporsi ad ogni sorta di
critica malevola, in uno spazio culturale e politico ampio, che occupa
indistintamente il revisionismo moderno e l’odio viscerale anticomunista.
Discutere di Stalin, del suo periodo storico e della sua opera richiede dunque
la costruzione di una robusta barricata ideologica, al di là della quale si
contrappone un esercito composito, ma agguerrito, di detrattori del
marxismo-leninismo, di nemici feroci, di falsi amici dai modi garbati.
Siamo giunti al punto in cui il termine stalinista riveste il significato di
epiteto, per chi intende lanciare grossolanamente l’accusa dell’uso arbitrario
della violenza, contro chi sarebbe fautore del dispotismo più turpe, della
dittatura più oppressiva. Nei dizionari della lingua italiana il termine è
oramai attestato col significato dispregiativo. I comunisti sono consapevoli che
Stalin e la sua epoca rappresentano un passaggio ineludibile nella storia reale
(e non di quella virtuale che ipotizzano taluni pseudocomunisti) del movimento
operaio rivoluzionario, nella lotta del proletariato per il socialismo e il
comunismo. Confrontarsi con Stalin, con il suo tempo e il suo ruolo, la sua
opera anche di teorico, richiede perciò l’adozione di una visione autenticamente
critica, scevra da ogni possibile venatura apologetica o agiografica, come per
alcuni versi si è manifestata negli anni 50 del secolo scorso nel movimento
comunista, e che connota ancora oggi alcuni piccoli gruppi della sinistra, ma
con il metro di chi, da posizioni di classe, osserva il periodo più difficile e
tragico, per la spietata reazione della borghesia internazionale che ha
costretto il primo stato al mondo degli operai e dei contadini a sofferenze e
privazioni immani per potersi difendere, e tuttavia più fecondo per il movimento
comunista rivoluzionario. In questa breve riflessione non è possibile che
tracciare solo una linea guida sul criterio con cui misurarsi col pensiero
staliniano e su che cosa rappresenti lo stalinismo e la sua apparente immagine
speculare, l’antistalinismo. Ci troviamo davanti ad un terreno paludoso, ma
conviene fare chiarezza, sciogliere con la spada il nodo gordiano della
questione: non ci appartiene né lo stalinismo, poiché questo è un conio della
propaganda borghese, né tantomeno l’antistalinismo, in quanto incarna una
posizione estranea, quando non apertamente ostile, al movimento comunista
rivoluzionario e alla sua teoria.
Il pensiero idealista di matrice borghese contagia molti esponenti della
sinistra sedicente marxista, che attribuisce a Stalin la degenerazione del
pensiero e della prassi dei comunisti, che dovrebbero pertanto ripudiare
risolutamente questo passato, che non apparterrebbe più al proletariato
rivoluzionario, in quanto espropriato del suo sogno autentico e del suo agire
cristallino e gentile da un orco malvagio. Per il pensiero borghese più
apertamente ostile lo stalinismo sarebbe invece congenito nel movimento
comunista, portatore della violenza fine a se stessa, approdando inevitabilmente
verso la dittatura e l’oppressione, ed è da combattere energicamente sempre e
comunque, poiché il superamento del capitalismo porterebbe alla privazione della
libertà e della democrazia (da notare come il significato di libertà e
democrazia sia oggi grottescamente considerato dalla borghesia un tutt’uno con
il capitalismo). Il denominatore comune di questi estremi del pensiero borghese
è ben evidente: l’antistalinismo, con il suo armamentario che comprende
pressoché tutte le categorie che con l’essenza del pensiero rivoluzionario
marxista non hanno nulla a che fare, ne sono anzi la negazione. Già in questa
contraddizione si smaschera l’inconciliabilità dell’essere comunista con quella
di dichiararsi contemporaneamente antistalinista. Solo operando una forzatura
che scardina tutto il processo rivoluzionario della classe operaia, così come si
è realmente svolto, e snaturando anche il pensiero e l’azione dei suoi massimi
dirigenti a partire dallo stesso Marx e dalla prima rivoluzione proletaria della
storia, la Comune di Parigi, si può rimuovere Stalin. Non è questo il metodo del
materialismo storico e dialettico, non ci appartiene come comunisti. Questo tipo
di operazioni chirurgiche ad uso strumentale degli interessi delle classi
domanti le fa la chiesa, che nel suo appoggio a tutti gli ordinamenti oppressivi
si propone come portatrice di valori eterei, occultando una storia millenaria di
violenze abominevoli consumate per relegare i popoli nell’ignoranza,
allontanandoli dalla scienza.
La propaganda borghese, all’indomani del “meraviglioso 89”, come si è sentita
in dovere di battezzare questo evento storico che ha visto i paesi socialisti
europei dichiarare la resa unilaterale e incondizionata di fronte alle fauci
spalancate dell’imperialismo, ha parlato, e tuttora parla, di crollo dei regimi
comunisti, stalinisti. Noi sappiamo bene che una società comunista non è mai
stata realizzata, mentre al contrario una formazione di transizione era stata
avviata con successo, ma nel pensiero borghese si utilizza rozzamente una
categoria oramai consolidata anche nella terminologia mediatica. Così come
sappiamo che nelle librerie di Budapest, Varsavia, ecc., non era già più
possibile trovare anche uno solo degli scritti di Stalin, che a Mosca era stato
rimosso da tempo il suo corpo che riposava accanto a Lenin, che a Praga la
statua che gli era stata eretta in sua memoria era stata abbattuta più di venti
anni prima dell’89.
Possiamo inoltre notare che l’antistalinismo, comunque espresso, rivela una
contrapposizione preconcetta anche contro quella che è la conquista più
esaltante del movimento operaio nella sua sofferta storia di classe oppressa e
sfruttata: la Grande Rivoluzione Socialista d’Ottobre, e la Grande Guerra
Patriottica, così come l’Unione Sovietica ha giustamente inteso l’eroica
cacciata dal proprio territorio dalle orde naziste, ovvero la seconda guerra
mondiale imperialista. Due eventi che il proletariato mondiale conserverà
indelebilmente nel cuore come la prova suprema della grande forza delle masse
che è possibile dispiegare sotto la guida del partito armato della dottrina
marxista-leninista, nonostante la velenosa propaganda delle classi dominanti che
tende a rimuovere o a sminuire il ruolo primario dell’URSS, e il tributo di
sangue enorme che ha dovuto pagare, nella disfatta delle belve naziste e a
considerare la Rivoluzione d’Ottobre l’inizio di una dittatura terribile. Il
frutto velenoso della manipolazione della storia ad uso degli interessi della
borghesia, è tristemente rinvenibile in ogni dove, e si esplicita più irritante
nelle dichiarazioni dei diplomatici delle maggiori potenze capitaliste ad ogni
ricorrenza che ricordi la seconda guerra mondiale. Angela Merkel, durante la
visita di Bush, ha ringraziato il presidente USA, come rappresentante di quella
America che avrebbe liberato la Germania, portandole in dono la democrazia,
riservando parole di malcelato disprezzo per l’intervento dell’Armata Rossa. Nel
60esimo della fine della seconda guerra mondiale i leader delle potenze
occidentali si sono autocelebrati come vincitori, ignorando, di fatto, il ruolo
sostanziale svolto dall’URSS di Stalin. In un recente sondaggio svolto in Italia
tra gli alunni delle scuole medie, alla domanda su contro chi è stata scatenata
la seconda guerra mondiale, una parte significativa dei ragazzi ha risposto
“contro gli ebrei”. E’ dunque evidente l’opera di rimozione e di demonizzazione
della storia del movimento comunista internazionale, che ha lottato con
abnegazione per la democrazia e la libertà dei popoli, del quale l’URSS e Stalin
costituiscono una parte significativa, imprescindibile.
Il percorso politico dell’antistalinismo dichiarato, inteso non solo come
attacco frontale all’alto dirigente comunista, ma anche come avversione verso la
prassi dei paesi socialisti, si sviluppa in un arco di tempo che copre oramai
mezzo secolo, con l’avvio della cosiddetta destalinizzazione, a partire dal XX
congresso del PCUS. Anche se, nei fatti, gli attacchi alla politica del partito
guidato da Lenin prima e da Stalin successivamente, sono una costante di tutta
la storia dei bolscevichi, dal momento in cui si sono dimostrati gli unici
autentici interpreti delle istanze del proletariato rivoluzionario. La
letteratura sulla lotta condotta da Lenin all’interno del partito contro ogni
forma di opportunismo e deviazionismo (di destra o di sinistra) è copiosa, e
dimostra dell’intensità e dell’ampiezza dello scontro avvenuto. Anche negli
scritti di Stalin si evidenzia nettamente come questa lotta sia ripresa in un
contesto mutato, quando occorreva dare un nuovo impulso alla costruzione del
socialismo in presenza del sabotaggio delle forze nemiche interne e della
rinnovata minaccia dell’imperialismo internazionale. Il capo del partito
comunista dell’URSS è sempre stato lucidamente consapevole della possibilità
della restaurazione del capitalismo, e sulla scorta di questo rischio oggettivo
ha condotto una battaglia coerente, costellata da difficoltà enormi, considerato
anche che la costruzione del socialismo si presentava come un compito nuovo, dai
risvolti imprevedibili. Dalla morte di Stalin, poi, la lotta contro la minaccia
da destra, all’interno del partito comunista, subisce la definitiva battuta
d’arresto. In questo senso sarebbe doveroso per ogni autentico comunista
ripercorrere almeno le fasi salienti della lotta del partito (prima del POSDR e
poi del PC(b) dell’URSS contro gli elementi revisionisti, per capire quanto sia
stato difficile il percorso della conquista del potere e come la strada
inesplorata dell’edificazione del socialismo sia stata contrastata tenacemente,
e con i metodi più violenti e sanguinari, dai nemici interni ed esterni. Ma il
cavallo di Troia del revisionismo di stampo borghese e della controrivoluzione è
sempre in embrione all’interno del partito del proletariato. Ed è stato con
Krusciov, che di Stalin era infatti uno stretto collaboratore, che
inopinatamente si sono sovvertiti i criteri della lotta di classe in un paese
socialista (come se i nemici si potessero affrontare semplicemente non
riconoscendoli), promuovendo e instillando la falsa concezione dello stato di
tutto il popolo, indicando addirittura il comunismo come un traguardo oramai
prossimo, avviando il processo della cosiddetta destalinizzazione con una
manovra sconcertante: la consegna ai nemici del socialismo e dell’URSS del
famigerato rapporto segreto. Una sorta di grimaldello, di cui forse non è più
possibile ricostruirne l’autenticità, che gli imperialisti hanno baldanzosamente
esibito a tutto il mondo per demolire la figura di Stalin, e con esso l’Unione
Sovietica. La spaccatura che si è in seguito prodotta tra i partiti comunisti
nel mondo ha rappresentato un aiuto insperato per gli scopi meschini del
capitalismo. La controrivoluzione strisciante per un trentennio si palesa infine
con il traditore Gorbaciov, che è l’unico dirigente sovietico integralmente
gradito all’imperialismo, poiché, a differenza di Kruciov, è riuscito a cogliere
l’obiettivo che la borghesia mondiale perseguiva già dall’Ottobre del 1917: la
distruzione definitiva ed il saccheggio del primo paese socialista nella storia
dell’umanità. Quando il fascista Yeltsin, anch’egli ex alto dirigente del PCUS,
ordina il bombardamento del parlamento Russo, nell’ottobre 1993, per installare
apertamente al potere della nuova Russia capitalista un clan di malavitosi in
combutta con gli imperialisti, ha motivato questo atto di sanguinosa barbarie
(avallato dalle cancellerie occidentali, ovviamente) con la necessità di
eliminare l’ultimo baluardo dello stalinismo. Così evidentemente non era, poiché
la Russia era stata già devitalizzata dagli agenti della borghesia in uno
stillicidio durato decenni, e il partito di Gorbaciov aveva solo sferrato il
colpo finale, ma tanto basta per capire quale paravento miserrimo gli elementi
borghesi usino per i loro stomachevoli progetti, ogni qualvolta debbano vincere
le resistenze del popolo lavoratore e imporre il dominio della classe
sfruttatrice.
Ancora oggi, quando ascoltiamo i soloni dell’informazione nostrana, i
giornalisti embedded che si limitano a leggere veline preconfezionate e si
prestano supinamente a vere e proprie orchestrazioni e campagne di
disinformazione, quando parlano della Repubblica Popolare Democratica di Corea,
la definiscono spesso “l’ultimo regime stalinista del mondo”. Con una certa
ricorrenza viene etichettato come stalinista Fidel Castro, Kim Jong Il, e
ultimamente anche Ugo Chavez. E’ appena il caso di notare che il crescendo del
significato negativo del termine (lo sentiamo spesso usato dagli esponenti del
PDL contro quelli del PD, sic!) procede in parallelo con la crisi generale del
capitalismo, con la violenza, nella sua forma ideologica pervasiva e nella sua
prassi di guerre, aggressioni, con cui la borghesia tenta di mascherare o di
allontanare il collasso incipiente del sistema socioeconomico.
Stalin tuttavia sembra prendersi una rivincita postuma. Chi lo osteggia si
consegna alla borghesia direttamente, o comunque ne subisce, più o meno
consciamente, l’influenza politica e ideologica. E’ accaduto con il PCI, che ora
è uno dei tanti partiti del potere del capitale, che ha portato uno dei sui più
alti dirigenti a sedere sul trono del Quirinale, a capo di una repubblica
borghese sfasciata, devastata da una crisi sociale, economia e morale
gravissima, votata al collateralismo straccione dei sordidi disegni
dell’imperialismo USA e del sionismo. E la triste storia si è ridicolamente
ripetuta con Rifondazione Comunista. Nel 2003, anno che vedeva il cinquantesimo
anniversario della scomparsa del dirigente georgiano, il quotidiano Liberazione
pubblica un corposo inserto speciale dedicato a Stalin con un titolo cubitale
emblematico: “mai più”. Una presa di posizione netta, tanto inequivocabile
quanto superflua, propedeutica però all’insediamento del PRC alle massime
cariche dello stato borghese e alla sua contestuale scomparsa dal parlamento
italiano. Quanto è accaduto a RC rappresenta l’ennesima dimostrazione che la
contrapposizione strumentale a Stalin è sinonimo della rinuncia agli strumenti
vitali, per un partito comunista, del materialismo storico e dialettico, e
dunque alla scientificità dell’azione rivoluzionaria, che viene pertanto ridotta
alla partecipazione nell’arena del cretinismo parlamentare borghese, incanalata,
per essere sterilizzata, nell’alveo inconcludente del politicismo più gretto e
insopportabile.
Ovunque Stalin è stato rimosso, dileggiato, disprezzato, la borghesia ha
trionfato, ostentando volgarmente il suo livido volto di classe sfruttatrice,
dedita alla rapina. Dal Baltico al Caucaso, dalla Siberia all’Europa centrale e
balcanica, i popoli sono inesorabilmente caduti sotto il giogo del capitale,
espropriati della propria identità, trascinati nel gorgo della crisi generale
del capitalismo, investiti dal crollo verticale dello stato sociale, nella
guerra, vessati da valvassori dell’imperialismo, a loro volta ammantati dalla
squallida bandiera del nazionalismo più ipocrita. La piccola Albania, per
esempio, aveva una dignità e una specificità uniche al mondo, come paese che dal
feudalesimo è transitato al socialismo, con una storia invidiabile per la
determinazione nella lotta di liberazione dagli occupanti fascisti, per aver
debellato la piaga secolare dell’analfabetismo e della miseria, per la
correttezza con la quale aveva, attraverso il suo partito al potere, condannato
il revisionismo moderno. Ora è un popolo disperso, annientato moralmente,
immiserito e trasformato in una riserva di schiavi e schiave al servizio del
capitale.
La lotta asperrima dei comunisti per offrire uno sbocco coerente al pensiero
marxiano offre un panorama di insidie terribilmente esteso. Ma è proprio intorno
al giudizio sulla figura di Stalin che è possibile identificare l’atteggiamento
più corretto verso la Rivoluzione d’Ottobre e i suoi successivi sviluppi. Stalin
è perciò la cartina di tornasole per testare la coscienza critica di ogni
comunista, per misurare altresì l’odio dei nemici di classe. La lotta del
movimento operaio che dapprima si appropria della sua coscienza di classe e
tenta di instaurare un ordine socioeconomico in cui alla base vi sia la
liberazione dalle catene dello sfruttamento, è contestualmente la lotta per
affermare i principi di integrità ideologica che possano sorreggere questo moto
rivoluzionario: la teoria di Marx e Engels e del prezioso contributo di Lenin,
come l’ha brillantemente saldata proprio Stalin. E Stalin, come fedele
prosecutore dell’opera del padre della rivoluzione bolscevica, Lenin, incarna
necessariamente lo spartiacque storico per la classe operaia, rimosso il quale
si perde di vista un prezioso insegnamento rivoluzionario e si naufraga
nell’idealismo. Infatti non conosciamo altre esperienze rivoluzionarie che
abbiano rivoltato come un guanto l’intera storia dell’umanità, costellata fino
al 1917 dal dominio spietato degli schiavisti. E’ toccato a Lenin prima, e a
Stalin in seguito, nel bene di un progetto epocale di abbattimento del sistema
di sfruttamento selvaggio del capitalismo, e nel male di un mondo di nemici che
ha scatenato una reazione rabbiosa contro la Rivoluzione d’Ottobre, dimostrare
che davvero è possibile cambiare. Lo “yes, we can” era stato lanciato come
slogan e sostenuto coerentemente come azione del partito del popolo
rivoluzionario, da Lenin prima e da Stalin dopo.
L’insidia del pensiero borghese, in una scala di versioni più o meno
sofisticate e argomentate da sedicenti rivoluzionari, attecchisce nel seno della
classe operaia come la gramigna nel grano. Lo abbiamo purtroppo potuto
constatare in una serie innumerevole di situazioni, tanto da poter generalizzare
questo fenomeno come appartenente ad un’intera epoca storica, caratterizzata da
grandi rivoluzioni e da altrettanto vaste controrivoluzioni. I comunisti però
sono consapevoli che un pensiero critico può e deve essere sviluppato ogni
qualvolta torni utile allo sviluppo della causa rivoluzionaria, per la
liberazione dell’umanità dalle catene dell’oppressione del capitale, dunque nel
segno dell’oggettività, del materialismo storico e dialettico. In questo quadro,
e solo con questo metro oggi si può e si deve discutere di Stalin, a partire
direttamente da quanto egli ha prodotto come contributo importante alla teoria e
alla prassi del movimento comunista rivoluzionario, e anche, ovviamente, dai
suoi errori. Attingere direttamente dal pensiero di Stalin è però il modo
migliore per analizzare le questioni che il capo del PC dell’URSS ha affrontato
e sulle quali non ha mancato di intervenire con estrema puntualità e
intelligenza. Del resto sappiamo che la letteratura su Stalin è sterminata e le
opere che meritano di essere considerate o che costituiscono un apporto fattivo
alla comprensione di Stalin e della sua epoca sono davvero poche. Il resto è un
mare di odio e menzogne versato da elementi nemici del comunismo. Sarebbe
naturalmente utile una ricostruzione storica obiettiva, opportunamente
sedimentata dalle scorie della frattura catastrofica che si è prodotta dopo la
morte di Stalin, per restituire alla memoria delle giovani generazioni la
versione di questa epoca segnata da grandi imprese e da rovesci terribili, per
inserire nella grave situazione attuale, foriera di immani sconvolgimenti, un
riferimento veritiero e utile, vitale, alla causa della liberazione dal giogo
del capitale. A patto che sotto i riflettori della storia ci sia il giudizio del
proletariato rivoluzionario, il solo titolato a smontare tutte le calunnie e i
luoghi comuni, a fare giustizia dell’opera di mistificazione della sua lotta
titanica per costruire un società veramente libera. In questo compito di
rivalutazione storica del movimento rivoluzionario del XX secolo, non si può
eludere, per esempio, il significato corretto della dittatura del proletariato,
come strumento organizzativo e politico della fase di transizione; il ruolo
della violenza nella storia, che il proletariato certamente non invoca, ma con
la quale è costretto a misurarsi, e di questo deve esserne perfettamente
conscio, poiché la borghesia non esita a ricorrervi sistematicamente; la portata
effettiva delle conquiste della Rivoluzione d’Ottobre, di cui Stalin è stato uno
degli artefici più importanti, per saldare il tutto con il pensiero dei padri
fondatori del socialismo scientifico: Marx ed Engels.
Comprendere e approfondire le questioni affrontate da Stalin nella sua vita
di rivoluzionario, da quelle sulle quali si è speso con successo, a quelle in
cui una risposta definitiva non è stata elaborata compiutamente perché del tutto
inedite, capire il contesto internazionale ed interno nel quale il partito di
Stalin ha agito, significa porsi da autentico rivoluzionario di fronte alla
questione sempre aperta: il futuro dell’umanità, la soppressione
dell’ordinamento capitalistico fondata sulla schiavitù salariale, la lotta di
classe e le sue forme, la rivoluzione e la liberazione di tutte le facoltà
psicofisiche dell’uomo, per la pace, il lavoro, il rispetto dell’ambiente, come
parte inscindibile della vita dell’uomo, la cooperazione, l’internazionalismo e
la fratellanza tra i popoli, nella prospettiva del comunismo
http://mixzone.myblog.it/archive/2012/03/04/per-una-riflessione-critica-su-stalin.html
L’antistalinismo, incarna una posizione estranea, quando non apertamente
ostile, al movimento comunista rivoluzionario e alla sua teoria. E’ evidente
l’inconciliabilità dell’essere comunista con quella di dichiararsi
contemporaneamente antistalinista. Solo operando una forzatura che scardina
tutto il processo rivoluzionario della classe operaia, così come si è realmente
svolto, e snaturando anche il pensiero e l’azione dei suoi massimi dirigenti a
partire dallo stesso Marx e dalla prima rivoluzione proletaria della storia, la
Comune di Parigi, si può rimuovere Stalin.
http://mixzone.myblog.it/archive/2012/03/04/per-una-riflessione-critica-su-stalin.html
Trockij nei confronti di Lenin e Stalin
(Da Ludo Martens STALIN Un altro punto di vista pag.77-80)
Fin dal 1902, Trockij aveva costantemente osteggiato le prospettive che Lenin
aveva tracciate per la Rivoluzione democratica e la rivoluzione socialista in
Russia. Riaffermando, proprio prima della morte di Lenin, che la dittatura del
proletariato sarebbe necessariamente entrata in collisione con l’ostilità delle
masse contadine e che, di conseguenza, non ci sarebbe stata altra salvezza per
il socialismo sovietico al di fuori della rivoluzione vittoriosa nei paesi «più
civilizzati», Trockij tentava di sostituire il suo programma a quello di Lenin.
Dietro il suo discorso sulla “rivoluzione mondiale” Trockil riprendeva l’idea
fondamentale dei menscevichi: era impossibile costruire il socialismo in Unione
Sovietica. I menscevichi dicevano apertamente che né le masse né le condizioni
oggettive erano mature per il socialismo. Trockij, da parte sua, diceva che il
proletariato, in quanto classe specifica, e le masse dei contadini
individualisti, dovevano necessariamente entrare in collisione. Senza il
sostegno esterno di una rivoluzione europea vittoriosa, la classe operaia
sovietica sarebbe stata incapace di edificare il socialismo. Con questa
conclusione, Trockij si ricongiungeva ai suoi amici di gioventù, i menscevichi.
Nel 1923, nella sua lotta per prendere il potere in seno al Partito
Bolscevico, Trockij lanciò una seconda offensiva. Egli cercò di mettere da parte
i vecchi quadri del Partito a favore dei giovani, che sperava di poter
influenzare. Per preparare la presa del potere nella Direzione del Partito,
Trockij ritornò, quasi parola per parola, alle concezioni antileniniste sul
partito che aveva sviluppate nel 1904.
Dal suo libro Nos taches politiques, pubblicato nel 1904, all’opuscolo Cours
nouveau scritto nel 1923, noi ritroviamo la stessa ostilità contro i principi
che
Lenin aveva definiti per la costruzione del partito. (……)
Nel 1904, Trockij aveva combattuto con particolare accanimento la concezio-
ne leninista del partito. Aveva tacciato Lenin di essere uno “scissionista
fa-
natico”, un «rivolu7ionario democratico—borghese», un «feticista dell’orga—
nizzazione», «un partigiano di un «regime da caserma», lo aveva accusato di
«meschinità organizzativa»,di essere un «dittatore che voleva sostituirsi al
Comitato Centrale», un «dittatore che voleva instaurare la dittatura sul
proletariato» per il quale «qualsiasi interterenferenza di elementi che pensano
diversamente è un fenomeno patologico».14
Il lettore avrà notato che tutta questa verbosità carica di odio non era
indirizzata all’infame Stalin, ma all’adorato maestro, Lenin. Il libro che
Trockij
aveva pubblicato nel 1904 è cruciale per comprendere la sua ideologia. Tutte
le calunnie e gliinsulti che, per più di venticinque anni, egli riverserà su
Stalin, li aveva sputati in quest’opera sulla figura di Lenin.
Trockij si accanì nel dipingere Stalin come un dittatore che regnava sul
Partito. Ma, quando Lenin aveva creato il Partito Bolscevico, Trockij l’aveva
accusato di instaurare una «teocrazia ortodossa» e un
co-asiatico>.15
Trockij non smise mai di affermare che Stalin aveva adottato un atteggiamento
pragrammatico verso il marxismo, che aveva ridotto a formule preconfezionate.
Nel 1904, criticando l’opera Un pas en avant..., Trockij aveva scritto:
«Non si può manifestare un maggior cinismo nei confronti del miglior
patrimonio ideologico del proletariato di quanto faccia il compagno Lenin. Per
lui il marxismo non è un metodo di analisi scientifica.»16
Nel suo libro del 1904, Trockij aveva inventato il termine di
“sostituzionismo” per attaccare il modello di partito leninista e la sua
direzione.
«Il gruppo dei “rivoluzionari di professione” agisce in luogo del
proletariato.» «L’organizzazione si “sostituisce” al partito, il Comitato
Centrale all’organizzazione e infine, il dittatore sostituisce il Comitato
Centrale.»17
Nel 1923, spesso con gli stessi termini che aveva usato contro Lenin, Trockij
attaccò la Direzione del Partito e Stalin.
«La vecchia generazione s’è abituata e si abitua a pensare e a decidere per
il partito.» Trockij denunciò «una tendenza dell’apparato a pensare e a
decide-
re per l’intera organizzazione.» 18
Nel 1904, Trockij aveva attaccato la concezione leninista del partito
affermando che essa «separa l’attività cosciente dall’attività esecutiva. (C’è)
il
Centro e, al di sotto, non ci sono che gli esecutori disciplinati che
funzionano
tecnicamente». Nella sua concezione piccolo-borghese, Trockij rifiutava le
gerarchie e le differenze dei livelli di responsabilità, così come la
disciplina. Il suo ideale era «la personalità politica globale, che faceva
rispettare di fronte a tutti i “centri” la sua volontà e questo in tutte le
forme possibili, fino ed incluso il boicottaggio»!19 Era il credo di un
individualista, di un anarchico,
Queste critiche vennero rilanciate da Trockij nel 1923.
«L’apparato manifesta una tendenza a contrapporre qualche migliaio di
compagni che compongono i quadri dirigenti al resto delle masse che non sono per
loro che uno strumento per l’azione.» 20
Nel 1904, Trockij aveva accusato Lenin di essere un burocrate che faceva
degenerare il Partito in un’organizzazione rivoluzionaria-borghese. Lenin era
accecato dalla «logica burocratica di questo o quel “piano” organizzativo», ma
«il fiasco del feticismo organizzativo» era certo.
«Il capo dell’ala reazionaria del nostro Partito, il compagno Lenin, dà della
socialdemocrazia una definizione che è un attentato teorico al carattere di
classe del nostro Partito.» Lenin «ha dato origine ad una tendenza che si è
delineata nel Partito, la tendenza rivoluzionaria-borghese».21
Nel 1923 Trockij disse la stessa cosa contro Stalin, ma con un tono più
moderato.. «La burocratizzazione minaccia di provocare una degenerazione più o
meno opportunista della vecchia guardia.» 22
Nel 1904 il “burocrate” Lenin veniva accusato di” terrorizzare” il Partito.
«ll compito dell’lskra (il giornale di Lenin) consisteva nel terrorizzare
teoricamente l’intellighenzia. Per i socialdemocratici, educati ad una certa
scuola, l’ortodossia è qualcosa di molto vicino a quella “Verità” assoluta che
ispirava i Giacobini (rivoluzionari borghesi). La Verità ortodossa prevede
tutto. Colui che la contesta deve essere escluso; colui che ne dubita è prossimo
ad essere escluso. .» 23
Nel 1923 Trockij lanciò un appello per sostituire i burocrati mummificati
affinché «nessuno osi più terrorizzare il Partito.»24
(….) Nel 1923, per prendere il potere nel seno del Partito Bolscevico,
Trockij voleva “liquidare” la vecchia guardia bolscevica che conosceva troppo
bene il suo passato di oppositore delle idee di Lenin. Nessun vecchio bolscevico
sarebbe stato disposto ad abbandonare le idee di Lenin per il trockijsmo. Da ciò
la tattica di Trockij: egli dichiarò che i vecchi bolscevichi” degeneravano” e
lusingò i giovani che non conoscevano il suo passato antileninista. Con la
parola d’ordine della “democratizzazione” del Partito, Trockij voleva far
entrare nella Direzione del Partito dei giovani che lo sostenessero.
Dieci anni dopo, quando uomini come Zinov’ev e Kamenev avrebbero svelato
completamente il loro carattere opportunista, Trockij dichiarerà che essi
rappresentavano la “vecchia guardia bolscevica” perseguitata da Stalin e si
legherà a quegli opportunisti, invocando il passato glorioso della “vecchia
guardia”!
Nel corso degli anni 1924-1 926, man mano che la posizione politica di
Trockij andava sempre più indebolendosi, crescevano i suoi attacchi,
particolarmente rabbiosi, contro la Direzione del Partito.
Partendo dall’idea che fosse impossibile costruire il socialismo in un solo
paese, Trockij concluse che la politica caldeggiata da Bucharin, la sua bestia
nera del momento, rappresentava gli interessi dei kulaki e dei nuovi borghesi, i
cosiddetti “Nep-men”. Il potere, egli sosteneva, tendeva a diventare un potere
kulak. Veniva nuovamente aperta la discussione sulla “degenerazione” del Partito
Bolscevico. Poiché questo si evolveva verso la degenerazione e il partito kulak,
Trockij si attribuì il diritto di creare delle frazioni e di condurre un lavoro
clandestino all’interno del Partito.
Il dibattito fu condotto apertamente e francamente per cinque anni. Quando la
discussione fu chiusa, nel 1927, con una votazione in seno al Partito, coloro
che sostenevano la tesi dell’impossibilita della costruzione del socialismo in
Unione Sovietica e difendevano le attività frazioniste di Trockij ottennero tra
l’i e l’1,5 ‘ dei voti. Trockij fu espulso dal Partito, in seguito esiliato in
Siberia ed infine bandito dall’Unione Sovietica.
Da Ludo Martens STALIN Un altro punto di vista pag.77-80
Per quello che concerne Trockij, Lenin ne sottolinea i quattro maggiori
difetti: ha dei lati molto negativi come ha dimostrato la sua lotta contro il
Comitato Centrale sulla questione della "militarizzazione dei sindacati"; ha
un'opinione esagerata di se stesso; affronta i problemi in modo burocratico e il
suo non-bolscevismo non è un fatto accidentale. ivi pag.69
Trotski, Nos taches politiques, Ed. Pierre Belfond, Paris, 1970,
Trotski, Cours nouveau U.G.E.., collection 10-18, Paris, 1972
Note:
15. Ibiden,, pp. 97—170.
16. Ibiden,, p. 160
17. Thiden,, pp. 103 e 128.
18. Trotski, Cours nouveau U.G.E.., collection 10-18, Paris, 1972, pp. 21 e
158.
19. Trotski, Nos taches, pp. 140-141
20. Trotski, Cours nouveau, p. 25.
21. ‘I’rotski, Nos taches, pp. 204, 192, 195.
22. Trotski, Cours nouveau, p. 25.
23. ‘I’rotski, Nos taches, p. 190.
24. Trotski, Cours nouveau, p. 154
….. Trotski, Nos taches politiques, Ed. Pierre Belfond, Paris, 1970 Trotski,
Cours nouveau U.G.E.., collection 10-18, Paris, 1972 Trotski, Nos taches
politiques, Ed. Pierre Belfond, Paris, 1970
================
Losurdo in Storia e critica di una leggenda nera pag.270
(Libro che mi è stato consigliato da Sara Dipasquale a cui sono veramente grata
per il suggerimento).
Subito dopo il patto di non aggressione tra Terzo Reich e Unione Sovietica,
Trockij lancia una sorta di grido di trionfo: adesso finalmente capiranno anche
«gli apologeti di professione del Cremlino» e di Stalin, «i minchioni
“prosovietici” di ogni colore>, coloro che si erano illusi di poter contare
sull’appoggio di Mosca per contenere l’espansionismo della Germania nazista. Ad
essere preso particolarmente di mira è Neville Chamberlain. Sì, il primo
ministro inglese, già in questo momento messo in stato d’accusa da Churchill a
causa della politica di appeasement da lui perseguita nei confronti di Hitler,
viene aspramente criticato da Trockij per avere nutrito illusioni sul conto
di... Stalin! «Nonostante tutta la sua avversione per il regime sovietico», il
leader conservatore inglese» aveva tentato con ogni mezzo di stabilire
un’alleanza con Stalin»: una colossale prova di ingenuità! Lui, Trockij, sin
dall’avvento del Terzo Reich aveva ripetutamente chiarito che, ad onta di tutte
le chiacchiere sui fronti popolari antifascisti, «il vero obiettivo della
politica estera di Stalin era la conclusione di un accordo con Hitler»; ora
tutti sono costretti a prendere atto che il dittatore del Cremlino è «il
maggiordomo di Hitler» Messo in seria difficoltà dall’epica resistenza
dell’Unione Sovietica contro il Terzo Reich, questo gioco al rialzo riprende con
forza dopo il xx Congresso del PCUS e il Rapporto segreto.
Solo i processi di Mosca del 1936-37-38, pubblici, in presenza della stampa
mondiale, i cui resoconti stenografici integrali sono stati pubblicati dalle
edizioni in lingue estere a cura del Ministero della giustizia sovietico (in
inglese e francese), ci dicono finalmente CHI ERA Trotski. I dirigenti
trotskisti sanno tutto di quei processi, ma essi continuano, consapevolmente,
per odio anti-Stalin mutuato direttamente da Trotski, ad essere complici della
congiura trotskista antisovietica dell'epoca. I tre volumi dei processi (in
francese) si dovrebbero trovare nelle biblioteche nazionali e in quelle
universitarie (di una certa importanza).
Confrontarsi con Stalin, con il suo tempo e il suo ruolo, la sua opera anche
di teorico, richiede l’adozione di una visione autenticamente critica, scevra da
ogni possibile venatura apologetica o agiografica, come per alcuni versi si è
manifestata negli anni 50 del secolo scorso nel movimento comunista, e che
connota ancora oggi alcuni piccoli gruppi della sinistra, ma con il metro di
chi, da posizioni di classe, osserva il periodo più difficile e tragico, per la
spietata reazione della borghesia internazionale che ha costretto il primo stato
al mondo degli operai e dei contadini a sofferenze e privazioni immani per
potersi difendere, e tuttavia più fecondo per il movimento comunista
rivoluzionario.
Per una
riflessione critica su Stalin domenica, 04 marzo 2012
« Messaggio del KKE ai popoli d'Europa: "PROLETARI DI TUTTI I PAESI, UNITEVI"
|
Homepage |
In merito all'8 Marzo, le sue radici politiche e di classe »
Trattare oggi della figura di Stalin, in una fase molto problematica per la
ripresa della lotta per il socialismo e il comunismo, stante ancora il panico e
il disorientamento del proletariato a seguito della fine ingloriosa di
importanti paesi socialisti, di fronte alla tracotanza della borghesia, che
nonostante lo sfacelo di cui è artefice si sente ebbra della vittoria della
controrivoluzione ed infierisce senza ritegno contro le conquiste del movimento
operaio, comporta necessariamente il pericolo di esporsi ad ogni sorta di
critica malevola, in uno spazio culturale e politico ampio, che occupa
indistintamente il revisionismo moderno e l’odio viscerale anticomunista.
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Discutere di Stalin, del suo periodo storico e della sua opera
richiede dunque la costruzione di una robusta barricata ideologica, al di là
della quale si contrappone un esercito composito, ma agguerrito, di detrattori
del marxismo-leninismo, di nemici feroci, di falsi amici dai modi garbati.
Siamo giunti al punto in cui il termine stalinista riveste il significato di
epiteto, per chi intende lanciare grossolanamente l’accusa dell’uso arbitrario
della violenza, contro chi sarebbe fautore del dispotismo più turpe, della
dittatura più oppressiva. Nei dizionari della lingua italiana il termine è
oramai attestato col significato dispregiativo. I comunisti sono
consapevoli che Stalin e la sua epoca rappresentano un passaggio ineludibile
nella storia reale (e non di quella virtuale che ipotizzano taluni
pseudocomunisti) del movimento operaio rivoluzionario, nella lotta del
proletariato per il socialismo e il comunismo. Confrontarsi con
Stalin, con il suo tempo e il suo ruolo, la sua opera anche di teorico,
richiede perciò l’adozione di una visione autenticamente critica, scevra da ogni
possibile venatura apologetica o agiografica, come per alcuni versi si è
manifestata negli anni 50 del secolo scorso nel movimento comunista, e che
connota ancora oggi alcuni piccoli gruppi della sinistra, ma con il metro di
chi, da posizioni di classe, osserva il periodo più difficile e tragico, per la
spietata reazione della borghesia internazionale che ha costretto il primo stato
al mondo degli operai e dei contadini a sofferenze e privazioni immani per
potersi difendere, e tuttavia più fecondo per il movimento comunista
rivoluzionario. In questa breve riflessione non è possibile che tracciare solo
una linea guida sul criterio con cui misurarsi col pensiero staliniano e su che
cosa rappresenti lo stalinismo e la sua apparente immagine speculare,
l’antistalinismo. Ci troviamo davanti ad un terreno paludoso, ma conviene fare
chiarezza, sciogliere con la spada il nodo gordiano della questione: non ci
appartiene né lo stalinismo, poiché questo è un conio della propaganda borghese,
né tantomeno l’antistalinismo, in quanto incarna una posizione estranea, quando
non apertamente ostile, al movimento comunista rivoluzionario e alla sua
teoria.
Il pensiero idealista di matrice borghese contagia molti esponenti
della sinistra sedicente marxista, che attribuisce a Stalin la degenerazione
del pensiero e della prassi dei comunisti, che dovrebbero pertanto ripudiare
risolutamente questo passato, che non apparterrebbe più al proletariato
rivoluzionario, in quanto espropriato del suo sogno autentico e del suo agire
cristallino e gentile da un orco malvagio. Per il pensiero borghese più
apertamente ostile lo stalinismo sarebbe invece congenito nel movimento
comunista, portatore della violenza fine a se stessa, approdando
inevitabilmente verso la dittatura e l’oppressione, ed è da combattere
energicamente sempre e comunque, poiché il superamento del capitalismo
porterebbe alla privazione della libertà e della democrazia (da notare come il
significato di libertà e democrazia sia oggi grottescamente considerato dalla
borghesia un tutt’uno con il capitalismo). Il denominatore comune di
questi estremi del pensiero borghese è ben evidente: l’antistalinismo, con il
suo armamentario che comprende pressoché tutte le categorie che con l’essenza
del pensiero rivoluzionario marxista non hanno nulla a che fare, ne sono anzi la
negazione. Già in questa contraddizione si smaschera l’inconciliabilità
dell’essere comunista con quella di dichiararsi contemporaneamente
antistalinista. Solo operando una forzatura che scardina tutto il
processo rivoluzionario della classe operaia, così come si è realmente svolto, e
snaturando anche il pensiero e l’azione dei suoi massimi dirigenti a partire
dallo stesso Marx e dalla prima rivoluzione proletaria della storia, la Comune
di Parigi, si può rimuovere Stalin. Non è questo il metodo del
materialismo storico e dialettico, non ci appartiene come comunisti.
Questo tipo di operazioni chirurgiche ad uso strumentale degli interessi delle
classi domanti le fa la chiesa, che nel suo appoggio a tutti gli ordinamenti
oppressivi si propone come portatrice di valori eterei, occultando una storia
millenaria di violenze abominevoli consumate per relegare i popoli
nell’ignoranza, allontanandoli dalla scienza.
La propaganda borghese, all’indomani del “meraviglioso 89”, come si è sentita
in dovere di battezzare questo evento storico che ha visto i paesi socialisti
europei dichiarare la resa unilaterale e incondizionata di fronte alle fauci
spalancate dell’imperialismo, ha parlato, e tuttora parla, di crollo dei regimi
comunisti, stalinisti. Noi sappiamo bene che una società comunista non è mai
stata realizzata, mentre al contrario una formazione di transizione era stata
avviata con successo, ma nel pensiero borghese si utilizza rozzamente una
categoria oramai consolidata anche nella terminologia mediatica. Così come
sappiamo che nelle librerie di Budapest, Varsavia, ecc., non era già più
possibile trovare anche uno solo degli scritti di Stalin, che a Mosca era
stato rimosso da tempo il suo corpo che riposava accanto a Lenin, che a Praga
la statua che gli era stata eretta in sua memoria era stata abbattuta più di
venti anni prima dell’89.
Possiamo inoltre notare che l’antistalinismo, comunque espresso,
rivela una contrapposizione preconcetta anche contro quella che è la conquista
più esaltante del movimento operaio nella sua sofferta storia di classe oppressa
e sfruttata: la Grande Rivoluzione Socialista d’Ottobre, e la Grande Guerra
Patriottica, così come l’Unione Sovietica ha giustamente inteso l’eroica
cacciata dal proprio territorio dalle orde naziste, ovvero la seconda guerra
mondiale imperialista. Due eventi che il proletariato mondiale conserverà
indelebilmente nel cuore come la prova suprema della grande forza delle masse
che è possibile dispiegare sotto la guida del partito armato della dottrina
marxista-leninista, nonostante la velenosa propaganda delle classi dominanti che
tende a rimuovere o a sminuire il ruolo primario dell’URSS, e il tributo di
sangue enorme che ha dovuto pagare, nella disfatta delle belve naziste e a
considerare la Rivoluzione d’Ottobre l’inizio di una dittatura terribile.
Il frutto velenoso della manipolazione della storia ad uso degli interessi della
borghesia, è tristemente rinvenibile in ogni dove, e si esplicita più irritante
nelle dichiarazioni dei diplomatici delle maggiori potenze capitaliste ad ogni
ricorrenza che ricordi la seconda guerra mondiale. Angela Merkel, durante la
visita di Bush, ha ringraziato il presidente USA, come rappresentante di quella
America che avrebbe liberato la Germania, portandole in dono la democrazia,
riservando parole di malcelato disprezzo per l’intervento dell’Armata Rossa. Nel
60esimo della fine della seconda guerra mondiale i leader delle potenze
occidentali si sono autocelebrati come vincitori, ignorando, di fatto, il ruolo
sostanziale svolto dall’URSS di Stalin. In un recente sondaggio svolto in Italia
tra gli alunni delle scuole medie, alla domanda su contro chi è stata scatenata
la seconda guerra mondiale, una parte significativa dei ragazzi ha risposto
“contro gli ebrei”. E’ dunque evidente l’opera di rimozione e di demonizzazione
della storia del movimento comunista internazionale, che ha lottato con
abnegazione per la democrazia e la libertà dei popoli, del quale l’URSS e
Stalin costituiscono una parte significativa, imprescindibile.
Il percorso politico dell’antistalinismo dichiarato, inteso non solo come
attacco frontale all’alto dirigente comunista, ma anche come avversione verso la
prassi dei paesi socialisti, si sviluppa in un arco di tempo che copre oramai
mezzo secolo, con l’avvio della cosiddetta destalinizzazione, a partire dal XX
congresso del PCUS. Anche se, nei fatti, gli attacchi alla politica del partito
guidato da Lenin prima e da Stalin successivamente, sono una costante di tutta
la storia dei bolscevichi, dal momento in cui si sono dimostrati gli unici
autentici interpreti delle istanze del proletariato rivoluzionario. La
letteratura sulla lotta condotta da Lenin all’interno del partito contro ogni
forma di opportunismo e deviazionismo (di destra o di sinistra) è copiosa, e
dimostra dell’intensità e dell’ampiezza dello scontro avvenuto. Anche negli
scritti di Stalin si evidenzia nettamente come questa lotta sia ripresa in un
contesto mutato, quando occorreva dare un nuovo impulso alla costruzione del
socialismo in presenza del sabotaggio delle forze nemiche interne e della
rinnovata minaccia dell’imperialismo internazionale. Il capo del partito
comunista dell’URSS è sempre stato lucidamente consapevole della possibilità
della restaurazione del capitalismo, e sulla scorta di questo rischio oggettivo
ha condotto una battaglia coerente, costellata da difficoltà enormi, considerato
anche che la costruzione del socialismo si presentava come un compito nuovo, dai
risvolti imprevedibili. Dalla morte di Stalin, poi, la lotta contro la
minaccia da destra, all’interno del partito comunista, subisce la definitiva
battuta d’arresto. In questo senso sarebbe doveroso per ogni autentico
comunista ripercorrere almeno le fasi salienti della lotta del partito (prima
del POSDR e poi del PC(b) dell’URSS contro gli elementi revisionisti, per capire
quanto sia stato difficile il percorso della conquista del potere e come la
strada inesplorata dell’edificazione del socialismo sia stata contrastata
tenacemente, e con i metodi più violenti e sanguinari, dai nemici interni ed
esterni. Ma il cavallo di Troia del revisionismo di stampo borghese e della
controrivoluzione è sempre in embrione all’interno del partito del proletariato.
Ed è stato con Krusciov, che di Stalin era infatti uno stretto collaboratore,
che inopinatamente si sono sovvertiti i criteri della lotta di classe in un
paese socialista (come se i nemici si potessero affrontare semplicemente non
riconoscendoli), promuovendo e instillando la falsa concezione dello stato di
tutto il popolo, indicando addirittura il comunismo come un traguardo oramai
prossimo, avviando il processo della cosiddetta destalinizzazione con una
manovra sconcertante: la consegna ai nemici del socialismo e dell’URSS del
famigerato rapporto segreto. Una sorta di grimaldello, di cui forse non è più
possibile ricostruirne l’autenticità, che gli imperialisti hanno
baldanzosamente esibito a tutto il mondo per demolire la figura di Stalin, e con
esso l’Unione Sovietica. La spaccatura che si è in seguito prodotta tra i
partiti comunisti nel mondo ha rappresentato un aiuto insperato per gli scopi
meschini del capitalismo. La controrivoluzione strisciante per un trentennio si
palesa infine con il traditore Gorbaciov, che è l’unico dirigente sovietico
integralmente gradito all’imperialismo, poiché, a differenza di Kruciov, è
riuscito a cogliere l’obiettivo che la borghesia mondiale perseguiva già
dall’Ottobre del 1917: la distruzione definitiva ed il saccheggio del primo
paese socialista nella storia dell’umanità. Quando il fascista Yeltsin,
anch’egli ex alto dirigente del PCUS, ordina il bombardamento del parlamento
Russo, nell’ottobre 1993, per installare apertamente al potere della nuova
Russia capitalista un clan di malavitosi in combutta con gli imperialisti, ha
motivato questo atto di sanguinosa barbarie (avallato dalle cancellerie
occidentali, ovviamente) con la necessità di eliminare l’ultimo baluardo dello
stalinismo. Così evidentemente non era, poiché la Russia era stata già
devitalizzata dagli agenti della borghesia in uno stillicidio durato decenni, e
il partito di Gorbaciov aveva solo sferrato il colpo finale, ma tanto basta per
capire quale paravento miserrimo gli elementi borghesi usino per i loro
stomachevoli progetti, ogni qualvolta debbano vincere le resistenze del popolo
lavoratore e imporre il dominio della classe sfruttatrice.
Ancora oggi, quando ascoltiamo i soloni dell’informazione nostrana, i
giornalisti embedded che si limitano a leggere veline preconfezionate e si
prestano supinamente a vere e proprie orchestrazioni e campagne di
disinformazione, quando parlano della Repubblica Popolare Democratica di Corea,
la definiscono spesso “l’ultimo regime stalinista del mondo”. Con una certa
ricorrenza viene etichettato come stalinista Fidel Castro, Kim Jong Il, e
ultimamente anche Ugo Chavez. E’ appena il caso di notare che il crescendo del
significato negativo del termine (lo sentiamo spesso usato dagli esponenti del
PDL contro quelli del PD, sic!) procede in parallelo con la crisi generale del
capitalismo, con la violenza, nella sua forma ideologica pervasiva e nella sua
prassi di guerre, aggressioni, con cui la borghesia tenta di mascherare o di
allontanare il collasso incipiente del sistema socioeconomico.
Stalin tuttavia sembra prendersi una rivincita postuma. Chi lo osteggia si
consegna alla borghesia direttamente, o comunque ne subisce, più o meno
consciamente, l’influenza politica e ideologica. E’ accaduto con il PCI, che ora
è uno dei tanti partiti del potere del capitale, che ha portato uno dei sui più
alti dirigenti a sedere sul trono del Quirinale, a capo di una repubblica
borghese sfasciata, devastata da una crisi sociale, economia e morale
gravissima, votata al collateralismo straccione dei sordidi disegni
dell’imperialismo USA e del sionismo. E la triste storia si è ridicolamente
ripetuta con Rifondazione Comunista. Nel 2003, anno che vedeva il cinquantesimo
anniversario della scomparsa del dirigente georgiano, il quotidiano Liberazione
pubblica un corposo inserto speciale dedicato a Stalin con un titolo cubitale
emblematico: “mai più”. Una presa di posizione netta, tanto inequivocabile
quanto superflua, propedeutica però all’insediamento del PRC alle massime
cariche dello stato borghese e alla sua contestuale scomparsa dal parlamento
italiano. Quanto è accaduto a RC rappresenta l’ennesima dimostrazione che la
contrapposizione strumentale a Stalin è sinonimo della rinuncia agli strumenti
vitali, per un partito comunista, del materialismo storico e dialettico, e
dunque alla scientificità dell’azione rivoluzionaria, che viene pertanto ridotta
alla partecipazione nell’arena del cretinismo parlamentare borghese, incanalata,
per essere sterilizzata, nell’alveo inconcludente del politicismo più gretto e
insopportabile.
Ovunque Stalin è stato rimosso, dileggiato, disprezzato, la borghesia
ha trionfato, ostentando volgarmente il suo livido volto di classe
sfruttatrice, dedita alla rapina. Dal Baltico al Caucaso, dalla Siberia
all’Europa centrale e balcanica, i popoli sono inesorabilmente caduti sotto il
giogo del capitale, espropriati della propria identità, trascinati nel gorgo
della crisi generale del capitalismo, investiti dal crollo verticale dello stato
sociale, nella guerra, vessati da valvassori dell’imperialismo, a loro volta
ammantati dalla squallida bandiera del nazionalismo più ipocrita. La piccola
Albania, per esempio, aveva una dignità e una specificità uniche al mondo, come
paese che dal feudalesimo è transitato al socialismo, con una storia invidiabile
per la determinazione nella lotta di liberazione dagli occupanti fascisti, per
aver debellato la piaga secolare dell’analfabetismo e della miseria, per la
correttezza con la quale aveva, attraverso il suo partito al potere, condannato
il revisionismo moderno. Ora è un popolo disperso, annientato moralmente,
immiserito e trasformato in una riserva di schiavi e schiave al servizio del
capitale.
La lotta asperrima dei comunisti per offrire uno sbocco coerente al pensiero
marxiano offre un panorama di insidie terribilmente esteso. Ma è proprio intorno
al giudizio sulla figura di Stalin che è possibile identificare l’atteggiamento
più corretto verso la Rivoluzione d’Ottobre e i suoi successivi sviluppi. Stalin
è perciò la cartina di tornasole per testare la coscienza critica di ogni
comunista, per misurare altresì l’odio dei nemici di classe. La lotta del
movimento operaio che dapprima si appropria della sua coscienza di classe e
tenta di instaurare un ordine socioeconomico in cui alla base vi sia la
liberazione dalle catene dello sfruttamento, è contestualmente la lotta per
affermare i principi di integrità ideologica che possano sorreggere questo moto
rivoluzionario: la teoria di Marx e Engels e del prezioso contributo di Lenin,
come l’ha brillantemente saldata proprio Stalin. E Stalin, come fedele
prosecutore dell’opera del padre della rivoluzione bolscevica, Lenin, incarna
necessariamente lo spartiacque storico per la classe operaia, rimosso il quale
si perde di vista un prezioso insegnamento rivoluzionario e si naufraga
nell’idealismo. Infatti non conosciamo altre esperienze rivoluzionarie
che abbiano rivoltato come un guanto l’intera storia dell’umanità, costellata
fino al 1917 dal dominio spietato degli schiavisti. E’ toccato a Lenin prima, e
a Stalin in seguito, nel bene di un progetto epocale di abbattimento del sistema
di sfruttamento selvaggio del capitalismo, e nel male di un mondo di nemici che
ha scatenato una reazione rabbiosa contro la Rivoluzione d’Ottobre, dimostrare
che davvero è possibile cambiare. Lo “yes, we can” era stato lanciato
come slogan e sostenuto coerentemente come azione del partito del popolo
rivoluzionario, da Lenin prima e da Stalin dopo.
L’insidia del pensiero borghese, in una scala di versioni più o meno
sofisticate e argomentate da sedicenti rivoluzionari, attecchisce nel seno della
classe operaia come la gramigna nel grano. Lo abbiamo purtroppo potuto
constatare in una serie innumerevole di situazioni, tanto da poter generalizzare
questo fenomeno come appartenente ad un’intera epoca storica, caratterizzata da
grandi rivoluzioni e da altrettanto vaste controrivoluzioni. I comunisti però
sono consapevoli che un pensiero critico può e deve essere sviluppato ogni
qualvolta torni utile allo sviluppo della causa rivoluzionaria, per la
liberazione dell’umanità dalle catene dell’oppressione del capitale, dunque nel
segno dell’oggettività, del materialismo storico e dialettico. In questo quadro,
e solo con questo metro oggi si può e si deve discutere di Stalin, a partire
direttamente da quanto egli ha prodotto come contributo importante alla teoria e
alla prassi del movimento comunista rivoluzionario, e anche, ovviamente, dai
suoi errori. Attingere direttamente dal pensiero di Stalin è però il modo
migliore per analizzare le questioni che il capo del PC dell’URSS ha affrontato
e sulle quali non ha mancato di intervenire con estrema puntualità e
intelligenza. Del resto sappiamo che la letteratura su Stalin è sterminata e le
opere che meritano di essere considerate o che costituiscono un apporto fattivo
alla comprensione di Stalin e della sua epoca sono davvero poche. Il resto è un
mare di odio e menzogne versato da elementi nemici del comunismo. Sarebbe
naturalmente utile una ricostruzione storica obiettiva, opportunamente
sedimentata dalle scorie della frattura catastrofica che si è prodotta dopo la
morte di Stalin, per restituire alla memoria delle giovani generazioni la
versione di questa epoca segnata da grandi imprese e da rovesci terribili, per
inserire nella grave situazione attuale, foriera di immani sconvolgimenti, un
riferimento veritiero e utile, vitale, alla causa della liberazione dal giogo
del capitale. A patto che sotto i riflettori della storia ci sia il giudizio del
proletariato rivoluzionario, il solo titolato a smontare tutte le calunnie e i
luoghi comuni, a fare giustizia dell’opera di mistificazione della sua lotta
titanica per costruire un società veramente libera. In questo compito di
rivalutazione storica del movimento rivoluzionario del XX secolo, non si può
eludere, per esempio, il significato corretto della dittatura del proletariato,
come strumento organizzativo e politico della fase di transizione; il
ruolo della violenza nella storia, che il proletariato certamente non invoca,
ma con la quale è costretto a misurarsi, e di questo deve esserne perfettamente
conscio, poiché la borghesia non esita a ricorrervi sistematicamente; la
portata effettiva delle conquiste della Rivoluzione d’Ottobre, di cui Stalin è
stato uno degli artefici più importanti, per saldare il tutto con il pensiero
dei padri fondatori del socialismo scientifico: Marx ed Engels.
Comprendere e approfondire le questioni affrontate da Stalin nella sua vita
di rivoluzionario, da quelle sulle quali si è speso con successo, a quelle in
cui una risposta definitiva non è stata elaborata compiutamente perché del tutto
inedite, capire il contesto internazionale ed interno nel quale il partito di
Stalin ha agito, significa porsi da autentico rivoluzionario di fronte alla
questione sempre aperta: il futuro dell’umanità, la soppressione
dell’ordinamento capitalistico fondata sulla schiavitù salariale, la lotta di
classe e le sue forme, la rivoluzione e la liberazione di tutte le facoltà
psicofisiche dell’uomo, per la pace, il lavoro, il rispetto dell’ambiente, come
parte inscindibile della vita dell’uomo, la cooperazione, l’internazionalismo e
la fratellanza tra i popoli, nella prospettiva del comunismo.
Scritto da Valter Rossi
https://www.facebook.com/IMaestriDelSocialismo/posts/342215212647103/
Gaspare
Sciortino commenta Chavez
Eviterei di fare un modello del "socialismo
del XXI sec." trattandosi esclusivamente di grande opportunità storica sfruttata
abilmente e sapientemente da Chavez e la sua elite in un momento storico nel
quale un settore di dominanti in Venezuela ha capito che non c'era sviluppo e
progresso senza colpire e cominciare a rompere il giogo americano e questi non
si ottenevano senza l'alleanza con gli esclusi e reietti costituiti dalla
maggioranza del popolo. In una parola non c'è sviluppo e progresso in america
latina senza passare all'attacco mentre la potenza predominante del pianeta
sprofonda sempre più nella sua crisi insieme al suo mondo. Non c'è sviluppo e
progresso senza la ricentralizzazione in mano allo stato della grande ricchezza
strategica nazionale, il petrolio (il venezuela è il primo produttore al mondo),
e senza che i suoi proventi vengano redistribuiti a vantaggio della popolazione
costituendo in tale maniera un blocco d'alleanza ben solido ed egemone.
Naturalmente non farei una differenziazione tra socialismo "fallimentare e
autoritario" e socialismo "umanitario e vincente". Questa differenziazione è
antimarxista e non si basa sull'analisi di una data "formazione sociale" con i
suoi soggetti politici e classi, con la contraddizione tra i diversi settori di
dominanti, ognuno appartenente a diverse ragioni d'interesse economico con il
cosiddetto mercato globale, ovvero, in una parola, con gli USA che di tale
mercato detengono ancora le redini. Non si basa sull'analisi dello stato e sui
suoi diversi settori come apparati della coercizione, del controllo sociale e
dell'amministrazione, costruiti nel tempo e sedimentati di tale scontro. Non si
basa sull'analisi delle classi, di quelle al potere e detentrici della ricchezza
e della produzione e di quelle da tutto ciò escluse. Da questo punto di vista mi
appartiene tutta l'esperienza del '900, con le sue ragioni geopoliticamente
differenti da un continente all'altro, da una regione del mondo all'altra.
Insomma senza l'URSS e la sua storia non ci sarebbe la Russia di oggi che ha ben
grandi ragioni economiche, politiche e geopolitiche di contrapporsi agli USA.
Non ci sarebbero la Cina, l'Iran, la Siria, ecc. Senza questi paesi non ci
sarebbe il Venezuela attuale. Se l'elite che governa in Venezuela in alleanza
con il suo popolo, che molti chiamano sistema del "socialismo del XXI secolo"
travisando con ciò Marx e l'esperienza storica nata dal leninismo, decidesse,
approfittando di possibili rapporti di forza più favorevoli, di liquidare una
volta e per tutte i golpisti, con i loro apparati politici, con i loro interessi
economici di reazione al progresso, di servaggio e dipendenza con gli USA,
mettendoli in condizione di non nuocere, avrebbe fatto un servizio all'umanità
intera.
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“Stalin, un altro punto di
vista”. Sintesi del libro di Ludo Martens
Mi rendo conto che far conoscere la vita, la
figura e l’attività di Stalin sia alquanto arduo e “impopolare”, stante le
imposture interessate di nazisti e neoliberisti di ieri e di oggi o la furia
propagandista anticomunista e antistalinista scatenata da decenni. Stalin come
Hitler, ci dicono, rovesciando la realtà storica e il ruolo del rivoluzionario e
del grande statista sovietico e marxista.
Chi è Ludo Martens? Ludo Martens (1946-2011) è
stato uno storico e politico belga, noto per il suo lavoro sull’Africa
francofona e sull’Unione Sovietica. È stato anche il presidente del Partito
Laburista del Belgio. Nel 1968 aderì alle tesi del marxismo-leninismo,sposando
la linea politica del PPC e criticando la deriva revisionistica dell’URSS a
partire dagli anni ’70. Riguardo a Solženicyn e alla sua opera Arcipelago Gulag,
Martens ha dichiarato: “Questo uomo è diventato la voce ufficiale per il 5 per
cento di zaristi, borghesi, speculatori, kulaki, sfruttatori, mafiosi e
Vlasoviani, tutti legittimamente repressi dallo stato socialista” (wikipedia).
Nel 1994 ha pubblicato il volume “Stalin, un altro punto di vista“, Zambon
Editore, tradotto in molte lingue. "Stalin, un altro punto di vista". Sintesi
del libro di Ludo Martens
“Stalin, un altro punto di vista”. Sintesi del
libro di Ludo Martens In occasione dell’anniversario della morte di Stalin (60
anni nel 2013) – comunista e statista vituperato dai nazisti di Hitler
(sconfitti),dai maccartisti USA degli anni ’30, dai guerrafondai di sempre e
dalla propaganda imperialista di ieri e di oggi- ritengo istruttivo sintetizzare
i contenuti del libro di Martens che ricostruiscono, con dovizia di prove, una
storia del tutto mistificata e largamente sconosciuta. Breve biografia del
giovane Stalin (1879-1917)
Stalin nacque il 21 dicembre 1879 a Gori, in
Georgia,da una famiglia povera: il padre calzolaio e la madre figlia di servi.
Ragazzo sveglio e promettente, grazie ad una borsa di studio, ebbe l’opportunità
di studiare in un seminario teologico ortodosso di Tbilisi, da dove fu espulso a
causa dell’attività politica per il Partito socialdemocratico russo. Infatti nel
1898 era entrato nel movimento marxista clandestino dopo aver conosciuto alcuni
deportati politici, spinto ad un’azione concreta dal suo spirito antagonista per
contribuire a modificare la situazione di ingiustizia e di degradazione in cui
erano costrette a vivere le masse popolari sotto il regime zarista. Nel 1900, a
21 anni, venne arrestato e nel 1902 deportato in Siberia con l’accusa di avere
organizzato agitazioni. Nel 1904 riuscì a fuggire e a tornare in Georgia dove
divenne un rivoluzionario e un membro di spicco del partito; arrestato più volte
, riuscì sempre a fuggire. Nel 1912 venne chiamato da Lenin a Pietroburgo nel
Comitato centrale del partito, ma nel 1913, fu nuovamente esiliato in Siberia
dove rimase fino alla cacciata dello Zar, grazie alla rivoluzione sovietica di
Lenin, Stalin ed altri.
Capace organizzatore, dotato di grande energia
e rigore di modi e di metodi, Stalin, strettamente fedele alle direttive di
Lenin, divenne uno dei principali capi della Rivoluzione d’ottobre, del nuovo
stato socialista: e dell’URSS. Il suo ruolo e il suo potere politico crebbero
durante la Guerra civile russa in cui svolse compiti politico-militari di grande
importanza, entrando spesso in rivalità con Lev Trockij. Alla rivoluzione
permanente e globale di Trockij, Stalin opponeva la difesa della rivoluzione
sovietica e leninista in Russia del 1917. Sugli eventi storici di quegli anni
Martens fornisce la sua ricostruzione ben documentata. Sintesi del libro di Ludo
Martens il-libro-di-ludo-martens-stalin-un-altro-punto-di-vista_copertina
“Stalin, un altro punto di vista” – Ludo
Martens
Nella prefazione al libro, Adriana Chiaia,
curatrice, parte dagli ultimi eventi reazionari che hanno investito la Russia di
Eltsin e di Putin, con la disgregazione dell’URSS e la furia iconoclasta
anticomunista che ha colpito perfino simboli, ricorrenze, celebrazioni della
gloriosa rivoluzione d’ottobre. Richiamando i contenuti del libro, sconfessa
tutte le calunnie e le menzogne imperialiste che ci vengono ripetute, non solo
da anticomunisti e fascisti, ma dai revisionisti, europei e mondiali, che
pullulano nei nostri mass-media. Proprio dopo la morte di Stalin, con Chruscev e
Gorbaciov, il revisionismo si diffonde in Russia ed altrove. L’ideologia
revisionista è stata adottata, opportunisticamente, dai partiti comunisti dei
Paesi capitalisti occidentali con conseguenze disastrose, sia per questi partiti
che per le democrazie costituzionali nazionali ed europee (subordinate
all’imperialismo USA, sionista e della UE). Invece gli ideali del
marxismo-leninismo, ai quali Lenin e Stalin si sono ispirati, costituiscono,
oggi come ieri, la speranza e la soluzione liberatoria per milioni e milioni di
persone vittime dell’imperialismo.
Il libro di Martens (360 pagg.) ricostruisce,
con dovizia di documenti e di testimonianze, la storia, il ruolo e l’attività
della rivoluzione sovietica e di Stalin, dai suoi primi anni (1898) fino alla
sua morte (marzo 1953). Non è inutile ricordare che i suoi funerali furono un
evento storico per tutti i proletari, gli sfruttati e i comunisti del mondo che
in Stalin vedevano una grande speranza di lotta antimperialista e socialista. A
Mosca 4,5 milioni di russi seguirono il suo corteo funebre. Tutti illusi ed
ignoranti?
Più che sintetizzare i contenuti del libro,
impresa improba e discutibile per chi legge, mi sembra più utile richiamare, per
punti, i principali fatti che demistificano la propaganda antistaliniana. 1. Il
dissidio Stalin-Trockij
Si tratta di un dissidio ideologico e politico
tra due protagonisti della rivoluzione bolscevica che si sviluppa in un preciso
momento storico, di cui bisogna tener conto con onestà intellettuale. Stalin,
subito dopo la vittoria della rivoluzione antimperialista, è costretto a
contrastare la furia poderosa e rabbiosa di tutte le maggiori potenze
capitaliste, intenzionate a stroncare quella rivoluzione, la prima nella storia
del mondo che diventava l’esempio per altri Stati e continenti del mondo. Non
solo, era in corso in Russia una guerra civile e una grave carestia che, con
l’appoggio esterno, rischiava di liquidare la neonata rivoluzione sovietica. La
guerra civile russa (1918-21) provocò 9 ml di morti, soprattutto a causa della
diffusa carestia: lo Stato sovietico usciva debolissimo e stremato dalla guerra
dello Zar e dalla sua politica. La tesi di Stalin – difesa prioritaria della
neonata rivoluzione in Russia – deriva da questa esigenza vitale e conquista
perciò la maggioranza del partito. E’ davvero incomprensibile tutto ciò?
La tesi di Trockij – rivoluzione mondiale
permanente e globale – per quanto attraente, è apparsa alla maggioranza del
partito astratta, prematura ed impraticabile nel contesto dato, tanto più se la
rivoluzione bolscevica fosse stata annientata dagli attacchi esterni ed interni
(la borghesia russa sconfitta tentava la sua rivincita). Le due tesi, come si
comprende, erano antitetiche, solo una doveva e poteva prevalere,e così fu.
Speculare su questo legittimo e naturale dissidio politico – come fanno
imperialisti, revisionisti e trockisti – è strumentale e inaccettabile, perché
la storia non si fa con i “se” o i “ma”, ma con i fatti e le decisioni
maggioritarie. E’ documentato: Trockij, espulso dal partito per “frazionismo” e
poi esule, ha trovato il suo bersaglio principale, non negli imperialisti
aggressori, ma in Stalin e nella neonata rivoluzione bolscevica. Molti suoi
scritti e discorsi hanno messo in dubbio la possibilità della rivoluzione
sovietica di affermarsi, fino al punto di lanciare accuse personali contro
Stalin e il suo stesso partito, dal quale fu espulso con decisione
maggioritaria. Ma il “frazionismo” di Tockij continuò, mettendo a grave rischio
gli esiti della neonata rivoluzione.
Alla luce della realtà storica Stalin ha avuto
ragione: ha salvato la rivoluzione bolscevica dagli attacchi esterni ed interni,
ha sconfitto il nazismo invasore di Hitler (con 23 milioni di morti), ha
edificato una Russia potente e una forte alleanza di Stati, l’URSS, contenendo e
contrastando l’egemonia invasiva degli USA e della Nato nel mondo. Le lotte
vittoriose di liberazione anti-coloniali, le rivoluzioni comuniste vittoriose
(Cina e Corea del Nord), la diffusione delle idee comuniste nel mondo hanno
avuto nell’URSS di Stalin il primo esempio vincente e un sostegno ideale e
materiale decisivo. E’ forse colpa di Stalin (morto), se le rivoluzioni
socialiste non hanno avuto poi vittorie planetarie, ma un regresso storico? Ciò
non dipende forse dal revisionismo, dai tradimenti e dal potere egemonico
dell’imperialismo armato? Il comunismo rivoluzionario europeo – in Spagna, in
Germania, in Italia (Gramsci) e altrove – è stato stroncato dal nazismo di ieri
e di oggi. Né una rivoluzione socialista può essere “esportata”, deve affermarsi
con le idee e la forza dei suoi cittadini. 2. Il testamento di Lenin
I detrattori di Stalin sostengono che Lenin,
padre della rivoluzione, aveva designato Trockij come suo successore, ma Stalin,
con un colpo di mano, lo sostituì, defenestrandolo. Ma la storia e i documenti
dicono tutt’altro: Stalin, su proposta di Lenin, fu nominato segretario del
partito. Era la sola persona membro del Comitato centrale, dell’ufficio
politico, dell’ufficio organizzativo e della segreteria del partito. Durante
l’ultima fase di vita di Lenin, il partito aveva incaricato Stalin di tenere i
rapporti con lui. Le intenzioni di Lenin malato erano comunque quelle di evitare
una scissione nel partito, centrata su Stalin o Trockij. In ogni caso, a chi
spettava nominare il successore, a Lenin morente o al partito bolscevico? 3. La
industrializzazione e la collettivizzazione socialista
Lenin, a proposito della questione se fosse
possibile edificare il socialismo in un Paese arretrato e non industrializzato,
aveva dichiarato: “Il comunismo è il potere dei Soviet più l’elettrificazione di
tutto il Paese”. E’ esattamente ciò che fece Stalin, sia pure a tappe forzate e
in mezzo a pesanti difficoltà interne ed esterne. Trockij invece esprimeva forti
contrasti su questa politica. Ma se l’industrializzazione del Paese non si fosse
realizzata, in tempi e modi rapidi, il nazismo hitleriano avrebbe occupato la
Russia ed eliminato il socialismo sovietico, con grande soddisfazione delle
potenze imperialiste. Con la industrializzazione rapida e la collettivizzazione
agraria, attuata in mezzo a mille difficoltà e resistenze dei latifondisti
spodestati, in pochi anni(1920-1938) Stalin ottenne miracoli economici ed
industriali clamorosi, ampiamente documentati da dati oggettivi. In 11 anni, dal
1930 al 1940, l’ Unione sovietica ha avuto una crescita industriale media del
16,5%. Il fondo di accumulazione passò da 3,6 ML di rubli (1928) a 23 ML di
rubli.
Altra grande impresa staliniana fu quella della
rapida espansione dei Kolchoz – fattorie collettive di proprietà contadina – che
si contrapposero ai Kulak – aziende agricole di stampo zarista – che volevano
impedirne con ogni mezzo lo sviluppo,anche con la propaganda, il boicottaggio,
lo sterminio dei cavalli, l’incendio dei fienili ed altre azioni criminali, fino
all’uccisione dei militanti bolscevichi. I Kulaki trovarono anche un insperato
sostegno ideologico in Kautsky che criticava la “aristocrazia sovietica” ed
auspicava una “insurrezione contadina contro il regime bolscevico”: le stesse
speranze nutrivano le aristocrazie europee secondo un programma che sarà
adottato nel 1989 dai restauratori del capitalismo in Europa dell’est e in URSS.
Ma l’azione del partito sovietico e di Stalin ebbe successo: i Kolchoz
raggiunsero numeri percentuali ragguardevoli in molte regioni (tra il 60 e il
76%). Una popolazione contadina di 132 ml di persone fu in grado di alimentare
una popolazione urbana di 61 ml tra il 1926 e il 1940.
Ovviamente questi successi furono realizzati
con grandi sacrifici dei contadini russi, come era inevitabile e necessario per
ragioni vitali della l’Unione sovietica. Fu questo grande sviluppo economico e
produttivo che consentì all’URSS di resistere e ricacciare la grande armata
hitleriana, mentre le potenze occidentali “democratiche” rimanevano passive e
rifiutavano ogni aiuto concreto alla Nazione invasa. Peraltro il disegno
aggressivo di Hitler è andato molto vicino a realizzarsi, arrivando fino alle
porte di Mosca. Grazie al prestigio e alle capacità politiche e militari di
Stalin, i nazisti furono ricacciati e iniziò il loro declino in Europa e in
Giappone. Sappiamo dal libro di F. Gaia “il secolo corto” che gli USA sganciano
le due bombe nucleari sul Giappone proprio per evitare che l’imperatore Hirohito
si arrenda ai sovietici, portando così il Paese sotto l’influenza del nemico
comunista. Una ragione analoga riguarda, a mio avviso, l’intervento USA in
Europa (dove basi e militari USA sono oggi insediati): si doveva evitare che il
comunismo europeo ed italiano si saldasse con quello sovietico, mutando così le
sorti del continente. Gli accordi di Yalta del 1945, con la divisione in zone di
influenza USA/URSS, furono imposti da USA/UK a Stalin (in minoranza) che dovette
subirli per evidenti necessità geopolitiche e di rapporti di forza. Eppure
politici e giornalisti nostrani ancora ci dicono che gli USA ci hanno
“liberato”. 4. Le “purghe” e la “repressione staliniana”
Sono questi gli argomenti che vengono evocati
non appena si nomina il nome di Stalin. Lo si nomina solo per dire che era un
“feroce dittatore”, che “ha sterminato migliaia di oppositori per ambizione di
potere”, che “le sue vittime principali sono proprio i veri rivoluzionari della
prima ora”, ecc. ecc. Di cosa si tratta in realtà? Del fatto che una rivoluzione
vittoriosa all’inizio, può essere poi messa in crisi e sconfitta per fattori
interni (tradimento) ed esterni (nazismo, guerra fredda, potenze imperialiste).
La rivoluzione sovietica aveva colpito interessi consistenti delle oligarchie e
dei ceti parassitari della Russia zarista, che non rimasero certo passivi e che
tentarono, a più riprese e con ogni mezzo, di opporsi ad essa, anche
infiltrandosi all’interno del partito e nei ranghi dell’esercito. Sono reazioni
classiste presenti in ogni processo rivoluzionario effettivo della storia umana,
come nella Russia sovietica: esse si appoggiano anche a poteri esterni, nel
tentativo di restaurare l’ordine precedente “sovvertito”.
E’ sintomatico che, dopo la morte di Stalin,
esponenti di primo piano del partito sovietico – come Kruschev, Gorbaciov,
Eltsin, ed altri – promettendo “democratizzazione”, “maggior potere ai soviet”,
“destalinizzazione”, “nuovo impulso rivoluzionario”, ecc. – abbiano di fatto
prodotto la fine dell’URSS e del socialismo sovietico a tutto vantaggio
dell’imperialismo occidentale, con gravissimi danni economici e morali dei
cittadini e dei lavoratori di tutti i Paesi. Un processo involutivo storico che
il plenum del comitato centrale del PCUS aveva avvertito già nel 1937,
nell’imminenza della aggressione nazista, decidendo di organizzare una “grande
purga” contro i nemici della rivoluzione sovietica (come risulta dai documenti
ritrovati nel frattempo).
Si tratta dell’epurazione del 1937-38 decisa
dal partito dopo l’uccisione di Kirov – numero due del partito bolscevico,
ucciso da un sicario iscritto al partito – sulla quale hanno speculato per
decenni nazisti, fascisti, imperialisti occidentali, socialisti e comunisti
“pentiti”, giornalisti, propagandisti di mestiere. Ludo Martens riporta
testimonianze e documenti che dimostrano come il pericolo contro-rivoluzionario
fosse concreto e anche interno al partito stesso. Nel 1936 si arrivò alla
scoperta di legami certi tra i “controrivoluzionari” del partito – Zinov’ev,
Kamenev e Smirnov – e il gruppo anticomunista di Trockij all’estero. Vi furono
anche sabotaggi violenti nelle miniere di zinco del Kazachstan e nelle fabbriche
di Magnitogorsk. Si tennero perciò dei processi nei quali alcuni degli indiziati
riconobbero le loro colpe e furono condannati a morte dai tribunali russi: uno
di questi fu Bucharin che ebbe un rilevante ruolo sovversivo anti-sovietico.
Vi fu anche una cospirazione anticomunista
nell’esercito guidata dal maresciallo Tuchacevskij ed altri comandanti, che
furono processati e giustiziati. Si scoprirono anche comandanti sovietici che
collaboravano segretamente con Hitler, come Vlasov e altri, prima e durante
l’invasione germanica in Russia. Altro grande propagandista antistaliniano è
stato Solzenicyn, letterato zarista osannato dai media imperialisti, per i suoi
libri, come “Arcipelago Gulag”. Ci sono molte “fantasie” sul numero effettivo
delle persone condannate o espulse dal partito nel periodo della “grande purga”
che i nostri libri scolastici reclamizzano. Ad es. Robert Conquest riferisce di
10-12 milioni di internati nei Gulag e 2 milioni di giustiziati. Ma dopo il
crollo dell’URSS i discepoli di Gorbacev diffusero i dati degli archivi
ufficiali sovietici : il numero totale dei detenuti, politici e comuni, in campi
di lavoro risultavano essere 510.307 (25-33% di politici). In due anni i decessi
nei campi furono 115.922 (anche per cause naturali). L’epurazione del PCUS e di
Stalin non mirava ad eliminare la “vecchia guardia bolscevica”, ma solo i
sabotatori della linea del partito : nel 1934 c’erano 182.600 “vecchi
bolscevichi” (iscritti entro il 1920). Nel 1939 se ne contavano 125.000, quindi
la grande maggioranza di loro (69%) era rimasta nel partito, il 31% ne era
uscito, anche perché morti per anzianità.
Credo perciò che i numeri diffusi nel mondo
come “vittime dello stalinismo” vadano adeguatamente rivisti, con buona pace
degli imbonitori occidentali, e valutati nel contesto della situazione storica
di allora. Si tratta comunque di cifre drammatiche, ma la rivoluzione non è ,
purtroppo, un “pranzo di gala”. Queste misure, pur necessarie e radicali, si
mostrarono però perfino inadeguate. Infatti, dopo la morte di Stalin, i
“restauratori” presero il controllo del partito e del Paese: il revisionista
Chruscev e il maresciallo Zukov, suo braccio armato nel periodo dei suoi due
colpi di Stato, nel 1953 (affare Berija) e nel 1957 (affare
Molotov-Malenkov-Kaganovic). Stalin ebbe anche contatti positivi con Mao Tse
Dung, artefice della grande rivoluzione comunista cinese che dalla rivoluzione
russa ha tratto utili insegnamenti, sia nel periodo staliniano che
successivamente. E’ stato anche un teorico del marxismo, della rivoluzione e
della guerra antifascista. 5. Il patto “tedesco-sovietico” del 23 agosto 1939
Altre calunnie ed accuse inventate contro
Stalin i propagandisti occidentali hanno diffuso per decenni, come lo stesso
Stalin aveva previsto prima di morire. Tra queste, l’incapacità e gli errori
commessi durante la invasione nazista e il “patto tedesco-sovietico”, raccontato
come collusione con il nazismo di Hitler.
Ancora un falso : Stalin aveva ben compreso le
idee egemoniche di Hitler fin dalla sua ascesa (1933) ; conosceva la sua potenza
militare e tecnologica e diffidava (giustamente) della ipocrisia e della inerzia
delle potenze occidentali (avverse al comunismo sovietico). Esse si mossero
infatti solo quando furono diretta- mente attaccate nei loro territori ed
interessi. Aveva bisogno di tempo per rafforzare e riorganizzare il suo apparato
militare di difesa/offesa contro Hitler, : quel patto serviva appunto a
guadagnare il tempo appena necessario (come dimostrerà l’avanzata tedesca fino
alle porte di Mosca). Stalin era già in campo contro il nazismo offensivo di
Hitler : in Austria invasa dai tedeschi, mentre Inghilterra e Francia ignoravano
l’appello staliniano per una difesa ; in Cecoslovacchia, dove le potenze
occidentali decisero di consegnare ad Hitler la regione dei Sudeti, senza
combattere. Francia e Inghilterra firmarono anche un accordo di non belligeranza
reciproca con Hitler. Nel maggio del 1939 l’esercito giapponese, alleato di
Hitler, invase la Mongolia, alleata dell’URSS che scese in guerra contro le
truppe giapponesi, sconfiggendole e liberando il Paese. Il giorno successivo
Hitler invase la Polonia con lo scopo di avvicinarsi all’URSSprima di invaderla.
Nel marzo 1939 l’URSS aveva tentato inutilmente
di costruire una alleanza anti-nazista con Francia ed Inghilterra, ma queste
nicchiavano e intanto si accordavano con Hitler perchè invadesse l’URSS, rispar-
miando le loro nazioni. Hitler capì che questi due Paesi avevano minori volontà
e capacità di resistere, per cui le affrontò prioritariamente, proponendo
all’URSS un patto di non aggressione, che Stalin firmò il 23 agosto del 1939,
guadagnando così 2 anni preziosi (fino a giugno 1941) per il rafforzamento
militare ed economico del suo Paese. Ma gli effetti anti-nazisti del patto
siglato da Stalin furono anche altri (citati nel libro).
Ancora una volta aveva visto giusto e la storia
gli ha dato ampiamente ragione. In definitiva Stalin viene calunniato e
demonizzato dai suoi nemici e dalla propaganda occidentale e revisionista per
avere realizzato concretamente le idee di Marx e di Lenin, in una Paese
arretrato ed accerchiato dall’imperialismo. Stalin è anche lo spartiacqua reale
tra comunismo ed anti-comunismo. Non so se la ricostruzione storica di Martens
sia più o meno esatta e condivisibile. Credo però che sia necessario conoscerla
per valutare con equilibrio ed onestà l’opera e la figura di Stalin , sia per la
storia dell’URSS che per quella del mondo intero.
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Goodbye Mr Krusciov
Tutte le falsità del XX congresso del PCUS
di G. Furr -
Introduzione
Lo storico Grover Furr da tempo ci ha abituato a grandi opere che sono la
vera trasparenza (GLASNOST) di un periodo abbondantemente massacrato dai
pennivendoli della storiografia borghese. In questa opera "La meschinità
anti-stalinista / Grover Furr; trad dall’inglese [Eng. V. L. Bobrov]. - Mosca:
Algoritmo, 2007. - 464 pagg. - (Enigma dell’ 37)" egli articola smonta con
l'obiettività garantita dalle fonti primarie ill castello accusatorio alla
figura di stalin in particolare e del marxismo-leninismo in generale, ordito da
Krusciov, nel corso del XX congresso, attraverso il celebre "rapporto segreto".
Naturalmente sono riportati solo alcuni, sebbene significativi stralci.
L'intenzione nostra consiste nella futura traduzione dell'intero libro. Per il
momento vi invito ad una lettura attenta, con occhi liberi da preconcetti
partigiani.
Prefazione di Grover Furr
Un anno fa veniva celebrato il 50° anniversario della "relazione segreta" di
N. S. Khrusciov, esposta il 25 febbraio 1956 presso il XX Congresso del PCUS. Il
giornale londinese “Telegraph” caratterizzò la relazione come "il discorso più
influente del XX secolo". E nell’articolo pubblicato nello stesso giorno da “New
York Times ", William Taubman, il vincitore del Premio Pulitzer nel 2004,
assegnato per una biografia di Khrusciov, chiamò la sua esposizione" un eroismo
degno ad essere segnato" sul calendario degli eventi. Vogliamo qui dimostrare
l’esatto contrario! Di tutte le accuse della "relazione segreta", atta
direttamente a “smascherare” le azioni di Stalin o di Berija, nemmeno una
risulta veritiera. Khrusciov, nel suo discorso, non disse di Stalin e Berija
nulla che si rivelasse d’essere vero. Dimostreremo come il discorso più
influente del XX° secolo (se non di tutti i tempi!) sia un frutto dell’inganno!
Qualche tempo fa mi venne in mente di rileggere la "relazione segreta" di
Khrusciov. Durante la lettura, ho notato un sacco di assurdità in questa
relazione. Qualcosa di molto simile ne aveva osservate anche J. Arch Getty nella
sua fondamentale opera "Le origini delle grandi purghe": "Tra le altre
incongruenze, nelle testimonianze di Khrusciov, vi una evidente sostituzione di
Ežov in Berija. Anche se il nome di Ežov sporadicamente viene menzionato, le
accuse per la maggior parte dei reati e delle repressioni sono stati avanzate
contro Berija; mentre fino al 1938 quest’ultimo occupava la carica del
segretario del partito regionale. Inoltre, in una grande parte dei comunicati
viene detto che il terrore poliziesco cominciò a placarsi proprio nel periodo in
cui, nel 1938, Beria venne a sostituire Ežov. In che modo così spudoratamente a
Khrusciov riuscì di sostituire, nella sua relazione, Ežov, in Berija? Che altro
egli aveva potuto oscurare? In ogni caso, Khrusciov e la dirigenza di allora,
con l’esecuzione capitale di Berija, lo fecero divenire un comodo capro
espiatorio. Naturalmente, l’utilizzo del nome di Berija, per ragioni puramente
opportunistiche, getta l’ombra sulla onestà e sul rigore delle altre
dichiarazioni di Khrusciov.
In sintesi, ho cominciato a riflettere sulla possibilità di rivelare i falsi
della relazione kruscioviana, avvalendomi sui documenti degli archivi sovietici,
una volta chiusi ermeticamente, ma, da poco tempo, disponibili agli storici. Di
fatto, invece, sono riuscito a fare un'altra scoperta. Da tutte le affermazioni
della "relazione segreta" che in modo diretto avrebbe dovuto confermare le
"rivelazioni accusatorie", su Stalin o Berija, non si è trovata nemmeno una
prova. Più precisamente: tutte quelle che sono verificabili, risultano essere
menzognere; tutte dalla prima all’ultima. Per me, come scienziato, una siffatta
scoperta si rivelò sgradevole e persino non auspicabile. La mia ricerca già per
sé, certamente, avrebbe causato la sorpresa e scetticismo, se, si fosse
scoperto, ad esempio, che soltanto un quarto delle "rivelazioni" di Khrusciov o
giù di lì risultassero da essere considerate false .... Alcuni esempi. Era stato
proprio Berija e non Khrusciov a liberare molti prigionieri, anche se non
"milioni", come erroneamente scrive Taubman. Il "Disgelo", l'anniversario del
quale egli propone di celebrare, era iniziato negli ultimi anni di vita di
Stalin. Khrusciov ha limitato il suo potenziale, restringendolo sino ai
materiali dal carattere anti-staliniano. Stalin voleva dare le dimissioni nel
mese di ottobre 1952, ma il XIX Congresso del partito ha rifiutato di soddisfare
la sua richiesta. Taubman sostiene che Khrusciov diceva che lui sia "estraneo"
(non implicato) nelle repressioni; in realtà, però, Khrusciov non solo non aveva
ascoltato le esortazioni (persuasioni) di Stalin, ma ha preso l'iniziativa in
questa materia, chiedendo dei "tetti" (dei massimali) superiori (più alti) sulle
pene capitali che ne avrebbe voluto la direzione staliniana. Taubman afferma:
"Khrusciov in un modo o nell’altro ha conservato la sua umanità". Sarebbe più
esatto di dire il contrario: Krusciov, sembra, come nessun altro a somigliare a
un sicario e a un assassino.
Ma ecco, c’è questo che mi mise immediatamente in ansia e continua a
preoccuparmi sinora: se io mi affermo che ciascuna delle “rivelazioni
accusatorie" di Khrusciov sia falsa, ci crederanno ai miei argomenti? Che il
discorso più influente del XX secolo (se non di tutti i tempi!) sia un frutto
del raggiro, dell’inganno? In sé, già soltanto questa idea sembra semplicemente
mostruosa. I risultati della mia ricerca potrebbero quindi essere sviliti e la
verità messa a tacere. Il punto consiste peraltro nel fatto che l’autore di
queste righe ha acquisito una certa notorietà per il suo rispettoso, anche se
critico atteggiamento verso la personalità di Stalin nonché per la propria
simpatia verso il movimento comunista internazionale, di cui il leader
riconosciuto fu Stalin per decenni. Quando un ricercatore arriva alle
conclusioni che sono troppo coerenti con i suoi preconcetti orientamenti
politici la cosa più prudente da fare sarebbe di sospettare il tale autore di
una mancanza di obiettività, se non di peggio. Ecco perché sarei molto più
tranquillo se il mio lavoro scientifico portasse al risultato che soltanto il
25% delle "rivelazioni accusatorie" di Khrusciov, su Stalin e su Berija, fossero
sicuramente false. Ma dato che, come si è scoperto che tutte le "rivelazioni
accusatorie" di Khrusciov in realtà non sono veritiere, il fardello delle prove
di dimostrare queste falsità ricade su di me personalmente in qualità dello
scienziato. Pertanto, vorrei tanto sperare, che il lettore accoglierà con
l’indulgenza la forma in qualche maniera insolita di presentazione del materiale
in questione. L'intero libro è diviso in due parti distinte, ma in un certo modo
collegate.
Nella prima parte (capitoli 1-9) vengono esaminati dei punti della relazione
khruscioviana considerati la quintessenza delle sue "rivelazioni accusatorie".
Con un breve salto in avanti, si segnala, che l'autore ne riuscito ad
evidenziare sessantuno di tali dichiarazioni.
Ognuna delle "rivelazioni accusatorie", della relazione sarà preceduta da una
citazione della "relazione segreta", dopo di che sarà rivista attraverso il
prisma delle prove storiche, la maggior parte delle quali sono presentate come
le citazioni pervenute dalle fonti primarie e in rari casi da altre fonti.
L'autore si è prefissato il compito di fornire i migliori di elementi di prova
che esistono e sono principalmente tratti dagli archivi di Russia per provare la
natura falsa del discorso con cui Khrusciov aveva parlato in una sessione a
porte chiuse del XX Congresso. La seconda parte del libro (capitoli 10-11) è
dedicata alle problematiche del carattere metodologico ed anche alle conclusioni
scaturite dal lavoro da me eseguito. Una particolare attenzione era stata
prestata alla tipologia delle tecniche di Khrusciov cui le aveva usato
attraverso di tutta la sua relazione falsa e alla revisione dei materiali sulla
riabilitazione dei leader di partito i cui nomi sono stati nominati nel rapporto
segreto.
Capitolo: "Le liste delle fucilazioni"
Khrusciov: "esisteva una pratica viziosa, quando nel NKVD venivano compilate
delle liste degli individui i cui casi erano da considerarsi alla valutazione
presso il Collegio Militare, e per essi veniva predeterminata a priori la misura
di punizione. Tali elenchi venivano inviati a Stalin personalmente da Ežov per
l’autorizzazione delle sanzioni proposte. Nel 1937 - 1938, a Stalin furono
inviate n. 383 di tali elenchi su tanti migliaia di funzionari del partito, sui
cittadini sovietici, sui giovani del Komsomol, sui militari e sui lavoratori
nelle sfere per la gestione dell’economia nazionale, e aveva ricevuto la sua
sanzione" (2) Gli originali di tali elenchi esistono; sono stati preparati per
la stampa e pubblicati prima nei compact-disk e inseguito emesse nell’Internet
come “Le liste delle fucilazioni di Stalin” (1) («Сталинские расстрельные
списки»). Ahimè, il nome stesso è impreciso e tendenzioso, in quanto le liste,
generalmente parlando, non erano state “di fucilazioni”
Gli storici antistalinisti descrivono le liste come delle condanne fabbricate
in anticipo. Tuttavia, proprio i loro studi-ricerche-commenti dimostrano tutta
la inconsistenza di tali accuse. In realtà, nelle elenchi veniva citato il
verdetto di massima pena, che poteva essere imposto dalla Corte giudicante in
caso di condanna dell’accusato, vale a dire che lì veniva indicata la massima
misura possibile di condanna per un preciso reato in quanto tale, e non il
verdetto vero e proprio. Ci sono casi in cui gli individui esistenti nelle liste
non venivano condannati o il verdetto della condanna era assai meno grave della
pena massima per un reato indicata nell’elenco che alla fin fine e salvava
queste persone dalla fucilazione. Ad esempio, citato nella relazione di Khruscev
e che ha vissuto fino al XX Congresso, A.V, Snegov era finito per due volte
negli elenchi - prima volta nell’elenco del 7 dicembre 1937 per la regione di
Leningrado (2) e per la seconda volta nell’ elenco di 6 settembre 1940 (3) In
ambedue i casi, Snegov, era stato segnalato come l’appartenente alla "Categoria
1" di condanna, vale a dire, che nel suo caso si sarebbe potuta ad essere
applicata anche la pena capitale - la fucilazione. Al secondo elenco in cui c’è
il nome di Snegov è allegata una sintesi delle prove accusatorie, e si sente che
di queste prove ne erano molte di più. Tuttavia a Snegov non fu condannato a
morte, ma era stato condannato a una lunga detenzione in un campo di lavoro.
Così, Khrusciov sapeva che Stalin non pronunciava le "condanne", ma prendeva in
visione gli elenchi per possibili obiezioni. A Khrusciov questo era sicuramente
noto, in quanto vi è rimasta conservata una lettera a lui indirizzata dal
Ministro degli Affari Interni dell’URSS, S.N. Kruglov, dal 3 febbraio 1954. In
questa lettera del fatto sui "verdetti fabbricati a priori" non c’è una sola
parola, invece si afferma esplicitamente che: "Negli archivi del Ministro degli
Affari Interni dell’URSS vi sono trovate n. 383 liste "delle persone, che
debbono essere sottoposte al giudizio del Collegio militare della Corte Suprema
dell’URSS". Queste liste (elenchi) erano stati redatti negli anni 1937 e il
1938, l'NKVD, e nello stesso periodo (allora) anche presentate al Comitato
Centrale del PCUS, per l’esame (è evidenziato da me. - GF) (1) (1) Vedi.:
www.memo.ru/history/vkvs/images/intro1.htm.
Non c'è niente di strano che il procuratore arrivava in sede giudicante,
avendo a portata di mano non solo le prove della colpevolezza dell’accusato, ma
anche le raccomandazioni sulle misure della condanna, nel caso di riconoscimento
della colpevolezza. Come viene notato, per all’esame venivano forniti le liste
soltanto dei membri del partito, e mai di quelli che non ne appartenevano. (2)
Vedi: http://stalin.memo.ru/spiski/pg05245.htm (3) Vedi:
http://stalin.memo.ru/spiski/pgl3026.htm
Khrusciov aveva nascosto il fatto che non era stato Stalin, ma fu lui stesso
in modo diretto coinvolto nel redigere degli elenchi con l'indicazione
raccomandata della categoria di punizione. Khrusciov fa riferimento al NKVD,
indicando che gli elenchi sono stati redatti proprio lì. Ma egli accuratamente
cela che il NKVD operava fianco a fianco con la dirigenza locale del PCUS (b) e
che il numero considerevole di persone in quelle liste, probabilmente anche la
maggioranza e maggiormente che nelle altre località dell’URSS, abitasse
esattamente là, dove in quel periodo spadroneggiava Khrusciov. Fino a gennaio
1938, Khrusciov fu il primo segretario dei comitati di partito regionale, nonché
cittadino di Mosca, e più tardi - il primo Segretario del Comitato Centrale di
Partito Comunista (bolscevico) di Ucraina. La sua lettera a Stalin (2) con
richiesta di fucilazione di 6500 persone porta la data:10 Luglio dell’anno 1937;
ma la stessa data è posta sulla "lista delle fucilazioni" di Mosca e della
regione di Mosca (3). Nella lettera a Stalin, Khrusciov conferma la propria
partecipazione alla "troika" (al trio), cui ebbe il potere di selezionare
individui soggetti alle repressioni. Dello stesso "trio" facevano parte: S.F.
Redens il capo del NKVD nella regione di Mosca, e il K. I. Maslov il sostituto
procuratore della regione di Mosca,. (Khrusciov ammette (acconsente?) che "nei
casi necessari" egli sarebbe stato potuto ad essere sostituito dal secondo
segretario, A. A. Volkov). Volkov rimase in carica di secondo segretario del MK
VKP (b) soltanto sino all'inizio del mese di agosto dell’anno 1937, e così smise
ad essere subordinato a Khrusciov, il fatto che probabilmente gli salvò la vita
(4). (1) Vedi: www.memo.ru/history/vkvs/images/intro1.htm. Vedere il Capitolo 5.
www.memo.ru/history/vkvs/spiski/pg02049.htm. (4) Volkov, 11 agosto 1937, è stato
eletto primo segretario del Partito comunista (bolscevico) di Bielorussia, e da
ottobre 1938 a febbraio 1940 occupò la carica del primo segretario del comitato
regionale del VKP (b). A giudicare da tutto, morì di morte naturale nel 1941 o
1942. Una dettagliato racconto su Volkov vi era pubblicato nel giornale
«Советская Белоруссия» (La Bielorussia Sovietica) del 21 aprile 2001, vedi
anche: http://sb.by/article.php?articleID=4039. Maslov è rimasto in carica del
procuratore per la regione di Mosca sino a novembre 1937: nel 1938 fu arrestato
e nel marzo 1939 fu giustiziato con l'accusa di sovversione controrivoluzionaria
(1). La stessa sorte toccò K. I. Mamontov (2), cui dapprima ha preso il posto di
Maslov, e poi fu fucilato con egli nello stesso giorno. Non sfuggì la pena
capitale neppure Redens: nel novembre 1938 fu arrestato come partecipante ad un
«gruppo sovversivo e di spionaggio polacco», fu processato e per il verdetto
della corte giustiziato il 21 gennaio 1940. Sulle pagine del suo libro, Jansen e
Petrov menzionano Redens come uno degli "uomini di Ežhov" (3). Durante il
cosiddetto "disgelo” Redens, su insistenza di Khrusciov, fu riabilitato, ma con
tale flagranti violazioni delle normative legislative che nel 1988 la
riabilitazione di Redens era stata abolita (revocata) (4). (3) Jansen, Petrov,
pagg. 56, 165 (4) Riabilitazione: Come è stato. T.Z. Metà degli anni 80 - 1991.
- Mosca: MFD, 2004, pag. 660. In altre parole, ad eccezione di Volkov, tutti i
più stretti collaboratori di Khrusciov cui presero parte nelle repressioni a
Mosca e nella regione di Mosca, ebbero le pene (punizioni) degne delle loro
azioni. Ma in quale modo riuscì a sfuggire la punizione Khrusciov? Mistero….
Capitolo: Le disposizioni del Comitato Centrale del PCUS (B) al Plenum del
gennaio (1938)
Khrusciov: "Ben noto risanamento nelle organizzazioni del partito apportarono
le disposizioni del Comitato Centrale del PCUS (B) al Plenum del gennaio (1938).
Tuttavia le repressioni continuavano anche nel 1938 "(5). (5) Il culto della
personalità ... / / Izvestia Comitato Centrale PCUS. 1989, №3, p. 144.
Qui Khrusciov soltanto fa allusione (ma più chiaramente articola il suo
pensiero più tardi), che il volano delle repressioni veniva azionato proprio da
Stalin. Ma, come abbiamo già visto, le attestazioni (gli elementi di prova)
documentate, al contrario, ci stanno ostinatamente dicendo che le repressioni
venivano gonfiate da Ežov e da un gruppo dei primi segretari, cui Khrusciov
prese parte come uno dei principali "repressore”. Stalin e la parte della
Direzione centrale del PCUS (b) che non fu coinvolta alla cospirazione, cercava
di ridurre e mettere sotto il controllo tutto lo svolgere delle repressione.
Alla fine, sono riusciti a ottenere pene severe per coloro contro cui sono stati
ottenuti prove del coinvolgimento nella fabbricazione dei casi atti ad
eliminazione delle persone innocenti. Getty e Naumov fecero un'esauriente
analisi della documentazione (dei materiali) del Plenum del PCUS (b) del Gennaio
(1938) (1). Dalla loro approfondita ricerca, risulta, che Stalin e i leader’s
del Comitato Centrale del Partito Comunista (Bolscevico) furono estremamente
preoccupati per il problema delle repressioni incontrollate. Proprio per questo
motivo e in sede di questo plenum, Postyshev era stato rimosso dal suo incarico.
Un esame approfondito di questa materia si trova nel libro di R. Thurston (2) in
cui si conferma il fatto che Stalin stesse cercando di tenere a freno i Primi
segretari, l'NKVD e le stesse repressioni in quanto tali. Al Plenum di Gennaio
(1938), Malenkov e, ovviamente, facendo eco a Stalin, fece una relazione sulle
espulsioni non autorizzate in massa dal partito comunista dei compagni nella
regione di Kuibyshev. Perseguendo i nostri scopi, come i fattori più
significativi dovremo considerare soltanto che la colpa di questi atti, come già
accennato, era stato scaricato su Postyshev. La risoluzione del Comitato
Centrale PCUS (B) del 9 Gennaio 1938 accusò egli di "errori", per cui ricevette
la nota di biasimo ed era stato sollevato dai suoi incarichi del primo
segretario del Comitato Regionale di Kuibyshev. I. A. Benediktov, che ebbe
incarichi chiave negli anni 1938-1958, nella gestione dell'agricoltura dell'URSS
(commissario del popolo per l’agricoltura, e dopo il ministro dell'agricoltura)
che spesso partecipò alle riunioni del Comitato Centrale e del Politburo,
sottolinea, dicendo che al Plenum di Gennaio, Stalin cominciò a correggere le
illegalità commesse nel corso delle repressioni. Nel gennaio dell’1938, a capo
del Commissariato del Popolo degli Affari Interni della Repubblica Socialista di
Ucraina (RSS Ucraina) ebbe carica A. I. Uspenskij, ma entro la fine dello stesso
anno a Mosca era divenne noto come criminale. Avvertito da Ežov, il 14 Novembre
dell’1938, Uspenskij sfuggì all’arresto che incombeva sulla sua testa, finse il
suicidio e passò in clandestinità.
(1) J. Arch Getty end Oleg V. Naumov. The Road to Terror: Stalin e
Self-Destruction of the Bolsceviks, 1932-1939. (Yale University Press, 1999),
pag.498-512. (2) R. Thurston. Life and Terror in Stalin’s Russia (Vita e terrore
nella Russia di Stalin), 1934-1941. (Yale University Press; 1998), pag.109, 112;
vedi sua la parte 4.
(2) A proposito del culto della personalità ... / / Izvestia Comitato
Centrale PCUS. 1989, № 3, p. 143. Fu dichiarato in quanto ricercato per tutta la
Russia ed arrestato soltanto il 14 aprile del’1939. Secondo alcune informazioni,
Ežov aveva origliato una conversazione telefonica fra Stalin e Khrusciov, dopo
di che e avvertì Uspenskij. Indipendentemente dal fatto in che cosa consistette
il reato personale di Uspenskij, la responsabilità per la fabbricazione delle
accuse contro le persone innocenti, lui le deve condividere con Khrusciov, in
quanto ambedue erano i membri della stessa "trojka" (1). Nei materiali (nei
documenti) degli interrogatori di molti arrestati vi è detto che, seguendo le
istruzioni di Ežov, Uspenskij falsificava i dossier su vasta scala (2). (1) N.
Krusciov. Tempo. Persone. Power. Book. 1. Parte 1. - Mosca: Moscovskie novosti
(Notizie di Mosca), 1999, pag.172-173. (2) Jansen e Petrov. pag. 84, 148.
Capitolo: "La banda di Berija"
Khrusciov: "Quando Stalin diceva che qualcuno dove essere arrestato si doveva
prendere per fede che questo sia un "nemico del popolo". Mentre la banda di
Berija, che spadroneggiava nel KGB (Comitato per la Sicurezza Statale ovvero in
russo Комитет Государственной Безопастности), usciva dalla pelle per dimostrare
la colpevolezza delle persone arrestate e la correttezza dei materiali
(accusatori) da esso fabbricati” (3). È una bugia. R. Thurston scrive
dettagliatamente del fatto, come Khrusciov aveva travisato il senso di quello
che era effettivamente accaduto quando Berija divenne il capo del NKVD (4). Il
suo arrivo (nel NKVD), secondo le parole dello storico, generò "l’impressionante
liberalismo”; cessarono le torture, ai prigionieri, furono restituiti i loro
legittimi diritti legislativi. I complici di Ežov persero i loro incarichi,
molti di essi furono accusati ed ebbero dei processi da cui giudicati come dei
colpevoli aver effettuato delle repressione illegali. In conformità con la
relazione della commissione a capo di Pospelov, gli arresti scesero bruscamente:
negli anni 1939-1940, il loro numero era sceso al più del 90% rispetto agli anni
1937-1938. Il numero delle esecuzioni nel 1939-1940 era sceso al disotto dell'1%
al confronto degli anni 1937 - 1938. (5) Il Berija prese su di sé la gestione
del Commissariato popolare per gli affari degli Interni nel novembre 1938, e,
quindi, il suindicato lasso di tempo combacia perfettamente col periodo,
in cui tutte le redini del governo "degli organi (NKVD?)" sono state
concentrate nelle sue mani. Krusciov aveva usato la relazione della Commissione
di Pospelov per il suo "rapporto segreto", e quindi non poteva di non sapere
questi fatti, ma decise di non farne alcun riferimento un modo da non dare
all’auditorio benché minimo motivo di dubitare nella interpretazione proposta da
lui degli eventi storici. Proprio mentre Berija era stato a capo del NKVD vi
ebbero luogo dei processi a carico di quelli che furono accusati di illeciti
repressioni, di esecuzioni in massa, di torture e di falsificazioni delle cause
penali. Krusciov lo sapeva, ma anche questo fu tenuto nascosto. (1) Krusciov.
Tempo. Persone. Power. Book. 1. Parte 1. - Mosca: Notizie di Mosca (Московские
новости), 1999, pagg.172-173. (2) Jansen e Petrov. §. 84, 148. (3) A proposito
del culto della personalità ... / / Atti del Comitato Centrale PCUS. 1989, № 3,
§. 144. (4) Robert Thurston. Vita e terrore ... §. 118-119. (5) Riabilitazione:
Come è stato. Volume 1. pag. 317. Vedi anche: www.idr.ru/2/7. shtml.
http://scintillarossa.forumcommunity.net/?t=42839866
Intervista a Grover Furr su Stalin rilasciata il 18
luglio2006 alla rivista RevLeft
traduzione di Davide Spagnoli (REDAZIONE NOICOMUNISTI)
Grover Furr Grover Furr è professore presso la Montclair State University, è
attivo nella sinistra radicale della MLA ed è l'autore di diversi saggi, incluso
“Lettura (a)critica e argomentazioni dell'anticomunismo”, e “Stalin e la lotta
per le riforme democratiche”. I suoi lavori hanno gettato una luce nuova
sull'era di Stalin e sono stati attaccati dai critici di destra, come David
Horowitz. D. Molte persone pensano che il maggior problema sotto Stalin fosse la
“non sufficiente democrazia”. Come rispondi a questo punto di vista? R. Per
prima cosa grazie per avermi invitato ad esprimere il mio punto di vista su
questo importante problema. Per tornare alla domanda penso sia futile parlare di
“democrazia”, nel senso greco di “potere del popolo”, fino a quando esisterà una
società di classe. La classe dominante dominerà e non permetterà mai di venire
rimossa dal potere in modo pacifico. Ricordate il Vecchio Sud schiavistico?
Quando non riuscirono più a controllare il Congresso si dichiararono
indipendenti: rifiutarono di mollare il potere dello Stato senza una guerra.
Così ogni Stato è una dittatura di una classe su un'altra. Nei paesi capitalisti
è la classe capitalistica che esercita la dittatura. Nel suo magnifico lavoro
“Stato e rivoluzione” Lenin spiega l'ambiguità della parola “democrazia”, e
credo che tutti quanti faremmo bene a studiarla, dato che ha una certa
debolezza: ad esempio in essa non c'è niente sulla necessità di un Partito
comunista che ci guidi verso la Rivoluzione! Ma allo stesso tempo è una parola
brillante, fondamentale per comprendere il mondo in cui viviamo. Come Lenin,
anche Stalin voleva una forma di democrazia rappresentativa diffusa, nello
stesso modo in cui la parola “democrazia” è stata interpretata nei paesi
capitalisti dal XVIII secolo. Nei miei due saggi - in realtà si tratta di un
lungo saggio diviso in due parti - entro nei i dettagli di questo fatto tenuto
nascosto a partire dai giorni di Khrushchev. Avrebbe potuto funzionare? È un
peccato che né Stalin né i suoi sostenitori siano riusciti a realizzarla, perché
così avremmo potuto avere quella ricca esperienza da cui imparare tanto in
positivo quanto in negativo. Ma sicuramente Stalin non avrebbe mai permesso che
il socialismo venisse deposto per via elettorale: no di certo.
D. Stalin è stato accusato dell'assassinio di Kirov. Questa accusa ha una
qualche credibilità? R. Questa storia è stata ampiamente diffusa tanto in
Occidente quanto in Russia dagli autori anticomunisti e dagli avversari di
Stalin: le fonti originali di questa storia pare siano Trotsky e Alexander
Orlov, in seguito diffusa da Robert Conquest (“Stalin and the Kirov Murder”,
1990), uno che non rifiuta mai una storia contro Stalin, non importa quanto
forzata sia, ed Amy Knight (“Who Killed Kirov?”, 2000), i cui pregiudizi
anticomunisti la portano a spegnere i mozziconi della verità nel posacenere.
È una competa menzogna e lo è sempre stata. Non c'è mai stata una prova a suo
sostegno, ed anzi Stalin era molto affettuoso nei confronti di Kirov, che era
anche un solido sostenitore di Stalin. Nel frattempo tanto Trotsky quanto Orlov
hanno dimostrato di aver mentito. Nel suo famigerato “Rapporto segreto” del 25
febbraio 1956, Khrushchev insinua un sospetto di colpevolezza di Stalin
nell'assassinio di Kirov, ma non muove mai un'accusa diretta. Diverse
commissioni sotto Khrushchev, due o forse tre, ed anche dopo di lui, hanno
cercato di trovare prove per accusare Stalin ma non vi sono mai riuscite. La
principale ricercatrice russa sull'assassinio di Kirov, Alla Kirilina, nota per
le sue posizioni contro Stalin, ha scritto un paio di volumi sulla questione:
“Rikoshet” e “Neizvestnyi Kirov”, che include una versione aggiornata del volume
precedente, ma lei stessa ammette che Stalin sembra non avere niente a che fare
con l'assassinio di Kirov.
Curiosamente la principale versione che ora viene propagandata dagli
avversari di Stalin, è che Nikolaev, la persona che indubitabilmente sparò a
Kirov e per questo venne giustiziato, era un “assassino solitario.” Accettare
questa versione significa rifiutare le confessioni degli imputati al primo
processo di Mosca del 1936, il processo a Zinoviev e Kamenev, in cui essi stessi
dicono di avere pianificato e portato a termine l'assassinio di Kirov. Ma gli
anticomunisti sono smaniosi di credere che le confessioni, benché affatto
mancanti di prove, sono in qualche modo “false”! Non c'è alcuna prova che
Zinoviev e Kamenev stessero mentendo, e quanto confessano è coerente con le
testimonianze al secondo ed al terzo processo di Mosca del 1937 e del 1938.
Naturalmente non conosciamo i dettagli perché il governo russo ha ostinatamente
rifiutato di rendere pubbliche le voluminose indagini, o anche di renderle
accessibili ai ricercatori. Se Stalin fosse stato colpevole si può star certi
che, nell'atmosfera della propaganda contro Stalin che regnava sotto Khrushchev,
e poi ancora sotto Gorbachev e Eltsin, le avrebbero certamente propagandate.
Le prove disponibili sono così scarse che è possibile ogni scenario, ma penso
che Nikolaev probabilmente non fosse stato specificamente incaricato
dell'assassino di Kirov, ma, piuttosto, questa persona mentalmente instabile era
l'ideale perché credesse di essere stato offeso da Kirov. Nel 2003 in Russia
venne pubblicata una breve parte dell'interrogatorio di Vanya Kotolynov che
ammetteva la “responsabilità morale” nell'assassinio di Kirov, dato che avevano
avvelenato la mente di Nokalaev contro Kirov (Lubianka-Stalin…1922-1936, No.
481). In frammenti di altre testimonianze Kotolynov ripete quest'ammissione
mentre nega di aver personalmente istruito Nikolaev in qualche modo.
Milda Draule La storia che Kirov avesse avuto una relazione sentimentale con
la moglie di Nikolaev, Mil’da Draule, sta ancora girando: che sia questa l'esca
avvelenata che il gruppo di Zinoviev e Kamenev raccontarono a Nikolaev per
spingerlo ad uccidere Kriov? Kirilina ha pubblicamente detto che non crede che
questa vicenda sia accaduta (“Argumenty I Fakti” – Peterburg. Dic.1, 2004) e
difatti la Draule può aver aiutato il marito Nikolaev nell'assassinio, come
apparentemente sembra aver confessato. In breve: * Ancora non sappiamo quanto
conoscesse il governo sovietico negli anni '30 perché il governo russo si
rifiuta di rendere pubblico il materiale investigativo. * Allo stato dei fatti
non c'è ragione per credere che Zinoviev, Kamenev e gli altri imputati al
processo di Mosca del 1936 abbiano mentito quando confessavano di aver
pianificato l'assassinio di Kirov, con Nikolaev nella parte dell'assassino. *
Soltanto presupponendo l'esistenza di una qualche cospirazione di questo tipo ci
possiamo rendere conto delle prove di cui disponiamo, anche se, lo ripeto, è
stato nascosto così tanto materiale che nessuna può essere presa per certa. * La
linea del partito degli anticomunisti, che cioè non è esistita alcuna
cospirazione, che Nikolaev ha agito per conto suo, e Zinoviev, Kamenev e gli
altri sono stati in qualche modo forzati o persuasi a rendere una falsa
confessione sull'omicidio Kirov, non è sostenuta da un qualsiasi straccio di
prova e, a mio avviso, questa è la storia meno probabile di tutte. In breve: Le
prove che a tutt'oggi abbiamo corroborano la teoria che Zinoviev, Kamenev, ed un
gruppo dei loro sostenitori, siano stati responsabili di aver spinto Nikolaev ad
assassinare Kirov. Ogni valutazione obiettiva delle prove ci spinge a giungere a
questa conclusione. Se e quando dagli archivi dell'ex URSS, tenuti ancora
strettamente segreti, diverranno disponibili, ed avremo nuove prove, saremo
pronti a cambiare le nostre opinioni in conformità a quanto emergerà. Gli
anticomunisti sono riluttanti a farlo perché accettano solo “storie dell'orrore”
che mettano in cattiva luce Stalin, i bolscevichi e i comunisti in generale. Ma
questo non significa che siano tutti dei bugiardi, sebbene qualcuno, come
Conquest, lo sia, in generale sono accecati dai loro pregiudizi.
Costruzione diga sul Dniepr D. Se si potessero riassumere i principali errori
e contributi di Stalin, quali pensate possano essere? R. Tutti commettiamo degli
errori e così penso che Stalin debba averne fatti alcuni, ma non penso sia
questo il punto dove volete arrivare. Stalin ha provato sul serio a seguire le
linee guida di Lenin, aveva per lui un enorme rispetto e definiva se stesso
sempre come un “allievo di Lenin.” Il problema era che Lenin non sapeva come
fare per andare dalla situazione in cui l'URSS si trovava nel 1921 dopo la
guerra civile, ad una società comunista. Nessuno lo sapeva! Marx ed Engels non
avevano predisposto alcun modello per questo passaggio, e neppure Lenin ne
aveva. Lenin e Stalin erano persone brillanti, che hanno sinceramente dedicato
se stessi al comunismo, devoti alla classe operaia. Non avevano ambizioni
personali ad eccezione di quella di provare a realizzare quella società di
giustizia ed eguaglianza che il movimento comunista ha sempre rappresentato, e
di cui i lavoratori del mondo intero hanno disperatamente bisogno oggi come
ieri. Nonostante gli sforzi titanici, gli immensi sacrifici e le grandi
conquiste, alla fine, il comunismo ha fallito. Trotsky prima e Khrushchev in
seguito, hanno detto che questa sconfitta era dovuta ai fallimenti personali di
Stalin, cioè, in altri termini, se al posto di Stalin ci fosse stato qualcun
altro tutto sarebbe andato bene. Penso che tutto questo sia sbagliato. Il
problema era la linea politica dei Bolscevichi, non solo di Stalin, ma anche di
Lenin, di Marx e di Engles. Stalin e, in generale i bolscevichi, avevano una
concezione socialdemocratica del socialismo. Si trattava naturalmente della
concezione dell'ala sinistra, quella destra, la SPD e i menscevichi, avevano una
concezione economica estremamente deterministica: il capitalismo doveva svolgere
il proprio compito storico d'industrializzazione, sviluppo ecc. Nel frattempo il
capitalismo stesso non poteva essere abbattuto, infatti andava coltivato perché
era ancora “progressivo”. Una volta che si decide di conservare il denaro, i
salari e la disuguaglianza, che vanno inscindibilmente assieme, unitamente ai
benefici sociali a favore della classe operaia, si ha una società che è molto
simile ad una società borghese socialdemocratica. Quest'idea del socialismo di
sinistra è compatibile con Marx e Lenin, come qualsiasi altro concetto, ed è
probabilmente la versione più compatibile con quello che Marx, Engels e Lenin
hanno scritto. I bolscevichi hanno anche provato a governare assieme ai partiti
socialisti d'opposizione, e sono stati proprio i Socialisti Rivoluzionari e i
Menscevichi che li hanno traditi. I Socialisti Rivoluzionari poi hanno tentato
di abbattere i bolscevichi cercando di assassinare Lenin ed alcuni altri
dirigenti bolscevichi. Non erano interessati a nient'altro perché la loro
concezione del socialismo prevedeva che il capitalismo dovesse assolutamente
completare il proprio lavoro, e qualsiasi cosa più avanzata sarebbe stata
prematura, condannata al fallimento, ad essere una “dittatura” ecc. Il pensiero
di Trotsky è una versione di quest'idea con qualche piccola increspatura, ma, in
realtà, dopotutto non molto differente e neanche di “sinistra”. In sostanza si
tratta di una versione più disfattista, a cavallo tra la concezione bolscevica e
quella menscevica, proprio come in vita è stato lo stesso Trotsky: a cavallo tra
i due partiti. Ciò che ho mostrato nel mio articolo diviso in due parti, era che
Stalin si era impegnato in un concetto di democrazia politica di tipo
socialdemocratico. Non ho usato questo termine, e certamente avrebbe funzionato
in modo diverso con un Partito comunista alla direzione dello Stato o con i
capitalisti nello stesso ruolo, come in una classica socialdemocrazia. Ma la
concezione della democrazia era la stessa. La Costituzione di “Stalin” del 1936
si basava su un'idea di democrazia nota nel capitalismo progressivo: eguaglianza
universale e voto segreto, democrazia rappresentativa, competizione dei
candidati. Quest'ultimo punto non venne mai attuato, eppure era quanto previsto
dalla Costituzione. Ed è per questo che sostengo che i “socialisti” di oggi sono
"Stalinisti.” Mettiamola in un altro modo: ciò che ha condannato il socialismo
sovietico è la stessa cosa che mantiene basso anche il socialismo post
sovietico, che basa se stesso su una concezione socialdemocratica del
socialismo. I “socialisti democratici” condividono questa concezione del
socialismo che ha unito Stalin, Trotsky, i Socialisti Rivoluzionari e i
Menscevichi. Il Partito comunista cinese sostiene ancora il suo stato e la sua
economia fascista con la retorica socialdemocratica: "il capitalismo non ha
ancora compiuto la sua missione storica." Tutti quanti abbiamo pensato che
Stalin "si alleò con Hitler", sia pubblicamente che segretamente. Ma chi era
realmente alleato con Hitler? La destra e i trotskyisti! Bukharin, Radek,
Piatakov, ed altri ancora. Tutte le prove di cui oggi disponiamo sostengono
questa conclusione, caldamente negata da tutti i ricercatori anticomunisti e,
naturalmente, dai trotskyisti. Tutti abbiamo pensato che nel 1937-38 "Stalin
abbia ucciso centinaia di migliaia di persone". Ma cosa avvenne in realtà? Il
responsabile fu Ezhov coperto dai suoi sostenitori di destra nella leadership
del Partito. E lo stesso Ezhov fece parte di una cospirazione di destra che
progettava di rovesciare il governo di Stalin, collegato direttamente con
Bukharin, Trotsky ed altri ancora. (La recente pubblicazione della testimonianza
dello stesso Ezhov e di un suo uomo della destra, Frinovsky, lo confermano, ed
alcuni virulenti ricercatori anticomunisti che hanno visto lo stesso documento
anni fa, lo considerano autentico) Così è stata la “piacevole e democratica” ala
destra di Bukharin a far uccidere tutte queste persone innocenti, ben sapendo
che lo erano, e solo per coprire le tracce della loro cospirazione. Questo è
quanto accadde. Ma oggigiorno quanti “Marxisti” vogliono sentirlo? O sono in
grado di ascoltarlo? Per non parlare poi degli aperti anticomunisti. Quindi, per
riassumere, l'URSS ha mancato l'obiettivo di raggiungere il comunismo, non a
causa del fallimento personale di Stalin o di Lenin, ma perché era sbagliata la
loro idea di socialismo. Avrebbero potuto saperlo all'epoca? Non vedo come.
Possiamo vederlo ora, ma soltanto grazie al loro eroico tentativo. In
retrospettiva possiamo vedere quanto ha funzionato o meno del loro tentativo,
grazie alla loro esperienza. Naturalmente non potevano averne conoscenza che in
seguito. Negli ultimi anni della sua vita Stalin stava preparando l'URSS verso
lo stadio successivo, il comunismo. Il passaggio al comunismo è stata la parola
d'ordine del XIX ° Congresso del Partito nel mese di ottobre del 1952. Ho appena
terminato di leggere le relazioni del Congresso sulla Pravda.
Soldati sovietici ebraici D. Stalin è stato criticato per il suo trattamento
delle minoranze nazionali. Queste critiche sono fondate? R. Per niente. Stalin
era profondamente anti-razzista. Naturalmente il razzismo non era stato
completamente sradicato nell'URSS di Stalin,ma non lo fu neanche in seguito.
Certamente durante l'epoca di Stalin non c'è mai stata una politica razzista da
parte del Partito bolscevico e di Stalin. Per esempio, lo scrittore ed ex
dissidente sovietico e feroce antistalinista Zhores Medvedev, nel suo libro
edito nel 2003, “Stalin and the Jewish Problem”, insiste sul fatto che Stalin
non era un antisemita. Medvedev scrive che Stalin era sì un antisionista, ma è
Medvedev stesso che insiste che Stalin, ad ogni altro riguardo, non era un
antisemita. Come la Russia anche l'URSS era uno stato multinazionale ed ognuno
aveva una propria identità nazionale. Le persone delle piccole nazionalità,
normalmente definite da una lingua differente, godevano di certi diritti in
certe aree, proprio in quanto membri di quella certa nazionalità. Ciò era causa
di alcuni tipi di problemi, ma è stato il miglior tentativo che ovunque sia mai
stato fatto per tenere unito un grande Stato con molte lingue e culture diverse.
Una delle ragioni per cui Khrushchev ed il resto del Presidium hanno ucciso
Lavrentii Beria pochi mesi dopo la morte di Stalin, era che Beria era fortemente
critico nei confronti degli atteggiamenti sciovinisti dei dirigenti del Partito
nei territori degli stati baltici divenuti sovietici nel dopoguerra: Estonia,
Lettonia e Lituania e l'Ucraina occidentale. La politica di Beria, come ho
sottolineato in un mio articolo, era molto simile a quella di Stalin. Lo
sciovinismo russo è peggiorato progressivamente dopo la morte di Stalin. Ma non
è mai arrivato al punto in cui è ora. Questa è una citazione di un ribelle
Ceceno, pubblicato sul New York Times nel 2002: "I veterani ceceni come Basayev,
alle volte facevano riferimento ad un comune passato sovietico quando
comunicavano con i russi. Maksim Shevchenko, un giornalista russo che durante la
prima guerra di Cecenia ha intervistato Basayev di frequente, evocava questo
richiamo che l'intervistato, che portava una lunga barba da mussulmano radicale,
faceva: "Spegneva il registratore e diceva, 'Lei pensa che sia sempre stato un
guerrigliero barbuto con un mitra?' ricordava Shevchenko che, all'epoca,
scriveva per il quotidiano 'Nezavisimaya Gazeta', " 'Ho anche cantato la canzone
che recita “Il mio indirizzo non è una casa in una strada, ma l'Unione
sovietica”, quelli erano bei tempi!' ” (“With Few Bonds to Russia, Young
Chechens Join Militants.” NYT November 19, 2002.)"
Gori Georgia, statua davanti al museo di Stalin D. Puoi spiegare il tuo punto
di vista sul culto della personalità? R. Il “culto della personalità” dei leader
è stata un grosso fardello attorno al collo del movimento comunista! Stalin si
oppose a questo “culto” che raggiunse proporzioni disgustose, ma non fu in grado
di porvi termine, e, alla fine, vi si adeguò. Stalin sapeva quanto in realtà
fosse dannoso e avrebbe dovuto opporsi più fermamente. All'inizio Mao Tse-tung
vi si oppose, ma in seguito cambiò idea e lo incoraggiò. I culti di Stalin e di
Mao sono stati usati dai disonesti per coprire le proprie divergenze politiche.
I culti della personalità furono un vero disastro. Per tutta la sua vita Trotsky
ha alimentato attorno a se un “culto” di adulazione, e i gruppi trotskyisti
conservano ancora un “culto” attorno a Trotsky: ne citano costantemente i lavori
come se offrissero risposte eternamente valide alle questioni relative alla
costruzione del comunismo, e non lo criticano mai. Penso ci siano buone prove
che in URSS il “culto” di Stalin venne promosso principalmente dalle opposizioni
dentro il Partito stesso, penso a gente come Bukharin e Radek, ma fu in grado di
crescere in parte perché tutti i leader bolscevichi costruirono un “culto” di
Lenin dopo la sua morte, avvenuta nel Gennaio 1924. Lenin era brillante e tutti
i bolscevichi guardavano a lui come ad un modello di leadership. Quando Lenin se
ne andò, volevano, anzi, avevano bisogno di credere che Stalin sarebbe riuscito
a capire “la giusta via” per costruire il socialismo e, in seguito, il comunismo
nelle condizioni date in URSS. Lenin stesso aveva assunto un atteggiamento
simile nei confronti di Marx e di Engels. Una delle grandi conquiste di Lenin,
era di salvare Marx dai tentativi da parte dei socialdemocratici tedeschi di
farne un filosofo “riformista”, invece di un rivoluzionario anticapitalista. Ma
nel far questo Lenin sosteneva che gli scritti di Marx non contenevano
contraddizioni, mentre, naturalmente, c'erano passaggi a cui i socialdemocratici
tedeschi ed i menscevichi russi si attaccavano per difendere la loro linea
politica ed economico-deterministica riformista. Così c'era qualcosa di nuovo
nella storia dei “culti” nel movimento marxista: quelli attorno a Stalin, e a
Trotsky tra i suoi seguaci, erano nuovi, perché i leader oggetto del culto erano
ancora in vita. Visto che i bolscevichi furono i primi, forse potevano avere
qualche scusante per gli errori che fecero o, nel caso del “culto” attorno a
Stalin, tollerarono. Ma, certamente, oggi non ci possono essere scuse. Data
l'esperienza con i “culti” dei “grandi leader”, è chiaro che sono negativi. I
comunisti devono essere modesti, dediti completamente al proprio ideale e
instancabili lavoratori. Marx, Engels, Lenin, e Stalin erano realmente così! Ma
la miglior leadership del mondo può essere messa a repentaglio dal “culto”.
Incidentalmente il termine russo “культ личности (kul’t lichnosti)”,
generalmente tradotto come “culto della personalità”, potrebbe essere tradotto
meglio come “culto del grande uomo”. Dopo il “Rapporto segreto” di Khrushchev,
in URSS iniziò a circolare “Был кул'т, но был и личност (Byl kul’t, no byl i
lichnost)”, un modo di dire che pressapoco significa “Sì c'era un culto, ma
c'era anche un grande uomo”. Stalin era un grande uomo, e così Mao Tse-tung.
Diedero un grande contributo alle conquiste fatte dalle classi operaie sovietica
e cinese. Eppure i “culti” attorno a loro erano molto dannosi! Che cosa si può
dire sui “culti” attorno ai leader che hanno dato un così grande contributo? I
“culti” attorno a queste grandi figure sono stati negativi. Questo dovrebbe
convincerci della necessità di essere modesti se non ne fossimo già convinti in
anticipo! Come lo scherzo del vecchio proverbio, "Dobbiamo essere un sacco
modesti!" [Rivolto ai lettori ndt] Le vostre idee sulla difesa della verità sono
molto importanti. Che consiglio dareste a coloro che cercano di indagare la
storia e capire la verità? Marx diceva: "Mettete in dubbio tutto". Secondo la
mia esperienza tutti i ricercatori e gli scienziati trovano molto difficile
mettere in discussione le proprie idee preconcette. I difensori del capitalismo,
del “liberalismo”, del “conservatorismo”, ecc., non possono farlo, non è
realmente compatibile con la loro ideologia. Quindi devono o cambiare la loro
ideologia o tenerla, e così ignorare la verità. Nel Manifesto Marx ed Engels
scrivono: “I proletari non hanno nulla da perdere in essa fuorché le loro
catene. E hanno un mondo da guadagnare.” E questo significa che non dobbiamo mai
aggrapparci a nessuna idea preconcetta e avere paura di guardare risolutamente
in faccia la realtà, e basare su quest'atteggiamento mentale le nostre azioni.
Ma storicamente i marxisti-leninisti sono stati molto riluttanti, se non del
tutto restii, a mettere in discussione i grandi leader del movimento comunista:
Marx e Lenin. Non dobbiamo commettere questo errore! Alla fine il vecchio
movimento comunista è fallito. Dobbiamo essere creativi ed imparare dai suoi
successi e dai suoi fallimenti, in modo che possiamo costruire a partire dal
primo e non ripetere di nuovo gli stesi errori, per evitare di suicidarci come
forza politica che intende costruire un mondo migliore. [Rivolto ai lettori ndt]
A vostro avviso, dall'apertura degli archivi sovietici, è emerso qualcosa di
sconvolgente o particolarmente illuminante? Il fatto che praticamente ogni così
detta “rivelazione” sui “crimini di Stalin”, fatta da Nikita Khrushchev nel suo
famigerato “Rapporto segreto” del 1956, si sia rivelata una menzogna, questo sì
è più di quanto mi aspettavo! Pensavo che solo una parte fosse falso, ma non
tutto! Il London Telegraph l'ha definito “ciò che molti considerano come il
discorso più influente del XX secolo.” Ho constatato che sono ancora ingenuo
quando si tratta dell'audacia spudorata degli anticomunisti a mentire sulla
storia del movimento comunista. Ingenuo perché non mi dico: “Perché non
dovrebbero mentire? Cos'altro potrebbero fare?” Queste sono alcune delle cose
che mi hanno sorpreso: NON ci sono prove – zero, proprio nessuna – che gli
imputati nei tre famosi processi di Mosca, 1936, 1937 e 1938, fossero innocenti
nonostante il fatto che OGNI studioso anticomunista sostenga il contrario, come
si trattasse di qualcosa che fosse già stato provato, o fosse “ovvio”; TUTTE le
prove che abbiamo indicano che Leon Trotsky, nei fatti, in qualche modo cospirò
con i nazisti, mentre NON ci sono prove che tendano a discolparlo da quanto è
emerso. Tutte le prove, e adesso ne abbiamo un sacco, portano alla conclusione
che il Maresciallo Tukachevsky, ed altri militari di alto rango condannati con
lui nel Giugno del 1937, erano colpevoli. In breve, sono rimasto colpito
dall'estensione in cui gli anticomunisti - e i trotskyisti - hanno mentito,
avendo torto, sulla storia del movimento comunista. Non soltanto su Stalin e
sull'URSS, ma sull'intero movimento comunista.
Sulla Guerra civile spagnola, per esempio, ho pubblicato qualcosa su alcune
di queste menzogne. "Anatomy of a Fraudulent Scholarly Work: Ronald Radosh's
Spain Betrayed", in Cultural Logic, 2003. “Fraudulent Anti-Communist Scholarship
From A ‘Respectable’ Conservative Source: Prof. Paul Johnson” (“Fraudolenta
erudizione anticomunista da una 'Rispettabile' fonte conservatrice: il Prof.
Paul Johnson”) Ho fatto delle ricerche e scritto un altro paio di articoli per
esporre le menzogne anticomuniste sul ruolo dei comunisti nella Guerra civile
spagnola. Spero di pubblicarli a breve. Appena un elemento da queste ricerche:
abbiamo un'eccellente prova che gli agenti nazisti erano, nei fatti, coinvolti
con il POUM e i trotskyisti nella pianificazione della rivolta contro la
Repubblica spagnola nel Maggio 1937, i cosiddetti “Giorni di Maggio”. Ancora: il
noto libro di George Orwell “Omaggio alla Catalogna” è senza senso ad eccezione
delle esperienze che Orwell fece in prima persona. Eppure questo singolo libro è
tutto quello che la maggior parte delle persone ha mai letto sulla Guerra civile
spagnola! Per inciso, ho trovato un certo numero di flagranti menzogne
anticomuniste nel nuovo libro di Anthony Beevor sulla guerra civile spagnola,
“The Battle for Spain” (2006). Non so se avrò il tempo per una sua vera e
propria revisione, come ho fatto con il libro fraudolento di Radosh,
probabilmente scriverò qualcosa di più breve.
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LE PURGHE NEL PARTITO COMUNISTA SOVIETICO NEGLI ANNI ‘30 Parte I
Presentazione ed estratto da The class struggle during the thirties in the
Soviet Union di Mario Sousa, a cura di Ella Rule della Stalin Society di Londra
FONTE
(Traduzione di Guido Fontana Ros Redazione Noicomunisti)
Le “purghe”,vale a dire le espulsioni dal Partito comunista sovietico nel
corso del 1930, sono tra gli argomenti preferiti dai propagandisti borghesi.
Questa tematica viene periodicamente fatta risaltare nei mass media borghesi al
fine di fornire al pubblico un resoconto completamente menzognero e falso delle
“purghe”, dei processi politici e dell'Unione Sovietica di quel periodo. Il loro
scopo è quello di diffamare il socialismo e l'Unione Sovietica, al fine di
scoraggiare le persone ad ascoltare i comunisti in modo che si accetti come
eterno il capitalismo. Questo è il motivo per cui è importante diffondere la
verità su questo capitolo della storia dell'Unione Sovietica, sia al fine di
contrastare le menzogne borghesi, che di comprendere le difficoltà che i
bolscevichi affrontarono durante il periodo di transizione rivoluzionaria. Joseb
Besarionis Dze Jughašvili, Stalin
Dati del 1930/40 Cominciamo, fornendo al lettore un quadro dell'Unione
Sovietica nel 1930/40, un decennio decisivo nella sua storia. Tra le altre cose,
nel corso del 1930 si realizzarono sia il primo e il secondo piano quinquennale
che la collettivizzazione dell'agricoltura. Il reddito nazionale aumentò da 29
milioni di rubli nel 1929 a 105 milioni nel 1938, un incremento del 360 % in
dieci anni, un risultato unico nella storia dell'industrializzazione!
Nel corso del 1930/40, la produzione in Unione Sovietica crebbe ad un ritmo
senza precedenti. All'inizio del 1930 il valore totale della produzione
industriale fu di 21 milioni di rubli. Otto anni più tardi, tuttavia, questo
valore era salito sopra 100 milioni di rubli (entrambe queste cifre si basano
sui prezzi degli anni 1926-1927). La produzione industriale del paese era
aumentata di quasi cinque volte in otto anni! All'inizio del 1930, la superficie
messa a colture di vario genere era di 118 milioni di ettari. Nel 1938 salì a
136,9 milioni di ettari. Allo stesso tempo, la collettivizzazione
dell'agricoltura fu completata, nel corso della quale i giganteschi problemi
connessi con la collettivizzazione e la modernizzazione furono superati.
All'inizio del 1930 l'Unione Sovietica aveva 34.900 trattori, ma nel 1938 ne
aveva 483.500. Il numero di trattori era aumentato quasi di quattordici volte in
otto anni. Nello stesso periodo il numero di mietitrebbie era passato da 1.700 a
153.500 e il numero di macchine per la raccolta da 4.300 a 130.800. Trattori
sovietici degli anni '30
Nel 1930 anche lo sviluppo culturale dell'Unione Sovietica avanzò a passi da
gigante. Il numero di studenti in tutte le scuole nel 1929 era di circa 14
milioni. Nel 1938 il numero era salito a circa 34 milioni , e in quel periodo
gli studenti in tutti i tipi di corsi, considerando anche quelli a part-time,
ammontava a più di 47 milioni. Quasi un terzo di tutti i cittadini erano
coinvolti nel sistema scolastico. All'inizio del 1930, l'analfabetismo in Unione
Sovietica era ancora al 33% (rispetto al 67% del 1913). Nel 1938 l'analfabetismo
era stato di gran lunga completamente debellato. Durante questo periodo il
numero di studenti nei gradi di istruzione più elevati era quasi triplicato, da
207.000 a 601.000. Il numero di biblioteche nel 1938 era di 70.000 rispetto alle
40.000 del 1933. Il numero di libri presenti in queste lbiblioteche nel 1938
aveva raggiunto l'impressionante cifra di 126 milioni di volumi, rispetto agli
86 milioni del 1933. Durante gli anni Trenta un'altra misura, dimostrante la
forza ideologica e materiale dell'Unione Sovietica, nonché il suo impegno per
l'uguaglianza di tutti i cittadini, venne attuata, vale a dire, l'introduzione
del requisito che tutta l'istruzione elementare doveva essere nelle lingua delle
diverse nazionalità. Ciò richiese una quantità colossale di lavoro sul fronte
culturale, con la produzione di un gran numero di libri nuovi, libri di testo e
altro materiale didattico, in alcune lingue che quasi non esistevano in forma
scritta. Venne pubblicata per la prima volta nelle loro lingue, letteratura per
le diverse nazionalità. E’ in questo contesto che la lotta di classe in Unione
Sovietica nel corso del 1930/40 venne effettuata e questo deve essere tenuto
presente durante la lettura di questo opuscolo.
Lo sviluppo del partito comunista A milioni, a partire dal 1930, nuovi membri
entrarono nel PCUS (b) partecipando alla lotta per la produzione e lo sviluppo
sociale. Il grande afflusso di persone e l'enorme aumento della produzione che
ebbero luogo, tuttavia, presentarono il loro lato negativo. Il partito fu
costretto a valutare il lavoro di partito e sociale dei membri vecchi e nuovi e
di espellere o eliminare coloro le cui prestazioni non corrispondevano a quanto
è richiesto a dei comunisti.
In questo periodo, la minaccia esterna contro l'Unione Sovietica aumentò.
Oltre all'embargo, agli atti di sabotaggio e alla minaccia di aggressione dei
paesi capitalisti, un nuovo nemico emerse. L’obiettivo di quest’ultimo era la
frantumazione della Unione Sovietica socialista e l'annientamento degli Slavi
come popolo. Il nazismo salì al potere in Germania nel gennaio del 1933 dopo
aver promesso, tra le altre cose, di schiacciare il comunismo, conquistare nuove
colonie in Oriente e di usare i popoli come schiavi nell'economia tedesca. La
crescita dell'Unione Sovietica nel corso del 1930, poi, era vitale. Fu la base
stessa per la vittoria dell'Unione Sovietica sulla Germania nazista nella
Seconda Guerra Mondiale. La lotta contro le carenze all'interno del Partito
Comunista e le purghe erano essenziali al fine di conseguire successi nello
sviluppo della produzione e garantire la difesa del paese. Gli storici borghesi
raramente menzionano questo.
Secondo la mitologia borghese, le purghe furono una sanguinosa persecuzione
di coloro che criticavano il regime; erano il mezzo con cui una burocrazia
assetata di potere faceva uso di una vasta struttura amministrativa e
dell'apparato della violenza di stato, insieme a una crudeltà eccessiva, per
uccidere letteralmente, secondo tali storici, una opposizione non solo
progressista, ma anche una vera opposizione di socialisti e comunisti. La mano
che guidava questa persecuzione era naturalmente quella di Stalin, che viene
descritto come affetto da comportamento paranoico. Secondo la borghesia, Stalin
aveva un piano a lungo termine per uccidere tutti gli avversari e tutti i vecchi
bolscevichi, al fine di assicurarsi il potere assoluto. Vedremo fino a che punto
questo mito è stato smontato da storici borghesi onesti con accesso a materiale
d'archivio sovietico. La città di Smolensk dopo la battaglia del 1941 Gli
archivi di Smolensk Molto prima che Gorbaciov aprisse gli archivi sovietici, un
vasto materiale d'archivio dal 1945 era nel già nelle mani dell'Occidente e
degli Stati Uniti. Quando la Germania nazista invase l'Unione Sovietica durante
la Seconda Guerra Mondiale, raggiunse nel momento di maggiore avanzata le
periferie di Mosca e Leningrado. Le truppe tedesche a partire dal 1941, avevano
occupato la zona occidentale della Russia che aveva come centro la città di
Smolensk. A Smolensk i tedeschi trovarono gli archivi della regione occidentale,
che per qualche motivo non erano stati distrutti dalle truppe sovietiche in
ritirata. Questi archivi furono trasportati in Germania in quello stesso anno.
Alla fine della guerra, nel 1945 gli archivi di Smolensk vennero a trovarsi
nella zona di occupazione americana della Germania. Anche se appartenevano alla
Unione Sovietica, un alleato degli Stati Uniti di quel momento, i generali
americani che ne erano in possesso, naturalmente nell'interesse del capitalismo,
li trasferirono negli Stati Uniti. Questi archivi di Smolensk oggi si trovano
presso i National Archives degli USA Gli archivi Smolensk sono molto vasti. Con
poche eccezioni, tutte le azioni più importanti del Partito Comunista della
regione occidentale sono raccolti lì: dagli elenchi dei membri del partito,
dalle direttive politiche a tutti i livelli, agli estratti di discussioni e
dibattiti durante le riunioni, comprese quelle della principale istituzione
della zona, vale a dire, l'Organizzazione di Presidenza. Tutti gli aspetti della
vita politica sono inclusi, dalle politiche agricole e dalle strategie
industriali alla pianificazione delle vacanze annuali dei lavoratori. Pure i
documenti del Partito relativi alle “purghe” nella regione occidentale sono
conservati lì. Gli archivi di Smolensk dovrebbero essere una miniera d'oro per
tutti coloro che cercano una panoramica del funzionamento della società
sovietica. Eppure, gli archivi di Smolensk sono stati utilizzati molto poco.
Dopo la battaglia di Smolensk....
Fatti nuovi sostengono conclusioni nuove
Bisogna attendere il 1985 prima che venga pubblicato un libro basatesi su un
esame vero e proprio degli archivi dì Smolensk. Questo libro si intitola
“Origins of the Great Purges - The Soviet Communist Party Reconsidered, 1933 -
1938,” del professore di storia americana J. Arch Getty. Ci fornisce statistiche
e altri documenti di grande valore per lo studio della storia dell'Unione
Sovietica. Getty stesso è un autore borghese con limitata capacità di capire le
condizioni della lotta di classe in Unione Sovietica. In un libro successivo,
The Road to Terror, che dovrebbe dimostrare che i bolscevichi si sono sterminati
nel corso del 1930 a seguito di una lotta intestina, non vi è per esempio, una
parola sui più grandi sviluppi sociali che mai fossero avvenuti nella storia
dell'umanità! Quelli che avevano avuto luogo in Unione Sovietica nel corso degli
anni ’30. Non una parola su questo! Eppure, per la maggior parte degli anni
Trenta, l'Unione Sovietica stava lottando contro il tempo per preparare le
difese del paese di fronte alla minaccia di invasione da parte della Germania
nazista. Se non si accorda la dovuta importanza a questo fatto, si sarà,
naturalmente e inevitabilmente condotti a trarre conclusioni errate. Se i
bolscevichi si fossero sterminati a vicenda, invece di sviluppare il paese, per
quanto possibile e di costruire le sue difese, i nazisti avrebbero vinto la
guerra e sradicato dalla faccia della terra, l'Unione Sovietica e il popolo
slavo. Arch Getty almeno contraddice uno storico precedente, il suo collega
americano Merle Fainsod, che ebbe anche accesso agli archivi di Smolensk, ma che
sostenne nel suo libro “Smolensk sotto il regime sovietico” che l'assassinio di
Kirov nel dicembre del 1934 causò una nuova spirale di quasi continue purghe che
si diffusero in cerchie sempre più ampie e che fecero sorgere un crescendo di
annientamento della virtuale distruzione della direzione del Partito dell’Oblast
nel 1937. La ricerca di Arch Getty contraddice totalmente questo risultato.
Una breve storia prima delle “purghe” del 1920 Dopo la vittoria della
rivoluzione, quando il Partito comunista era diventato il partito di governo, la
leadership del Partito e Lenin furono costretti a riconoscere che alcuni
elementi indesiderati erano penetrati nel partito e nell'apparato statale. Si
trattava di persone che volevano fare una carriera attraverso l'adesione del
Partito. All'ottava Conferenza del Partito, nel mese di dicembre del 1919, Lenin
espose questo problema. Secondo Lenin era naturale, da un lato, che tutti i
peggiori elementi dovessero aderire al partito di governo solo perché era il
partito di governo. Per questo motivo era importante valutare il contributo dei
membri del partito. Su proposta di Lenin, il partito effettuò una nuova
registrazione di tutti i membri del partito. Ogni membro dovette rispondere
delle sue azioni prima di esserne membro; quelli che furono considerati
inaffidabili vennero esclusi. Questa fu la prima purificazione dell'apparato del
partito. Questo metodo, rafforzare il partito mediante lo spurgo degli elementi
opportunisti, fu quello che caratterizzò il Partito Comunista per molti anni a
venire. I comportamenti che giustificarono l'epurazione dei membri del Partito
includevano la corruzione, la passività, le violazioni della disciplina di
partito, l'alcolismo, la criminalità e l'antisemitismo. Per gli individui
borghesi e per i kulak che nascondevano la loro origine di classe, l'espulsione
era certa, a differenza di quelli che, quando erano stati accettati nel partito
avevano ammesso il loro retroterra di classe. Ex ufficiali zaristi che avevano
nascosto il loro passato furono inevitabilmente espulsi. Tutti coloro che erano
stati espulsi poterono a loro volta fare ricorso alla Commissione Centrale di
controllo ed i loro casi furono poi riesaminati a un livello superiore. Come
vedremo in seguito, un numero relativamente alto venne riammesso. Le decisioni
nelle assemblee di centinaia di membri erano, di regola, più rigorose di quelle
prese dagli organi centrali del Partito. Il Comitato Centrale del Partito, che
aveva dato inizio alle “purghe” e deciso la loro forma, cercò di incoraggiare a
parlare i membri al livello di base, al fine di reprimere i funzionari corrotti
e i loro complici. Questo si rivelò un lavoro difficile. I burocrati corrotti
conoscevano migliaia di trucchi per sfuggire alle critiche e alle situazioni
difficili. Invece, la maggior parte degli espulsi erano membri ordinari, che
spesso non potevano difendersi contro le accuse di passività, ignoranza politica
o di cattiva abitudine di bere, proposte da parte dei segretari di partito.
Le "purghe" del 1920 Dopo la riregistrazione del 1919, Lenin e la direzione
del partito rilevarono che vi erano ancora notevoli carenze nel Partito. La
nuova iscrizione non aveva raggiunto il suo scopo. Un gran numero di nuovi
membri continuò a essere inserito nel Partito, senza riguardo per alla direttiva
secondo cui solo i lavoratori e gli elementi affidabili di altre classi dovevano
essere ammessi. Nuove “purghe” ebbero luogo nel 1921, 1928 e 1929.
Nella Tabella 1 si può vedere la percentuale di membri che furono espulsi in
queste occasioni. Negli anni, il tasso di espulsione di membri del partito variò
dal 3 al 5% degli iscritti.
Tabella 1 Grandi purghe nel partito negli anni ‘20 anno
Motivo della purga
Percentuale di espulsi 1919
Riregistrazione
10-15 1921
Purga
25 1928
Monitoraggio (solo 7 regioni)
13 1929
Purghe
11
Per quanto riguarda le purghe del 1929, la tabella 2 fornisce una descrizione
dettagliata delle cause. Essa ci fornisce, in realtà una buona informazione ed
elimina almeno il mito che le purghe erano un modo di eliminare l'opposizione
all'interno del Partito. Nel 1929, 1.530.000 membri del partito subirono il
processo di eliminazione. Di questi, circa 170.000, o l’11%, vennero espulsi.
Quando presentarono appello alla Commissione Centrale di Controllo, 37.000
furono riammessi (22 per cento degli espulsi). A Smolensk, ben il 43 per cento
degli espulsi furono riammessi. In un ulteriore esame, si scopre che la
stragrande maggioranza erano comuni membri della classe lavoratrice, che erano
stati espulsi da funzionari locali del partito per passività. Nessun riguardo fu
adottato per le condizioni di vita che resero più difficile a questi membri la
partecipazione alle attività del partito.
La purga del partito nel 1929 Motivi di espulsione
Percentuale Difetti nel comportamento personale
22 Elementi stranieri o connessioni con essi
17 Passività
17 Reati
12 Violazioni della disciplina di Partito
10 Altri motivi
22 Totale
100
Secondo Getty, quelli espulsi per motivi politici come creazione di fazioni o
attività di opposizione furono inclusi nel 10% di espulsi per violazione della
disciplina di Partito. I primi costituiscono il 10% di questo 10%. Così, le
espulsioni per motivi politici non erano più dell’1% di tutte le espulsioni
effettuate durante le purghe del 1929. Si compari questo dato con il mito
prevalente che gli “stalinisti eliminano tutti gli oppositori”. Inoltre, la
borghesia sostiene sempre che gli espulsi incontrassero successivamente la morte
certa nei campi di lavoro del Gulag o scomparissero. La realtà è diversa. Tra
gli espulsi, solo coloro che avevano commesso reati - furto, appropriazione
indebita, ricatto, sabotaggio o simili - e che furono processati in tribunale
ricevettero qualche punizione. Per gli altri che furono espulsi, la vita
continuò come al solito - senza gli obblighi che accompagnavano l'adesione, ma
anche senza il sostegno che l'associazione al Partito forniva.
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Come
precipitare un dio all'inferno
http://scintillarossa.forumcommunity.net/?t=30077576
il Rapporto Chruscev
Un «enorme, cupo, capriccioso, degenerato mostro umano»
Se analizziamo oggi Sul culto della personalità e le sue
conseguenze, letto da Chruscév in una seduta riservata del Congresso del Pcus e
divenuto poi celebre come Rapporto segreto, una caratteristica balza subito agli
occhi: siamo in presenza di una requisitoria che si propone di liquidare Stalin
sotto ogni aspetto. A essere responsabile di crimini orrendi era un indivi¬duo
spregevole sia sul piano morale sia su quello intellettuale. Oltre che spietato,
il dittatore era anche risibile: conosceva il paese e la situazione agricola
«solo per mezzo dei film»; e, per di più, di film che «abbellivano» la realtà
sino al punto da renderla irriconoscibile. Più che da una logica politica o
realpolitica, la repressione sanguinosa da lui scatenata era stata dettata dal
capriccio personale e da una patologica libido dominandi. Emergeva così il
ritratto – osservava compiaciuto Deutscher nel giugno 1956, folgorato dalle
"rivelazioni" di Chruscév e dimentico del rispettoso e a tratti ammirato
ritratto di Stalin da lui tracciato tre anni prima – di un «enorme, cupo,
capriccioso, degenerato mostro umano». Il despota spietato era stato così privo
di scrupoli da essere sospettato di aver trama¬to l'assassinio di quello che era
o sembrava essere il suo migliore amico, Kirov, in modo da poter accusare di
questo crimine e liquidare l'uno dopo l'altro gli oppositori, reali o
potenziali, veri o immaginari, del pote¬re. Né la spietata repressione si era
abbattuta solo su individui e gruppi politici. No, essa aveva comportato «le
deportazioni di massa di intere popolazioni», arbitrariamente accusate e
condannate in blocco per conni¬venza col nemico. Ma almeno aveva Stalin
contribuito a salvare il suo paese e il mondo dall'orrore del Terzo Reich? Al
contrario – incalzava Chruscév – la Grande guerra patriottica era stata vinta
nonostante la fol¬lia del dittatore: era stato solo grazie alla sua
imprevidenza, alla sua ostinazione, alla cieca fiducia da lui riposta in Hitler
che le truppe del Terzo Reich erano riuscite inizialmente ad irrompere in
profondità nel territorio sovietico, seminando morte e distruzione su
larghissima scala.
Sì, per colpa di Stalin, al tragico appuntamento l'Unione
Sovietica era giunta impreparata e indifesa: «Noi avevamo cominciato a
modernizzare il nostro equipaggiamento militare solo alla vigilia della guerra.
All'inizio della guerra eravamo privi anche di un numero di fucili sufficiente
per armare gli effettivi mobilitati». Come se tutto ciò non ba¬stasse, «dopo le
prime disfatte e i primi disastri al fronte» il responsabile di tutto ciò si era
abbandonato allo scoramento e persino all'apatia. Vinto dalla sensazione della
disfatta («Tutto ciò che Lenin aveva creato noi l'abbiamo perduto per sempre»),
incapace di reagire, Stalin «si astenne per lungo tempo dal dirigere le
operazioni militari e smise di occuparsi di qualunque cosa» 4. È vero, trascorso
qualche tempo, pie¬gandosi finalmente alle insistenze degli altri membri
dell'Ufficio politi¬co, era tornato al suo posto. Non l'avesse mai fatto! A
dirigere monocra¬ticamente, anche sul piano militare, l'Unione Sovietica
impegnata in una prova mortale era stato un dittatore così incompetente da non
avere alcuna «familiarità con la condotta delle operazioni militari». È un capo
d'accusa su cui il Rapporto segreto insiste con forza: «Bisogna tener pre¬sente
che Stalin preparava i suoi piani su di un mappamondo. Sì, com¬pagni, egli
segnava la linea del fronte sul mappamondo». Nonostante tutto, la guerra si era
felicemente conclusa; e, tuttavia, la paranoia san¬guinaria del dittatore si era
ulteriormente aggravata. A questo punto si può considerare completo il ritratto
del «degenerato mostro umano» che emerge, secondo l'osservazione di Deutscher,
dal Rapporto segreto.
Erano trascorsi appena tre anni dalle manifestazioni di
cordoglio provocate dalla morte di Stalin, e così forte e persistente era ancora
la sua popolarità che, almeno in URSS, la campagna lanciata da Chruscév incontrò
inizialmente una «forte resistenza»:
Il 5 marzo 1956 gli studenti a Tiblisi scesero in strada
per deporre fiori al monu¬mento a Stalin in occasione del terzo anniversario
della sua morte e questo gesto in onore di Stalin si trasformò in una protesta
contro le deliberazioni del xx Congres¬so. Le dimostrazioni e le assemblee
proseguirono per cinque giorni, finché, la sera del 9 marzo, furono mandati
carri armati in città per restaurare l'ordine .
Forse questo spiega le caratteristiche del testo che stiamo
esaminando. In URSS e nel campo socialista era in corso un'aspra lotta politica,
e il ritratto caricaturale di Stalin serviva egregiamente a delegittimare gli
"stalinisti" che potevano fare ombra al nuovo leader. Il «culto della
persona¬lità», che sino a quel momento aveva imperversato, non consentiva
giu¬dizi più sfumati: occorreva precipitare un dio nell'inferno. Qualche
de¬cennio Prima, nel corso di un'altra battaglia politica dalle caratteristiche
diverse, ma non meno aspra, Trockij aveva tracciato anche lui un ritrat¬to di
Stalin teso non solo a condannarlo sul piano politico e morale, ma anche a
ridicolizzarlo sul piano personale: si trattava di un «piccolo pro¬vinciale», di
un individuo caratterizzato sin dagli inizi da un'irrimedia¬bile mediocrità e
goffaggine, che dava regolarmente cattiva prova di sé in ambito politico,
militare e ideologico, che non riusciva mai a dismet¬tere la «rozzezza del
contadino». Certo, nel 1913 aveva pubblicato un saggio di innegabile valore
teorico (Il marxismo e il problema delle nazio¬nalità), ma il vero autore era
Lenin, mentre il firmatario andava inserito nella categoria degli «usurpatori»
dei «diritti intellettuali» del grande rivoluzionario.
Tra i due ritratti non mancano i punti di contatto.
Chruscév insi¬nua che il vero mandante dell'assassinio di Kirov era stato
Stalin, ma quest'ultimo era stato accusato o sospettato da Trockij di aver con
la sua «ferocia mongolica» accelerato la morte di Lenin'. Il Rapporto segreto
rimprovera a Stalin la fuga codarda dalle sue responsabilità agli inizi del¬l'aggressione
hitleriana, ma già il 2 settembre 1939, con largo anticipo ri¬spetto
all'operazione Barbarossa, Trockij aveva scritto che la «nuova ari¬stocrazia» al
potere a Mosca era fra l'altro caratterizzata dalla «sua inca¬pacità di condurre
una guerra»; la «casta dominante» in Unione Sovieti¬ca era destinata ad assumere
l'atteggiamento «proprio di tutti i regimi destinati al tramonto: "dopo di noi
il diluvio"».
Largamente convergenti tra di loro, sino a che punto questi
due ri¬tratti resistono all'indagine storica? Conviene cominciare ad analizzare
il Rapporto segreto che, ufficializzato da un Congresso del Pcus e dai massimi
dirigenti del partito al potere, si impone subito come la rivela-zione di una
verità a lungo
repressa ma ormai incontestabile.
La Grande guerra patriottica e le «invenzioni» di Chruscév
A partire da Stalingrado e dalla disfatta inflitta al Terzo
Reich (ad una potenza che pareva invincibile), Stalin aveva acquisito enorme
prestigio in tutto il mondo. E, non a caso, su questo punto Chruscév si sofferma
in modo particolare. Egli descrive in termini catastrofici l'impreparazio¬ne
militare dell'Unione Sovietica, il cui esercito, in alcuni casi, sarebbe stato
sprovvisto persino dell'armamento più elementare. Direttamente contrapposto è il
quadro emergente da uno studio che sembra pervenire dagli ambienti della
Bundeswehr e che comunque fa largo uso dei suoi archivi militari. Vi si parla
della «molteplice superiorità dell'Armata ros¬sa in carri armati, aerei e pezzi
d'artiglieria»; d'altro canto, «la capacità industriale dell'Unione Sovietica
aveva raggiunto dimensioni tali da po¬ter procurare alle forze armate sovietiche
un armamento pressoché inimmaginabile». Esso cresce a ritmi sempre più serrati
man mano che ci si avvicina all'operazione Barbarossa. Un dato è particolarmente
elo¬quente: se nel 1940 l'Unione Sovietica produceva 358 carri armati del tipo
più avanzato, nettamente superiori a quelli a disposizione degli altri eserciti,
nel primo semestre dell'anno successivo ne produceva 1.503 . A loro volta, i
documenti provenienti dagli archivi russi dimostrano che, almeno nei due anni
immediatamente precedenti l'aggressione del Ter¬zo Reich, Stalin è letteralmente
ossessionato dal problema dell'«incre¬mento quantitativo» e del «miglioramento
qualitativo dell'intero appa-rato militare». Alcuni dati sono di per sé
eloquenti: se nel primo piano quinquennale ammontano al 5,4% delle spese statali
complessive, nel 1941 gli stanziamenti per la difesa salgono al 43,4%; «nel
settembre 1939, su ordine di Stalin il Politbjuro prese la decisione di
costruire entro il 1941 nove nuove fabbriche per la produzione di aerei»; al
momento del¬l'invasione hitleriana «l'industria aveva prodotto 2.700 aerei
moderni e 4.300 carri armati». A giudicare da questi dati, tutto si può dire,
tran¬ne che l'URSS sia giunta impreparata al tragico appuntamento con la guerra.
D'altro canto, già un decennio fa una storica statunitense
ha inferto un duro colpo al mito del crollo e della fuga dalle sue
responsabilità da parte del dirigente sovietico subito dopo l'inizio
dell'invasione nazista: «per quanto scosso, il giorno dell'attacco Stalin
indisse una riunione di undici ore con capi di partito, di governo e militari, e
nei giorni succes¬sivi fece lo stesso». Ma ora abbiamo a disposizione il
registro dei visi¬tatori dell'ufficio di Stalin al Cremlino, scoperto agli inizi
degli anni no¬vanta: risulta che sin dalle ore immediatamente successive all'aggressio¬ne
il leader sovietico si impegna in una fittissima rete di incontri e ini¬ziative
per organizzare la resistenza. Sono giorni e notti caratterizzati da
un'«attività [ ... ] estenuante», ma ordinata. In ogni caso, «l'intero episo¬dio
[raccontato da Chruscév] è totalmente inventato», questa «storia è falsa». In
realtà sin dagli inizi dell'operazione Barbarossa, Stalin non solo prende le
decisioni più impegnative, impartendo disposizioni per lo spostamento della
popolazione e degli impianti industriali dalla zona del fronte, ma «controlla
tutto in modo minuzioso, dalla grandezza e dalla forma delle baionette sino agli
autori e ai titoli degli articoli della "Pravda"». Non c'è traccia né di panico
né di isteria. Leggiamo la nota di diario e la testimonianza di Dimitrov: «Alle
7 di mattina mi hanno chiamato con urgenza al Cremlino. La Germania ha attaccato
l'URSS. E' iniziata la guerra [ ... ]. Sorprendente calma, fermezza, sicurez¬za
in Stalin e in tutti gli altri». Ancora di più colpisce la chiarezza di idee.
Non si tratta solo di procedere alla «mobilitazione generale delle nostre
forze». È necessario anche definire il quadro politico. Sì, «solo i comunisti
possono vincere i fascisti», ponendo fine all'ascesa apparente¬mente
irresistibile del Terzo Reich, ma non bisogna perdere di vista la reale natura
del conflitto: “I partiti [comunisti] sviluppano sul posto un movimento in
difesa dell'URSS. Non porre la questione della rivoluzio¬ne socialista. Il
popolo sovietico combatte una guerra patriottica contro la Germania fascista. Il
problema è la disfatta del fascismo, che ha asser¬vito una serie di popoli e
tenta di asservire anche altri popoli».
La strategia politica che avrebbe presieduto alla Grande
guerra pa¬triottica è ben delineata. Già alcuni mesi prima Stalin aveva
sottolineato che, all'espansionismo dispiegato dal Terzo Reich «all'insegna
dell'as¬servimento, della sottomissione degli altri popoli», questi rispondevano
con giuste guerre di resistenza e liberazione nazionale. D'altro canto, a coloro
che scolasticamente contrapponevano patriotti¬smo e internazionalismo,
l'Internazionale comunista aveva provveduto a rispondere ancora una volta già
prima dell'aggressione hitleriana, come risulta dalla nota di diario di Dimitrov
del 12 maggio 1941:
Bisogna sviluppare l'idea che coniuga un sano nazionalismo,
correttamente inteso, con l'internazionalismo proletario. L'internazionalismo
proletario deve poggiare su questo nazionalismo nei singoli paesi [... ]. Tra il
nazionalismo correttamente inteso e l'internazionalismo proletario non c'è e non
può esserci contraddizione. Il cosmopolitismo senza patria, che nega il
sentimento nazionale e l'idea di patria, non ha nulla da spartire con
l'internazionalismo proletario.
Ben lungi dall'essere una reazione improvvisata e disperata
alla situazio¬ne venutasi a creare con lo scatenamento dell'operazione
Barbarossa, la strategia della Grande guerra patriottica esprimeva un
orientamento teorico maturato da tempo e di carattere generale:
l'internazionalismo e la causa internazionale dell'emancipazione dei popoli
avanzavano con-cretamente sull'onda delle guerre di liberazione nazionale, rese
necessa¬rie dalla pretesa di Hitler di riprendere e radicalizzare la tradizione
colo¬niale, assoggettando e schiavizzando in primo luogo le presunte razze
servili dell'Europa orientale. Sono i motivi ripresi nei discorsi e nelle
di-chiarazioni pronunciati da Stalin nel corso della guerra: essi costituiro¬no
«significative pietre miliari nella chiarificazione della strategia milita¬re
sovietica e dei suoi obbiettivi politici e giocarono un ruolo importan¬te nel
rafforzare il morale popolare»; ed essi assunsero un rilievo anche
internazionale, come osservava contrariato Goebbels a proposito del¬l'appello
radio del 3 luglio 1941, che «suscita enorme ammirazione in In¬ghilterra e negli
USA».
Una serie di campagne di disinformazione e l'operazione
Barbarossa
Persino sul piano della condotta militare vera e propria il
Rapporto segre¬to ha smarrito ogni credibilità. Secondo Chruscév, incurante
degli «av¬vertimenti» che da più parti gli provenivano circa l'imminenza dell'in¬vasione,
Stalin va irresponsabilmente incontro allo sbaraglio. Che dire di questa accusa?
Intanto, anche le informazioni provenienti da un pae¬se amico possono risultare
errate: ad esempio, il 17 giugno 1942 Franklin Delano Roosevelt mette in guardia
Stalin contro un imminente attacco giapponese, che poi non si verifica.
Soprattutto, alla vigilia dell'ag¬gressione hitleriana l'URSS è costretta a
districarsi tra gigantesche mano¬vre di diversione e di disinformazione. Il
Terzo Reich s'impegna massic¬ciamente a far credere che l'ammassamento di truppe
a est miri solo a camuffare l'imminente balzo al di là della Manica, e ciò
appare tanto più credibile dopo la conquista dell'isola di Creta. «L'intero
apparato statale e militare è mobilitato», annota compiaciuto Goebbels sul suo
diario (31 maggio 1941), per inscenare la «prima grande ondata mimetiz¬zatrice»
dell'operazione Barbarossa. Ecco allora che «14 divisioni sono trasportate a
ovest»; per di più, tutte le truppe schierate sul fronte oc¬cidentale sono messe
in stato di massima allerta. Circa due settimane dopo l'edizione berlinese del "Vólkischer
Beobachter" pubblica un arti¬colo che addita l'occupazione di Creta come modello
per la progettata resa dei conti con l'Inghilterra: poche ore dopo il giornale è
sequestrato al fine di dare l'impressione che sia stato maldestramente tradito
un se¬greto di enorme importanza. Tre giorni dopo (14 giugno) Goebbels an¬nota
sul suo diario: «Le radio inglesi dichiarano già che il nostro spiega¬mento
contro la Russia è solo un bluff, dietro il quale cercavamo di na¬scondere i
nostri preparativi per l'invasione [dell'Inghilterra]». A que¬sta campagna di
disinformazione se ne aggiungeva da parte della Ger-mania un'altra: venivano
fatte circolare voci, secondo cui il dispiega¬mento militare a est si proponeva
di fare pressioni sull'URSS, eventual¬mente col ricorso ad un ultimatum, perché
Stalin accettasse di ridefinire le clausole del patto tedesco-sovietico e si
impegnasse ad esportare in maggiore quantità i cereali, il petrolio e il carbone
di cui aveva bisogno il Terzo Reich coinvolto in una guerra che non accennava a
concludersi. Si mirava cioè a far credere che la crisi fosse solubile con nuove
trattative e con qualche concessione supplementare da parte di Mosca. A que¬sta
conclusione pervenivano in Gran Bretagna i servizi d'informazione dell'esercito
e i vertici militari che ancora il 22 maggio avvertivano il Gabinetto di guerra:
«Hitler non ha ancora deciso se perseguire i suoi obbiettivi [in direzione
dell'URSS] con la persuasione o con la forza delle armi». Il 14 giugno Goebbels
annota soddisfatto sul suo diario: «In generale si crede ancora ad un bluff
ovvero a un tentativo di ricatto».
Non bisogna sottovalutare neppure la campagna di
disinformazione inscenata sul versante opposto e iniziata già due anni prima:
nel novem¬bre 1939, la stampa francese pubblica un fantomatico discorso
(pronun¬ciato dinanzi al Politbjuro il 19 agosto di quello stesso anno) in cui
Sta¬lin avrebbe esposto un piano per indebolire l'Europa, stimolando al suo
interno una guerra fratricida, e poi sovietizzarla. Non ci sono dubbi: si tratta
di un falso, che mirava a far saltare il patto di non aggressione
te¬desco-sovietico e a indirizzare verso est la furia espansionistica del Terzo
Reich. Secondo una diffusa leggenda storiografica, alla vigilia
dell'ag¬gressione hitleriana, il governo di Londra avrebbe ripetutamente e
di¬sinteressatamente messo in guardia Stalin, il quale però, da buon ditta¬tore,
si sarebbe fidato solo del suo omologo berlinese. In realtà, se da un lato
comunica a Mosca le informazioni relative all'operazione Barbaros¬sa, dall'altro
la Gran Bretagna diffonde voci su un imminente attacco dell'URSS contro la
Germania o i territori da essa occupati. Evidente e comprensibile è l'interesse
a rendere inevitabile o far precipitare il più rapidamente possibile il
conflitto tedesco-sovietico.
Interviene poi il misterioso volo in Inghilterra di Rudolf
Hess, chia¬ramente animato dalla speranza di ricostituire l'unità dell'Occidente
nella lotta contro il bolscevismo, conferendo così concretezza al pro¬gramma
enunciato dal Mein Kampf di alleanza e solidarietà dei popoli germanici nella
loro missione civilizzatrice. Gli agenti sovietici all'estero informano il
Cremlino che il numero due del regime nazista ha preso la sua iniziativa in
pieno accordo col Führer. D'altro canto, personalità di un certo rilievo del
Terzo Reich hanno continuato sino all'ultimo a sostenere la tesi secondo la
quale Hess aveva agito su incoraggiamento di Hitler. Questi in ogni caso sente
il bisogno di inviare immediatamen¬te a Roma il ministro degli Esteri Joachim
von Ribbentrop al fine di fugare in Mussolini qualsiasi sospetto che la Germania
stia tramando una pace separata con la Gran Bretagna. Ovviamente, ancora più
for¬te è la preoccupazione da questo colpo di scena suscitata a Mosca, tanto più
che ad alimentarla ulteriormente provvede l'atteggiamento del go¬verno
britannico: esso non sfrutta la «cattura del vice Führer» al fine di conseguire
«il massimo profitto propagandistico, cosa che sia Hitler sia Goebbels si
attendevano impauriti»; anzi, l'interrogatorio di Hess – rife¬risce da Londra a
Stalin l'ambasciatore Ivan Majskij – è affidato ad un fautore della politica di
appeasement. Mentre lasciano la porta aperta ad un riavvicinamento
anglosovietico, i servizi segreti di Sua Maestà si im¬pegnano a diffondere le
voci, che ormai dilagano, di un'imminente pace separata tra Londra e Berlino;
tutto ciò al fine di accrescere la pressione sull'Unione Sovietica (che forse
avrebbe cercato di prevenire la paventa¬ta saldatura dell'alleanza tra Gran
Bretagna e Terzo Reich con un attac¬co preventivo dell'Armata rossa contro la
Wehrmacht) e di rafforzare comunque la capacità contrattuale dell'Inghilterra .
Ben si comprendono la cautela e la diffidenza del Cremlino:
era in agguato il pericolo di una riedizione di Monaco su scala ben più larga e
ben più tragica. Si può altresì ipotizzare che la seconda campagna di
di¬sinformazione inscenata dal Terzo Reich abbia giocato un ruolo. Stan¬do
almeno alla trascrizione rinvenuta negli archivi del partito comunista
sovietico, pur dando per scontato il coinvolgimento a breve termine dell'URSS
nel conflitto, nel discorso rivolto il 5 maggio 1941 ai licenzian¬di
dell'Accademia militare Stalin sottolineava come storicamente la Germania avesse
conseguito la vittoria quando era stata impegnata su un solo fronte, mentre
aveva subito la sconfitta allorché era stata costret¬ta a combattere
contemporaneamente a est e a ovest. Ecco, Stalin po¬trebbe aver sottovalutato la
sicumera con cui Hitler era pronto ad aggre¬dire l'URSS. D'altro canto, egli ben
sapeva che una precipitosa mobilita¬zione totale avrebbe fornito al Terzo Reich
su un piatto d'argento il ca¬sus belli, com'era avvenuto allo scoppio della
Prima guerra mondiale. C'è comunque un punto fermo: pur muovendosi con
circospezione in una situazione assai aggrovigliata, il leader sovietico procede
a una «ac¬celerazione dei preparativi di guerra». In effetti, «tra maggio e
giugno sono richiamati 800.000 riservisti, a metà maggio 28 divisioni sono
di¬slocate nei distretti occidentali dell'Unione Sovietica», mentre procedo¬no a
ritmo serrato i lavori di fortificazione delle frontiere e di camuffa¬mento
degli obiettivi militari più sensibili. «Nella notte tra 21 e il 22 giu¬gno
questa vasta forza è messa in allarme e chiamata a prepararsi per un attacco di
sorpresa da parte dei tedeschi».
Per screditare Stalin, Chruscév insiste sulle spettacolari
vittorie ini¬ziali dell'esercito invasore, ma sorvola sulle previsioni a suo
tempo for¬mulate in Occidente. Dopo lo smembramento della Cecoslovacchia e
l'ingresso a Praga della Wehrmacht, lord Halifax aveva continuato a re-spingere
l'idea di un riavvicinamento dell'Inghilterra all'URSS facendo ricorso a questo
argomento: non aveva senso allearsi con un paese le cui forze armate erano
«insignificanti». Alla vigilia dell'operazione Barbarossa o al momento del suo
scatenamento i servizi segreti britannici ave¬vano calcolato che l'Unione
Sovietica sarebbe stata «liquidata in 8-10 settimane»; a loro volta, i
consiglieri del segretario di Stato americano (Henry L. Stimson) avevano
previsto il 23 giugno che tutto si sarebbe concluso in un periodo di tempo tra
uno e tre mesi. Peraltro, la ful-minea penetrazione in profondità della
Wehrmacht – osserva ai giorni nostri un illustre studioso di storia militare –
si spiega agevolmente con la geografia:
L'estensione del fronte – 1.800 miglia – e la scarsità di
ostacoli naturali offrivano al¬l'aggressore immensi vantaggi per l'infiltrazione
e la manovra. Nonostante le di¬mensioni colossali dell'Armata rossa, il rapporto
tra le sue forze e lo spazio era così sfavorevole che le unità meccanizzate
tedesche potevano trovare agevolmente le oc¬casioni di manovre indirette alle
spalle del loro avversario. Inoltre, le città larga¬mente distanziate e dove
convergevano strade e ferrovie offrivano all'aggressore la possibilità di
puntare su obiettivi alternativi, mettendo il nemico nella difficile si¬tuazione
di dover indovinare la reale direzione di marcia e di dover affrontare un
dilemma dopo l'altro.
Il rapido delinearsi del fallimento della guerra-lampo
Non bisogna lasciarsi abbagliare dalle apparenze: a ben
guardare, il pro¬getto del Terzo Reich di rinnovare a est il trionfale
Blitzkrieg realizzato a ovest comincia a rivelarsi problematico già nelle prime
settimane del gi¬gantesco scontro. A tale proposito risultano illuminanti i
diari di Jo¬seph Goebbels. All'immediata vigilia dell'aggressione egli
sottolinea l'ir¬resistibilità dell'imminente attacco tedesco, «senza dubbio il
più pode¬roso che la storia abbia mai conosciuto»; nessuno potrà seriamente
con¬trastare il «più forte schieramento della storia universale». E dunque:
«Siamo dinanzi ad una marcia trionfale senza precedenti. Conside¬ro la forza
militare dei russi molto bassa, ancora più bassa di quanto la consideri il
Fuhrer. Se c'era e se c'è un'azione sicura, è questa». In realtà non è inferiore
la sicumera di Hitler, che qualche mese prima con un diplomatico bulgaro così si
era espresso a proposito dell'esercito so¬vietico: è solo una «barzelletta».
Sennonché, sin dall'inizio gli invasori si imbattono,
nonostante tut¬to, in spiacevoli sorprese: «Il 25 giugno, in occasione del primo
raid su Mosca, la difesa antiaerea si rivela di una tale efficacia che da quel
mo¬mento la Luftwaffe è costretta a limitarsi a raids notturni a ranghi ridot¬ti».
Bastano dieci giorni di guerra perché comincino a cadere in crisi le certezze
della vigilia. Il 2 luglio Goebbels annota nel suo diario: «Nel complesso, si
combatte molto duramente e ostinatamente. Non si può in alcun modo parlare di
passeggiata. Il regime rosso ha mobilitato il popolo». Gli avvenimenti incalzano
e l'umore dei dirigenti nazisti muta in modo radicale, come emerge sempre dal
diario di Goebbels.
24 luglio:
Non possiamo nutrire alcun dubbio sul fatto che il regime
bolscevico, che esiste da quasi un quarto di secolo, ha lasciato profonde tracce
nei popoli dell'Unione So¬vietica [ ... ]. Sarebbe dunque giusto mettere con
grande chiarezza in evidenza, di¬nanzi al popolo tedesco, la durezza della lotta
che si svolge a est. Bisogna dire alla nazione che questa operazione è molto
difficile, ma che possiamo superarla e che la supereremo.
10 agosto:
Nel quartier generale del Führer apertamente si ammette
anche che ci si è un po' sbagliati nella valutazione della forza militare
sovietica. I bolscevichi rivelano una resistenza maggiore di quella che
supponessimo; soprattutto i mezzi materiali a loro disposizione sono maggiori di
quanto pensassimo.
19 agosto:
Il Fuhrer è intimamente molto irritato con se stesso per il
fatto di essersi lasciato ingannare sino a tal punto sul potenziale dei
bolscevichi dai rapporti [degli agenti tedeschi inviati] dall'Unione Sovietica.
Soprattutto la sua sottovalutazione dei car¬ri armati e dell'aviazione del
nemico ci ha creato molti problemi. Egli ne ha soffer¬to molto. Si tratta di una
grave crisi [...1. Messe a confronto, le campagne condotte sinora erano quasi
passeggiate [ ... ]. Per quanto riguarda l'ovest il Führer non ha al¬cun motivo
di preoccupazione [...1. Col rigore e con l'oggettività di noi tedeschi abbiamo
sempre sopravvalutato il nemico, con l'eccezione in questo caso dei
bol-scevichi.
16 settembre:
Abbiamo calcolato il potenziale dei bolscevichi in modo del
tutto errato.
Gli studiosi di strategia militare sottolineano le
difficoltà impreviste in cui in Unione Sovietica subito si imbatte una macchina
da guerra pode¬rosa, sperimentata e circonfusa dal mito dell'invincibilità. E'
«partico¬larmente significativa per l'esito della guerra orientale la battaglia
di Smolensk della seconda metà di luglio del 1941 (finora rimasta nella ri¬cerca
ampiamente coperta dall'ombra di altri accadimenti)» . L'osser¬vazione è di un
illustre storico tedesco, che riporta poi queste eloquenti note di diario stese
dal generale Fedor von Bock il 20 e il 26 luglio:
Il nemico vuole riconquistare Smolensk ad ogni costo e vi
fa giungere sempre nuove forze. L'ipotesi espressa da qualche parte che il
nemico agisca senza un piano non trova riscontro nei fatti [ ... ]. Si constata
che i russi hanno portato a termine intorno al fronte da me costruito in avanti
un nuovo compatto spiegamento di forze. In mol¬ti punti essi tentano di passare
all'attacco. Sorprendente per un avversario che ha su¬bito simili colpi; deve
possedere una quantità incredibile di materiale, infatti le no¬stre truppe
lamentano ancora adesso il forte effetto dell'artiglieria nemica.
Ancora più inquieto e anzi decisamente pessimista è
l'ammiraglio Wil¬helm Canaris, dirigente del controspionaggio, che, parlando col
genera¬le von Bock il 17 luglio, commenta: «Vedo nero su nero».
Non solo l'esercito sovietico non è allo sbando neppure nei
primi giorni e nelle prime settimane dell'attacco e anzi oppone «tenace
resi¬stenza», ma esso risulta ben guidato, come rivela fra l'altro la «risolutez¬za
di Stalin di arrestare l'avanzata tedesca nel punto per lui determinan¬te». I
risultati di questa accorta guida militare si rivelano anche sul piano
diplomatico: è proprio perché «impressionato dall'ostinato scontro nel¬l'area di
Smolensk» che il Giappone, lì presente con osservatori, decide di respingere la
richiesta del Terzo Reich di partecipazione alla guerra contro l'Unione
Sovietica. L'analisi dello storico tedesco fieramente anticomunista è confermata
in pieno da studiosi russi sull'onda del Rap¬porto Chruscév distintisi quali
campioni della lotta contro lo "stalinismo": «I piani del Blitzkrieg [tedesco]
erano già naufragati alla metà di luglio». In questo contesto non appare formale
l'omaggio che il 14 agosto 1941 Churchill e F. D. Roosevelt rendono alla
«splendida difesa» dell'esercito sovietico. Anche al di fuori dei circoli
diplomatici e governativi, in Gran Bretagna – ci informa una nota di diario di
Beatrice Webb – cittadini ordinari e persino di orientamento conservatore
mo¬strano «vivo interesse per il coraggio e per l'iniziativa sorprendenti e per
il magnifico equipaggiamento delle forze dell'Armata rossa, per l'unico Stato
sovrano in grado di contrastare la potenza pressoché mitica della Germania di
Hitler». Nella stessa Germania, già tre settimane dopo l'inizio dell'operazione
Barbarossa, cominciano a circolare voci che met¬tono radicalmente in dubbio la
versione trionfalistica del regime. È quello che emerge dal diario di un
eminente intellettuale tedesco di ori¬gine ebraica: a quanto pare, ad est
«subiremmo perdite immense, avremmo sottovalutato la forza di resistenza dei
russi», i quali «sarebbe¬ro inesauribili in uomini e materiale bellico».
A lungo letta come espressione di insipienza
politico-militare o ad¬dirittura di cieca fiducia nei confronti del Terzo Reich,
la condotta estremamente cauta di Stalin nelle settimane che precedono lo
scoppio delle ostilità appare ora in una luce del tutto diversa: «II
concentramen¬to delle forze della Wehrmacht lungo il confine con l'URSS, la
violazione dello spazio aereo sovietico e numerose altre provocazioni avevano un
unico scopo: attirare il grosso dell'Armata rossa il più vicino possibile al
confine. Hitler intendeva vincere la guerra in una singola gigantesca
battaglia». A sentirsi attratti dalla trappola sono persino valorosi generali
che, in previsione dell'irruzione del nemico, premono per un massiccio
spostamento di truppe alla frontiera: «Stalin respinse categoricamente la
richiesta, insistendo sulla necessità di mantenere riserve di vasta scala a
considerevole distanza dalla linea del fronte». Più tardi,
avendo preso vi¬sione dei piani strategici degli ideatori dell'operazione
Barbarossa, il maresciallo Georgij K. Zukov ha riconosciuto la saggezza della
linea adottata da Stalin: «Il comando di Hitler contava su uno spostamento del
grosso delle nostre forze al confine con l'intenzione di circondarlo e
distruggerlo».
In effetti, nei mesi che precedono l'invasione dell'URSS,
discutendo coi suoi generali, il Führer osserva: «Problema dello spazio russo.
L'am¬piezza infinita dello spazio rende necessaria la concentrazione in punti
decisivi». Più tardi, ad operazione Barbarossa già iniziata, in una
conversazione egli chiarisce ulteriormente il suo pensiero: «Nella storia
mondiale ci sono state sinora solo tre battaglie di annientamento: Can¬ne, Sedan
e Tannenberg. Possiamo essere orgogliosi per il fatto che due di esse sono state
vittoriosamente combattute da eserciti tedeschi». Sen¬nonché, per la Germania si
rivela sempre più elusiva la terza e più gran¬diosa battaglia decisiva di
accerchiamento e annientamento agognata da Hitler, il quale una settimana dopo è
costretto a riconoscere che l'opera¬zione Barbarossa aveva seriamente
sottovalutato il nemico: «la prepara¬zione bellica dei russi dev'essere
considerata fantastica». Trasparente è qui il desiderio del giocatore d'azzardo
di giustificare il fallimento delle sue previsioni. E, tuttavia, a conclusioni
non dissimili giunge lo studio¬so inglese di strategia militare già citato: il
motivo della disfatta dei francesi risiede «non nella quantità o qualità del
loro materiale bensì nella loro dottrina militare»; per di più, agisce
rovinosamente lo schieramen¬to troppo avanzato dell'esercito, che «compromette
gravemente la sua duttilità strategica»; un errore simile era stato commesso
anche dalla Po¬lonia, favorito «dalla fierezza nazionale e dalla fiducia
eccessiva dei mili¬tari». Nulla di tutto ciò si verifica in Unione Sovietica.
Più importante delle singole battaglie è il quadro
d'assieme: «II si¬stema staliniano riuscì a mobilitare l'immensa maggioranza
della popo¬lazione e la quasi totalità delle risorse»; in particolare,
«straordinaria» fu la «capacità dei sovietici», in una situazione così difficile
come quella venutasi a creare nei primi mesi di guerra, «di evacuare e poi di
ricon¬vertire per la produzione militare un numero considerevole di indu¬strie».
Sì, «messo in piedi due giorni dopo l'invasione tedesca, il Comi¬tato per
l'evacuazione riuscì a spostare a est 1.500 grandi imprese indu¬striali, al
termine di operazioni titaniche di una grande complessità lo¬gistica». Peraltro,
questo processo di dislocazione era già iniziato nel¬le settimane o nei mesi che
precedono l'aggressione hitleriana, a conferma ulteriore del carattere
fantasioso dell'accusa lanciata da Chruscév.
C'è di più. Il gruppo dirigente sovietico aveva in qualche
modo in¬tuito le modalità della guerra, che si andava profilando all'orizzonte,
già al momento in cui aveva promosso l'industrializzazione del paese: con una
radicale svolta rispetto alla situazione precedente, esso aveva identi¬ficato
«un punto focale nella Russia asiatica», lontano e al riparo dai pre¬sumibili
aggressori. In effetti, su ciò Stalin aveva insistito ripetuta¬mente e
vigorosamente. 31 gennaio 1931: s'imponeva la «creazione di un'industria nuova e
ben attrezzata negli Urali, in Siberia, nel Kazacha¬stan». Pochi anni dopo, il
Rapporto pronunciato il 26 gennaio 1934 al XVII Congresso del Pcus aveva
richiamato compiaciuto l'attenzione sul poderoso sviluppo industriale che nel
frattempo si era verificato «in Asia centrale, nel Kazachastan, nelle
Repubbliche dei Buriati, dei Tatari e dei Baschiri, negli Urali, nella Siberia
orientale e occidentale, nell'Estremo Oriente ecc.». Le implicazioni di tutto
ciò non erano sfuggite a Troc¬kij che qualche anno dopo, nell'analizzare i
pericoli di guerra e il grado di preparazione dell'Unione Sovietica e nel
sottolineare i risultati conse¬guiti dall'«economia pianificata» in ambito
«militare», aveva osservato: «L'industrializzazione delle regioni remote,
principalmente della Sibe¬ria, conferisce alle distese delle steppe e delle
foreste un'importanza nuova». Solo ora i grandi spazi assumevano tutto il loro
valore e ren¬devano più problematica che mai la guerra-lampo tradizionalmente
agognata e preparata dallo stato maggiore tedesco.
È proprio sul terreno dell'apparato industriale edificato
in previsio¬ne della guerra che il Terzo Reich è costretto a registrare le
sorprese più amare, come emerge da due commenti di Hitler. 29 novembre 1941:
«Com'è possibile che un popolo così primitivo possa raggiungere simili traguardi
tecnici in così poco tempo?». 26 agosto 1942: «Per quanto riguarda la Russia, è
incontestabile che Stalin ha elevato il tenore di vita. Il popolo russo non
soffriva la fame [al momento dello scatenamento dell'operazione Barbarossa]. Nel
complesso occorre riconoscere: sono state costruite officine dell'importanza
delle Hermann Goering Werke là dove fino a due anni fa non esistevano che
villaggi sconosciuti. Trovia¬mo linee ferroviarie che non sono indicate sulle
carte».
A questo punto conviene dare la parola a tre studiosi fra
loro assai diversi (l'uno russo e gli altri due occidentali). Il primo, che ha a
suo tempo diretto l'Istituto sovietico di storia militare e che ha condiviso
l'antistalinismo militante degli anni di Gorbacev, sembra ispirato dal-l'intenzione
di riprendere e radicalizzare la requisitoria del Rapporto Chruscév. E,
tuttavia, dai risultati stessi della sua ricerca egli si sente co¬stretto a
formulare un giudizio assai più sfumato: senza essere uno specialista e tanto
meno il genio dipinto dalla propaganda ufficiale, già ne¬gli anni che precedono
lo scoppio della guerra Stalin si occupa intensa¬mente dei problemi della
difesa, dell'industria della difesa e dell'econo¬mia di guerra nel suo
complesso. Sì, sul piano strettamente militare, solo attraverso tentativi ed
errori anche gravi e «grazie alla dura prassi della quotidiana vita militare»,
egli «apprende gradualmente i principi della strategia» In altri campi, però, il
suo pensiero si rivela «più sviluppato di quello di molti leader militari
sovietici». Grazie anche alla lunga pratica di gestione del potere politico,
Stalin non perde mai di vi¬sta il ruolo centrale dell'economia di guerra, e
contribuisce a rafforzare la resistenza dell'URSS col trasferimento verso
l'interno delle industrie bel¬liche: «è pressoché impossibile sopravvalutare
l'importanza di questa im¬presa». Grande attenzione il leader sovietico presta
infine alla dimen-sione politico-morale della guerra. In questo campo egli
«aveva idee del tutto fuori del comune», come dimostra la decisione «coraggiosa
e lungi¬mirante», presa nonostante lo scetticismo dei suoi collaboratori, di
effet¬tuare la parata militare di celebrazione dell'anniversario della
Rivoluzio¬ne d'ottobre il 7 novembre 1941, in una Mosca assediata e incalzata
dal nemico nazista. In sintesi, si può dire che rispetto ai militari di carriera
e alla cerchia dei suoi collaboratori in generale, «Stalin mostra un pensiero
più universale». Ed è un pensiero – si può aggiungere – che non tra¬scura
neppure gli aspetti più minuti della vita e del morale dei soldati: in¬formato
del fatto che essi erano rimasti senza sigarette, grazie anche alla sua capacità
di disbrigare «un enorme carico di lavoro», «nel momento cruciale della
battaglia di Stalingrado, egli [Stalin] trovò il tempo di chiamare al telefono
Akaki Mgeladze, capo del partito dell'Abhasia, la regione di coltivazione del
tabacco: “I nostri soldati non hanno più la possibilità di fumare! Senza
sigarette il fronte non regge! "».
Nell'apprezzamento positivo di Stalin quale leader militare
ancora oltre si spingono due autori occidentali. Se Chruscév insiste sui
travol¬genti successi iniziali della Wehrmacht, il primo dei due studiosi cui
qui faccio riferimento esprime questo medesimo dato di fatto con un linguaggio
assai diverso: non è stupefacente che «la più grande invasio¬ne nella storia
militare» abbia conseguito iniziali successi; la riscossa dell'Armata rossa dopo
i colpi devastanti dell'invasione tedesca nel giugno 1941 fu «la più grande
impresa d'armi che il mondo avesse mai visto». Il secondo studioso, docente in
un'accademia militare statu¬nitense, a partire dalla comprensione del conflitto
nella prospettiva della lunga durata e dall'attenzione riservata alle retrovie
come al fron¬te e alla dimensione economica e politica come a quella più
propria¬mente militare della guerra, parla di Stalin come di un «grande
strate¬ga», anzi come del «primo vero stratega del ventesimo secolo». È un
giudizio complessivo che trova pienamente consenziente anche l'altro studioso
occidentale qui citato, la cui tesi di fondo, sintetizzata nel ri¬svolto di
copertina, individua in Stalin il «più grande leader militare del ventesimo
secolo». Si possono ovviamente discutere o sfumare questi giudizi così
lusinghieri; resta il fatto che, almeno per quanto ri¬guarda il tema della
guerra, il quadro tracciato da Chruscév ha perso qualsiasi credibilità.
Tanto più che, al momento della prova, l'URSS si rivela
assai prepa¬rata anche da un altro essenziale punto di vista. Ridiamo la parola
a Goebbels che, nello spiegare le impreviste difficoltà dell'operazione
Bar¬barossa, oltre che al potenziale bellico del nemico, rinvia anche ad un
al¬tro fattore:
Ai nostri uomini di fiducia e alle nostre spie era
pressocché impossibile di penetrare all'interno dell'Unione Sovietica. Essi non
potevano acquisire un quadro preciso. I bolscevichi si sono direttamente
impegnati a trarci in inganno. Di tutta una serie di armi da loro possedute,
soprattutto di armi pesanti, non abbiamo avuto alcuna idea. Esattamente il
contrario di quello che si è verificato in Francia, dove sapeva¬mo in pratica
tutto e non potevamo in alcun modo esser sorpresi .
La carenza di «buonsenso»
e le «deportazioni in massa di intere popolazioni»
Autore nel 1913 di un libro che l'aveva consacrato come
teorico della questione nazionale, commissario del popolo alle nazionalità
subito dopo la Rivoluzione d'ottobre, per il modo come aveva svolto il suo
compito Stalin si era guadagnato il riconoscimento di personalità tra loro così
diverse quali Arendt e De Gasperi. La riflessione sulla questio¬ne nazionale era
da ultimo sfociata in un saggio sulla linguistica impe¬gnato a dimostrare che,
ben lungi dal dileguare in seguito al rovescia¬mento del potere politico di una
determinata classe sociale, la lingua di una nazione ha una notevole stabilità,
così come di una notevole stabilità gode la nazione che con essa si esprime.
Anche questo saggio aveva contribuito a consolidare la fama di Stalin quale
teorico della questione nazionale. Ancora nel 1965, pur nell'ambito di un
atteggiamento di dura condanna, Louis Althusser attribuirà a Stalin il merito di
essersi opposto alla «follia» che pretendeva «a ogni costo di fare della lingua
una sovra¬struttura» ideologica: grazie a queste «semplici paginette» —
concluderà il filosofo francese — «intravedemmo che l'uso del criterio di classe
non era senza limiti». La dissacrazione-liquidazione in cui nel 1956 si im¬pegna
Chruscév non poteva non prendere di mira, per ridicolizzarlo, il teorico e uomo
politico che aveva dedicato particolare attenzione alla questione nazionale. Nel
condannare «le deportazioni in massa di intere nazionalità», il Rapporto segreto
sentenzia:
Non occorre essere marxisti-leninisti per capire ciò:
qualunque persona di buon¬senso si chiede come è possibile rendere intere
nazioni responsabili di atti ostili, senza fare eccezioni per le donne, i
bambini, i vecchi, i comunisti e i membri del Komsomol [la gioventù comunista]
fino al punto di intraprendere contro di loro una repressione generale,
gettandoli nella miseria e nella sofferenza senza altra cau¬sa che la vendetta
per qualche misfatto perpetrato da individui o gruppi isolati.
Fuori discussione è l'orrore della punizione collettiva,
della deportazio¬ne imposta a popolazioni sospettate di scarsa lealtà
patriottica. Disgra¬ziatamente, ben lungi dal rinviare alla follia di un singolo
individuo, questa pratica caratterizza in profondità la Seconda guerra dei
trent'an¬ni, a cominciare dalla Russia zarista che, pur alleata dell'Occidente
libe¬rale, nel corso del Primo conflitto mondiale conosce «un'ondata di
de¬portazioni» di «dimensioni sconosciute in Europa», col coinvolgimento di
circa un milione di persone (soprattutto di origine ebraica o germani¬ca). Di
dimensioni più ridotte, ma tanto più significativa è la misura che nel corso del
Secondo conflitto mondiale colpisce gli americani di origine giapponese,
deportati e rinchiusi in campi di concentramento.
Oltre che al fine della rimozione di una potenziale quinta
colonna, l'espulsione e deportazione di intere popolazioni può essere promossa
in funzione del rifacimento o della ridefinizione della geografia politica. Nel
corso della prima metà del Novecento, questa pratica infuria a livel¬lo
planetario, dal Medio Oriente, dove gli ebrei appena scampati alla «soluzione
finale» costringono alla fuga arabi e palestinesi, all'Asia, dove la spartizione
tra India e Pakistan del gioiello dell'Impero inglese passa attraverso la «più
grande migrazione forzata a livello mondiale del seco¬lo». Per restare sempre
nel continente asiatico, vale la pena di dare uno sguardo a quel che avviene in
una regione amministrata da una per¬sonalità o in nome di una personalità (il
14° Dalai Lama), successiva¬mente destinata a conseguire il premio Nobel per la
pace e a divenire si¬nonimo di non-violenza: «Nel luglio 1949 tutti gli han
residenti [da più generazioni] a Lhasa furono espulsi dal Tibet», al fine sia di
«fronteggia¬re la possibilità dell'attività di una "quinta colonna"», sia di
rendere più omogenea la composizione demografica.
Abbiamo a che fare con una pratica non solo messa in atto
nelle più diverse aree geografiche e politico-culturali, ma in quei decenni
esplici¬tamente teorizzata da personalità di grande rilievo. Nel 1938 David Ben
Gurion, il futuro padre della patria in Israele, dichiara: «Sono favorevole al
trasferimento forzato [degli arabi palestinesi]; non ci vedo nulla di immorale»
74. In effetti, a tale programma egli si atterrà coerentemente dieci anni dopo.
Ma qui occorre concentrare l'attenzione soprattutto
sull'Europa centro-orientale, dove si verifica una tragedia rimossa, ma che è
tra le più grandi del Novecento. Complessivamente, circa sedici milioni e mezzo
di tedeschi furono costretti ad abbandonare le loro case e due mi-lioni e mezzo
non sopravvissero alla gigantesca operazione di pulizia o di contropulizia
etnica. In questo caso è possibile procedere ad un confronto diretto tra Stalin
da un lato e gli statisti occidentali e filocci¬dentali dall'altro. Quale
atteggiamento assunsero questi ultimi in tale circostanza? Lo analizziamo sempre
a partire da una storiografia che non può essere sospettata di indulgenza nei
confronti dell'Unione So¬vietica:
Fu il governo britannico che dal 1942 spinse per un
generale trasferimento di po¬polazione dai territori tedeschi orientali e dai
Sudeti [...]. Più in là di tutti si spinse il sottosegretario di Stato Sargent,
che richiese un'indagine «se la Gran Bretagna non dovesse incoraggiare il
trasferimento in Siberia dei tedeschi della Prussia orientale e dell'Alta
Slesia».
Intervenendo alla Camera dei Comuni il 15 dicembre 1944 sul
program¬mato «trasferimento di diversi milioni» di tedeschi, Churchill chiarì
così il suo pensiero:
Per quello che siamo riusciti a capire, l'espulsione è il
metodo più soddisfacente e più duraturo. Non ci sarà più un mescolamento delle
popolazioni a provocare un disordine senza fine com'è avvenuto nel caso
dell'Alsazia e Lorena. Sarà fatto un ta¬glio netto. Non sono allarmato dalla
prospettiva della separazione tra le popolazio¬ni così come non sono allarmato
dai trasferimenti su larga scala, che nelle moderne condizioni sono molto più
agevoli di quanto siano mai stati nel passato.
Ai piani di deportazione aderì poi, nel giugno 1943, F. D.
Roosevelt; «quasi nello stesso momento Stalin acconsentì alle pressioni di Benes
per l'espulsione dei tedeschi dei Sudeti dalla Cecoslovacchia da restaura¬re».
Uno storico statunitense ritiene allora di dover trarre questa conclusione:
Alla fine, sulla questione dell'espulsione dei tedeschi
nella Cecoslovacchia o nella Polonia post-bellica non vi fu in pratica nessuna
differenza tra politici comunisti e non comunisti: su questo tema Benes e
Gottwald, Mikolajczyk e Bierut, Stalin e Churchill parlavano tutti la stessa
lingua.
Già questa conclusione basterebbe a confutare la
contrapposizione in bianco e nero implicita nel Rapporto Cruscév. In realtà,
almeno per quanto riguarda i tedeschi dell'Europa orientale, a prendere
l'iniziativa delle «deportazioni in massa di intere popolazioni» non fu Stalin;
le re¬sponsabilità non si distribuirono in modo eguale. Finisce col
ricono¬scerlo lo stesso storico statunitense precedentemente citato. In
Cecoslo¬vacchia, Jan Masaryk espresse la convinzione secondo cui «il tedesco è
senz'anima, e le parole che capisce meglio sono le raffiche di mitra». Si
trattava di un atteggiamento tutt'altro che isolato: «Finanche la Chiesa
cattolica ceca fece sentire la propria voce. Monsignor Bohumil Stasek, canonico
di Vysehrad, dichiarò: "Dopo mille anni è giunto il momento di regolare i conti
con i tedeschi, che sono malvagi e per i quali il co¬mandamento 'Ama il prossimo
tuo' non si applica”» `. In queste circo¬stanze, un testimone tedesco ricorda:
«Dovemmo spesso chiedere aiuto ai russi contro i cechi, cosa che fecero spesso,
sempre che non si trattasse di mettere le mani addosso a una donna» `. Ma c'è di
più. Diamo di nuovo la parola allo storico statunitense: «Nell'ex campo nazista
di The¬resienstadt, i tedeschi internati si chiedevano cosa sarebbe successo
loro se il locale comandante russo non li avesse protetti dai cechi». Un
rap¬porto segreto sovietico inviato a Mosca al Comitato centrale del partito
comunista riferiva delle suppliche rivolte alle truppe sovietiche perché
restassero: « Se l'Armata rossa se ne va, siamo finiti". Le manifestazioni di
odio per i tedeschi sono palesi. [I cechi] non li uccidono ma li tor¬mentano
come fossero bestie. Li considerano degli animali». In effetti –osserva sempre
lo storico che qui sto seguendo – «l'orribile trattamento inflitto dai cechi
portò alla disperazione. Secondo statistiche ceche, sol¬tanto nel 1946 i
tedeschi che si suicidarono furono 5.558"'. Qualcosa di analogo avvenne in
Polonia. In conclusione:
I tedeschi trovarono il personale militare russo molto più
umano e responsabile dei cechi o dei polacchi del posto. Occasionalmente, i
russi dettero da mangiare a bambini tedeschi affamati, laddove i cechi li
lasciarono morire di inedia. A volte le truppe sovietiche davano agli esausti
tedeschi un passaggio sui loro veicoli durante le lunghe marce per uscire dal
paese, mentre i cechi restavano a guardarli con di¬sprezzo o indifferenza.
Lo storico statunitense parla di «cechi» o di «polacchi» in
generale, ma in modo non del tutto corretto, come emerge dal suo stesso
racconto:
La questione dell'espulsione dei tedeschi mise i comunisti
cechi — e di altri paesi —in seria difficoltà. Durante la guerra, la posizione
dei comunisti, articolata da Georgi Dimitrov a Mosca, era che i tedeschi
responsabili della guerra e dei suoi cri¬mini dovessero essere processati e
condannati, mentre gli operai e i contadini tede¬schi andavano rieducati.
In effetti «in Cecoslovacchia furono i comunisti, una volta
conquistato il potere nel febbraio 1948, a porre fine alla persecuzione delle
poche mi¬noranze etniche che erano rimaste».
Contrariamente all'insinuazione di Chruscév, nel confronto
coi di¬rigenti borghesi dell'Europa occidentale e centrorientale, almeno in
questo caso sono Stalin e il movimento comunista da lui diretto a rive¬larsi
meno sprovvisti di «buonsenso».
Ciò non avviene casualmente. Se, sul finire della guerra,
F. D. Roo¬sevelt dichiara di essere «più che mai assetato di sangue verso i
tedeschi» per le atrocità da loro commesse e giunge persino ad accarezzare, per
qualche tempo, l'idea della «castrazione» di un popolo così perverso, ben
diversamente si atteggia Stalin che già subito dopo lo scatenamento
dell'operazione Barbarossa dichiara che la resistenza sovietica può con¬tare
sull'appoggio di «tutti i migliori uomini della Germania» e persino del «popolo
tedesco asservito dai caporioni hitleriani» . Particolar¬mente solenne è la
presa di posizione dell'agosto del 1942:
Sarebbe ridicolo identificare la cricca hitleriana col
popolo tedesco, con lo Stato te¬desco. Le esperienze della storia dimostrano che
gli Hitler vanno e vengono, ma che il popolo tedesco, lo Stato tedesco rimane.
La forza dell'Armata rossa risiede nel fatto che essa non nutre e non può
nutrire alcun odio razziale contro altri po-poli e quindi neppure contro il
popolo tedesco; essa è educata nello spirito dell'eguaglianza di tutti i popoli
e di tutte le razze, nello spirito del rispetto dei diritti de¬gli altri popoli.
Persino un anticomunista inflessibile qual è Ernst Nolte è
costretto a ri¬conoscere che l'atteggiamento assunto dall'Unione Sovietica nei
confronti del popolo tedesco non presenta quei toni razzistici, riscontrabili
talvolta nelle potenze occidentali ". Per concludere su questo punto: se non
equamente distribuita, la carenza di "buonsenso" era ben diffusa tra i leader
politici del Novecento.
Fin qui mi sono occupato delle deportazioni provocate dalla
guerra e dal pericolo di guerra ovvero dal rifacimento e dalla ridefinizione
della geografia politica. Almeno sino agli anni quaranta, negli Stati Uniti
continuano invece ad infuriare le deportazioni messe in atto dai centri urbani
che vogliono essere, come ammoniscono i cartelli collocati al loro ingresso, per
whites only. Oltre agli afroamericani, ad essere colpiti sono anche i messicani,
riclassificati come non bianchi in base ad un censimento del 1930: sono così
deportati in Messico «migliaia di lavora¬tori e le loro famiglie, compresi molti
americani di origine messicana».
Le misure di espulsione e deportazione dalle città che
vogliono essere «solo per bianchi» ovvero «solo per caucasici» non risparmiano
neppure gli ebrei.
Il Rapporto segreto dipinge Stalin come un tiranno così
privo del sen¬so della realtà che, nel prendere misure collettive contro
determinati gruppi etnici, non esita a colpire gli innocenti e gli stessi
compagni di partito. Vien fatto di pensare alla vicenda degli esuli tedeschi
(per lo più nemici dichiarati di Hitler) che, subito dopo lo scoppio della
guerra con la Germania, sono rinchiusi in blocco nei campi di concentramento
francesi. Ma è inutile voler ricercare uno sforzo di analisi comparata nel
discorso di Chruscév.
Esso mira a rovesciare nel suo contrario due motivi sino a
quel mo¬mento diffusi non solo nella propaganda ufficiale ma anche nella
pubblicistica e nell'opinione pubblica internazionale: il grande condottiero che
aveva contribuito in modo decisivo all'annientamento del Terzo Reich si
trasforma così in un rovinoso dilettante che a stento riesce ad orientarsi sul
mappamondo; l'eminente teorico della questione naziona¬le proprio in questo
campo si rivela sprovvisto del più elementare «buonsenso». I riconoscimenti sino
a quel momento tributati a Stalin sono messi tutti sul conto di un culto della
personalità che ora si tratta di liquidare una volta per sempre.
Il culto della personalità in Russia da Kerenskij a Stalin
La denuncia del culto della personalità è il pezzo forte di
Chruscév. Nel suo Rapporto è però assente una domanda che pure dovrebbe essere
d'obbligo: abbiamo a che fare con la vanità e il narcisismo di un singolo leader
politico, oppure con un fenomeno di carattere più generale che affonda le sue
radici in un contesto oggettivo determinato? Può essere interessante leggere le
osservazioni fatte da Bucharin mentre negli USA fervono i preparativi per
l'intervento nella Prima guerra mondiale:
Perché la macchina statale sia più preparata ai compiti
militari, si trasforma da sé in una organizzazione militare, al cui comando c'è
un dittatore. Questo dittatore è il presidente Wilson. Gli sono stati concessi
poteri eccezionali. Ha un potere quasi assoluto. E si cerca di installare nel
popolo sentimenti servili per il "grande presi¬dente” come nell'antica Bisanzio
dove avevano divinizzato il proprio monarca.
In situazioni di crisi acuta la personalizzazione del
potere tende a intrec¬ciarsi con la trasfigurazione del leader che lo detiene.
Allorché nel di¬cembre 1918 mette piede in Francia, il presidente americano
vittorioso è acclamato come il Salvatore e i suoi quattordici punti sono
paragonati al Discorso della Montagna.
Danno soprattutto da pensare i processi politici che si
verificano ne¬gli Stati Uniti nel periodo che va dalla Grande crisi alla Seconda
guerra mondiale. Asceso alla presidenza con la promessa di porre rimedio ad una
situazione economico-sociale assai preoccupante, F. D. Roosevelt è eletto per
quattro mandati consecutivi (anche se muore all'inizio del quarto): un caso
unico nella storia del suo paese. Al di là della lunga du¬rata di questa
presidenza, fuori del comune sono anche le attese e le spe¬ranze che la
circondano. Personalità autorevoli invocano un «dittatore nazionale» e invitano
il neopresidente a dar prova di tutta la sua energia: «Diventa un tiranno, un
despota, un vero monarca. Durante la Guerra mondiale noi prendemmo la nostra
Costituzione, la mettemmo da par¬te finché la guerra non fu finita». La
permanenza dello stato d'eccezione esige che non ci si lasci inceppare da
eccessivi scrupoli legalitari. Il nuo¬vo leader della nazione è chiamato ad
essere ed è già definito «una perso¬na provvidenziale», ovvero, secondo le
parole del cardinale O'Connell, «un uomo mandato da Dio». La gente della strada
scrive e si rivolge a F. D. Roosevelt in termini ancora più enfatici,
dichiarando di guardare a lui «quasi come si guarda a Dio» e di sperare di
poterlo un giorno collo¬care «nel Pantheon degli immortali, accanto a Gesù».
Invitato a comportarsi da dittatore e uomo della Provvidenza, il neopresidente
fa lar¬ghissimo uso del suo potere esecutivo già nel primo giorno o nelle prime
ore del suo mandato. Nel suo messaggio inaugurale egli esige «un largo potere
dell'Esecutivo L.] tanto grande quanto sarebbe quello concesso¬mi se fossimo
realmente invasi da un nemico straniero». Con lo scop¬pio delle ostilità in
Europa, prima ancora di Pearl Harbor, F. D. Roose¬velt comincia di sua
iniziativa a trascinare il paese in guerra a fianco del¬l'Inghilterra; in
seguito, con un ordine esecutivo emanato in modo so¬vrano, impone la reclusione
in campi di concentramento di tutti i citta¬dini americani di origine
giapponese, comprese donne e bambini. È una presidenza che, se per un verso gode
di una diffusa devozione popolare, per un altro verso fa gridare al pericolo
«totalitario» (totalitarian): ciò av¬viene in occasione della Grande crisi
(allorché a pronunciare l'atto d'ac¬cusa è in particolare l'ex presidente Hoover)
e soprattutto nei mesi che precedono l'intervento nel Secondo conflitto mondiale
(allorché il sena¬tore Burton K. Wheeler accusa F. D. Roosevelt di esercitare un
«potere dittatoriale» e di promuovere una «forma totalitaria di governo»).
Al¬meno dal punto di vista degli avversari del presidente, totalitarismo e culto
della personalità avevano attraversato l'Atlantico.
Certo, il fenomeno che qui stiamo indagando (la
personalizzazione del potere e il culto della personalità ad essa connesso) si
presenta solo in forma embrionale nella Repubblica nordamericana, protetta
dall'o¬ceano da ogni tentativo di invasione e con alle spalle una tradizione
po¬litica ben diversa da quella della Russia. È su questo paese che si deve
concentrare l'attenzione. Vediamo cosa avviene tra febbraio e ottobre 1917, e
dunque prima dell'ascesa al potere dei bolscevichi. Spinto sì dalla sua vanità
personale ma anche dal desiderio di stabilizzare la situazione, ecco Kerenskij
«modellarsi a Napoleone»: passa in rassegna le truppe «con il braccio infilato
nel davanti della giubba»; d'altro canto, «sullo scrittoio del suo studio al
ministero della Guerra campeggiava un busto dell'imperatore dei francesi». I
risultati di questa messa in scena non tar¬dano a manifestarsi: fioriscono le
poesie che rendono omaggio a Keren¬skij come al novello Napoleone. Alla vigilia
dell'offensiva d'estate, che avrebbe dovuto definitivamente risollevare le sorti
dell'esercito rus¬so, il culto riservato a Kerenskij (in certi ristretti
circoli) raggiunge il culmine:
Ovunque veniva acclamato come un eroe, i soldati se lo
issavano sulle spalle, lo tempestavano di fiori, gli si gettavano ai piedi.
Un'infermiera inglese ebbe modo di assistere sbalordita alla scena di uomini di
truppa che «baciavano lui, la sua auto e il terreno su cui poggiava i piedi.
Molti erano caduti in ginocchio e pregavano, altri piangevano.
Come si vede, non ha molto senso spiegare, come fa Chruscév,
con il narcisismo di Stalin la forma esaltata che, a partire da un certo
momen¬to, il culto della personalità assume in URSS. In realtà, quando
Kagano¬vic gli propone di sostituire la dizione di marxismo-leninismo con
quel¬la di marxismo-leninismo-stalinismo, il leader a cui è rivolto tale
omag¬gio risponde: «Vuoi paragonare il cazzo con la torre dei pompieri». Almeno
se messo a confronto con Kerenskij, Stalin appare più modesto. Lo conferma
l'atteggiamento da lui assunto a conclusione di una guerra vinta realmente e non
soltanto nell'immaginazione, come nel caso del dirigente menscevico amante delle
pose napoleoniche. Subito dopo la parata della vittoria, un gruppo di
marescialli prende contatto con Mo-lotov e Malenkov: essi propongono di
solennizzare il trionfo conseguito nel corso della Grande guerra patriottica,
conferendo il titolo di «eroe dell'Unione Sovietica» a Stalin, il quale però
declina l'offerta. Dal¬l'enfasi retorica il leader sovietico rifugge anche in
occasione della Con¬ferenza di Potsdam: «Sia Churchill che Truman si presero il
tempo di passeggiare tra le rovine di Berlino; Stalin non mostrò tale interesse.
Senza far rumore, arrivò col treno, ordinando persino a Zukov di can¬cellare
qualsiasi eventuale piano di dargli il benvenuto con una banda militare e una
guardia d'onore». Quattro anni dopo, alla vigilia del suo settantesimo
compleanno, si svolge al Cremlino un colloquio che vale la pena di riportare:
Egli [Stalin] convoca Malenkov e lo ammonisce: «Non si
faccia venire in testa di onorarmi di nuovo con una "stella"». «Ma, compagno
Stalin, un tale anniversario! Il popolo non capirebbe.» «Non si richiami al
popolo. Non ho l'intenzione di liti¬gare. Nessuna iniziativa personale! Mi ha
capito?» «Ovviamente, compagno Stalin, ma i membri del politbjuro sono
dell'opinione...» Stalin interrompe Malenkov e dichiara che la questione è
chiusa.
Naturalmente, si può dire che nelle circostanze qui
riportate gioca un ruolo più o meno grande il calcolo politico (e sarebbe ben
strano che non lo giocasse); è un fatto, però, che la vanità personale non
prende il sopravvento. Tanto meno essa prende il sopravvento allorché sono in
gioco decisioni vitali di carattere politico o militare: nel corso della
Se¬conda guerra mondiale Stalin invita i suoi interlocutori ad esprimersi senza
giri di parole, discute animatamente e litiga persino con Molotov, che a sua
volta, pur guardandosi bene dal mettere in discussione la ge¬rarchia, continua a
tener fermo alla sua opinione. A giudicare dalla testi¬monianza dell'ammiraglio
Nikolai Kusnezov, il leader supremo «ap¬prezzava in modo particolare quei
compagni che ragionavano con la loro testa e non esitavano ad esprimere il loro
punto di vista senza compromessi».
Interessato com'è ad additare in Stalin il responsabile
unico di tutte le catastrofi abbattutesi sull'URSS, ben lungi dal liquidare il
culto della personalità, Chruscév si limita a trasformarlo in un culto negativo.
Re¬sta ferma la visione in base alla quale in principio erat Stalin! Anche nel¬l'affrontare
il capitolo più tragico della storia dell'Unione Sovietica (il terrore e le
purghe sanguinose, che infuriano su larga scala e non rispar¬miano in alcun modo
il partito comunista), il Rapporto segreto non ha dubbi: è un orrore da mettere
sul conto pressoché esclusivo di un indivi¬duo assetato di potere e posseduto da
una paranoia sanguinaria.
ECCO
PERCHE' SONO MARXISTA LENINISTA di
Nikolas
Renzi
ECCO PERCHE' SONO MARXISTA LENINISTA E NON TROTZKYSTA; ALCUNE
DIFFERENZE SOSTANZIALI Nikolas Renzi
1) Marx e Lenin sostenevano che la rivoluzione comunista è divisa in fasi. Se
non si hanno le basi soggettive ed oggettive (che si acquistano fase per fase),
la rivoluzione potrebbe portare ad un effetto negativo e per nulla socialista,
in quanto portata avanti da persone inadeguate. Trotzky proponeva invece di
saltare queste fasi e di fare una rivoluzione anche senza condizioni ideologiche
e culturali. 2) Nelle sue teorie Trotzky a differenza di Marx e Lenin considera
sbagliato sostenere qualsiasi movimento di qualsiasi lotta democratica nel
sistema capitalismo. Ciò significa che secondo Trozky noi comunisti italiani
dovremmo essere contro il movimento dei NO TAV, di quelli che sono contrari al
nucleare ecc.. Una strategia fallimentare perché non consente di portare a casa
nemmeno la più piccola vittoria, che invece potenzialmente potrebbe essere un
passo avanti verso il socialismo. 3) Mentre Lenin e Marx sostengono essenziale
la lotta degli operai affianco dei contadini, Trozky non considera i contadini
come forza rivoluzionaria valida. La storia però ha più volte dato torto a
Trozky. 4) Trozky sosteneva nella sua idea di rivoluzione, il bisogno di
"esportarla" in altri Paesi. Sia Lenin che Marx scrivono invece il contrario e
ne spiegano anche le motivazioni; la rivoluzione non è un foglio di carta
stampato, che puoi fotocopiare e dare ad un altro paese. La rivoluzione nasce e
matura solo quando il popolo di uno Stato capisce l'essenza del capitalismo e
della sua crisi. 5) Trotzky scriveva che non si può attuare il socialismo in un
solo paese. Quindi secondo i trozkysti l'URSS non era socialista (e ovviamente
non lo sono nemmeno Cuba, Corea del nord ecc..) e nessun'altro potrà esserlo se
non lo sono tutti. Quindi dovremmo aspettare gli altri per essere socialisti?
Anche questa teoria non regge. 6) Il trozkysmo non forma nessuna filosofia
socio-economica, si basa su quella marxista ma ne è la contraddizione, infatti
la Quarta Internazionale di Trozky non venne riconosciuta da nessun vero partito
comunista, era formata semplicemente da persone espulse dai vari partiti
marxisti-leninisti e non avevano nemmeno nessun legame organizzativo tra loro o
proposta di cambiamento, se non queste teorie fiacche e contraddittorie.
C'è una sorta di reazione di sgomento superstizioso quando si
cita positivamente Stalin. E' la stessa reazione che si riscontra quando si
cita negativamente Padre Pio di Pietralcina che, seppur santificato a furore del
popolo dei suoi numerosi fan, fu assai discusso dalla Chiesa ed in qualche modo
subito di mala voglia. Una identica reazione se si loda Stalin e se si critica
Padre Pio. La stessa superstizione. C'è una responsabilità storica del gruppo
dirigente comunista non più bolscevico del XX Congresso. Immaginatevi al posto
di Togliatti, Gramsci,Terracini, Scoccimarro Secchia persone come Bersani,
D'Alema, Veltroni, Camusso, Napolitano. Insomma la corrente migliorista del PCUS
ha preso il sopravvento e i dirigenti della potente Unione Sovietica non
accettavano più come Stalin di ricevere un modesto compenso mentre oramai
amministravano ricchezze e risorse immense. Per quanti privilegi potesse avere
la Nomenclatura essi erano ben misera cosa in confronto a quelli ai quali
agognavano le cricche radunate attorno a Kruscev e poi trenta anni dopo attorno
a Gorbacev. La direzione di un immenso Stato ne aveva fatto dei borghesi senza
averne però i vantaggi che hanno i dirigenti delle "democrazie" occidentali. Lo
stalinismo era il massimo di idealità e di spiritualità nella gestione dello
stato comunista. Una gestione di persone che guadagnavano al massimo tre o
quattro volte quanto un operaio. Il kruscevismo è stato un colpo di stato
borghese dentro il comunismo fatto dal suo stesso ceto dirigente! Stalin aveva
capito che questo era possibile che accadesse ma probabilmente era oramai troppo
anziano per potere mettere in salvo il potere bolscevico da nuovi borghesi.
Guardate la fine miserevole fatta da Gorbacev ridotto a vendersi come un
prodotto pubblicitario, come la prova della impossibilità del comunismo.
Gorbacev che nel constatare quanti danni ha prodotto all'URSS non ha ancora
avuto l'onestà di farsi una pubblica autocritica e dire: "ho sbagliato".
Migliaia di neoricchi russi che gozzovigliano negli alberghi più lussuosi dello
Occidente, personaggi che possiedono venti anni dopo la caduta del comunismo
patrimoni di miliardi e miliardi di rubli mentre la società russa subisce una
sorta di regressione antropologica con una terribile diminuzione di natalità e
migliaia e migliaia di poveri non hanno casa e d'inverno muoiono per strada,
centinaia di migliaia di bambini abbandonati in Bielorussia, Ucraina, Georgia
sono la terribile prova di quanto fosse avvelenato il pomo della libertà offerto
da Gorbacev e dal sicario degli USA Eltsin al popolo russo. Solo un ritorno
all'etica bolscevica del comunismo edificato da Lenin e da Stalin può ridare
speranza non solo ai russi ma all'umanità per la quale Stalin era un faro, un
punto di speranza. "A da veni baffon" tornerà a spingere un movimento per
recuperare gli ideali del comunismo, la sua etica umanitaria superiore a quella
di qualsiasi religione. Desidero chiudere ricordando le parole di Pietro Nenni e
di Rodolfo Morandi nel ricordo che fecero sull'Avanti! del marzo 1953 di
Giuseppe Stalin: "L'umanità ha perduto un grande condottiero di pace e di
libertà!"
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STALIN: LA GUERRA FRA
I PAESI CAPITALISTICI E' INEVITABILE Brano tratto da "Problemi
economici del socialismo nell'URSS" di J.Stalin (1952). Traduzione
dall´originale di Stefano Trocini.
6.Inevitabilità della guerra fra i paesi capitalistici
Alcuni compagni affermano che in seguito agli sviluppi della situazione
internazionale dopo la seconda guerra mondiale la guerra fra i paesi
capitalistici cessa di essere inevitabile. Essi ritengono che le contraddizioni
fra il campo del socialismo ed il campo del capitalismo sono più forti delle
contraddizioni fra i paesi capitalistici, che gli Stati Uniti d'America hanno
sottomesso abbastanza gli altri paesi capitalistici in modo da impedire loro di
combattersi, di indebolirsi l'un l'altro; che gli uomini più lungimiranti del
capitalismo hanno compreso abbastanza la lezione di due guerre mondiali, causa
di gravi danni per l'intero mondo capitalistico, per permettersi di trascinare
di nuovo i paesi capitalistici in una guerra fra di loro; e che per tutto ciò la
guerra fra i paesi capitalistici ha cessato di essere inevitabile.
Questi compagni si sbagliano. Essi vedono i fenomeni esteriori, quelli che
emergono in superficie. Ma non vedono le forze profonde, che se pure agiscono
per ora impercettibilmente alla fine determineranno il corso degli eventi.
Esteriormente pare che tutto vada "bene": gli Stati Uniti d'America hanno
sottomesso al loro volere l'Europa occidentale, il Giappone e gli altri paesi
capitalistici; Germania(Occidentale), Inghilterra, Francia, Italia e Giapponne,
finiti nelle grinfie degli USA, obbediscono docili ai loro ordini. Sarebbe però
sbagliato credere che questo "stato di grazia" possa durare "nei secoli dei
secoli". Che questi stati sopporteranno all'infinito il dominio e l'oppressione
degli Stati Uniti d'America, che essi non tenteranno di svincolarsi dal giogo
americano e di imboccare la strada dello sviluppo indipendente.
Prendiamo innanzi tutto l'Inghilterra e la Francia. Non vi è dubbio che
questi siano paesi imperialistici. Non vi è dubbio che le materie prime a basso
costo ed i mercati di sbocco garantiti abbiano per loro una fondamentale
importanza. Si può presupporre che essi tollereranno fino all'ultimo la
situazione odierna, nella quale gli americani dietro il polverone intorno agli
aiuti per il "piano Marshall" si intromettono nell'economia inglese e francese,
cercano di trasformarle in un'appendice dell'economia degli Stati Uniti
d'America, mentre il capitale americano s'impadronisce delle materie prime e dei
mercati di sbocco delle colonie anglo-francesi e in tal modo prepara la
catastrofe per gli elevati profitti dei capitalisti anglo-francesi? Non sarebbe
più giusto dire che l'Inghilterra capitalistica e poi la Francia capitalistica
alla fine saranno costrette a svincolarsi dall'abbraccio degli USA ed entrare
con essi in conflitto al fine di assicurarsi una condizione d'indipendenza e
naturalmente elevati profitti?
Passiamo ora ai principali paesi sconfitti, alla Germania (Occidentale) ed al
Giappone. Questi paesi conducono una misera esistenza sotto lo stivale
dell'imperialismo americano. La loro industria e agricoltura, il loro commercio,
la loro politica estera e interna, tutta la loro vita sono soffocati dal
"regime" di occupazione americano. Eppure questi paesi sono stati fino a ieri
grandi potenze imperialistiche che hanno fatto vacilllare le basi del dominio di
Inghilterra, USA e Francia in Europa e in Asia. Credere che questi paesi non
tentino di risollevarsi, di infrangere il "regime" degli USA e proiettarsi sulla
via dello sviluppo indipendente significa credere ai miracoli.
Si sostiene che le contraddizioni fra il capitalismo ed il socialismo siano
più forti delle contraddizioni fra i paesi capitalistici. Teoricamente questo è
senz'altro vero. E' vero non soltanto adesso, era vero anche prima della seconda
guerra mondiale. E questo lo avevano capito, più o meno, i dirigenti dei paesi
capitalistici. Però la seconda guerra mondiale non è iniziata dalla guerra con
l'URSS, bensì dalla guerra fra i paesi capitalistici. Perchè? In primo luogo
perchè la guerra con l'URSS, in quanto paese del socialismo, è più pericolosa
per il capitalismo della guerra fra i paesi capitalistici, poichè mentre la
guerra fra i paesi capitalistici pone soltanto il problema della supremazia di
alcuni paesi capitalistici su altri paesi capitalistici, la guerra con l'URSS
pone ineluttabilmente il problema della esistenza stessa del capitalismo. In
secondo luogo perchè i capitalisti, anche se a fini di "propaganda" denunciano a
gran voce l'aggressività dell'URSS, sono i primi a non credere alla sua
aggressività in quanto tengono in conto la politica di pace dell'Unione
Sovietica e sanno che di per sè l'Unione Sovietica non attacca i paesi
capitalistici.
Pure dopo la prima guerra mondiale ritenevano che la Germania fosse stata
messa definitivamente fuori gioco, proprio come alcuni compagni ritengono oggi
che Germania e Giappone siano stati messi definitivamente fuori gioco. Anche
allora sulla stampa si diceva e si annunciava a gran voce che gli Stati Uniti
d'America avevano sottomesso l'Europa al loro volere, che la Germania non poteva
mai più risollevarsi e che d'allora in poi non ci sarebbero state mai più guerre
fra i paesi capitalistici. E invece, nonostante ciò, la Germania si risollevò e
si impose ancora come grande potenza a soli 15-20 anni dalla sua disfatta,
sottraendosi all'oppressione e incamminandosi sulla via dello svipuppo
indipendente. E' significativo, al riguardo, che proprio l'Inghiterra e gli
Stati Uniti d'America aiutarono la Germania a risollevarsi economicamente ed a
rafforzare il suo potenziale economico-militare. Naturalmente, Stati uniti ed
Inghilterra aiutarono la Germania a risollevarsi economicamente nella
prospettiva di indirizzare la Germania risollevata contro l'Unione Sovietica, di
servirsene contro il paese del socialismo. E invece la Germania ha rivolto le
proprie forze in primo luogo contro il blocco anglo-francese-americano. E quando
la Germania di Hitler ha dichiarato guerra all'Unione Sovietica, il blocco
anglo-francese-americano non solo non si è unito alla Germania di Hitler, ma al
contrario è stato costretto a coalizzarsi con l'URSS contro la Germania di
Hitler.
Ci domandiamo, quale garanzia vi è che la Germania ed il Giappone non si
risollevino di nuovo, non tentino di sottrarsi al giogo americano e di avere una
propria vita indipendente? Io ritengo che una simile garanzia non esista.
Da ciò si deduce che l'ipotesi della inevitabilità della guerra fra i paesi
capitalistici rimane valida.
Si dice che la tesi di Lenin secondo cui l'imperialismo genera
inevitabilmente la guerra sia da considerarsi superata, poichè adesso si sono
costituite forze popolari imponenti impegnate nella difesa della pace, contro
una nuova guerra mondiale. Questo non è vero.
L'attuale movimento per la pace ha lo scopo di sollevare le masse popolari
nella lotta per il mantenimento della pace, per lo scongiuramento di una nuova
guerra mondiale. Conseguentemente, esso non si pone l'obiettivo di rovesciare il
capitalismo ed instaurare il socialismo, si limita ad obiettivi democratici di
lotta per il mantenimento della pace. Sotto tale aspetto il movimento attuale
per il mantenimento della pace si differenzia dal movimento del periodo della
prima guerra mondiale per la trasformazione della guerra imperialistica in
guerra civile, poichè quest'ultimo movimento si spinse oltre e si prefisse
obietttivi socialisti.
E' possibile che, in virtù una determinata concatenazione delle circostanze,
la lotta per la pace si trasformi da qualche parte in lotta per il socialismo,
ma allora non si tratterà più dell'attuale movimento per la pace, bensì di un
movimento per il rovesciamento del capitalismo.
E' più probabile che l'attuale movimento per la pace, in quanto movimento per
mantenere la pace, possa portare, in caso di successo, allo scongiuramento di
una data guerra, ad un un suo temporaneo rinvio, al temporaneo mantenimento di
una data pace, alle dimissioni di un governo bellicista ed alla sua sostituzione
con un altro governo disposto a mantenere temporaneamente la pace. Questo va
bene, naturalmente. Anzi molto bene. Però questo non basta a cancellare la
inevitabilità della guerra in generale fra i paesi capitalistici. Non basta,
poichè nonostante tutti i successi del movimento in difesa della pace
l'imperialismo rimane, resta in vigore e quindi resta in vigore pure la
inevitabilità della guerra.
Per eliminare la inevitabilità della guerra bisogna distruggere
l'imperialismo.
traduzione dal russo di Stefano Trocini
due brevi sintesi
1) "In difesa di Stalin, i marxisti leninisti dovrebbero tradurre e
pubblicare integralmente - sarebbe la prima volta in Italia - i Processi di
Mosca del 1936-37 e 38 (che Feltrinelli ebbe il grande merito di stampare in
"reprint", in versione francese) editi,
in lingue estere all'indomani stesso dei Processi, a cura del Ministero di
Grazia e giustizia dell'Urss. Finora, ne sono sempre apparsi stralci, frutto di
arbitrarie nonché ignominiose manipolazioni (tali quelle di Silvio Pons e di
Pierluigi Contessi) al fine di dimostrare l'indimostrabile: che cioè quei
processi sarebbero stati di dubbia veridicità e dunque storicamente del tutto
inattendibili. Questi reprint Feltrinelli si trovano nelle principali
Biblioteche Nazionali e Universitarie del nostro Paese. E -ripeto- se noi
marxisti leninisti ci assumessimo il compito di tradurli e pubblicarli, oltre a
dare un solenne ceffone alla cultura trotskista che ha ancora una certa
influenza in Italia, renderemmo un grande e meritevole servigio alla Verità
storica dell'Urss di Stalin. Se non fossero stati pubblicati integralmente quei
processi, e fossero stati conservati negli archivi segreti (dove giace ancora il
processo a Tukacewski che non è consultabile perché ancora sotto vincolo del
segreto di Stato), probabilmente quegli atti sarebbero stati distrutti."
http://www.resistenze.org/sito/te/pe/dt/pedtdd03-012603.htm
2)
Al fine di ricostruire la verità storica, Ludo Martens, nel suo libro "Stalin un
altro punto di vista" si propone di affrontare e confutare «gli attacchi contro
Stalin ai quali siamo più abituati: il "testamento di Lenin", la
collettivizzazione imposta,
l'industrializzazione forzata, la burocrazia soffocante, lo sterminio della
vecchia guardia bolscevica, le grandi purghe, la collusione di Stalin con
Hitler, l'incompetenza di Stalin nella guerra...»
http://www.pickline.it/.../stalin-un-altro-punto-di.../5001
A proposito di gulag
Le origini del Gulag, abbreviazione di Glavnoje upravlenije
lagerej (Amministrazione generale dei campi di lavoro
correttivi), sono da ricondursi al 1919, quando un decreto
del Commissariato del popolo per gli interni della Russia
socialista stabilì le modalità di organizzazione dei "campi
di lavoro'' nei quali dovevano essere convogliate persone
arrestate e condannate dai tribunali. Essi nacquero come
risposta socialista al problema delle carceri.
Nell'Occidente capitalista la detenzione doveva avere, e
l'ha tutt'oggi, un carattere punitivo. Nell'Urss di Lenin e
Stalin rivestiva un carattere correttivo e rieducativo.
I Gulag si ispiravano al principio sancito solennemente
dalla prima Costituzione sovietica del 1918 che stabiliva
che il lavoro era un dovere per tutti i cittadini della
Repubblica dei soviet e proclamava la parola d'ordine: "Chi
non lavora non mangia''. Come nella società dove tutti,
anche i borghesi, dovevano lavorare per vivere, anche nei
Gulag il lavoro per la collettività dava diritto
all'esistenza. Solo affacciare un parallelo tra i Gulag e i
lager nazisti è un falso storico a tutto tondo. Quelli hitleriani
erano centri di sistematico sterminio, dove furono commessi
i più efferati crimini contro l'umanità che la storia
ricordi. Nell'Urss di Lenin e Stalin chi sbagliava pagava
non con le camere a gas o i forni crematori ma provando,
nella stragrande maggioranza dei casi, per la prima volta
nella vita cosa volesse dire realmente lavorare.
Nei Gulag venivano inviati i nemici del comunismo e della
patria sovietica; speculatori, incettatori, sabotatori
dell'economia, oziosi, kulaki (contadini ricchi
antisovietici, trotzkist), parassiti borghesi privilegiati,
ma anche terroristi, disertori, seguaci del vecchio regime
zarista, collaborazionisti delle armate bianche durante la
guerra civile e degli invasori nazisti nella seconda guerra
mondiale, agenti della borghesia e dell'imperialismo
occidentale infiltrati nel partito e nello Stato, fino ai
delinquenti comuni. Insomma scandalizza che nei campi di
rieducazione sovietici c'erano i ricchi e gli anticomunisti,
mentre nelle carceri occidentali e dei paesi reazionari a
languire sono stati, e sono in prevalenza i poveri, i
comunisti e chiunqua si opponga al dominio di ferro del
capitalismo e dell'imperialismo.
Falsità e menzogne su numeri e condizioni di vita
Un gran baccano velenoso è fatto artatamente sul numero dei
detenuti nei Gulag, sposando la cifra di 40-50 milioni
avanzata da controrivoluzionari e anticomunisti storici
russi e non solo. In realtà nel 1921 erano 70 mila su una
popolazione di oltre 135 milioni e nel momento della sua
massima estensione, all'inizio degli anni '50, anche stime
borghesi parlano all'incirca di 2 milioni e mezzo di
detenuti su una popolazione di più di 200 milioni. Nulla
toglie che siano stati commessi degli errori alle spalle e
contro le indicazioni di Stalin. Fu Stalin in prima persona
a rimuovere dal posto di Commissario del popolo per gli
affari interni prima Jagoda (1936), smascheratosi in seguito
come seguace del destro Bucharin e per le sue azioni
controrivoluzionarie condannato e giustiziato, poi il "sinistro''
Ezov (destituito nel `38 e condannato e fucilato nel 1940) e
a criticare pubblicamente più volte l'ambizioso Beria,
denunciandone gli eccessi e ricordando loro scopi e natura
dei campi di rieducazione e chi doveva realmente finirci.
Altre falsificazioni riguardano le condizioni di vita e di
lavoro nei Gulag. La borghesia e i suoi lacché parlano di
malattie, morti per fame, bieco schiavismo, negazione dei
più elementari diritti. Che infami! Tutt'oggi giudicano e
definiscono come il regno della democrazia gli Usa, dove
impera la pena di morte fascista, dove i penitenziari come
Alcatraz hanno fatto la peggiore storia detentiva, mentre a
Guantanamo i prigionieri islamici vengono trattati come
bestie, torturati e annientati psicologicamente. E si può
non pensare ai boia sionisti israeliani che schiacciano e
sfruttano i palestinesi in enormi campi lager nei territori
occupati? L'inferno di queste carceri davvero non ha nulla a
che vedere con i campi di rieducazione dell'epoca di Lenin e
Stalin. Certo che c'erano le malattie come il tifo e lo
scorbuto, che infierivano anche nelle città durante
l'aggressione imperialista occidentale e dei
controrivoluzionari bianchi dopo il 1917. Certo che il cibo
era scarso in questo periodo o durante la seconda guerra
mondiale, ma questa era la difficile e inevitabile
situazione di tutto il paese, di tutto il popolo sovietico,
dove i prodotti alimentari erano giocoforza razionati.
Eppure nonostante la costruzione del primo Stato socialista,
iniziata da Lenin e proseguita da Stalin, sia avvenuta in
circostanze durissime, in mezzo all'accerchiamento
imperialista che tentava di strangolarlo economicamente e
politicamente dall'esterno, e con gli assalti delle armate
bianche e dei revisionisti di destra e di "sinistra''
dall'interno, anche l'esempio dato dai Gulag rappresenta
un'esperienza storica inedita.
All'inizio degli anni '30 con il contributo del lavoro dei
rieducandi vennero creati grandi centri industriali negli
Urali, nel Kuzbass e sul Volga; le città di Magnitogorsk e
Komsomolsk sull'Amur sorsero su terre vergini. Nuove
tecnologie furono portate nelle remote terre del Kazakhstan
e del Caucaso. Fu costruita la gigantesca diga del Dnepr,
che triplicò la produzione di energia elettrica. E poi
ancora strade, ferrovie e idrovie, e altre importanti
attività produttive dei campi di lavoro come l'estrazione
dell'oro e di materiali non ferrosi, fino al taglio del
legname.
I detenuti non erano identificati con un numero come nei
lager nazisti. Si sentivano comunque parte integrante della
cittadinanza sovietica, tanto più dalla fine degli anni '30
in poi allorché venne applicato il principio secondo cui
essi dovevano essere utilizzati in base alle loro
particolari capacità e specializzazioni. Basti ricordare che
lo stesso Tupolev, padre dell'aeronautica sovietica, iniziò
a dare i suoi contributi lavorando nei Gulag e dopo aver
pagato il suo tributo alla giustizia sovietica rientrò
tranquillamente al suo posto di progettatore.
Come dirà il grande scrittore Gorki per celebrare la
costruzione del canale Belomor avvenuta nell'estate del
1933, "Stalin è stato l'artefice delle comunità di lavoro e
di una politica di recupero attraverso il lavoro. è stato
Stalin a lanciare l'idea di costruire il canale tra il Mar
Bianco e il Baltico con l'impiego di detenuti, poiché sotto
la sua guida era possibile un tale metodo di recupero dei
pregiudicati''.
Dice nulla ai rinnegati revisionisti il fatto che
l'annuncio della morte di Stalin il 5 marzo 1953 fu accolto
nei Gulag non con indifferenza interessata, come si dovrebbe
dedurre dalla loro velenosa analisi, ma con scene di dolore simili a quelle che attraversavano in lungo e largo lo
sterminato paese sovietico? Sappiamo tutti come sono finiti
Hitler, Mussolini e tutti i dittatori della loro stessa
natura. Lenin, Stalin e Mao sono scomparsi amati e pianti
dai rispettivi popoli. E' questo il nocciolo della
questione, è questo che dice la storia, tutto il resto sono
solo falsità e menzogne. Chi la vuol riscrivere a uso e
consumo della borghesia neofascista se ne assume le
responsabilità di fronte al proletariato e a quanti aspirano
a una nuova società senza sfruttati e sfruttatori.
=========================================================
da:
Sul rapporto antistalinista di
Chruscev al XX congresso del PCUS non vale neppure la pena di soffermarsi.
Il fine calunnioso di tutte le affermazioni in esso contenute è stato
evidenziato nei minimi dettagli dal ricercatore americano Grover Furr
nel libro intitolato “L’infamia antistalinista” (Mosca, 2007).
L’autore trae questa conclusione lapidaria: “Di tutte le affermazioni del
“rapporto segreto” che avrebbero dovuto smascherare Stalin, o anche Beria,
neppure una è risultata veritiera”.
Per quanto
concerne i processi del 1937, sono interessanti anche le testimonianze di
J.E. Davies, ambasciatore degli Stati Uniti nell’URSS dal gennaio del ’37
alla primavera del ’38, ovvero nella fase culminante dei processi politici.
Egli ha raccolto le memorie di quel periodo della sua vita nel libro
intitolato “Missione a Mosca”, dove il presidente Roosevelt lasciò scritto
il seguente appunto: “Questo libro è un vero e proprio evento e vale per
ogni tempo”. Il 25 giugno 1941, tre giorni dopo l’attacco di Hitler
all’URSS, J.E. Davies tenne una lezione alla Harvard University. Qualcuno
gli chiese cosa sapesse dell’esistenza di una “quinta colonna” in Unione
Sovietica. L’ambasciatore rispose brevemente: “Non esiste più. Sono stati
tutti fucilati”. In una lettera dell’aprile 1938 inserita nel suo libro J.E.
Davies si sofferma sul processo contro il “blocco trotskista di destra” e
dice: “…E’ difficile trovare un osservatore straniero che, dopo aver seguito
lo svolgimento del processo, possa dubitare del coinvolgimento della maggior
parte degli imputati nel complotto per l’eliminazione di Stalin ”. J.E.
Davies sostiene che la dirigenza sovietica si stava preparando alla guerra
non solo attraverso l’incremento della propria potenza militare, ma anche
attraverso una scrupolosa epurazione dei quadri dirigenti, ivi compresi
quelli che rivestivano cariche molto elevate: “I russi avevano i loro
Quisling, analoghi a quello della Norvegia, e li hanno annientati”.
Sulla falsariga del libro di
J.E. Davies fu girato anche un film omonimo. Ma dopo la fine della seconda
guerra mondiale il famigerato Comitato per le attività antiamericane, voluto
dal presidente Truman, impose un feroce e totale ostracismo nei confronti di
tutti i film che raccontassero la verità sulla Russia sovietica. Non poté
sottrarsi a questo ostracismo neanche il film “Missione a Mosca” che, a
detta dei vampiri del Comitato McCarthy, era stato girato ad Hollywood, ma
con una sceneggiatura compilata da Stalin.
Gli osservatori
obiettivi che lavorarono in URSS e seguirono la situazione dall’interno del
paese, descrivono la fine degli anni trenta in tutt’altro modo rispetto agli
antisovietici. Su quel periodo della nostra storia è opportuno citare un
brano dalle memorie di G.K. Zhukov: “Ogni tempo di pace ha i propri tratti,
il proprio colorito e la propria bellezza. Personalmente, però, desidero
spendere una parola per gli anni dell’anteguerra. Si contraddistinsero per
un irrepetibile e originale entusiasmo, per l’ ottimismo, la profonda
spiritualità e nello stesso tempo il forte impegno, la modestia e la
semplicità nelle relazioni umane. Si cominciava a vivere bene, molto bene!”
A proposito del rapporto di Chruscev e dei processi di Mosca
nota di G.F. 30/3/2014
A proposito del rapporto di Chruscev al XX congresso del PCUS e dei
processi di Mosca
Sul rapporto antistalinista di Chruscev al XX congresso del PCUS non vale
neppure la pena di soffermarsi. Il fine calunnioso di tutte le affermazioni in
esso contenute è stato evidenziato nei minimi dettagli dal ricercatore americano
Grover Furr nel libro intitolato "L'infamia antistalinista" (Mosca, 2007).
L'autore trae questa conclusione lapidaria: "Di tutte le affermazioni del
"rapporto segreto" che avrebbero dovuto smascherare Stalin, o anche Beria,
neppure una è risultata veritiera".
Per quanto concerne i processi del 1937, sono interessanti anche le
testimonianze di J.E. Davies, ambasciatore degli Stati Uniti nell'URSS dal
gennaio del '37 alla primavera del '38, ovvero nella fase culminante dei
processi politici. Egli ha raccolto le memorie di quel periodo della sua vita
nel libro intitolato "Missione a Mosca", dove il presidente Roosevelt lasciò
scritto il seguente appunto: "Questo libro è un vero e proprio evento e vale per
ogni tempo". Il 25 giugno 1941, tre giorni dopo l'attacco di Hitler
all'URSS, J.E. Davies tenne una lezione alla Harvard University. Qualcuno gli
chiese cosa sapesse dell'esistenza di una "quinta colonna" in Unione Sovietica.
L'ambasciatore rispose brevemente: "Non esiste più. Sono stati tutti fucilati".
In una lettera dell'aprile 1938 inserita nel suo libro J.E. Davies si sofferma
sul processo contro il "blocco trotskista di destra" e dice: "…E' difficile
trovare un osservatore straniero che, dopo aver seguito lo svolgimento del
processo, possa dubitare del coinvolgimento della maggior parte degli imputati
nel complotto per l'eliminazione di Stalin ".
http://www.resistenze.org/sito/te/cu/ur/cuurcn18-012078.htm
Estratti del libro, pubblicato nel 1943 a Zurigo, di J.E. Davies
«Ambasciatore degli Stati Uniti a Mosca. Relazioni autentiche e confidenziali
sull’Unione Sovietica fino all’ottobre 1941.»
Davies ha seguito – tutti i diplomatici potevano farlo – i processi di Mosca,
come osservatore (era giurista).
Il 17 Marzo 1938 egli inviò a Washington le sue
impressioni sul processo di Bukharin e altri a Mosca. Il dispaccio è così
concepito (estratti):
«Nonostante i miei pregiudizi (…) dopo aver
osservato quotidianamente i testimoni e il loro modo di deporre, e in ragione di
fatti finora sconosciuti, giustificati (…) sono arrivato alla conclusione che
gli accusati abbiano effettivamente violato le leggi sovietiche enumerate negli
atti d’accusa. Le stesse, confermate nel contraddittorio, provano le accuse
d’alto tradimento e giustificano le condanne emesse contro di loro. L’opinione
dei diplomatici che hanno assistito regolarmente ai dibattiti è stata unanime:
il processo ha denunciato l’esistenza di una congiura d’opposizione politica di
altissimo livello. Il processo ha permesso loro di capire fatti che erano fino
ad allora incomprensibili.» (p. 209)
Davies aveva già nel 1937 assistito al processo di Radek e altri, e il 17
febbraio dello stesso anno aveva inviato un rapporto in merito al Segretario di
Stato degli Stati Uniti. In esso affermava (p.33):
«Una ragione oggettiva (…) mi ha fatto concludere – a malincuore – che lo
Stato ha realmente provato le accuse. Non esiste alcun dubbio sull’esistenza di
una cospirazione assai grave fra i dirigenti contro il governo sovietico, e sul
fatto che le violazioni della legge indicate nei capi d’accusa siano realmente
state commesse, e siano dunque punibili. Ho parlato con praticamente tutti i
membri del corpo diplomatico qui presenti, e tranne, forse, una sola eccezione,
tutti sono dell’avviso che i dibattiti abbiano stabilito l’effettiva esistenza
di un piano segreto e di una cospirazione miranti ad eliminare il governo.»
Nel suo diario, l’11 Marzo 1937, Davies ha annotato quest’episodio:
«Un altro diplomatico ha fatto ieri una considerazione istruttiva. Parlavamo
del processo ed egli ha affermato: “Gli accusati sono senza alcun dubbio
colpevoli, abbiamo tutti assistito al processo, siamo unanimi. Ma per il mondo
esterno, al contrario, le descrizioni del processo hanno il carattere di una
messinscena”. Sapeva come ciò non rispondesse al vero, ma apparentemente era
bene che il resto del mondo avesse questa impressione.» (p.86)
Davies parla di numerosi arresti ed “epurazioni”
avvenuti il 4 luglio su ordine del ministro degli Affari esteri Litvinov.
A proposito di quest’ultimo, riporta:
«Litvinov (…) ha dichiarato che grazie a queste epurazioni è certo che nessun
tradimento a favore di Berlino o Tokyo sarebbe più possibile. Un giorno il mondo
capirà che ciò che è stato fatto era necessario. Occorreva che proteggessero il
loro governo da questo “tradimento minaccioso”. In effetti, hanno reso servizio
al mondo intero, preservando dal pericolo del dominio mondiale dei nazisti di
Hitler. L’Unione Sovietica è un forte bastione contro il pericolo
nazionalsocialista. Verrà un giorno in cui il mondo intero potrà riconoscere
quale grande uomo fu Stalin.» (p.128)
Ricca d’insegnamenti è anche la descrizione della conversazione avuta con
Stalin, contenuta nella lettera del 9 giugno 1938 a sua figlia. Egli rimase
impressionato dalla personalità di Stalin:
«Se riesci ad immaginare un personaggio totalmente diverso, in tutti i sensi,
da ciò che i suoi più feroci avversari sono arrivati a descrivere, allora hai
un’immagine di quest’uomo. La situazione che constato qui e la sua personalità
sono diametralmente opposte. La spiegazione di questo risiede forse nel fatto
che questi uomini sono pronti a fare per una religione o una “causa” ciò che non
avrebbero mai fatto altrimenti.» (p. 276)
Dopo l’aggressione dell’Unione Sovietica da parte dei fascisti, Davies
riassume le sue opinioni nel 1941 affermando che «i processi per alto tradimento
hanno messo in rotta la quinta colonna di Hitler». (p.209)
Nel 1936 ebbero luogo i processi contro Zinoviev
e altri. L’avvocato britannico D.N. Pritt (K.C.) potè assistervi. Scrisse le sue
impressioni nel libro “From Right to Left” uscito nel 1965 a Londra.
«La mia impressione è che il processo sia stato condotto equamente, e che gli
accusati fossero realmente colpevoli. La stessa sensazione è condivisa da tutti
i giornalisti con i quali ho potuto parlare. E certamente pensavano la stessa
cosa tutti gli osservatori stranieri (ce n’erano molti, soprattutto
diplomatici). Ho sentito uno di loro affermare: “Naturalmente, sono colpevoli.
Ma per ragioni di propaganda, dobbiamo negare.» (p. 110-111)
Dalle affermazioni di esperti di legge quali i
non-comunisti Davies e Pritt, appare evidente che gli accusati dei processi di
Mosca del 1936, 1937 e 1938 furono condannati perché le accuse sono state
provate. In questo contesto è utile ricordare ciò che Berthold Brecht scrisse su
questi processi, per esempio la concezione degli accusati.
da B.Brecht, scritti sulla politica e la società
«Una falsa concezione li ha condotti ad
un profondo isolamento e al crimine. Tutte le canaglie del Paese e dell’estero,
tutti questi parassiti hanno visto instaurarsi in loro il sabotaggio e lo
spionaggio. Avevano gli stessi obiettivi dei criminali. Sono persuaso che questa
è la verità, e che come tale sarà intesa nell’Europa dell’Ovest, anche dai
lettori nemici…Il politicante che ha bisogno della disfatta per impadronirsi del
potere, persegue la disfatta. Colui che vuol essere il “salvatore” opera per
mettere in atto una situazione nella quale potrà “salvare”, e quindi una
situazione cattiva… Trotsky ha dapprima interpretato il crollo dello Stato
operaio come una conseguenza della guerra, o meglio del pericolo da essa
rappresentato, ma più avanti la stessa è divenuta per lui un presupposto alla
sua azione pratica. Se la guerra arrivasse, la costruzione “precipitata”
sprofonderebbe, l’apparato sarebbe isolato delle masse. All’esterno occorrerà
rinunciare all’Ucraina, alla Siberia orientale, ecc… All’interno, bisognerà fare
concessioni, tornare alle forme capitaliste, rinforzare o lasciare rinforzarsi i
gulag; ma tutto ciò va nella direzione di una nuova azione, il ritorno di
Trotsky. I centri anti-stalinisti non hanno la forza morale di ricorrere al
proletariato, non tanto perché siano vigliacchi, quanto piuttosto perché non
possiedono una reale base organizzata in seno alle masse, non hanno niente da
proporre, non hanno compiti da assegnare alle forze produttive del Paese.
Dunque, confessano. E possiamo pensare che confessino anche più di quanto non ci
si aspetterebbe. » (B.Brecht, scritti sulla politica e la società, L.I.
1919-1941. Aufbau-Verlag. Berlino e Weimar 1968 – p.172 e segg.)
Se partiamo dal presupposto che Davies e Pritt
(e Brecht), con il loro giudizio sul processo di Mosca, avevano ragione, allora
bisognerà porsi necessariamente una domanda: coloro – come Kruscev e Gorbaciov –
che hanno dichiarato vittime innocenti i condannati dei processi di Mosca, non
l’avranno fatto perché simpatizzavano con essi, o erano addirittura loro
complici, e volevano quindi metter fine ad un’impresa fallita?
http://users.skynet.be/roger.romain/proces_de_moscou.htm
http://paginerosse.wordpress.com/2012/04/05/alcuni-verbali-del-processo-del-1937-contro-il-centro-torrorista-trotzkista-italiano-spagnolo-2/
Il 17 luglio il “Corriere della Sera” lanciava, a firma Silvio Pons,
uno scoop: una lettera sinora sconosciuta di Evghenia e Delia Schucht,
cognata e moglie di Gramsci (morto nel 1937 nel carcere fascista), rivolta
nel dicembre 1940 a Stalin: in essa gli si raccomandava di prendersi cura
della pubblicazione degli scritti di Gramsci (I “Quaderni”) che gli italiani
avrebbero sino allora trascurato e si rinfrescavano i sospetti
sull’esistenza di un tradimento ai danni di Gramsci processato e detenuto,
ai fini di impedirne la scarcerazione. Il sospetto, nella lettera, è
genericamente a carico di italiani – si parla di fascisti e di trotzkisti –
ma sembra chiaro che l’allusione sia alla vecchia vicenda della lettera di
Greco e a presunte ambiguità di Togliatti.
Di qui una ridda di articoli di stampa, centrati su sottigliezze
filologiche, sulla non novità degli argomenti, sul fatto che questi nulla
aggiungano a quanto conosciuto e già confutato ad abbondanza, naturalmente
sull’iscriversi della vicenda nel “terrore staliniano” (Evghenia sarebbe
stata una fervente staliniana…), e che in definitiva si sarebbe potuto
pensare ad un complotto… contro Togliatti.
Nessuno ha però posto in dubbio né l’autenticità della lettera né che essa
rispondesse al reale sentire delle scriventi e, finché vivo, dello stesso
Gramsci. A noi non interessa qui parlare del presunto tradimento o quanto
meno scorrettezza nei confronti di Gramsci prigioniero, dell’autore supposto
di tali comportamenti (si può anche pensare a sospetti e timori eccessivi),
dei perché e percome. Troviamo che la congerie di scritti presentataci sia
nel complesso piuttosto futile e scadente, perché di tutto si occupa meno
che, con fuggevoli e non rese evidenti eccezioni di A. Santucci e di A.
Burgio, della questione centrale: il rapporto di Gramsci con Stalin, sul
quale la vulgata dei revisionisti (del marxismo-leninismo, non quelli
storici) ha costruito l’indegna leggenda dell’estraneità o addirittura
dell’avversione tra i due. Tutto basato sul nulla, dato che i passi dei
“Quaderni del carcere”, che si occupano di Stalin, di Trotzki e del
socialismo sovietico, sono tutti a favore di Stalin. In un passo del 1930-32
(citiamo sempre dall’edizione Gerratana, qui p. 801 s.), Gramsci critica
Bronstein (Trotzki) che “può ritenersi il teorico politico dell’attacco
frontale in un periodo in cui esso è solo causa di disfatta”, e pone
l’essenziale distinzione fra guerra di movimento o di manovra e guerra di
posizione, quale quella che allora doveva sostenere l’Unione Sovietica ed in
cui (udite, udite!) “è necessaria una concentrazione inaudita
dell’egemonia e quindi una forma di governo più intervenzionista, che più
apertamente prenda l’offensiva contro gli oppositori e organizzi
permanentemente l’impossibilità di disgregazione interna: controlli d’ogni
genere, politici, organizzativi, ecc., rafforzamento delle posizioni
egemoniche del gruppo dominante, ecc.”. La distinzione fra i due tipi
di “guerra” viene approfondita (p. 865 s.) con la famosa distinzione fra la
situazione dell’oriente, in cui “lo Stato era tutto, la società civile
era primordiale e gelatinosa” e l’occidente, ove “tra Stato e
società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si
scorgeva subito una robusta struttura della società civile”, per
rigettare ancora una volta le teorie di Trotzki. Assai significativo (p.
1728 s.) è il passo riferito proprio a Stalin (Giuseppe Bessarione), che
trae spunto da un’intervista dello stesso del settembre 1927, per rilevare “come
secondo la filosofia della prassi (cioè il marxismo, nota mia) sia
nella formulazione del suo fondatore, ma specialmente nella precisazione del
suo più recente grande teorico (dunque, si direbbe Stalin, al di cui
scritto si fa riferimento, nota mia),la situazione internazionale debba
essere considerata nel suo aspetto nazionale”. Si tratta proprio del
rapporto dialettico tra nazionale e internazionale che nella concezione di
Stalin è fondamentale: “Su questo punto mi pare sia il dissidio
fondamentale tra Leone Davidovici(Trotzki) e Bessarione come
interprete del movimento maggioritario…”. Almeno in due occasioni
Gramsci spiega ed approva “la liquidazione di Leone Davidovici” (p.
1744), come“liquidazione anche del parlamento ‘nero’ che sussisteva dopo
l’abolizione del parlamento ‘legale’ “ in Unione Sovietica; e
soprattutto quando, analizzando in termini sintetici ma profondi le tendenze
di Trotzki, Gramsci rileva che la corrente che ha avversato quest’ultimo ha
applicato la formula giacobina non come “cosa astratta, da gabinetto
scientifico” bensì “in una forma aderente alla storia attuale,
concreta, vivente, adatta al tempo e al luogo, come scaturiente da tutti i
pori della determinata società che occorreva trasformare, come alleanza di
due gruppi sociali, con l’egemonia del gruppo urbano” (cioè quello che
stava praticando Stalin). E in via definitiva (p. 2164), quando Gramsci,
sempre a proposito della tendenza di Trotzki, rileva senza mezzi termini “la
necessità inesorabile di stroncarla” (il passo è attribuibile al 1934),
secondo quanto appunto era avvenuto in Unione Sovietica.
Che dal pensiero dell’ultimo Gramsci risulti un distacco rispetto a Stalin è
dunque menzogna: Gramsci ne approvava anche i tratti che oggi vengono
qualificati “autoritari”, “dittatoriali” e peggio ancora. E nemmeno può
dirsi, secondo l’ultimo rifugio della vulgata revisionista, che
“oggettivamente” l’impostazione gramsciana fosse antitetica: differenze
possono risultare dai contesti consapevolmente diversi (occidente e oriente)
e dalle diverse fasi e livelli di lotta in Unione Sovietica e, in
particolare, nell’Italia fascista, cui Gramsci non poteva non pensare: ma
Gramsci sarebbe stato il primo a farsi una grande risata se qualcuno gli
avesse prospettato di applicare all’Unione Sovietica di Stalin le
elaborazioni che egli faceva soprattutto per l’Italia di allora.
Ora, per tornare alla lettera, se l’ambiente familiare di Gramsci si
rivolgeva a Stalin sollecitandone (a torto o a ragione, non importa) la
tutela nei confronti degli italiani, addirittura se le due scriventi
ricordano che Gramsci raccomandava di condurre le trattative per la sua
liberazione per il tramite del partito sovietico senza nulla far trapelare
agli italiani, ciò vuol dire che il grande sardo aveva piena fiducia in
Stalin e nel suo partito, come autentiche espressioni del comunismo
mondiale. Tutto il contrario di quanto da molti anni ci è stato
velenosamente propinato. I falsari del revisionismo moderno, con la lettera
ora pubblicata e le reazioni nel complesso imbarazzate ed elusive che ha
suscitato, sono serviti.
Quale il senso dell’operazione di Silvio Pons? Forse liquidare completamente
il comunismo storico italiano: Togliatti infido e traditore, Gramsci non più
l’”angelo” che ripudia il “demone” Stalin. E così il gioco è fatto. Ma anche
questo convalida la nostra posizione: Stalin e Gramsci, due leaders entrambi
impegnati sino all’ultimo per il nostro grande ideale e per la difesa
indefettibile di esso.
Aldo Bernardini
- Da un discorso di
Kruscev del 6 Novembre 1957 per il 40° della Rivoluzione, esattamente un
anno dopo il famoso Rapporto segreto contro Stalin:
·
- Il partito "ha combattuto e continuerà a
combattere contro tutti coloro che diffamano Stalin e che sotto la
bandiera della critica al culto della personalità rappresentano in modo
distorto l'intero periodo storico dell'attività del nostro partito,
durante il quale J. V. Stalin è stato al vertice del comitato centrale.
Marxista e leninista fedele e rivoluzionario irremovibile, a Stalin
spetta un posto onorevole nella storia. Il nostro partito e il popolo
sovietico celebreranno Stalin e gli riconosceranno gli onori che merita"
(Kurt Gossweiller Contro il revisionismo, Zambon Editore pag.370-1)
-
Maria Felicia Crapisi
"Cari amici, parto dal giudizio, che Lenin formulò sulla personalità di
Stalin, perchè esso costituisce il cavallo di battaglia di molti
anticomunisti. Stalin non ebbe un carattere debole, ma fu una
personalità forte e coriacea : il soprannome "STALIN" significa appunto
"UOMO D'ACCIAIO". Che Stalin fosse una personalità di questo tipo, fu un
danno, o fu un vantaggio, per l'instaurazione di un ordinamento
collettivistico in un Paese arretrato e feudale, quale era la Russia
degli zar ? Fu un danno o fu un vantaggio per il PRIMO TENTATIVO di
fondare e di costruire la società collettivistica in un Paese assai
vasto ? Fu un danno o fu un vantaggio che all' accerchiamento ,
mostruoso e senza risparmio di colpi, si contrapponesse una personalità
ferma e tenace, come quella di Stalin ? Io ritengo che, se al posto di
Stalin ci fosse stato ( a guidare il primo tentativo di fondare e
costruire una società collettivistica ) un uomo dalla personalità
diversa da quella di Stalin, questo tentativo avrebbe avuto una durata
assai breve. E, invece, Stalin riuscì a mantenere in vita ( in mezzo a
pesantissime difficoltà, e ad ostilità e pericoli di ogni tipo ) -
Stalin riuscì a mantenere in vita questo primo, grandioso tentativo di
una SOCIETA' NUOVA, fino al 1953, cioè fino al momento della sua morte.
Il limite di Stalin è quello di non essere riuscito a formare i suoi
continuatori. Sarà compito di quelli, che si dedicheranno al secondo
tentativo di costruire in un grande Paese la società collettivistica -,
sarà compito di questi futuri capi del Comunismo formare e lasciare come
eredi individui capaci di continuare la loro opera. Nella costruzione
della società collettivistica ci sono enormi difficoltà. Si tratta di
una costruzione diversa da tutti gli ordinamenti socio-economici
precedenti ; si tratta di percorrere vie, che nei millenni precedenti
mai sono state percorse. Si tratta anche di resistere alla pesantissima
offensiva del mondo padronale. Costruire una società collettivistica è
un'impresa nuova, rabbiosamente ostacolata dal POTENTISSIMO mondo dei
PADRONI : non è un'impresa, che possa essere guidata da un individuo
dalla personalità fragile, problematica, dominata da una eccessiva
cautela ; occorrono uomini dalla tempra bolscevica. Tale tempra, tale
coraggio, tale energia ebbe il mai abbastanza compianto compagno
Giuseppe Stalin."
Ecco un altro ritratto di Stalin fatto da parte di chi lo ha conosciuto
personalmente, Anna Louise Strong giornalista americana che per più di
venti anni ha
diretto un giornale in lingua inglese a Mosca.
“Stalin era certo un abilissimo stratega, ma questo non basta a
spiegarne l’ascesa e non ci aiuta a valutare l’importanza della sua
opera. Se egli conquistò il potere fu, a mio avviso, grazie a tre doti,
due delle quali necessariamente comuni a tutti i leaders politici, la
terza solo ai maggiori tra di essi.
Da un lato, Stalin aveva la capacità di avvertire con estrema chiarezza
quella che io chiamo la “volontà del popolo”, ed era perfettamente
padrone della tecnica necessaria a trasformare questa volontà in azione
reale, dall’altro nutriva la convinzione - e insieme aveva la capacità
di comunicarla agli altri - che il suo operato fosse in funzione di un
futuro migliore per tutta l’umanità.”
“Il suo modo di fare era modesto, diretto a semplicità; la sua visione
dei problemi eccezionalmente chiara e precisa. Fin dai primi anni, aveva
elaborato una particolare tecnica atta a saggiare le opinioni di un
gruppo di uomini. «Me lo ricordo molto bene - ebbe a dirmi un vecchio
bolscevico - un giovanotto posato, che alle sedute del comitato si
teneva un po’ in disparte, parlando poco e ascoltando molto,
intervenendo con un commento, spesso una semplice domanda, solo verso la
fine della seduta.
E un poi alla volta, ci si accorgeva che egli era in grado di riassumere
nel modo migliore quello che avevano pensato tutti insieme». Questo
ritratto, sicuramente è condiviso da tutti coloro che hanno preso parte
a una riunione con Stalin, serve a spiegare come egli riuscisse a
garantirsi sempre la maggioranza, cosa che non mancava mai di fare prima
di fissare la “linea”.
In altre parole la sua non era affatto la mentalità del despota,
persuaso che impartendo ordini si possa avere ragione della maggioranza,
e neppure l’atteggiamento passivo del democratico di routine, che
aspetta il voto e ad esso si attiene, accettandolo come un dato definitivo.
Stalin sapeva che l’appoggio della maggioranza è premessa indispensabile
di ogni sana azione politica, ma sapeva anche come si ottengono le
maggioranze. Il suo sistema consisteva nel sondare il pensiero di un
gruppo, e, scopertane la tendenza essenziale, introdurre la leva della
sua dialettica, trascinando la maggioranza a tutte le conclusioni che
era in grado di accettare. Alla stessa tecnica egli faceva ricorso sul
piano nazionale.
Tanto a Stalin che al popolo russo, il meccanismo delle votazioni di
tipo occidentale era completamente ignoto, né il segretario generale se
ne lasciò impressionare quando ne venne a conoscenza. Ma, in tutto il
tempo che l’ho conosciuto, vidi Stalin tener conto costantemente e
attentamente, sempre, dei desideri e delle aspirazioni atti a promuovere
l’azione. Chiunque ottenesse particolari risultati in campo produttivo -
dalla lattaia che aveva battuto il record di mungitura, allo scienziato
che riuscì a disintegrare l’atomo - veniva invitato a discutere il suo
successo con Stalin, il quale voleva sapere come e perché esso era stato
raggiunto.
Egli insomma, come direbbe un uomo politico americano, stava «con
l’orecchio a terra››. o, per usare la poetica espressione dei contadini
russi, “ascoltava crescere l’erba".
Ecco ciò che lo stesso Stalin dice della propria tecnica di governo:
«Non ci si deve attardare alla retroguardia di un movimento, perché
questo equivale ad isolarsi….ma non ci si deve nemmeno spingere troppo
avanti, perché questo vuol dire perdere il contatto con le masse››. A
questo modello egli improntava - di solito con successo - tutta la sua
azione”.
Da L’era di Stalin Anna Louise Strong pag.52/54
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IL PENSIERO DI LENIN SU TROCKIJ
Si usa spesso dire che nel suo "Testamento" politico Lenin avesse dato
indicazioni verso Trockij piuttosto che verso Stalin come leader del partito
bolscevico e del nascente stato sovietico. In realtà in tale "Testamento"
Lenin esprimeva profonde riserve su tutti principali leader del partito
bolscevico dell'epoca, riscontrando difetti teorici, pratici o caratteria
li
sia in Stalin che in Kamenev, Bucharin, Zinov'ev e, non ultimo, nello stesso
Trockij.
Riguardo a quest'ultimo anzi il giudizio di Lenin stesso era sempre stato
molto severo e teso alla diffidenza politica. A questo riguardo occorre
ricordare che tale preoccupazione era presente nell'intero gruppo dirigente
del partito bolscevico, tant'è che lo stesso Stalin fu nominato segretario
generale del partito già nel 1922, Lenin vivente, appoggiato non solo da
Lenin ma dalla gran parte del gruppo dirigente (compresi gli altri leader
prima nominati), preoccupato per il prestigio popolare acquisito dal
fondatore dell'Armata Rossa, sul quale pesavano però alcune notevoli
divergenze politiche.
A titolo di esempio riportiamo una lunga serie di giudizi non propriamente
positivi dati dal compagno Lenin su Trockij (che riportiamo pur ricordando
che fu lo stesso Lenin e lo stesso partito ad affidare spesso incarichi
importanti e determinanti per il buon esito della rivoluzione bolscevica e
della sua salvaguardia; è però importante ricondurre pregi e difetti ad un
giudizio critico adeguato ai fatti storici):
"La spudoratezza di Trotsky nel ridurre al minimo il partito e esaltare se
stesso."
(Significato storico della lotta all'interno del Partito comunista in
Russia, 1911)
"Frasi risonanti ma vuote di quelle in cui Trotsky è un maestro".
(Significato storico della lotta interna nel Partito comunista in Russia,
1911)
"L’ossequiosità di Trotsky è più pericolosa di un nemico! Trotsky non poteva
offrire alcuna prova, ad eccezione di conversazioni private (semplice
sentito dire, che in Trotsky sussiste sempre)."
(Il diritto delle nazioni all’autodeterminazione, 1914)
"Antiche e pompose ma perfettamente vacue frasi di Trotsky... Nessuna parola
sul merito della questione... Esclamazioni vuote, parole di alto volo,
uscite arroganti contro avversari che l'autore non nomina, affermazioni
straordinariamente importanti - questo è il repertorio di Trotsky".
(Pravda, 1913)
"Non capisce il significato storico delle differenze ideologiche tra gruppi
e tendenze marxiste"
(Rottura dell’Unità, 1914)
"Trotsky non ha mai avuto una opinione ferma su nessuna questione importante
del marxismo".
(Il diritto delle nazioni all'autodeterminazione, 1914)
"Trotsky, tuttavia, non ha mai avuto un "aspetto", l'unica cosa che ha è
l'abitudine di cambiare fronte, di saltare dai liberali ai marxisti per
ritornare di nuovo, di impostare esageratamente argomenti e frasi
roboanti..."
(La rottura del blocco di agosto, 1914)
"Trotsky, da un lato, rappresenta solo le sue esitazioni personali e
nient'altro. Nel 1903, fu menscevico; nel 1904, ha lasciato i menscevichi;
nel 1905 ritornò al menscevismo urlando frasi ultra-rivoluzionarie; nel 1906
lo lasciò di nuovo; alla fine del 1906 sostenne accordi elettorali con i
cadetti (essendo ancora una volta con i menscevichi); nella primavera del
1907, al Congresso di Londra, affermò che differiva da Rosa Luxemburg in
"dettagli specifici di idee piuttosto che di linee politiche". Un giorno
Trotsky plagia l'eredità ideologica di una fazione, il giorno dopo ne plagia
un altra, e infine si dichiara al di sopra delle fazioni."
(Significato storico della lotta all'interno del Partito comunista in
Russia, 1911)
"Trotsky fu un ardente iskrista nel 1901-1903, e Ryazanov descrisse il suo
ruolo nel Congresso nel 1903 come "il randello di Lenin". Alla fine del
1903, Trotsky fu un ardente menscevico (cioè un transfuga passato dagli
iskristi agli "economisti"). Egli proclama che "tra la vecchia e la nuova
Iskra vi è un abisso". Nel 1904-1905 abbandona i menscevichi e assume una
posizione incerta, ora collaborando con Martynov (un "economista") ora
proclamando l'assurdamente sinistra teoria della "rivoluzione permanente".
Nel 1906-1907 si avvicina ai bolscevichi e nella primavera del 1907 si
proclama d'accordo con Rosa Luxemburg.”
(Come si viola l'unità gridando che si cerca l'unità, 1914)
"Che canaglia questo Trotsky; frasi di sinistra, e in blocco con la destra
contro la sinistra di Zimmerwald!!!".
(Lettera a Kollontai, febbraio 1917)
"Trotsky arrivò, e questo farabutto subito si alleò con l'ala destra del
Novy Mir contro la sinistra di Zimmerwald! [...] Questo e’ Trotsky! Sempre
fedele a se stesso = truffaldino, si finge di essere di sinistra e aiuta la
destra, per quanto possibile..."
(Lettera a Inessa Armand, febbraio 1917)
"Un leader politico è responsabile non solo della propria politica, ma anche
per gli atti di coloro che egli guida."
(I sindacati, la situazione attuale e gli errori di Trotsky, 1921)
"Trotsky ha fatto perdere tempo al partito in una discussione di parole e
brutte tesi... Tutte le sue tesi, quanto la sua intera piattaforma, sono
così errate che abbiano sottratto risorse e l'attenzione del Partito dal
lavoro pratico nella "produzione" di un sacco di discorsi vacui [...] dopo
la sessione plenaria di novembre in cui si è data una soluzione chiara e
teoricamente corretta."
(Ancora una volta sui sindacati, 1921)
"Il suo rifiuto a far parte del comitato dei sindacati è stata una
violazione della disciplina del Comitato centrale."
(Discorso sui sindacati, 1921)
"L’apparato è per la politica, non la politica per l'apparato [...] Trotsky
è un uomo di temperamento con esperienza militare. Egli è affezionato
all'organizzazione ma, come in politica, non ha nessuna idea."
(Riassunto di note di Lenin in occasione della Conferenza dei Delegati al X
congresso del PC(B), marzo 1921).
"Il compagno Trotsky parla di “stato operaio". Lasciatemi dire che questa è
un'astrazione, non è proprio uno “Stato Operaio”. Questo è uno dei
principali errori del compagno Trotsky [...] Per una cosa: il nostro non è
in realtà uno stato operaio, ma uno stato di operai e contadini. E molto
deriva da esso."
(I sindacati, la situazione attuale e gli errori di Trotsky, 1921)
"Trotsky accusa Tomsky e Lozovsky di pratiche burocratiche. Io direi che è
vero il contrario."
(Secondo Congresso dei minatori russi, 1921)
"In relazione all’Ispezione operaia e contadina, il compagno Trotsky ha
fondamentalmente sbagliato [...] In relazione alla Commissione di
pianificazione dello Stato, il compagno Trotsky non ha solo sbagliato ma sta
giudicando qualcosa su cui è sorprendentemente male informato"
(Replica sulle osservazioni sulle funzioni del Vice Presidente dei
Commissari del Popolo, 1922).
[fonte:
http://noicomunisti.blogspot.it/2012/09/le-reali-opinioni-di-lenin-su-troztskij.html]
Una lettera di Trotsky DOBBIAMO CONSENTIRE LA CESSIONE DELL’UCRAINA.
da La grande congiura contro l’Urss di Michael Sayers e Albert E. Kahn)
Capitolo diciassettesimo: Tradimento e terrore
1. La diplomazia del tradimento
Tra il 1933 e il 1934 le nazioni d’Europa
sembravano prese da una misteriosa malattia. Un paese dopo l’altro veniva
scosso improvvisamente da colpi di Stato, putsch militari, sabotaggi,
assassini e impressionanti rivelazioni di intrighi e di congiure. Non
passava quasi mese senza qualche nuovo atto di tradimento e di violenza.
Un’epidemia di tradimento e di terrore dilagava in tutta l’Europa.
La Germania nazista era il focolaio dell’infezione. [……]
Fu Alfred Rosenberg, l’ex emigrato zarista di Reval, a stabilire per
primo rapporti ufficiali segreti fra i nazisti e Lev Trockij. Fu Rudolf
Hess, il sostituto di Hitler, a rafforzarli [……..]
Da Parigi, Trockij ordinò immediatamente a uno dei suoi “segretari” più
fidati, una spia di nome Karl Reich, alias Johanson, di contattare Sergej
Bessonov, il contatto trotskista a Berlino, che fu convocato a Parigi per
fare un rapporto completo sulla situazione tedesca.
Bessonov non fu in grado di recarsi a Parigi immediatamente, ma alla fine
di luglio riuscì a lasciare Berlino. Dopo aver incontrato Trockij in un
albergo parigino e aver presentato il suo rapporto sulla situazione in
Germania, ritornò a Berlino quella sera stessa. Trockij era in uno stato di
grande agitazione nervosa quando Bessonov lo vide. Gli eventi in Germania,
l’eliminazione dei “nazisti radicali” guidati da Röhm, avrebbero potuto
interferire con i suoi piani. Bessonov gli garantì che Hitler, Himmler,
Hess, Rosenberg, Goering e Goebbels avevano ancora il potere saldamente
nelle loro mani.
“Verranno presto da noi!” gridò Trockij. Disse a Bessonov che aveva
importanti compiti per lui a Berlino per il prossimo futuro. “Non dobbiamo
fare gli schizzinosi in queste storie,” disse. “Per ottenere veri e
importanti aiuti da Hess e Rosenberg, non dobbiamo esitare a concedere
importanti cessioni di territori. DOBBIAMO CONSENTIRE LA CESSIONE
DELL’UCRAINA. Tienilo a mente per il tuo lavoro e i negoziati con i
tedeschi. Lo scriverò anche a Pjatakov e Krestinskij”.
COLPO DI
STATOLa notte tra il 3 e il 4
ottobre 1993 la reazione interna russa, con
l’approvazione della reazione internazionale,
effettua a Mosca un vero e proprio massacro contro
cittadini e comunisti che difendevano la
costituzione socialista russa dall’opera di
demolizione attuata dal fascista Jeltsin, il quale,
è opportuno ricordarlo per capire la portata del
revisionismo e dell’infiltrazione di elementi nemici
del popolo nella massima organizzazione politica
dell’URSS, copriva ancora poco tempo addietro
l’incarico di segretario del PC della RSFR, che lo
stesso Jeltsin aveva messo fuori legge con un
decreto nell'agosto 1991. Non è noto il numero
esatto delle vittime di questo macello (alcune fonti
riportano fino a 2500 morti) che registra una
mostruosa somiglianza con il golpe cileno (molti
manifestanti furono infatti condotti e rinchiusi in
uno stadio), con l’uso di mitragliatrici ed
esecuzioni a sangue freddo di inermi manifestanti.
Il massacro, con tanto di bombardamento della Casa
Bianca, sede del legittimo parlamento russo, fu
salutato in occidente come il necessario
abbattimento dell’ultimo “bastione dello
stalinismo”, per procedere con le “riforme verso la
libertà e la democrazia". Quello che avvenne in
seguito è noto: il paese è stato espropriato delle
ricchezze di proprietà del popolo per trasferirle
indebitamente a una nuova classe di affaristi,
malavitosi, banditi di ogni sorta che hanno
impoverito la nazione fino a condurla alla
bancarotta, al dissesto socioeconomico e morale. Per
la Russia il danno economico e sociale trova eguali
nell’aggressione delle orde naziste a partire dal
1942. Quelli che oggi sono chiamati gli oligarchi,
detentori di ricchezze vergognose, sono i predoni di
quel periodo nero di quella che fu la patria del
glorioso Ottobre. Il fallimento di Jeltsin e della
sua cricca è tale che l’alcolista coccolato in
occidente è costretto a chiamare alla guida del
paese qualcuno che abbia la volontà di ricostruire
un paese che stava addirittura per essere venduto a
pezzi (si parlava allora di cedere parte della
Siberia agli USA come fece lo zar Alessandro II che
aveva venduto l’Alaska nel 1867 agli USA). Putin
viene chiamato a formare un nuovo governo proprio da
quello Jeltsin che aveva mandato in rovina milioni
di russi. I responsabili di quell’orribile massacro
sono ancora oggi impuniti. Da allora nessuno ha
sollevato la questione di fare luce su quel
massacro, nessuno ha chiesto di costituire una
commissione d’inchiesta sui quei drammatici fatti.
Lo chiede la storia, la verità e la giustizia per un
eccidio che grava sulla coscienza della borghesia
russa e che spiega in parte anche la genesi della
guerra che stiamo vivendo oggi.